Quanno chiovono passe e ficusecche
Ad litteram: quando pioveranno uva passita e fichi secchi Id est: mai; La locuzione è usata, per dileggio, a sarcastico commento di avvenimenti che si pensa non potranno mai verificarsi, o di situazioni che vengono ritenute non suscettibili di miglioramento alcuno, che potrebbe verificarsi solo nel caso di una fortuita ipotetica pioggia(novella manna) di uva passita e fichi secchi, evento - peraltro – ritenuto chiaramente impossibile da verificarsi.
quanno = quando, allorché ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo) giacché, dal momento che (con valore causale):: avv. di tempo derivato dal latino quando con assimilazione progressiva nd>nn;
chiovono= letteralmente piovono voce verbale (3° pers. plur. ind. presente) dell’infinito chiovere che è dal latino pluere con tipico passaggio di pl>chi (vedi alibi: plaga>chiaia etc.) ed epentesi eufonica della v (vedi alibi:ruina>rovina, vidua>vedova etc.).Da notare che il verbo a margine, pur essendo indicativo presente è reso in italiano con il tempo futuro che acconciamente avrebbe dovuto essere: chiuvarranno che è il futuro, tempo che pur essendo previsto nella lingua napoletana è pochissimo usato, sostituito quasi sempre dall’indicativo presente o dalla costruzione verbale: devo da= aggi’’a etc. Ad es.: Domani mi taglierò i capelli si rende con: Dimane me taglio ‘e capille oppure Dimane m’aggi’’a taglià ‘e capille.
passe = uva passita o passa; trattasi di un aggettivo sostantivato, plurale di passo: appassito, secco: uva passa e come tale derivato dal lat. passu(m), part. pass. di pandere 'aprire, stendere'; propr. 'steso a seccare, ad appassire';
ficusecche = fichi secchi; in napoletano plurale della voce femminile: ficusecca con derivazione, con passaggio al femminile dal masch. lat. ficum(che corrisponde al greco sýcon con cambio s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile.
RaffaeleBracale
lunedì 31 marzo 2008
Cazzabbubbole* cu ‘o presutto**
Cazzabbubbole* cu ‘o presutto**
(involtini con il prosciutto)
Gustosissima preparazione da servire o come antipasto o rompidigiuno o anche come secondo piatto accompagnata da verdure (bietole, cime di broccoli baresi lessate al vapore e condite all’agro con olio, aglio tritato, succo di limone, sale e pepe).
*la voce cazzabbubbole plurale di cazzabbubbola nasce come si può facilmente intendere (con riferimento alla forma dell’involtino) dall’unione furbesca di due voci di cui la prima: cazza è ovviamente adattamento divertito del maschile cazzo, mentre la seconda bubbola/e è presa dall’omonimo fungo (e segnatamente dal suo gambo di cui ripete la forma); tale voce cazzabbubbola è usata però in lingua napoletana non solo per indicare questo involtino di provola e prosciutto, ma molto piú estesamente e genericamente per indicare qualsiasi oggetto (che anche non abbia forma di fuso) che càpiti fra le mani e di cui non si conosca o non si rammenti il nome esatto.
** la voce presutto traduce l’italiano prosciutto pop. presciutto, s. m. coscia di maiale salata e parzialmente prosciugata perché si conservi a lungo; la voce napoletana deriva da un *pro-suctu(m) modellato su ex-suctu(m)= asciutto.
E passiamo alla ricetta:
ingredienti e dosi per 6 persone
1 kg di provola affumicata tenuta in frigo per 12 ore e poi tagliata in pezzi di circa 80 g. cadauno di cm. 8 x 3 x 2;
4 etti di prosciutto crudo affettato sottilmente;
6 uova;
1 etto di pangrattato;
1 etto di pecorino grattugiato;
1 etto di farina;
abbondante olio per friggere (semi varî o arachidi o mais o girasole);
sale fino e pepe nero q.s.
procedimento
Dopo d’aver tagliato la provola in pezzi, avvolgere attorno ad ognuno di essi una o due fette di prosciutto, ripetendo l’operazione fino ad esaurimento della provola e del prosciutto; aprire in una terrina le uova e sbatterle a spuma aggiungendo due o piú cucchiai di pecorino, un pizzico di sale e due di pepe; versare l’olio in una padella di ferro nero e portarlo su fiamma sostenuta ad altissima temperatura; nel frattempo rollare nella farina le cazzabbubbole (involtini) approntate, intingerle nelle uova, passarle nel pangrattato addizionato del pecorino residuo e friggerle fino a che siano ben dorate nell’olio ormai bollente; prelevarle con una schiumarola e porle in un piatto su cui avremo stesa della carta assorbente da cucina; le cazzabbubbole vanno servite (come ò detto) o come antipasto o come rompidigiuno, ma anche come secondo piatto accompagnate da verdure (bietole, cime di broccoli baresi lessate al vapore e condite all’agro con olio, aglio tritato, succo di limone, sale e pepe), pur che siano calde di fornello!
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo ) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E dicíteme grazzie!
raffaele bracale
(involtini con il prosciutto)
Gustosissima preparazione da servire o come antipasto o rompidigiuno o anche come secondo piatto accompagnata da verdure (bietole, cime di broccoli baresi lessate al vapore e condite all’agro con olio, aglio tritato, succo di limone, sale e pepe).
*la voce cazzabbubbole plurale di cazzabbubbola nasce come si può facilmente intendere (con riferimento alla forma dell’involtino) dall’unione furbesca di due voci di cui la prima: cazza è ovviamente adattamento divertito del maschile cazzo, mentre la seconda bubbola/e è presa dall’omonimo fungo (e segnatamente dal suo gambo di cui ripete la forma); tale voce cazzabbubbola è usata però in lingua napoletana non solo per indicare questo involtino di provola e prosciutto, ma molto piú estesamente e genericamente per indicare qualsiasi oggetto (che anche non abbia forma di fuso) che càpiti fra le mani e di cui non si conosca o non si rammenti il nome esatto.
** la voce presutto traduce l’italiano prosciutto pop. presciutto, s. m. coscia di maiale salata e parzialmente prosciugata perché si conservi a lungo; la voce napoletana deriva da un *pro-suctu(m) modellato su ex-suctu(m)= asciutto.
E passiamo alla ricetta:
ingredienti e dosi per 6 persone
1 kg di provola affumicata tenuta in frigo per 12 ore e poi tagliata in pezzi di circa 80 g. cadauno di cm. 8 x 3 x 2;
4 etti di prosciutto crudo affettato sottilmente;
6 uova;
1 etto di pangrattato;
1 etto di pecorino grattugiato;
1 etto di farina;
abbondante olio per friggere (semi varî o arachidi o mais o girasole);
sale fino e pepe nero q.s.
procedimento
Dopo d’aver tagliato la provola in pezzi, avvolgere attorno ad ognuno di essi una o due fette di prosciutto, ripetendo l’operazione fino ad esaurimento della provola e del prosciutto; aprire in una terrina le uova e sbatterle a spuma aggiungendo due o piú cucchiai di pecorino, un pizzico di sale e due di pepe; versare l’olio in una padella di ferro nero e portarlo su fiamma sostenuta ad altissima temperatura; nel frattempo rollare nella farina le cazzabbubbole (involtini) approntate, intingerle nelle uova, passarle nel pangrattato addizionato del pecorino residuo e friggerle fino a che siano ben dorate nell’olio ormai bollente; prelevarle con una schiumarola e porle in un piatto su cui avremo stesa della carta assorbente da cucina; le cazzabbubbole vanno servite (come ò detto) o come antipasto o come rompidigiuno, ma anche come secondo piatto accompagnate da verdure (bietole, cime di broccoli baresi lessate al vapore e condite all’agro con olio, aglio tritato, succo di limone, sale e pepe), pur che siano calde di fornello!
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo ) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E dicíteme grazzie!
raffaele bracale
BARDASCIA & DINTORNI
BARDASCIA & DINTORNI
Con la voce bardascia (che si ritrova anche nel siciliano con varie significazioni spesso di comodo, ma semanticamente inesatte (basti pensare alla terminazione in a della parola che è di genere femminile e viene riferita al maschile...) quali: monello, giovane omosessuale etc. ) in napoletano si indica null’altro che una ragazza e spesso questa parola (ora quasi del tutto desueta) la si poteva incontrare nel napoletano d’antan con un simpatico diminutivo – vezzeggiativo: bardascella = ragazzina. L’ etimologia di bardascia è originariamente dal persiano bardal attraverso l’ arabo: bardağ dove è propriamente la prigioniera, la schiava giovane ed estensivamente la ragazza cosí come nella lingua napoletana. La voce napoletana bardascia à tuttavia una tenue assonanza con la voce italiana(con la quale ovviamente non deve confondersi!) bagascia che è la meretrice; la voce bardascia non va confusa altresí con il termine partenopeo vajassa che indica la serva, la fantesca;e che proviene dall’arabo: baassa attraverso il francese bajasse da cui in toscano si generò bagascia= meretrice.Quella ricordata assonanza tra le voci bardascia, bagascia, vajassa determina spesso tra i meno esperti della lingua napoletana una innesatta confusione tra i significati dei termini provocando un conseguenziale marchiano errore nel loro campo d’applicazione.
Raffaele Bracale
Con la voce bardascia (che si ritrova anche nel siciliano con varie significazioni spesso di comodo, ma semanticamente inesatte (basti pensare alla terminazione in a della parola che è di genere femminile e viene riferita al maschile...) quali: monello, giovane omosessuale etc. ) in napoletano si indica null’altro che una ragazza e spesso questa parola (ora quasi del tutto desueta) la si poteva incontrare nel napoletano d’antan con un simpatico diminutivo – vezzeggiativo: bardascella = ragazzina. L’ etimologia di bardascia è originariamente dal persiano bardal attraverso l’ arabo: bardağ dove è propriamente la prigioniera, la schiava giovane ed estensivamente la ragazza cosí come nella lingua napoletana. La voce napoletana bardascia à tuttavia una tenue assonanza con la voce italiana(con la quale ovviamente non deve confondersi!) bagascia che è la meretrice; la voce bardascia non va confusa altresí con il termine partenopeo vajassa che indica la serva, la fantesca;e che proviene dall’arabo: baassa attraverso il francese bajasse da cui in toscano si generò bagascia= meretrice.Quella ricordata assonanza tra le voci bardascia, bagascia, vajassa determina spesso tra i meno esperti della lingua napoletana una innesatta confusione tra i significati dei termini provocando un conseguenziale marchiano errore nel loro campo d’applicazione.
Raffaele Bracale
sabato 29 marzo 2008
MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE
MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE
Ad litteram: mandare a comprare l'urtabancone.
Anticamente, quando le famiglie erano numerose, in ogni casa si aggiravano un gran numero di bambini, la cui presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato col proprio uomo.Allora, previo accordo, il bottegaio (salumiere, droghiere) della zona si assumeva il compito di intrattenere, con favolette o distribuzione di piccole leccornie, i bambini che le mamme gli inviavano con la frase stabilita di accattà 'o tozzabancone
.Altri tempi ed altre disponibilità!
Raffaele Bracale
Ad litteram: mandare a comprare l'urtabancone.
Anticamente, quando le famiglie erano numerose, in ogni casa si aggiravano un gran numero di bambini, la cui presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato col proprio uomo.Allora, previo accordo, il bottegaio (salumiere, droghiere) della zona si assumeva il compito di intrattenere, con favolette o distribuzione di piccole leccornie, i bambini che le mamme gli inviavano con la frase stabilita di accattà 'o tozzabancone
.Altri tempi ed altre disponibilità!
Raffaele Bracale
Ma addó stammo? Â cantina ‘e vascio Puorto? etc.
Ma addó stammo? Â cantina ‘e vascio Puorto? ‘O rutto, ‘o pireto e ‘o sango ‘e chi t’è mmuorto?!
Ma dove mai ci troviamo? Nella cantina (ubicata) giú al porto? (tra) eruttazioni, peti e bestemmie?
È locuzione usata per indicare sarcasticamente che ci si trovi in ambienti o tra persone decisamente plebee che, come gli avventori di quella tal bettola rammentata ,(forse quella taverna del Cerriglio, alibi ricordata) si danno a manifestazioni eccessivamente disdicevoli e scostumate quali: eruttazioni, peti e bestemmie;
addó = dove, in quale luogo: avverbio di luogo etimologicamente da un latino de ubi con successivo rafforzamento popolare attraverso un ad agglutinato al de d’avvio;
stammo =siamo,stiamo,troviamo: voce verbale (1° pers. plur. indicativo presente) dell’infinito stà/stare dal latino stare;
cantina = bettola, taverna, mescita di vini, infima osteria; etimologicamente tardo latino canthu(m) =angolo appartato che è dal gr. kanthós 'angolo dell'occhio' con l’aggiunta del suffisso diminutivo inus/ina;
Puorto = voce toponomastica indicante tutta la zona adiacente il luogo di attracco e partenza di tutti i grossi natanti; la voce comune puorto = porto, luogo sulla riva del mare, di un lago o di un fiume che, per configurazione naturale o per le opere artificiali costruite dall'uomo, può dare sicuro ricovero ai navigli; etimologicamente dal lat. portu(m), propr. 'entrata, passaggio', della stessa radice di porta 'porta'con dittongazione popolare nella sillaba d’avvio intesa breve;
rutto = eruttazione, aria emessa bruscamente e rumorosamente dalla bocca con etimo dal lat. ructu(m) deverbale del basso latino ructare (frequentativo di erugere 'gettare fuori'), = eruttare, emettere rumorosamente; va da sé che il sostantivo rutto qui a margine, non va confuso con participio passato aggettivato rutto = rotto, frantumato, spezzato che è dal verbo rumpere= rompere;
pirete plurale di pireto= peto, rumorosa emissione di gas intestinale; etimologicamente dal latino peditu(m) con tipica rotacizzazione mediterranea della D→R;
‘o sango ‘e chi t’è mmuorto! letteralmente: il sangue di chi ti è morto; vibrante bestemmia offesa che , con piú cattiveria ed acrimonia dell’omologa: ‘e muorte ‘e chi t’è mmuorto (i morti di chi ti è morto id est: gli antenati dei tuoi morti(quelli che nel dialetto romanesco sono: li mortacci tua) chiama in causa, per maledirlo, addirittura il succo vitale (il sangue!) dei defunti di colui contro cui si lancia l’offensiva bestemmia; talvolta, per peggiorarla, l’offesa suona ‘o sango ‘nfamo ‘e chi t’è mmuorto! o anche ‘o sango sperzo ‘e chi t’è mmuorto con l’aggiunta o dell’aggettivo ‘nfamo che è: infame, che à pessima fama, che merita il pubblico disprezzo con derivazione dal latino: infame(m), comp. di in distrattivo ed un deriv. di fama 'fama, buon nome'; propr.’senza buon nome’, 'che à cattiva reputazione' oppure dell’aggettivo sperzo che è: perduto, disseminato in giro, non piú reperibile, smarrito, deverbale del latino perdere con la protesi di una s durativa o intensiva, nel senso che chi avesse disperso in giro , anche metaforicamente, il proprio sangue, facendolo quasi divenir sangue perduto, irreperibile, smarrito, meriterebbe, tal quale l’infame di cui sopra,la non considerazione, anzi il disprezzo pubblico;
sango = sangue etimologicamente dal latino sangue(m) da un antico nom.sanguen collaterale del classico sanguine(m) di sanguis, attraverso un metaplasmo popolare sangu(m)→sango;
muorto = voce verbale (part. pass. maschile)sostantivato o aggettivato dell’infinito murí che etimologicamente è da un lat. volg. *morire, per il class. mori; tipica, come popolare, la dittongazione uo dell’originaria oforse intesa breve.
Raffaele Bracale
Ma dove mai ci troviamo? Nella cantina (ubicata) giú al porto? (tra) eruttazioni, peti e bestemmie?
È locuzione usata per indicare sarcasticamente che ci si trovi in ambienti o tra persone decisamente plebee che, come gli avventori di quella tal bettola rammentata ,(forse quella taverna del Cerriglio, alibi ricordata) si danno a manifestazioni eccessivamente disdicevoli e scostumate quali: eruttazioni, peti e bestemmie;
addó = dove, in quale luogo: avverbio di luogo etimologicamente da un latino de ubi con successivo rafforzamento popolare attraverso un ad agglutinato al de d’avvio;
stammo =siamo,stiamo,troviamo: voce verbale (1° pers. plur. indicativo presente) dell’infinito stà/stare dal latino stare;
cantina = bettola, taverna, mescita di vini, infima osteria; etimologicamente tardo latino canthu(m) =angolo appartato che è dal gr. kanthós 'angolo dell'occhio' con l’aggiunta del suffisso diminutivo inus/ina;
Puorto = voce toponomastica indicante tutta la zona adiacente il luogo di attracco e partenza di tutti i grossi natanti; la voce comune puorto = porto, luogo sulla riva del mare, di un lago o di un fiume che, per configurazione naturale o per le opere artificiali costruite dall'uomo, può dare sicuro ricovero ai navigli; etimologicamente dal lat. portu(m), propr. 'entrata, passaggio', della stessa radice di porta 'porta'con dittongazione popolare nella sillaba d’avvio intesa breve;
rutto = eruttazione, aria emessa bruscamente e rumorosamente dalla bocca con etimo dal lat. ructu(m) deverbale del basso latino ructare (frequentativo di erugere 'gettare fuori'), = eruttare, emettere rumorosamente; va da sé che il sostantivo rutto qui a margine, non va confuso con participio passato aggettivato rutto = rotto, frantumato, spezzato che è dal verbo rumpere= rompere;
pirete plurale di pireto= peto, rumorosa emissione di gas intestinale; etimologicamente dal latino peditu(m) con tipica rotacizzazione mediterranea della D→R;
‘o sango ‘e chi t’è mmuorto! letteralmente: il sangue di chi ti è morto; vibrante bestemmia offesa che , con piú cattiveria ed acrimonia dell’omologa: ‘e muorte ‘e chi t’è mmuorto (i morti di chi ti è morto id est: gli antenati dei tuoi morti(quelli che nel dialetto romanesco sono: li mortacci tua) chiama in causa, per maledirlo, addirittura il succo vitale (il sangue!) dei defunti di colui contro cui si lancia l’offensiva bestemmia; talvolta, per peggiorarla, l’offesa suona ‘o sango ‘nfamo ‘e chi t’è mmuorto! o anche ‘o sango sperzo ‘e chi t’è mmuorto con l’aggiunta o dell’aggettivo ‘nfamo che è: infame, che à pessima fama, che merita il pubblico disprezzo con derivazione dal latino: infame(m), comp. di in distrattivo ed un deriv. di fama 'fama, buon nome'; propr.’senza buon nome’, 'che à cattiva reputazione' oppure dell’aggettivo sperzo che è: perduto, disseminato in giro, non piú reperibile, smarrito, deverbale del latino perdere con la protesi di una s durativa o intensiva, nel senso che chi avesse disperso in giro , anche metaforicamente, il proprio sangue, facendolo quasi divenir sangue perduto, irreperibile, smarrito, meriterebbe, tal quale l’infame di cui sopra,la non considerazione, anzi il disprezzo pubblico;
sango = sangue etimologicamente dal latino sangue(m) da un antico nom.sanguen collaterale del classico sanguine(m) di sanguis, attraverso un metaplasmo popolare sangu(m)→sango;
muorto = voce verbale (part. pass. maschile)sostantivato o aggettivato dell’infinito murí che etimologicamente è da un lat. volg. *morire, per il class. mori; tipica, come popolare, la dittongazione uo dell’originaria oforse intesa breve.
Raffaele Bracale
MAMÒZIO
MAMÒZIO
Questa volta ci troviamo a parlare di un vocabolo che sebbene non antico (è figlio del fine 1700 e primi 1800) si è rapidamente affermato ed à preso stabile dimora nell’uso espressivo partenopeo e campano in genere e, quantunque non sia vocabolo usato nel toscano illustre, persino in taluni grandi dizionarî della Lingua italiana, oltre che nel D.E.I.(Dizionario Etimologico Italiano) nel significato di persona (adulto e/o ragazzo) inceppata nei movimenti o nell’espressione a mo’ di fantoccio o di pupazzo o anche di figurina mal scolpita o incisa e piú estensivamente individuo torpidamente imbambolato tale da apparire di duro comprendonio, scarse capacità intellettive , tal quale un grottesco manichino e per taluni vocabolaristi un individuo grosso, grasso e stolido, un bamboccione,altrove detto mammuóccelo che è l’adattamento fonetico dialettale della voce bamboccio a sua volta da una radice onomatopeica bamb costruita sulle consonanti labiali b m che, come altrove(mamma) m m, per esser le prime ad articolarsi sulle labbra degli infanti, ben si prestano alla formazione di parole d’uso primario, quella stessa radice che produsse bambo e bambino.
Ciò detto ed assodato che il mamòzio è colui, ma pure talora al femminile mamòzia , colei che abbia un atteggiamento immoto ed assente dallo sguardo quasi vitreo che denoti totale mancanza di riflessi fisici o mentali tale da farne un conclamato pupazzo tardo di reazioni o risposte, passiamo a parlare della etimologia del termine in epigrafe.
Sgombero súbito il campo chiarendo che dissento in maniera decisa dalle ultime ipotesi caldeggiate in tempi recenti dalla coppia Cortelazzo – Marcato che rigetta, ma senza spiegarne i motivi l’ipotesi d’antan che qui di sèguito illustrerò, per formulare quella, peraltro – a mio avviso – pretestuosa ed inconferente di una equivalenza con bamboccio equivalenza semantica però solo ipotizzata, ma non chiarita poi morfologicamente nella via che abbia potuto portare da bamboccio a mamozio; tale ipotizzata equivalenza è forse piú accettabile per talune parole che in altre lingue regionali traducono il mamòzio napoletano; e sono: l’umbro mammòccio, il laziale mammocce,il salentino mammocciu ed addirittura il toscano mammòccio tutte parole che ad un dipresso possono apparigliarsi al suindicato mammuoccelo partenopeo, che – come già detto è da ricondursi, quale adattamento fonetico, a bamboccio; ma per mamòzio, per quanto mi sforzi non riesco a leggerne il contatto con bamboccio e non mi pare proprio il caso di abbandonare la via vecchia per la nuova indicata da Cortelazzo e Marcato.
La via vecchia, onorevolmente percorsa da numerosi partenopei addetti ai lavori fa risalire il termine mamòzio alla fine del 1700 prendendo le mosse dal ritrovamento avvenuto a Pozzuoli nel 1704, durante gli scavi delle fondamenta dell’erigenda chiesa di san Giuseppe, di una enorme, quantunque acefala, statua del IV sec. d. C. raffigurante il nobile puteolano FLAVIO EGNAZIO LOLLIANO QUINTO MESIO MAVORZIO, pretore urbano, proconsole della provincia dell’ Aquila e candidato questore; prima di dargli adeguata sistemazione, si pensò bene di far restaurare il reperto e si commissionò la testa mancante ad un ignoto, quanto inesperto scultore che produsse una testa troppo piccola rispetto al corpo ed a maggior disdoro dall’aria stupida e melensa; la statua fu momentaneamente sistemata accanto a quella di un tal vescovo Martin de Leon y Cardenas, e solo successivamente, nel 1918, nei pressi dell’anfiteatro putelano, quando però il popolo già aveva storpiato il Mavorzio in Mamòzio e rammentandone la primitiva sistemazione accanto ad un vescovo, ne aveva fatto – motu proprio e senza alcun motivo – un santo: santu Mamòzio.
La testa piccola denotante parvezza di cervello e l’aria melensa, fecero immediatamente trasferireil termine mamòzio dalla statua agli individui grossi (la statua misurava circa due metri), ma sciocchi e stupidi.
Questa la via vecchia; la trovo agevole e percorribile e non trovo nulla che osti il seguirla e consigli invece la strada proposta da Cortelazzo e Marcato; trovo altresí fantasiosa e storicamente non comprovata, né comprovabile l’idea che mamòzio possa ricondursi ad un tal vescovo Timozio, vescovo ipotizzato, ma quasi per certo inesistente nella chiesa puteolana.
Raffaele Bracale
Questa volta ci troviamo a parlare di un vocabolo che sebbene non antico (è figlio del fine 1700 e primi 1800) si è rapidamente affermato ed à preso stabile dimora nell’uso espressivo partenopeo e campano in genere e, quantunque non sia vocabolo usato nel toscano illustre, persino in taluni grandi dizionarî della Lingua italiana, oltre che nel D.E.I.(Dizionario Etimologico Italiano) nel significato di persona (adulto e/o ragazzo) inceppata nei movimenti o nell’espressione a mo’ di fantoccio o di pupazzo o anche di figurina mal scolpita o incisa e piú estensivamente individuo torpidamente imbambolato tale da apparire di duro comprendonio, scarse capacità intellettive , tal quale un grottesco manichino e per taluni vocabolaristi un individuo grosso, grasso e stolido, un bamboccione,altrove detto mammuóccelo che è l’adattamento fonetico dialettale della voce bamboccio a sua volta da una radice onomatopeica bamb costruita sulle consonanti labiali b m che, come altrove(mamma) m m, per esser le prime ad articolarsi sulle labbra degli infanti, ben si prestano alla formazione di parole d’uso primario, quella stessa radice che produsse bambo e bambino.
Ciò detto ed assodato che il mamòzio è colui, ma pure talora al femminile mamòzia , colei che abbia un atteggiamento immoto ed assente dallo sguardo quasi vitreo che denoti totale mancanza di riflessi fisici o mentali tale da farne un conclamato pupazzo tardo di reazioni o risposte, passiamo a parlare della etimologia del termine in epigrafe.
Sgombero súbito il campo chiarendo che dissento in maniera decisa dalle ultime ipotesi caldeggiate in tempi recenti dalla coppia Cortelazzo – Marcato che rigetta, ma senza spiegarne i motivi l’ipotesi d’antan che qui di sèguito illustrerò, per formulare quella, peraltro – a mio avviso – pretestuosa ed inconferente di una equivalenza con bamboccio equivalenza semantica però solo ipotizzata, ma non chiarita poi morfologicamente nella via che abbia potuto portare da bamboccio a mamozio; tale ipotizzata equivalenza è forse piú accettabile per talune parole che in altre lingue regionali traducono il mamòzio napoletano; e sono: l’umbro mammòccio, il laziale mammocce,il salentino mammocciu ed addirittura il toscano mammòccio tutte parole che ad un dipresso possono apparigliarsi al suindicato mammuoccelo partenopeo, che – come già detto è da ricondursi, quale adattamento fonetico, a bamboccio; ma per mamòzio, per quanto mi sforzi non riesco a leggerne il contatto con bamboccio e non mi pare proprio il caso di abbandonare la via vecchia per la nuova indicata da Cortelazzo e Marcato.
La via vecchia, onorevolmente percorsa da numerosi partenopei addetti ai lavori fa risalire il termine mamòzio alla fine del 1700 prendendo le mosse dal ritrovamento avvenuto a Pozzuoli nel 1704, durante gli scavi delle fondamenta dell’erigenda chiesa di san Giuseppe, di una enorme, quantunque acefala, statua del IV sec. d. C. raffigurante il nobile puteolano FLAVIO EGNAZIO LOLLIANO QUINTO MESIO MAVORZIO, pretore urbano, proconsole della provincia dell’ Aquila e candidato questore; prima di dargli adeguata sistemazione, si pensò bene di far restaurare il reperto e si commissionò la testa mancante ad un ignoto, quanto inesperto scultore che produsse una testa troppo piccola rispetto al corpo ed a maggior disdoro dall’aria stupida e melensa; la statua fu momentaneamente sistemata accanto a quella di un tal vescovo Martin de Leon y Cardenas, e solo successivamente, nel 1918, nei pressi dell’anfiteatro putelano, quando però il popolo già aveva storpiato il Mavorzio in Mamòzio e rammentandone la primitiva sistemazione accanto ad un vescovo, ne aveva fatto – motu proprio e senza alcun motivo – un santo: santu Mamòzio.
La testa piccola denotante parvezza di cervello e l’aria melensa, fecero immediatamente trasferireil termine mamòzio dalla statua agli individui grossi (la statua misurava circa due metri), ma sciocchi e stupidi.
Questa la via vecchia; la trovo agevole e percorribile e non trovo nulla che osti il seguirla e consigli invece la strada proposta da Cortelazzo e Marcato; trovo altresí fantasiosa e storicamente non comprovata, né comprovabile l’idea che mamòzio possa ricondursi ad un tal vescovo Timozio, vescovo ipotizzato, ma quasi per certo inesistente nella chiesa puteolana.
Raffaele Bracale
MAGNARSE 'E MACCARUNE
MAGNARSE ‘E MACCARUNE
Ad litteram: mangiare i maccheroni id est:capire l’antifona, fiutare il pericolo prossimo, mettendosi in guardia.
Alibi, il medesimo concetto lo si esprime dicendo: addurà ‘o fieto d’‘o miccio id est: subodorare il puzzo della miccia accesa; in coda di questa esplicazione, mi soffermerò sui singoli vocaboli in epigrafe o richiamati; per l’intanto dico che la locuzione in epigrafe, nasce dalla considerazione che gli abitanti del circondario partenopeo, (villici e cafoni) accreditati di scarso acume, un tempo erano detti mangiafoglie, mentre i cittadini, che si ritenevano piú scaltri, erano detti mangiamaccheroni ; per cui mangiarsi i maccheroni equivaleva, nell’inteso cittadino, ad essere scaltri, capaci di accorgersi di ciò che stesse per accadere, non facendosi cogliere di sorpresa. Interessante notare come il medesimo senso della locuzione in epigrafe sia reso in italiano con la locuzione mangiare la foglia quasi volendo richiamare quello che altrove si dice e cioè che è il contadino (il mangiafoglie) e non il cittadino, quello ad aver il cervello fine, ad esser scaltro, certamente piú del cittadino (mangiamaccheroni). Per quanto riguarda l’espressione addurà ‘o fieto d’‘o miccio e cioè annusare il puzzo del lucignolo o meglio annusare il puzzo della miccia rammenterò che con la parola miccio (etimologicamente prob. dal fr. mèche, che è dal lat. volg. micca, per il class. myxa 'luminello, stoppino') , in napoletano si indica sia il lucignolo della candela che la miccia di un ordigno e nella fattispecie è questa seconda valenza che bisogna considerare giacché l’espressione nel suo significato nascosto sta per: fiutare un pericolo, accorgersi dell’approssimarsi di un danno; orbene il lucignolo della candela puzza quando da acceso diventi spento, ma allora non è foriero piú di alcun pericolo, mentre la miccia di un ordigno quando è accesa e sprigiona un suo greve olezzo, allora prospetta un prossimo, pericoloso scoppio.
Ciò detto, ritorniamo all’espressione in epigrafe, dicendo súbito che magnarse è l’infinito riflessivo del verbo magnà (magnare) etimologicamente forma metatetica del francese manger originata dal latino manducare incrociata con una voce popolare (gnam, gnam) di tipo onomatopeico.
maccarune/i plurale metafonetico del singolare maccarone = generica pasta alimentare, piú nota con varie specifiche denominazioni giusta il formato di detta pasta: lunga o corta, bucata e non; etimologicamente il termine maccarone deriva,secondo alcuni dal greco makaría= piatto di fave e fiocchi di avena, o da makariòs= beati o pasto funebre, a mio avviso è molto piú convincente l’etimologia che chiama in causa il latino maccare = impastare e comprimere (rammenterò infatti che originariamente i maccaruni latini furono essenzialmente della pasta casalinga (gnocchi) ricavata dall’impasto di farina, sale ed acqua; tale impasto veniva schiacciato (maccatus) e tagliato in pezzetti poi compressi tal quale i greco-napoletani strangulaprievete (vedi qui di sèguito).
Rammenterò ora i piú noti formati di detta pasta secca alimentare, cominciando da quella lunga e doppia:
Maccarune ‘e zite = maccheroni da ragazze da marito; in effetti tali lunghi e doppi maccheroni di formato cilindrico a sezione circolare di circa un cm. di diametro venivano e talvolta vengono ancora usati , spezzati a mano in pezzi di circa 4 cm. di altezza, variamente e sontuosamente conditi, nei pranzi di nozze delle cosiddette zite ( il singolare zita etimologicamente è un collaterale popolare del toscano cita/citta= ragazza nubile) e cioè le ragazze da marito; faccio notare come la voce zite plurale di zita nel significato di nubile da sposare è voce femminile e come tale al plurale preceduto dall’articolo ‘e, in napoletano va scritta con la geminazione della z iniziale: ‘e zzite; passata ad indicare, nel comune parlar napoletano , un tipo di pasta secca alimentare la voce zite à finito per essere inteso, come la maggioranza degli alimenti ( ‘o ppane, ‘o vino, ‘o ppepe, ‘o cafè etc.) neutro da scriversi e leggersi scempio: ‘e zite;
bucatine – pirciatielle = bucatini – foratini; bucatino = s. m.pasta alimentare consistente in un grosso vermicellone piuttosto doppio e bucato per tutta la sua lunghezza, va da sé che il nome bucatino è da collegarsi al fatto che tale tipo di pasta è bucata; la medesima bucatura centrale che percorre la pasta per tutta la sua lunghezza la si ritrova nei pirciatielle grossi vermicelloni piú doppi dei precedenti bucatini; poiché la voce verbale bucare (perforare) non è napoletana, se ne deduce che tra bucatine e pirciatielle la pasta piú tipicamente partenopea sia la seconda, atteso che il verbo bucare (perforare) è reso in napoletano con la voce pircià (che è dall’antico francese percer) da cui derivano ‘e pirciatielle che ci occupano;
ancóra, trattando di pasta doppia, abbiamo:
mezzane tipo di pasta cilindrica doppia e corta: 4 – 5 cm. di altezza, ampiamente forata a superficie liscia o rigata (per trattener meglio il sugo) etimologicamente da un lat. medianu(m), deriv. di medius 'mezzo' atteso che tale formato di pasta fa quasi da mediano tra i formati lunghi e quelli corti;
maltagliate tipo di pasta simile alla precedente dalla quale si differenzia per aver, questa a margine le estremità tagliate, non perpendicolarmente rispetto all’asse minore, ma in maniera obliqua, tal quale le antiche penne d’oca usate per la scrittura: per tale taglio diagonale e non perpendicolare la pasta parrebbe quasi mal tagliata donde il nome; taluni rammentando il taglio a becco obliquo delle antiche penne d’oca, usano chiamare tale formato di pasta penne, ma è voce piú moderna rispetto alla classica maltagliate;
mezzanelle/mezzanielle con tale formato di pasta molto simile ai pirciatielli, sebbene di calibro piú doppio ci troviamo di fronte al formato che fa da trait d’union tra i formati doppi e lunghi e quelli di transito come i mezzani, da cui con un pretestuoso vezzeggiativo diminutivo traggono il nome sia che lo si intenda femminile (mezzanelle) sia che lo si intenda maschile (mezzanielle) rammenterò che mentre i perciatelli possono esser cotti e serviti, per come sono lunghi, questi a margine, per esser di calibro maggiore devono essere ridotti in pezzi di altezza di ca 3 cm.
Affrontiamo ora la vasta qualità dei formati lunghi, ma sottili e di diverso calibro; abbiamo:
spavette id est: spaghetti = pasta alimentare, di forma cilindrica lunga e sottile, che si mangia generalmente asciutta: spaghetti al...etc. la voce napoletana è un derivato di spavo = spago che è dal tardo latino spacu(m) con normale caduta della gutturale ed epentesi di un suono di transizione v.
vermicielli id est: vermicelli (dim. di verme) = pasta alimentare secca del tipo degli spaghetti, ma di calibro leggermente piú spesso;
linguine – lengue ‘e passere sia le prime che le seconde sono un tipo di pasta alimentare secca, lunga e sottile, simile a tagliatelle (che vedremo), ma molto strette; ambedue i tipi (ma segnatamente il secondo traggono il nome dall’accostamento alla voce lingua (di passero) cui – per lo spessore – assomigliano;alibi (Liguria) le linguine son dette trenette (dim. del genov. trena 'cordoncino, passamano'; cfr. trina);
tagliarelle – tagliuline ecco due formati di pasta alimentare secca fettucce – fettuccine che corrispondono ad un dipresso alle tagliatelle e tagliolini che invece son paste alimentari fresche, all’uovo ricavate da una cosiddetta pettola (la voce napoletana pettola è quella che rende l’italiana sfoglia; dirò súbito che con il termine pettola si indica innanzi tutto l'ampia falda posteriore delle camicia,quella che dentro o fuori i pantaloni insiste sul fondoschiena; estensivamente, con il medesimo termine – come ò accennato - , si indica quella che in toscano è detta sfoglia, che si ottiene con l’ausilio del matterello (la voce matterello, che è diminutivo di mattero, etimologicamente deriva da un antico latino mattaris o mataris= bastone, randello, voci probabilmente di origine gallica; talvolta nell’italiano mediatico s’usa in luogo del corretto matterello, la scorretta voce mattarello,ma è uso errato in quanto mattarello è voce regionale (laziale)); con il matterello su di una apposita spianatoia si stende e si assottiglia, portandolo ad un consono spessore, l’impasto di farina, uova e/o altri ingredienti, per ottenerne, opportunamente tagliata o riempita, pasta alimentare o altre preparazioni culinarie; la sfoglia ripiegata su se stessa e tagliata a nastro piú o meno largo dà le tagliatelle o i piú stretti tagliolini che derivano il loro nome dal verbo tagliare che è da un tardo lat.taliare, deriv. del class. talea 'piantone, bastoncino'; cfr. talea;
Tornando alla voce pettola dirò che etimologicamente si fa derivare da un acc. latino: petula(m)con consueto raddoppiamento popolare della dentale T in parole sdrucciole, con derivazione radicale dalla radice pet di peto lat.:peditum;e non se ne faccia meraviglia: si pensi a su cosa insiste la originaria pettola!Altra ipotesi, ma forse meno convincente, è che la pettola/pettula si riallacci al basso latino: pèttia(m)=pezza,nella forma diminutiva pettùla(m) e successivo cambio di accento che abbia dato péttula: questa etimologia può solleticare, ma è lontana dalla sostanza della péttola napoletana che non indica una piccola pezzuola quale appunto è la pettùla, ma, al contrario, un’ampia falda o congrua sfoglia di pasta.
Riprendiamo il ns. excursus sui varî formati lunghi di pasta alimentare secca; abbiamo:
lagane e laganelle che sono delle fettuccine piú o meno larghe; esse derivano il loro nome dal matterello con il quale si ricavano nella versione domestica all’uovo; in napoletano il matterello è detto laganaturo (che è da un originario greco laganon, latinizzato nel neutro plurale lagana poi inteso femminile.Rammenterò ad abundantiam che in napoletano con la voce laganaturo si intende sia il basone per spianare la sfoglia di pasta, che il tagliere su cui la sfoglia è spianata; e ciò è poco male: in fondo sia il bastone che il tagliere concorrono a fare le lagane e possono ambedue tranquillamente derivarne il nome: da lagana + il suffisso di pertinenza turo si à laganaturo.
E passiamo ad illustrare i formati corti delle paste alimentari secche; abbiamo:
don Ciccillo ‘ncruvattato letteralmente: don Franceschino con la cravatta che sono dei grossi tubettoni così chiamati con riferimento a taluni antichi alti e duri colletti da camicia usati quando si indossassero ampie e congrue cravatte (che è dal fr. cravate, adattamento del croato hrvat 'croato'; propr. 'croata', poiché la cravatta designava all'origine la sciarpa portata al collo dai cavalieri croati del sec. XVII);
tubbette e tubbettielle pasta corta cilindrica piú o meno grande con derivazione diminutiva e/o vezzeggiativa dalla voce tubo (che è dal lat. tubu(m); rammenterò che tali tipi di pasta assumono, secondo le varie industrie produttrici di paste alimentari, i piú svariati nomi sui quali non mi soffermo, mentre nel popolare parlare partenopeo d’antan tubbette e tubbettielle vengon detti paternoste o avemmarie secondo che siano piú grossi (paternoste) o piú piccoli (avemmarie) con riferimento – quanto al nome – non alle omonime preghiere, ma ai grani della corona del Rosario nella quale i grani per contare le avemarie sono piú minuti di quelli che segnalano il padrenostro;
elenco ora, infine, i principali formati minuti di paste alimentari secche usati per esser cotti in brodo o in minestre; e sono:
anellette cosí chiamati per aver la forma di piccoli anelli;
semmenze ‘e mellone cosí chiamati per aver la forma dei semi del melone (dal lat. tardo melone(m), nom. mílo, forma abbr. di melopepo -onis, che è dal gr. mílopépon -onos, comp. di mêlon 'melo, frutto' e pépon 'popone) che è frutto ovoidale a pasta bianca o gialla dolce e profumata, ricchissimo di semi giallastri da non confondere con il cocomero (che è dal lat. cocumere(m) dalla polpa rossa ed acquosa con semi radi, piccoli e neri;
sturtine il cui nome deriva dal fatto che detta pasta à la forma di un tubicino di piccolissimo calibro, piegato a mo’ d’archetto tal d’apparire storto/stuorto (p.pass. del verbo storcere che è dal lat. torquére 'strappare a forza girando o piegando, con tipica prostesi di una S intensiva);
rosamarina cosí chiamati per aver la forma degli aghi del rosmarino ( di cui la voce partenopea rosamarina è corruzione), pianta arbustiva con piccole foglie lineari persistenti e fortemente aromatiche e fiori in spiga violacei, profumati; detta pianta viene coltivata per le foglie, usate come aromatizzante in cucina, e per le infiorescenze, da cui si estrae un olio essenziale impiegato in profumeria. (etimo: ros marinu(m), propr. 'rugiada di mare', cosí detto perché cresce spontaneo nelle zone costiere mediterranee);
ponte d’aco = punte di ago: è un tipo di pasta secca alimentare di formato piccolissimo, lanceolato tal quale le punte degli aghi donde trae il nome;
acene ‘e pepe altro tipo di pasta secca alimentare di formato piccolissimo usato soprattutto per l’alimentazione di bambini piccoli e sdentati, non necessitando, per esser deglutito, di lunga e faticosa masticazione; va da sé che il nome gli deriva dal fatto di somigliare quasi ai piccoli acini/acene (dal lat. acinu(m)) di pepe (che è dal lat. piper piperis, dal gr. péperi, voce di orig. orientale) la notissima pianta tropicale rampicante le cui bacche rotonde, nere, di forte aroma, sono usate intere o opportunamente macinate come condimento.
E fermiamoci qui con l’elencazione dei formati della pasta secca alimentare, facendo un passo all’indietro per rammentare che con la voce generica maccarone, nella lingua napoletana si intende per traslato ed estensivamente la persona sciocca, il babbeo, lo stupido, anche se in tale accezione il napoletano suole dire: maccarone senza pertuso, e cioè maccherone non bucato nella convinzione che la pasta secca alimentare migliore sia quella lunga doppia, ma forata come zite, perciatelli etc., mentre spaghetti, vermicelli, fettuccine e similari siano di qualità inferiore; tanto è vero che s’usa dire: meglio unu maccarone ‘e zite ca ciente vermicielle ! di talché lo sciocco, il babbeo è ‘nu maccarone che sia però senza pertuso (= buco, foro da un lat. pertusiu(m) derivato di pertundere).
maccarone sàuteme ‘ncanna! = maccherone saltami in gola! detto di chi sia così tanto inetto, svogliato ed incapace di fare alcunché al segno di non sapersi o volersi nutrire da sé ed attendersi, addirittura!, che il cibo (maccherone) gli piova in gola per modo che gli sia evitato il fastidio di portare il cibo alla bocca;
sàuteme = salta a me; voce verbale dell’infinito sautà (che attraverso il francese sauter è pervenuto al napoletano dal lat. volgare saltare frequentativo di salire; normale il passaggio di al→au;
‘ncanna = in gola; da in + canna (che è dal lat. canna(m), dal greco kanna) di per sé nome di vari oggetti di forma tubolare: canna di un'arma da fuoco; canne dell'organo; canna della bicicletta: il tubo orizzontale del telaio; canna fumaria, il condotto del camino, qui sta per gola, esofago, condotto respiratorio, tubo digerente;
maccarune vierde vierde o teniente teniente = maccheroni verdissimi o molto tenenti (che abbiano retto la cottura senza diventar molli) cioè pronti, duretti, di giusta cottura; a Napoli i maccheroni non vanno eccessivamente lessati, soprattutto quando si tratti di pasta lunga e non doppia!
vierde letteralmente verde, ma nell’espressione richiamata e nell’iterazione superlativa vale molto pronto, quasi duretto come un frutto che fosse non del tutto maturo e fosse perciò quasi verde ( che è dal lat. viride(m), deriv. di virìre 'verdeggiare'.
teniente o tenente = tenente, ma nell’ espressione e nell’iterazione
superlativa vale molto pronto, quasi duretto come cosa che abbia tenuto la cottura evitando di ammollarsi eccessivamente; letteralmente le voci a margine sono il participio presente del verbo tené (tenere) che è dal latino teníre, corradicale di tendere 'tendere'.
In chiusura di tutto quanto trattato rammenterò (oltre quella in epigrafe che mi à dato il destro per parlar di maccheroni, altre due tipiche icastiche espressioni partenopee che chiamano in causa i maccheroni; e sono:
È caruto ‘o maccarone dint’ ô ccaso letteralmente: È cascato il maccherone nel cacio id est: si è verificata una circostanza estremamente favorevole ed inattesamente proficua: per solito e normalmente è il cacio ad esser cosparso sui maccheroni, qui invece il maccherone casca e si rotola addirittura nel formaggio che viene per ciò ad essere attinto cosí tanto copiosamente da risultare cosa eccessiva quantunque gradevole e gradita; caruto = caduto voce verbale (part. pass.) dell’infinito cadé (cadere) che è dal lat. volg. cadíre, per il class. cadere con tipica alternanza osco-mediterranea D/R; caso = cacio, formaggio (dal lat. caseu(m));
- Mmità a ccarne e maccarune letteralmente: Invitare a (desinare) carne e maccheroni, ma per traslato: Fare una proposta molto allettante, invitare qualcuno a partecipare ad un avvenimento oltremodo gradevole; un tempo, stante la grande miseria popolare dei napoletani, satollarsi improvvisamente – magari a sbafo – di carne e maccheroni fu ritenuto una gran fortuna; la carne ed i maccheroni furono, un tempo il pasto domenicale dei napoletani, pasto che ben difficilmente poteva venir consumato nei giorni feriali, se non per elargizione munifica di qualcuno.
‘Mmità voce verbale, infinito del verbo ‘mmità (‘mmitare) che è invitare
l’etimo è dal latino invitare composto dalla particella in + vitare (dove vitare dovette significare volere e cioè: invitare qualcuno = voler qualcuno in un (consesso) in un (banchetto) etc.
La strada seguíta per pervenire a ‘mmità partendo da invitare è quella che prevede l’aferisi della vocale nella sillaba d’avvio e la successiva assimilazione progressiva che da nv porta ad mm come altrove che da invece portò a ‘mmece, inventare che condusse ad ammentà e poi ‘mmentà etc.
Potrei fermarmi qui, ma preferisco (anziché rinviare altrove) parlare dei napoletani strangulaprievete (gnocchi di casa).
In primis et ante amnia diciamo che con la parola strangulaprievete, in lingua napoletana, si intendono gli gnocchi semplici fatti con acqua sale e farina. È vero che sia nell’uso quotidiano che in certa letteratura scadente ò trovato pure – per indicare la medesima cosa - il termine strangulamuonece, ma si tratta chiaramente di un vocabolo pretestuoso, teso a prendersi giuoco dei monaci oltre che dei sacerdoti, vocabolo che non à ragione d’esistere, come chiarirò qui di seguito.
La cosa che mi fa accapponare la pelle è che partendo da strangulaprievete, l’italiano mediatico ha tirato fuori uno strozzapreti, che la prima volta che l’udii, mi fece sobbalzare dalla poltrona. Mi sto ancora chiedendo chi sia stato l’ignorante imbecille che, non conoscendo l’etimologia della prima parte del termine strangula-prievete, pensò di fare cosa intelligente sostituendolo con strozza dal verbo strozzare (sinonimo, nel toscano del termine strangolare) ed operò invece una asineria.
Cerchiamo d’esser serii: il termine strangulaprievete,unico originale vocabolo che possa arrogarsi il diritto di significare gli gnocchi napoletani, viene da lontano ed è vocabolo che nasce in Grecia. Orbene diciamo, per farci capire, che gli gnocchi napoletani sono un tipo di pasta fresca fatta solo con acqua bollente e farina e sale. Dall’impasto originario si ricavano arrotolandoli sul tagliere cosparso di farina asciutta dei bastoncelli a sezione cilindrica spessi un centimetro; detti bastoncelli vengono tagliati in piccoli cilindretti di un paio di centimetri ognuno; i cilindretti vengon poi incavati facendoli strusciare sul tagliere tenendoli premuti contro il medesimo col polpastrello o dell’indice o del medio. La doppia operazione dell’arrotolamento e della incavatura dà origine alla parola . Il verbo greco strongulóo ( arrotolare - attorcere) dà luogo alla prima parte del vocabolo (strangula), mentre il verbo greco preto (comprimere -incavare) dà luogo alla seconda parte (prievete) Come si vede i sacerdoti non c’entrano nulla e di conseguenza men che meno i monaci chiamati in causa da qualche buontempone che non aveva di meglio da fare... Quanto allo stravolgimento di strangulaprievete in strozzapreti non posso che ribadire l’ignoranza e l’imbecillità di chi ha fatto simile strazio.che ha trovato un sedicente studioso della lingua italiana pronto ad accoglierlo nei dizionari in uso – diventati oramai il secchio della spazzatura in cui vien recepito di tutto, asinerie e capocchierie comprese – magari per far contento qualche potente dei media, che consenta allo studioso di essere invitato nelle trasmissioni televisive in veste di esperto ed arrotondare così,con il gettone di presenza, la giornata. Ma è cosa di cui vergognarsi ...
E adesso penso proprio di poter fare punto qui.
Raffaele Bracale
Ad litteram: mangiare i maccheroni id est:capire l’antifona, fiutare il pericolo prossimo, mettendosi in guardia.
Alibi, il medesimo concetto lo si esprime dicendo: addurà ‘o fieto d’‘o miccio id est: subodorare il puzzo della miccia accesa; in coda di questa esplicazione, mi soffermerò sui singoli vocaboli in epigrafe o richiamati; per l’intanto dico che la locuzione in epigrafe, nasce dalla considerazione che gli abitanti del circondario partenopeo, (villici e cafoni) accreditati di scarso acume, un tempo erano detti mangiafoglie, mentre i cittadini, che si ritenevano piú scaltri, erano detti mangiamaccheroni ; per cui mangiarsi i maccheroni equivaleva, nell’inteso cittadino, ad essere scaltri, capaci di accorgersi di ciò che stesse per accadere, non facendosi cogliere di sorpresa. Interessante notare come il medesimo senso della locuzione in epigrafe sia reso in italiano con la locuzione mangiare la foglia quasi volendo richiamare quello che altrove si dice e cioè che è il contadino (il mangiafoglie) e non il cittadino, quello ad aver il cervello fine, ad esser scaltro, certamente piú del cittadino (mangiamaccheroni). Per quanto riguarda l’espressione addurà ‘o fieto d’‘o miccio e cioè annusare il puzzo del lucignolo o meglio annusare il puzzo della miccia rammenterò che con la parola miccio (etimologicamente prob. dal fr. mèche, che è dal lat. volg. micca, per il class. myxa 'luminello, stoppino') , in napoletano si indica sia il lucignolo della candela che la miccia di un ordigno e nella fattispecie è questa seconda valenza che bisogna considerare giacché l’espressione nel suo significato nascosto sta per: fiutare un pericolo, accorgersi dell’approssimarsi di un danno; orbene il lucignolo della candela puzza quando da acceso diventi spento, ma allora non è foriero piú di alcun pericolo, mentre la miccia di un ordigno quando è accesa e sprigiona un suo greve olezzo, allora prospetta un prossimo, pericoloso scoppio.
Ciò detto, ritorniamo all’espressione in epigrafe, dicendo súbito che magnarse è l’infinito riflessivo del verbo magnà (magnare) etimologicamente forma metatetica del francese manger originata dal latino manducare incrociata con una voce popolare (gnam, gnam) di tipo onomatopeico.
maccarune/i plurale metafonetico del singolare maccarone = generica pasta alimentare, piú nota con varie specifiche denominazioni giusta il formato di detta pasta: lunga o corta, bucata e non; etimologicamente il termine maccarone deriva,secondo alcuni dal greco makaría= piatto di fave e fiocchi di avena, o da makariòs= beati o pasto funebre, a mio avviso è molto piú convincente l’etimologia che chiama in causa il latino maccare = impastare e comprimere (rammenterò infatti che originariamente i maccaruni latini furono essenzialmente della pasta casalinga (gnocchi) ricavata dall’impasto di farina, sale ed acqua; tale impasto veniva schiacciato (maccatus) e tagliato in pezzetti poi compressi tal quale i greco-napoletani strangulaprievete (vedi qui di sèguito).
Rammenterò ora i piú noti formati di detta pasta secca alimentare, cominciando da quella lunga e doppia:
Maccarune ‘e zite = maccheroni da ragazze da marito; in effetti tali lunghi e doppi maccheroni di formato cilindrico a sezione circolare di circa un cm. di diametro venivano e talvolta vengono ancora usati , spezzati a mano in pezzi di circa 4 cm. di altezza, variamente e sontuosamente conditi, nei pranzi di nozze delle cosiddette zite ( il singolare zita etimologicamente è un collaterale popolare del toscano cita/citta= ragazza nubile) e cioè le ragazze da marito; faccio notare come la voce zite plurale di zita nel significato di nubile da sposare è voce femminile e come tale al plurale preceduto dall’articolo ‘e, in napoletano va scritta con la geminazione della z iniziale: ‘e zzite; passata ad indicare, nel comune parlar napoletano , un tipo di pasta secca alimentare la voce zite à finito per essere inteso, come la maggioranza degli alimenti ( ‘o ppane, ‘o vino, ‘o ppepe, ‘o cafè etc.) neutro da scriversi e leggersi scempio: ‘e zite;
bucatine – pirciatielle = bucatini – foratini; bucatino = s. m.pasta alimentare consistente in un grosso vermicellone piuttosto doppio e bucato per tutta la sua lunghezza, va da sé che il nome bucatino è da collegarsi al fatto che tale tipo di pasta è bucata; la medesima bucatura centrale che percorre la pasta per tutta la sua lunghezza la si ritrova nei pirciatielle grossi vermicelloni piú doppi dei precedenti bucatini; poiché la voce verbale bucare (perforare) non è napoletana, se ne deduce che tra bucatine e pirciatielle la pasta piú tipicamente partenopea sia la seconda, atteso che il verbo bucare (perforare) è reso in napoletano con la voce pircià (che è dall’antico francese percer) da cui derivano ‘e pirciatielle che ci occupano;
ancóra, trattando di pasta doppia, abbiamo:
mezzane tipo di pasta cilindrica doppia e corta: 4 – 5 cm. di altezza, ampiamente forata a superficie liscia o rigata (per trattener meglio il sugo) etimologicamente da un lat. medianu(m), deriv. di medius 'mezzo' atteso che tale formato di pasta fa quasi da mediano tra i formati lunghi e quelli corti;
maltagliate tipo di pasta simile alla precedente dalla quale si differenzia per aver, questa a margine le estremità tagliate, non perpendicolarmente rispetto all’asse minore, ma in maniera obliqua, tal quale le antiche penne d’oca usate per la scrittura: per tale taglio diagonale e non perpendicolare la pasta parrebbe quasi mal tagliata donde il nome; taluni rammentando il taglio a becco obliquo delle antiche penne d’oca, usano chiamare tale formato di pasta penne, ma è voce piú moderna rispetto alla classica maltagliate;
mezzanelle/mezzanielle con tale formato di pasta molto simile ai pirciatielli, sebbene di calibro piú doppio ci troviamo di fronte al formato che fa da trait d’union tra i formati doppi e lunghi e quelli di transito come i mezzani, da cui con un pretestuoso vezzeggiativo diminutivo traggono il nome sia che lo si intenda femminile (mezzanelle) sia che lo si intenda maschile (mezzanielle) rammenterò che mentre i perciatelli possono esser cotti e serviti, per come sono lunghi, questi a margine, per esser di calibro maggiore devono essere ridotti in pezzi di altezza di ca 3 cm.
Affrontiamo ora la vasta qualità dei formati lunghi, ma sottili e di diverso calibro; abbiamo:
spavette id est: spaghetti = pasta alimentare, di forma cilindrica lunga e sottile, che si mangia generalmente asciutta: spaghetti al...etc. la voce napoletana è un derivato di spavo = spago che è dal tardo latino spacu(m) con normale caduta della gutturale ed epentesi di un suono di transizione v.
vermicielli id est: vermicelli (dim. di verme) = pasta alimentare secca del tipo degli spaghetti, ma di calibro leggermente piú spesso;
linguine – lengue ‘e passere sia le prime che le seconde sono un tipo di pasta alimentare secca, lunga e sottile, simile a tagliatelle (che vedremo), ma molto strette; ambedue i tipi (ma segnatamente il secondo traggono il nome dall’accostamento alla voce lingua (di passero) cui – per lo spessore – assomigliano;alibi (Liguria) le linguine son dette trenette (dim. del genov. trena 'cordoncino, passamano'; cfr. trina);
tagliarelle – tagliuline ecco due formati di pasta alimentare secca fettucce – fettuccine che corrispondono ad un dipresso alle tagliatelle e tagliolini che invece son paste alimentari fresche, all’uovo ricavate da una cosiddetta pettola (la voce napoletana pettola è quella che rende l’italiana sfoglia; dirò súbito che con il termine pettola si indica innanzi tutto l'ampia falda posteriore delle camicia,quella che dentro o fuori i pantaloni insiste sul fondoschiena; estensivamente, con il medesimo termine – come ò accennato - , si indica quella che in toscano è detta sfoglia, che si ottiene con l’ausilio del matterello (la voce matterello, che è diminutivo di mattero, etimologicamente deriva da un antico latino mattaris o mataris= bastone, randello, voci probabilmente di origine gallica; talvolta nell’italiano mediatico s’usa in luogo del corretto matterello, la scorretta voce mattarello,ma è uso errato in quanto mattarello è voce regionale (laziale)); con il matterello su di una apposita spianatoia si stende e si assottiglia, portandolo ad un consono spessore, l’impasto di farina, uova e/o altri ingredienti, per ottenerne, opportunamente tagliata o riempita, pasta alimentare o altre preparazioni culinarie; la sfoglia ripiegata su se stessa e tagliata a nastro piú o meno largo dà le tagliatelle o i piú stretti tagliolini che derivano il loro nome dal verbo tagliare che è da un tardo lat.taliare, deriv. del class. talea 'piantone, bastoncino'; cfr. talea;
Tornando alla voce pettola dirò che etimologicamente si fa derivare da un acc. latino: petula(m)con consueto raddoppiamento popolare della dentale T in parole sdrucciole, con derivazione radicale dalla radice pet di peto lat.:peditum;e non se ne faccia meraviglia: si pensi a su cosa insiste la originaria pettola!Altra ipotesi, ma forse meno convincente, è che la pettola/pettula si riallacci al basso latino: pèttia(m)=pezza,nella forma diminutiva pettùla(m) e successivo cambio di accento che abbia dato péttula: questa etimologia può solleticare, ma è lontana dalla sostanza della péttola napoletana che non indica una piccola pezzuola quale appunto è la pettùla, ma, al contrario, un’ampia falda o congrua sfoglia di pasta.
Riprendiamo il ns. excursus sui varî formati lunghi di pasta alimentare secca; abbiamo:
lagane e laganelle che sono delle fettuccine piú o meno larghe; esse derivano il loro nome dal matterello con il quale si ricavano nella versione domestica all’uovo; in napoletano il matterello è detto laganaturo (che è da un originario greco laganon, latinizzato nel neutro plurale lagana poi inteso femminile.Rammenterò ad abundantiam che in napoletano con la voce laganaturo si intende sia il basone per spianare la sfoglia di pasta, che il tagliere su cui la sfoglia è spianata; e ciò è poco male: in fondo sia il bastone che il tagliere concorrono a fare le lagane e possono ambedue tranquillamente derivarne il nome: da lagana + il suffisso di pertinenza turo si à laganaturo.
E passiamo ad illustrare i formati corti delle paste alimentari secche; abbiamo:
don Ciccillo ‘ncruvattato letteralmente: don Franceschino con la cravatta che sono dei grossi tubettoni così chiamati con riferimento a taluni antichi alti e duri colletti da camicia usati quando si indossassero ampie e congrue cravatte (che è dal fr. cravate, adattamento del croato hrvat 'croato'; propr. 'croata', poiché la cravatta designava all'origine la sciarpa portata al collo dai cavalieri croati del sec. XVII);
tubbette e tubbettielle pasta corta cilindrica piú o meno grande con derivazione diminutiva e/o vezzeggiativa dalla voce tubo (che è dal lat. tubu(m); rammenterò che tali tipi di pasta assumono, secondo le varie industrie produttrici di paste alimentari, i piú svariati nomi sui quali non mi soffermo, mentre nel popolare parlare partenopeo d’antan tubbette e tubbettielle vengon detti paternoste o avemmarie secondo che siano piú grossi (paternoste) o piú piccoli (avemmarie) con riferimento – quanto al nome – non alle omonime preghiere, ma ai grani della corona del Rosario nella quale i grani per contare le avemarie sono piú minuti di quelli che segnalano il padrenostro;
elenco ora, infine, i principali formati minuti di paste alimentari secche usati per esser cotti in brodo o in minestre; e sono:
anellette cosí chiamati per aver la forma di piccoli anelli;
semmenze ‘e mellone cosí chiamati per aver la forma dei semi del melone (dal lat. tardo melone(m), nom. mílo, forma abbr. di melopepo -onis, che è dal gr. mílopépon -onos, comp. di mêlon 'melo, frutto' e pépon 'popone) che è frutto ovoidale a pasta bianca o gialla dolce e profumata, ricchissimo di semi giallastri da non confondere con il cocomero (che è dal lat. cocumere(m) dalla polpa rossa ed acquosa con semi radi, piccoli e neri;
sturtine il cui nome deriva dal fatto che detta pasta à la forma di un tubicino di piccolissimo calibro, piegato a mo’ d’archetto tal d’apparire storto/stuorto (p.pass. del verbo storcere che è dal lat. torquére 'strappare a forza girando o piegando, con tipica prostesi di una S intensiva);
rosamarina cosí chiamati per aver la forma degli aghi del rosmarino ( di cui la voce partenopea rosamarina è corruzione), pianta arbustiva con piccole foglie lineari persistenti e fortemente aromatiche e fiori in spiga violacei, profumati; detta pianta viene coltivata per le foglie, usate come aromatizzante in cucina, e per le infiorescenze, da cui si estrae un olio essenziale impiegato in profumeria. (etimo: ros marinu(m), propr. 'rugiada di mare', cosí detto perché cresce spontaneo nelle zone costiere mediterranee);
ponte d’aco = punte di ago: è un tipo di pasta secca alimentare di formato piccolissimo, lanceolato tal quale le punte degli aghi donde trae il nome;
acene ‘e pepe altro tipo di pasta secca alimentare di formato piccolissimo usato soprattutto per l’alimentazione di bambini piccoli e sdentati, non necessitando, per esser deglutito, di lunga e faticosa masticazione; va da sé che il nome gli deriva dal fatto di somigliare quasi ai piccoli acini/acene (dal lat. acinu(m)) di pepe (che è dal lat. piper piperis, dal gr. péperi, voce di orig. orientale) la notissima pianta tropicale rampicante le cui bacche rotonde, nere, di forte aroma, sono usate intere o opportunamente macinate come condimento.
E fermiamoci qui con l’elencazione dei formati della pasta secca alimentare, facendo un passo all’indietro per rammentare che con la voce generica maccarone, nella lingua napoletana si intende per traslato ed estensivamente la persona sciocca, il babbeo, lo stupido, anche se in tale accezione il napoletano suole dire: maccarone senza pertuso, e cioè maccherone non bucato nella convinzione che la pasta secca alimentare migliore sia quella lunga doppia, ma forata come zite, perciatelli etc., mentre spaghetti, vermicelli, fettuccine e similari siano di qualità inferiore; tanto è vero che s’usa dire: meglio unu maccarone ‘e zite ca ciente vermicielle ! di talché lo sciocco, il babbeo è ‘nu maccarone che sia però senza pertuso (= buco, foro da un lat. pertusiu(m) derivato di pertundere).
maccarone sàuteme ‘ncanna! = maccherone saltami in gola! detto di chi sia così tanto inetto, svogliato ed incapace di fare alcunché al segno di non sapersi o volersi nutrire da sé ed attendersi, addirittura!, che il cibo (maccherone) gli piova in gola per modo che gli sia evitato il fastidio di portare il cibo alla bocca;
sàuteme = salta a me; voce verbale dell’infinito sautà (che attraverso il francese sauter è pervenuto al napoletano dal lat. volgare saltare frequentativo di salire; normale il passaggio di al→au;
‘ncanna = in gola; da in + canna (che è dal lat. canna(m), dal greco kanna) di per sé nome di vari oggetti di forma tubolare: canna di un'arma da fuoco; canne dell'organo; canna della bicicletta: il tubo orizzontale del telaio; canna fumaria, il condotto del camino, qui sta per gola, esofago, condotto respiratorio, tubo digerente;
maccarune vierde vierde o teniente teniente = maccheroni verdissimi o molto tenenti (che abbiano retto la cottura senza diventar molli) cioè pronti, duretti, di giusta cottura; a Napoli i maccheroni non vanno eccessivamente lessati, soprattutto quando si tratti di pasta lunga e non doppia!
vierde letteralmente verde, ma nell’espressione richiamata e nell’iterazione superlativa vale molto pronto, quasi duretto come un frutto che fosse non del tutto maturo e fosse perciò quasi verde ( che è dal lat. viride(m), deriv. di virìre 'verdeggiare'.
teniente o tenente = tenente, ma nell’ espressione e nell’iterazione
superlativa vale molto pronto, quasi duretto come cosa che abbia tenuto la cottura evitando di ammollarsi eccessivamente; letteralmente le voci a margine sono il participio presente del verbo tené (tenere) che è dal latino teníre, corradicale di tendere 'tendere'.
In chiusura di tutto quanto trattato rammenterò (oltre quella in epigrafe che mi à dato il destro per parlar di maccheroni, altre due tipiche icastiche espressioni partenopee che chiamano in causa i maccheroni; e sono:
È caruto ‘o maccarone dint’ ô ccaso letteralmente: È cascato il maccherone nel cacio id est: si è verificata una circostanza estremamente favorevole ed inattesamente proficua: per solito e normalmente è il cacio ad esser cosparso sui maccheroni, qui invece il maccherone casca e si rotola addirittura nel formaggio che viene per ciò ad essere attinto cosí tanto copiosamente da risultare cosa eccessiva quantunque gradevole e gradita; caruto = caduto voce verbale (part. pass.) dell’infinito cadé (cadere) che è dal lat. volg. cadíre, per il class. cadere con tipica alternanza osco-mediterranea D/R; caso = cacio, formaggio (dal lat. caseu(m));
- Mmità a ccarne e maccarune letteralmente: Invitare a (desinare) carne e maccheroni, ma per traslato: Fare una proposta molto allettante, invitare qualcuno a partecipare ad un avvenimento oltremodo gradevole; un tempo, stante la grande miseria popolare dei napoletani, satollarsi improvvisamente – magari a sbafo – di carne e maccheroni fu ritenuto una gran fortuna; la carne ed i maccheroni furono, un tempo il pasto domenicale dei napoletani, pasto che ben difficilmente poteva venir consumato nei giorni feriali, se non per elargizione munifica di qualcuno.
‘Mmità voce verbale, infinito del verbo ‘mmità (‘mmitare) che è invitare
l’etimo è dal latino invitare composto dalla particella in + vitare (dove vitare dovette significare volere e cioè: invitare qualcuno = voler qualcuno in un (consesso) in un (banchetto) etc.
La strada seguíta per pervenire a ‘mmità partendo da invitare è quella che prevede l’aferisi della vocale nella sillaba d’avvio e la successiva assimilazione progressiva che da nv porta ad mm come altrove che da invece portò a ‘mmece, inventare che condusse ad ammentà e poi ‘mmentà etc.
Potrei fermarmi qui, ma preferisco (anziché rinviare altrove) parlare dei napoletani strangulaprievete (gnocchi di casa).
In primis et ante amnia diciamo che con la parola strangulaprievete, in lingua napoletana, si intendono gli gnocchi semplici fatti con acqua sale e farina. È vero che sia nell’uso quotidiano che in certa letteratura scadente ò trovato pure – per indicare la medesima cosa - il termine strangulamuonece, ma si tratta chiaramente di un vocabolo pretestuoso, teso a prendersi giuoco dei monaci oltre che dei sacerdoti, vocabolo che non à ragione d’esistere, come chiarirò qui di seguito.
La cosa che mi fa accapponare la pelle è che partendo da strangulaprievete, l’italiano mediatico ha tirato fuori uno strozzapreti, che la prima volta che l’udii, mi fece sobbalzare dalla poltrona. Mi sto ancora chiedendo chi sia stato l’ignorante imbecille che, non conoscendo l’etimologia della prima parte del termine strangula-prievete, pensò di fare cosa intelligente sostituendolo con strozza dal verbo strozzare (sinonimo, nel toscano del termine strangolare) ed operò invece una asineria.
Cerchiamo d’esser serii: il termine strangulaprievete,unico originale vocabolo che possa arrogarsi il diritto di significare gli gnocchi napoletani, viene da lontano ed è vocabolo che nasce in Grecia. Orbene diciamo, per farci capire, che gli gnocchi napoletani sono un tipo di pasta fresca fatta solo con acqua bollente e farina e sale. Dall’impasto originario si ricavano arrotolandoli sul tagliere cosparso di farina asciutta dei bastoncelli a sezione cilindrica spessi un centimetro; detti bastoncelli vengono tagliati in piccoli cilindretti di un paio di centimetri ognuno; i cilindretti vengon poi incavati facendoli strusciare sul tagliere tenendoli premuti contro il medesimo col polpastrello o dell’indice o del medio. La doppia operazione dell’arrotolamento e della incavatura dà origine alla parola . Il verbo greco strongulóo ( arrotolare - attorcere) dà luogo alla prima parte del vocabolo (strangula), mentre il verbo greco preto (comprimere -incavare) dà luogo alla seconda parte (prievete) Come si vede i sacerdoti non c’entrano nulla e di conseguenza men che meno i monaci chiamati in causa da qualche buontempone che non aveva di meglio da fare... Quanto allo stravolgimento di strangulaprievete in strozzapreti non posso che ribadire l’ignoranza e l’imbecillità di chi ha fatto simile strazio.che ha trovato un sedicente studioso della lingua italiana pronto ad accoglierlo nei dizionari in uso – diventati oramai il secchio della spazzatura in cui vien recepito di tutto, asinerie e capocchierie comprese – magari per far contento qualche potente dei media, che consenta allo studioso di essere invitato nelle trasmissioni televisive in veste di esperto ed arrotondare così,con il gettone di presenza, la giornata. Ma è cosa di cui vergognarsi ...
E adesso penso proprio di poter fare punto qui.
Raffaele Bracale
-il verbo napoletano: ‘ntalliarse
-il verbo napoletano: ‘ntalliarse
Il verbo in epigrafe, usato già dagli autori del 1700 e mai abbandonato anche da quelli contemporanei offre un variegato ventaglio di significati tutti però riconducibili alla c.d. perdita di tempo.
Il primo significato è quello di indugiare, attardarsi e viene usato soprattutto nei riguardi di quegli adulti lenti all’agire, che prima di far qualcosa si attardano pretestuosamente;
un secondo significato – riferito quasi esclusivamente ai ragazzi/e è quello di perdere il tempo gingillandosi e bamboleggiando.
Detto ciò etimologicamente il verbo – nel suo primo significato è ipotizzabile derivi dal latino in + talos (star sui talloni) atteso che l’indugiare comporta lo star fermi quasi immobili sui talloni;
il secondo significato potrebbe invece,semanticamente se non etimologicamente, far pensare al greco en-thallein (germogliare) cosa che è tipica dei ragazzi che germogliano alla vita e non ànno ancóra compiuto la loro evoluzione e gradiscono gingillarsi piuttosto che affrettarsi.
RaffaeleBracale
Il verbo in epigrafe, usato già dagli autori del 1700 e mai abbandonato anche da quelli contemporanei offre un variegato ventaglio di significati tutti però riconducibili alla c.d. perdita di tempo.
Il primo significato è quello di indugiare, attardarsi e viene usato soprattutto nei riguardi di quegli adulti lenti all’agire, che prima di far qualcosa si attardano pretestuosamente;
un secondo significato – riferito quasi esclusivamente ai ragazzi/e è quello di perdere il tempo gingillandosi e bamboleggiando.
Detto ciò etimologicamente il verbo – nel suo primo significato è ipotizzabile derivi dal latino in + talos (star sui talloni) atteso che l’indugiare comporta lo star fermi quasi immobili sui talloni;
il secondo significato potrebbe invece,semanticamente se non etimologicamente, far pensare al greco en-thallein (germogliare) cosa che è tipica dei ragazzi che germogliano alla vita e non ànno ancóra compiuto la loro evoluzione e gradiscono gingillarsi piuttosto che affrettarsi.
RaffaeleBracale
NNACCHENNELLO
NNACCHENNELLO
Il vocabolo in epigrafe è oggi fra i napoletani piú giovani quasi sconosciuto, mentre persiste nella memoria e nell’uso di quelli piú avanti negli anni. Con tale vocabolo si indica il lezioso, lo svenevole, lo eccessivamente complimentoso, il vagheggino, il manierato cicisbeo, ma pure il furbastro che tenti di apparire graziosamente interessante; è chiaro che in un’epoca come la nostra che à statuito la parità dei sessi sarebbe impensabile un uomo che si comportasse verso il gentil sesso in maniera leziosa, complimentosa etc. tale da esser paragonato a quei settecenteschi cavalier serventi che solevano portare lunghe capigliature spartite sulle fronte e portate sul volto a coprire un occhio, mentre con l’altro, attraverso un occhialetto,spesso colorato, sogguardavano le dame ; tale postura faceva pensare che i suddetti cavalieri non avessero che un occhio;in francese la cosa suonava: il n’à q’un oeil che letto rapidamente diveniva il n’à che n’el da cui i napoletani trassero nnacchennello.
Raffaele Bracale
Il vocabolo in epigrafe è oggi fra i napoletani piú giovani quasi sconosciuto, mentre persiste nella memoria e nell’uso di quelli piú avanti negli anni. Con tale vocabolo si indica il lezioso, lo svenevole, lo eccessivamente complimentoso, il vagheggino, il manierato cicisbeo, ma pure il furbastro che tenti di apparire graziosamente interessante; è chiaro che in un’epoca come la nostra che à statuito la parità dei sessi sarebbe impensabile un uomo che si comportasse verso il gentil sesso in maniera leziosa, complimentosa etc. tale da esser paragonato a quei settecenteschi cavalier serventi che solevano portare lunghe capigliature spartite sulle fronte e portate sul volto a coprire un occhio, mentre con l’altro, attraverso un occhialetto,spesso colorato, sogguardavano le dame ; tale postura faceva pensare che i suddetti cavalieri non avessero che un occhio;in francese la cosa suonava: il n’à q’un oeil che letto rapidamente diveniva il n’à che n’el da cui i napoletani trassero nnacchennello.
Raffaele Bracale
‘NGUACCHIO o pure ‘NQUACCHIO
‘NGUACCHIO o pure ‘NQUACCHIO
La parola in epigrafe,(si tratta infatti di un sol termine, reso con due diverse grafie), nel suo significato primo di bruttura, lordura, sudiciume risulta essere – quanto al suo etimo – un deverbale di ‘nguacchià/’nquacchià voci tutte di origini onomatopeiche su di un nguacc/nquacc d’avvio; i verbi ànno il loro significato primo di: sporcare, insudiciare, macchiare, imbrattare;proprio in tali accezioni la parola in epigrafe fu usata per indicare quegli inopinati sgorbi e macchie d’inchiostro che – complici la distrazione, l’inchiostro ed il pennino della penna comune – lordarono quaderni e libri al tempo (1950) delle scuole elementari; quando poi (1955) con l’avvento della penna biro che mandò in soffitta inchiostro, calamaio, pennini e penne comuni,divenne desueta anche la parola ‘nguacchio/’nquacchio essa venne sostituita da spirinquacchio usata per indicare non lo sgorbio o la macchia casuale, quando quel ghirigoro voluto e cercato prodotto per saggiare se l’inchiostro contenuto nella cannuccia di plastica della penna biro fosse ancora sufficiente o sufficientemente fluido per permettere di scrivere; poiché per saggiare la scorrevolezza e fluidità del detto inchiestro, si muoveva in maniera piú o meno circolare la penna tenuta rigidamente perpendicolare al piano di scrittura, la traccia che se ne ricavava era di forma spirale, di talché il disegno ottenuto era pur sempre ‘nu ‘nguacchio, ma in quanto di forma spiraleggiante, finí per esser definito spirinquacchio/spiringuacchio; la parola napoletana ‘nguacchio o ‘nquacchio oltre ai cennati significati, à poi un suo significato estensivo che è quello di: situazione intrigata, pasticcio di difficile soluzione ed ancora infine la deflorazione con conseguente fecondazione di una giovane che consenzientemente, da nubile, si sia fatta possedere da un innamorato; nelle cennate due accezioni pasticcio di difficile soluzione, situazione intrigata la parola è trasmigrata pure se in non tutti, in molti dei piú completi ed usati vocabolarî della lingua italiana dove è diventata: inguacchio; ugualmente un significato estensivo ànno i verbi ‘nguacchià/’nquacchià che in lingua napoletana vengono usati per indicare oltre che i cennati: sporcare, insudiciare, macchiare, imbrattare, anche l’ungere o il condire esageratamente in ispecie con sugo di pomodoro; molta meraviglia à destato in me il fatto che mentre abbia incontrato in molti dizionarî della lingua italiana il termine inguacchio, in nessuno vi ò ritrovato il verbo da cui dovrebbe essere scaturito: inguacchiare… Misteri della lingua italiana!
Raffaele Bracale
La parola in epigrafe,(si tratta infatti di un sol termine, reso con due diverse grafie), nel suo significato primo di bruttura, lordura, sudiciume risulta essere – quanto al suo etimo – un deverbale di ‘nguacchià/’nquacchià voci tutte di origini onomatopeiche su di un nguacc/nquacc d’avvio; i verbi ànno il loro significato primo di: sporcare, insudiciare, macchiare, imbrattare;proprio in tali accezioni la parola in epigrafe fu usata per indicare quegli inopinati sgorbi e macchie d’inchiostro che – complici la distrazione, l’inchiostro ed il pennino della penna comune – lordarono quaderni e libri al tempo (1950) delle scuole elementari; quando poi (1955) con l’avvento della penna biro che mandò in soffitta inchiostro, calamaio, pennini e penne comuni,divenne desueta anche la parola ‘nguacchio/’nquacchio essa venne sostituita da spirinquacchio usata per indicare non lo sgorbio o la macchia casuale, quando quel ghirigoro voluto e cercato prodotto per saggiare se l’inchiostro contenuto nella cannuccia di plastica della penna biro fosse ancora sufficiente o sufficientemente fluido per permettere di scrivere; poiché per saggiare la scorrevolezza e fluidità del detto inchiestro, si muoveva in maniera piú o meno circolare la penna tenuta rigidamente perpendicolare al piano di scrittura, la traccia che se ne ricavava era di forma spirale, di talché il disegno ottenuto era pur sempre ‘nu ‘nguacchio, ma in quanto di forma spiraleggiante, finí per esser definito spirinquacchio/spiringuacchio; la parola napoletana ‘nguacchio o ‘nquacchio oltre ai cennati significati, à poi un suo significato estensivo che è quello di: situazione intrigata, pasticcio di difficile soluzione ed ancora infine la deflorazione con conseguente fecondazione di una giovane che consenzientemente, da nubile, si sia fatta possedere da un innamorato; nelle cennate due accezioni pasticcio di difficile soluzione, situazione intrigata la parola è trasmigrata pure se in non tutti, in molti dei piú completi ed usati vocabolarî della lingua italiana dove è diventata: inguacchio; ugualmente un significato estensivo ànno i verbi ‘nguacchià/’nquacchià che in lingua napoletana vengono usati per indicare oltre che i cennati: sporcare, insudiciare, macchiare, imbrattare, anche l’ungere o il condire esageratamente in ispecie con sugo di pomodoro; molta meraviglia à destato in me il fatto che mentre abbia incontrato in molti dizionarî della lingua italiana il termine inguacchio, in nessuno vi ò ritrovato il verbo da cui dovrebbe essere scaturito: inguacchiare… Misteri della lingua italiana!
Raffaele Bracale
- ‘NCIGNÀ E ‘NGIGNÀ.
- ‘NCIGNÀ E ‘NGIGNÀ.
Ò dovuto registrare con mio sommo rammarico che i due vocaboli in epigrafe dalla maggior parte dei lessicografi partenopei sono registrati come sinonimi e piú precisamente siano riportati ambedue con il significato di inaugurare, principiare ed azioni consimili.Orbene tale significato – a mio avviso – si attaglia perfettamente al termine ‘ncignà disceso dal tardo latino encaeniare modellato su di un greco koinòs (nuovo) es. :s’è ‘ncignato ‘nu vestito nuovo: à indossato per la prima volta un vestito nuovo ; ma il significato di ‘ngignà (es: s’è ‘ngignato a truvà ‘a soluzzione d’’o prubblema: si è dato da fare per trovare una soluzione al problema) è invece molto diverso e sta appunto per: darsi da fare, arrabattarsi pur di raggiungere uno scopo, cosa molto diversa dal principiare che è propria dello ‘ncignà; è vero che spesso in napoletano capita che una C di partenza si evolva in G magari perdendo l’originario suono palatale per assumerne uno gutturale, ma non penso che questo sia il caso dei due vocaboli in epigrafe, troppo diversi di significato per poter discendere dallo stesso verbo tardo latino.
In conclusione mentre reputo lo ‘ncignà parola atta a significare il principiare, nego ciò per lo ‘ngignà che presumo discenda invece da un tardo latino ingeniari(e) denominale del classico ingenium e significhi: impegnarsi a raggiungere uno scopo per cui non posso ritenere i due verbi sinonimi e mi auguro che, prima o poi, qualche nuovo lessicografo partenopeo accolga e faccia sua questa mia considerazione che – mi pare – abbia un buon fondamento.
RaffaeleBracale
Ò dovuto registrare con mio sommo rammarico che i due vocaboli in epigrafe dalla maggior parte dei lessicografi partenopei sono registrati come sinonimi e piú precisamente siano riportati ambedue con il significato di inaugurare, principiare ed azioni consimili.Orbene tale significato – a mio avviso – si attaglia perfettamente al termine ‘ncignà disceso dal tardo latino encaeniare modellato su di un greco koinòs (nuovo) es. :s’è ‘ncignato ‘nu vestito nuovo: à indossato per la prima volta un vestito nuovo ; ma il significato di ‘ngignà (es: s’è ‘ngignato a truvà ‘a soluzzione d’’o prubblema: si è dato da fare per trovare una soluzione al problema) è invece molto diverso e sta appunto per: darsi da fare, arrabattarsi pur di raggiungere uno scopo, cosa molto diversa dal principiare che è propria dello ‘ncignà; è vero che spesso in napoletano capita che una C di partenza si evolva in G magari perdendo l’originario suono palatale per assumerne uno gutturale, ma non penso che questo sia il caso dei due vocaboli in epigrafe, troppo diversi di significato per poter discendere dallo stesso verbo tardo latino.
In conclusione mentre reputo lo ‘ncignà parola atta a significare il principiare, nego ciò per lo ‘ngignà che presumo discenda invece da un tardo latino ingeniari(e) denominale del classico ingenium e significhi: impegnarsi a raggiungere uno scopo per cui non posso ritenere i due verbi sinonimi e mi auguro che, prima o poi, qualche nuovo lessicografo partenopeo accolga e faccia sua questa mia considerazione che – mi pare – abbia un buon fondamento.
RaffaeleBracale
‘NCIARMO e voci collegate
‘NCIARMO e voci collegate
Questa volta tratterò di un antichissima voce partenopea: ‘nciarmo, nonché di altre voci ad essa collegate come il verbo ‘nciarmare o il sostantivo ‘nciarmatore e mi soffermerò poi su di una tipica espressione che un tempo fu spesso usata e che invece attualmente è quasi desueta come il vocabolo in epigrafe; l’espressione è: Rompere ‘o ‘nciarmo; essa aveva numerosi significati tra i quali: Dar principio a qualcosa, disporsi all’azione, ma pure: riappacificarsi etc.
Cominciamo con il prendere in esame la voce ‘nciarmo che vale o valeva: sortilegio,incantamento e naturalmente chi li mettesse in atto era detto ‘nciarmatore (addizionando alla voce di partenza il solito suffisso di attinenza o pertinenza: tore come in tutte le parole – anche toscane - dove il detto suffisso è usato per indicare attinenza o riferimento come ad es lavora-tore=pertinente al lavoro, addetto al lavoro etc.) id est: cerretano (che etimologicamente piú che derivato di Cerreto, paese dell’Umbria donde – nel medio evo - pare provenisse la maggior parte di coloro che nelle fiere vendevano unguenti miracolosi, penso sia da far risalire al latino gerrae= ciarle; da gerrae si ebbe gerrones e da questi gerretanus donde il toscano cerretano che poi è l’odierno ciurmatore,e fig.: ciarlatano, truffatore, imbroglione. insomma uomo volgare accreditato dal popolino di compiere miracoli;guaritore e simili.
Torniamo alla voce ‘nciarmo che come il verbo ‘nciarmà di cui pare esser deverbale è etimologicamente dal latino in (illativo)+ carmen, ma attraverso il francese charme = magía a sua volta come il verbo charmer derivati dal basso latino carminare (in latino carmen è la formula magica); va da sé che tutte le voci derivate o collegate, ànno il medesimo etimo.
Illustriamo ora l’espressione : Rompere ‘o ‘nciarmo; essa, come detto, aveva numerosi significati tra i quali: Dar principio a qualcosa, disporsi all’azione, ma pure: riappacificarsi etc. Esaminiamo i varî significati:
-Principiare alcunché: in effetti chi inizia un’azione o vi si dispone tenta di venir fuori da una sorta di stallo in cui si trovi, quello stallo in cui forse sia stato costretto da un ipotizzato sortilegio e di cui ci si libera rompendolo, spezzandolo;
Il medesimo ipotizzato sortilegio, quando non addirittura una macroscopica fattura (che è dal neutro plurale, ma inteso femminile, latino factura costruita sul p.p. factus di facere e vale manipolazione, stregoneria, malefizio, incantesimo) può aver indotto o prodotto contrasto tra due innamorati che quando si riappacificassero, romperebbero, spezzerebbero detta fattura e quindi la riappacificazione si sostanzierebbe nel rompere ‘o ‘nciarmo.
Raffaele Bracale
Questa volta tratterò di un antichissima voce partenopea: ‘nciarmo, nonché di altre voci ad essa collegate come il verbo ‘nciarmare o il sostantivo ‘nciarmatore e mi soffermerò poi su di una tipica espressione che un tempo fu spesso usata e che invece attualmente è quasi desueta come il vocabolo in epigrafe; l’espressione è: Rompere ‘o ‘nciarmo; essa aveva numerosi significati tra i quali: Dar principio a qualcosa, disporsi all’azione, ma pure: riappacificarsi etc.
Cominciamo con il prendere in esame la voce ‘nciarmo che vale o valeva: sortilegio,incantamento e naturalmente chi li mettesse in atto era detto ‘nciarmatore (addizionando alla voce di partenza il solito suffisso di attinenza o pertinenza: tore come in tutte le parole – anche toscane - dove il detto suffisso è usato per indicare attinenza o riferimento come ad es lavora-tore=pertinente al lavoro, addetto al lavoro etc.) id est: cerretano (che etimologicamente piú che derivato di Cerreto, paese dell’Umbria donde – nel medio evo - pare provenisse la maggior parte di coloro che nelle fiere vendevano unguenti miracolosi, penso sia da far risalire al latino gerrae= ciarle; da gerrae si ebbe gerrones e da questi gerretanus donde il toscano cerretano che poi è l’odierno ciurmatore,e fig.: ciarlatano, truffatore, imbroglione. insomma uomo volgare accreditato dal popolino di compiere miracoli;guaritore e simili.
Torniamo alla voce ‘nciarmo che come il verbo ‘nciarmà di cui pare esser deverbale è etimologicamente dal latino in (illativo)+ carmen, ma attraverso il francese charme = magía a sua volta come il verbo charmer derivati dal basso latino carminare (in latino carmen è la formula magica); va da sé che tutte le voci derivate o collegate, ànno il medesimo etimo.
Illustriamo ora l’espressione : Rompere ‘o ‘nciarmo; essa, come detto, aveva numerosi significati tra i quali: Dar principio a qualcosa, disporsi all’azione, ma pure: riappacificarsi etc. Esaminiamo i varî significati:
-Principiare alcunché: in effetti chi inizia un’azione o vi si dispone tenta di venir fuori da una sorta di stallo in cui si trovi, quello stallo in cui forse sia stato costretto da un ipotizzato sortilegio e di cui ci si libera rompendolo, spezzandolo;
Il medesimo ipotizzato sortilegio, quando non addirittura una macroscopica fattura (che è dal neutro plurale, ma inteso femminile, latino factura costruita sul p.p. factus di facere e vale manipolazione, stregoneria, malefizio, incantesimo) può aver indotto o prodotto contrasto tra due innamorati che quando si riappacificassero, romperebbero, spezzerebbero detta fattura e quindi la riappacificazione si sostanzierebbe nel rompere ‘o ‘nciarmo.
Raffaele Bracale
venerdì 28 marzo 2008
- Tu muscio-muscio siente e frusta llà, no! etc.
- Tu muscio-muscio siente e frusta llà, no!
Letteralmente: Tu senti il richiamo(l'invito)e l'allontanamento no. Il proverbio si riferisce a quelle persone che dalla vita si attendono solo fatti o gesti favorevoli e fanno le viste di rifiutare quelli sfavorevoli comportandosi come gatti che accorrono al richiamo per ricevere il cibo, ma scacciati, non vogliono allontanarsi; comportamento tipicamente fanciullesco che rifiuta di accettare il fatto che la vita è una continua alternanza di dolce ed amaro e tutto deve essere accettato, il termine frusta llà discende dal greco froutha-froutha col medesimo significato di :allontanati, sparisci.
- Ma te fosse jiuto 'o lliccese 'ncapo?
Letteralmente: ma ti fosse andato il leccese in testa? Id est: fossi impazzito? Avessi perso l'uso della ragione? Icastica espressione che, a Napoli, viene usata nei confronti di chi, senza motivo, si comporti irrazionalmente. Il leccese dell'espressione non è - chiaramente - un abitante di Lecce, ma un tipo di famoso tabacco da fiuto, prodotto, temporibus illis, nei pressi del capoluogo pugliese; l'espressione paventa il fatto che il tabacco fiutato possa- non si sa bene come - aver raggiunto, attraverso le coani nasali il cervello e leso così le facoltà raziocinanti del... fiutatore.
Letteralmente: Tu senti il richiamo(l'invito)e l'allontanamento no. Il proverbio si riferisce a quelle persone che dalla vita si attendono solo fatti o gesti favorevoli e fanno le viste di rifiutare quelli sfavorevoli comportandosi come gatti che accorrono al richiamo per ricevere il cibo, ma scacciati, non vogliono allontanarsi; comportamento tipicamente fanciullesco che rifiuta di accettare il fatto che la vita è una continua alternanza di dolce ed amaro e tutto deve essere accettato, il termine frusta llà discende dal greco froutha-froutha col medesimo significato di :allontanati, sparisci.
- Ma te fosse jiuto 'o lliccese 'ncapo?
Letteralmente: ma ti fosse andato il leccese in testa? Id est: fossi impazzito? Avessi perso l'uso della ragione? Icastica espressione che, a Napoli, viene usata nei confronti di chi, senza motivo, si comporti irrazionalmente. Il leccese dell'espressione non è - chiaramente - un abitante di Lecce, ma un tipo di famoso tabacco da fiuto, prodotto, temporibus illis, nei pressi del capoluogo pugliese; l'espressione paventa il fatto che il tabacco fiutato possa- non si sa bene come - aver raggiunto, attraverso le coani nasali il cervello e leso così le facoltà raziocinanti del... fiutatore.
- Jí zumpanno asteche e lavatore etc.
- Jí zumpanno asteche e lavatore.
Letteralmente: andar saltando per terrazzi e lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in alto (asteche=lastrici solai,terrazzi) ed in basso (i lavatoi erano olim ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare.
- Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.
Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso, giacché tu non hai nè la forza, nè la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle. La frase viene usata a commento delle azioni iniziate da chi sia ritenuto inetto al punto da non poter portare al termine ciò che intraprende.
- 'O cucchiere 'e piazza: te piglia cu 'o 'ccellenza e te lassa cu 'o chi t'è mmuorto.
Letteralmente: il vetturino da nolo: ti accoglie con l'eccellenza e ti congeda bestemmiandoti i morti.Il motto compendia una situazione nella quale chi vuole ottenere qualcosa, in principio si profonde in ossequi e salamelecchi esagerati ed alla fine sfoga il proprio livore represso, come i vetturini di nolo adusi a mille querimonie per attirare i clienti, ma poi - a fine corsa - pronti a riversare sul medesimo cliente immani contumelie, in ispecie allorché il cliente nello smontare dalla carrozza questioni sul prezzo della corsa, o - peggio ancora - non lasci al vetturino una congrua mancia.
Letteralmente: andar saltando per terrazzi e lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in alto (asteche=lastrici solai,terrazzi) ed in basso (i lavatoi erano olim ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare.
- Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.
Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso, giacché tu non hai nè la forza, nè la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle. La frase viene usata a commento delle azioni iniziate da chi sia ritenuto inetto al punto da non poter portare al termine ciò che intraprende.
- 'O cucchiere 'e piazza: te piglia cu 'o 'ccellenza e te lassa cu 'o chi t'è mmuorto.
Letteralmente: il vetturino da nolo: ti accoglie con l'eccellenza e ti congeda bestemmiandoti i morti.Il motto compendia una situazione nella quale chi vuole ottenere qualcosa, in principio si profonde in ossequi e salamelecchi esagerati ed alla fine sfoga il proprio livore represso, come i vetturini di nolo adusi a mille querimonie per attirare i clienti, ma poi - a fine corsa - pronti a riversare sul medesimo cliente immani contumelie, in ispecie allorché il cliente nello smontare dalla carrozza questioni sul prezzo della corsa, o - peggio ancora - non lasci al vetturino una congrua mancia.
giovedì 27 marzo 2008
JÍ TRUVANNO SCESCÉ
JÍ TRUVANNO SCESCÉ
Espressione intraducibile ad litteram con la quale ci si riferisce a chi, in ogni occasione, cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo dichiarato di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare) Probabilmente, durante la dominazione murattiana un milite francese (con i francesi – è notorio – i napoletani, ignari della lingua transalpina, poco si intendevano, al segno che altrove per indicare che qualcuno faccia le viste di non capire (soprattutto per non eseguire un ordine o accondiscendere ad una richiesta si usa dire che fa ‘o francese) si fermò a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usò una frase contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).
BRAK
Espressione intraducibile ad litteram con la quale ci si riferisce a chi, in ogni occasione, cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo dichiarato di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare) Probabilmente, durante la dominazione murattiana un milite francese (con i francesi – è notorio – i napoletani, ignari della lingua transalpina, poco si intendevano, al segno che altrove per indicare che qualcuno faccia le viste di non capire (soprattutto per non eseguire un ordine o accondiscendere ad una richiesta si usa dire che fa ‘o francese) si fermò a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usò una frase contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).
BRAK
VARIE
1Stà a ll'abblativo. Letteralmente: stare, essere all'ablativo. Id est: essere alla fine, alla conclusione e, per traslato, trovarsi nella condizione estrema di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'abblativo della locuzione è appunto l'ablativo, cioè l’ultimo caso delle declinazioni latine, caso che indica il luogo in cui o da cui avviene/proviene l'azione, lo strumento o il modo dell'azione, la causa ecc.; la denominazione di ablativo è stata estesa poi anche ai casi terminali delle declinazioni di altre lingue indoeuropee: ed ambedue le voci derivano dal lat. ablativu(m) (casum), deriv. di ablatus, part. pass. di aufe°rre 'portare via'; nella voce napoletana abbiamo il tipico raddoppiamento rafforzativo popolare della labiale esplosiva b;
stà = stare, trovarsi, essere voce verbale infinito di stare/stà con etimo dritto per dritto dal tardo latino stare =, fermarsi interrompendo un movimento; stare, trovarsi, essere;
2 Essere muro e mmuro cu 'a Vicaria. Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti e puniti.
La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco.
muro e mmuro letteralmente è muro con muro quasi muro addossato a muro e dunque per traslato adiacente, collegato, unito espressione che si usa non solo in senso reale architettonico, di muro costruito addossato ad altro, ma anche traslato riferito a cose e/o persone che si trovino a stare anche solo idealmente, connessi e legati con loro omologhi; la voce muro è dal lat. muru(m) da un antico moiru(m) o moeru(m) da collegarsi ad una radice moe – mu di moenia= mura di cinta della città contrapposto a paries= pareti o muri della casa e munire=fortificare.
3 Cu 'o tiempo e cu 'a paglia... Per esteso e completo il proverbio recita: Cu ‘o tiempo e cu ‘a paglia, ammaturano ‘e nespole.
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, ad attendere, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o nespole coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti, ad un dipresso ciò che avviene per le famose mele annurche che raccolte non ancòra completamente mature vengono distese su paglia e periodicamente girate fino a che non acquistano il tipico colore rosso cupo indice del completamento della maturazione che rendono annurco=indulcato il frutto.
tiempo= tempo dal lat. tempus con tipica dittongazione popolare nella sillaba d’avvio ie paglia = paglia, l'insieme degli steli disseccati dei cereali già mietuti e battuti con etimo dal basso lat.palia(m) o palea(m), ma nel napoletano forse per il tramite del catalano palla (cfr. pronunzia paglia)
ammaturano= maturano voce verbale (3° pers. plur.ind. pres.) dell’infinito ammaturà rafforzativo di maturà che è dal lat. maturare, deriv. di maturus 'maturo';
nespole = nespole sost. femm. plurale di nespola tipico frutto del nespolo (arbusto con foglie ellittiche, fiori bianchi e frutti globosi di color ocra, che diventano commestibili solo staccati dall'albero e lasciati maturar sulla paglia) (fam. Rosacee) l’etimo è dal lat. mespilum, dal gr. méspilon con conversione popolare della originale m etimologica in n e cambio di genere intendendo femminile il neutro plurale mespila;
annurca tipica varietà di mela campana che al massimo della maturazione (che avviene su approntati lettucci di paglia su cui vengono distese le raccolte ancòra semiacerbe e periodicamente girate a mano fino a che non maturino assumendo un tipico colore rosso cupo ma brillante, mentre la polpa soda e croccante perde un originario sapore aspro e si addolcisce: dal verbo latino indulcare= addolcire deriva la voce annurca secondo il percorso indulcata>annulcata>annurca(ta), quantunque qualcuno un po’ troppo fantasiosamente ricollegandosi ad uno scritto (?) di Plinio il vecchio parli di una orcola (mela coltivata nell’agro puteolano nella zona dell’ Orco/Solfatara (?) da orcola si sarebbe avuto anorcola ed annorcola ma nessuno spiega la via semantica ed il perché di tale trasformazione, dimostrando solo che alla fantasia non v’è limite!
5 Stammo all'evera. Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è più niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera più estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.
6 Hê sciupato ‘nu Sangradale. Letteralmente: ÀI sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria più cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituì la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri.
7 Fatte capitano e magne galline. Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione ha pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa le viste di essere un capitano e godine i benefici.
8 Chi nasce tunno nun pò murì quatro. Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
9 A chi parla areto, 'o culo le risponne. Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salve di peti.
10 A craje a craje comme a' curnacchia. Letteralmente: a crai, a crai come una cornacchia. La locuzione, che si usa per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso della cornacchia e la parola latina cras che in napoletano suona craje e che significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non ha seria intenzione di lavorare .
11 Chello ca nun se fa nun se sape. Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.
12 'O pesce gruosso, magna 'o piccerillo. Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est più generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande.
13 'O puorco se 'ngrassa pe ne fà sacicce. Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
14 Jì mettenno 'a fune 'e notte. Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente così oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
15 Se so' rutte 'e tiempe, bagnajuò. Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai più clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione la si usa quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
16 Parla quanno piscia ‘a gallina! Letteralmente: parla quando orina la gallina. Così, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, magari gratuite cattiverie. Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che debba tacere sempre.
17 Puozze passà p''a Loggia. Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). E' come a dire: Possa tu morire. Per la zona della Loggia di Genova, infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei diretti al Camposanto.
18 Core cuntento a' Loggia. Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Così il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi.
19 Cesso a vviento! Letteralmente: gabinetto aperto. Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente che viene equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti, per consentire un agevole ricambio d'aria, sia in alto che in basso.
20 'A malora 'e Chiaja. Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Così a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri più eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un borgo molto prossimo al mare ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleodoranti dei grossi pitali nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora.
21 Farne una cchiù 'e Catuccio. Letteralmente: compierne una più di Catuccio. Id est: farne di tutti i colori, compiere infamie e scelleratezze tali da sorpassare quelle compiute in Francia dal settecentesco Louis Philippe Bourguignon celebre brigante soprannominato Cartouche corrotto in napoletano con il termine Catuccio. La locuzione viene usata per bollare il comportamento non raccomandabile di chi agisce procurando danno a terzi, ma iperbolicamente anche per sottolineare il comportamento un po' troppo vivace dei ragazzi.
22 Essere passata 'e còveta o 'e cuttura. Letteralmente: essere passata di raccolta cioè già sfiorita sull'albero perché abbondandemente maturata oppure essere oramai passata di cottura cioè bruciacchiata perchè troppo cotta. Ambedue le espressioni fanno furbescamente riferimento ad una donna piuttosto in avanti con gli anni perciò sfiorita e non più degna di attenzioni galanti alla medesima stregua o di un frutto lasciato sul ramo troppo tempo dopo la maturazione o come un cibo lasciato sul fuoco oltre il tempo necessario, facendolo quasi bruciare.
23 Quanno 'o diavulo t'accarezza è signo ca vò ll'anema. Letteralmente : quando il diavolo ti carezza, significa che vuole l'anima. Lo si afferma a commento delle azioni degli adulatori o di coloro che godono di cattiva fame; se uno di costoro ti blandisce, offrendoti servigi o opere gratuite, bisogna non fidarsi, giacché nel loro operare c'è nascosta la richiesta di qualcosa molto più importante della prestazione offerta.
24 E' gghiuto 'o ccaso 'a sotto e 'e maccarune 'a coppa. Letteralmente: è finito il cacio sotto ed i maccheroni sopra. La locuzione la si usa per commentare con disappunto una situazione che non si sia evoluta secondo i principi logici ed esatti e codificati. In effetti, secondo logica si vorrebbe che il formaggio guarnisse dal di sopra un piatto di maccheroni, non che facesse loro da strame. Id est: maledizione! Il mondo va alla rovescia!
25 Doppo muorto, buzzarato. Letteralmente: dopo morto, buggerato; dopo aver subito la morte, sopportare anche il vilipendio. La locuzione corrisponde, anche se in maniera un po' più dura al toscano: il danno e la beffa. Essa fu usata nel corposo linguaggio partenopeo da un napoletano che assistette al consueto percuotimento del capo del defunto papa PIO XII, con il previsto martelletto d'argento operato dal cardinale camerlengo, per accertarsi che il pontefice non reagisse dimostrando così d'essere morto.
26 Troppi galle a cantà nun schiara maje juorne. Letteralmente: troppi galli a cantare, non spunta mai il giorno. Id est: quando ci sono troppe persone ad esprimere un'opinione, un parere, non si arriva mai ad una conclusione; ed in effetti tenendo presente l'antico adagio latino: tot capita, tot sententiae: tante teste, tanti pareri, sarà ben difficile, anzi sarà impossibile trovarne di collimanti per modo che si possa finalmente giungere ad una conclusione.
27 Nun c'è prereca senza sant' Austino. Letteralmente: Non v'è predica senza sant'Agostino. Come si sa, sant'Agostino, vescovo d' Ippona, è uno dei più famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non usi citare gli scritti del santo vescovo. L'espressione in epigrafe viene usata a mo' di risentimento da chi si senta chiamato in causa - soprattutto ingiustamente - e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò non desiderate.
28 'A malanova ll'accumpagna 'o viento. Letteralmente: la cattiva notizia viaggia sulle ali del vento. Id est: le cattive notizie ti raggiungono rapidamente, spinte come sono dal vento; per cui il popolo è solito affermare: nessuna nuova, buona nuova, poichè sono le cattive notizie a giungere sospinte dal vento; se non ne giungono, significa che si tratta di buone notizie che - per solito - non viaggiano col vento.
29 E bravo a 'o fesso! Letteralmente: E bravo allo sciocco! La frase in epigrafe la si usa sempre quando si voglia ironicamente plaudire all'operato di chi pretende da saccente e supponente, con la propria azione di dimostrare la propria valentia nei confronti di qualcuno a cui non riesca di agire alla medesima stregua. Più chiaramente, la locuzione è usata a mo' di presa in giro di coloro che fanno le viste di ritenersi superiori agli altri e in realtà se lo sono non è per maggiori capacità fisiche e/o morali, ma solo per fortunose o ovvie ragioni. Per meglio chiarire spieghiamo con un esempio. Poniamo vi sia un uomo infortunato alle gambe che abbia difficoltà ad ascendere una scala a pioli. Si presenta uno sciocco che, essendo pienamente integro nella sua salute, con irrisoria facilità ascende la scala e commenta con aria saccente: "Visto come è facile?". La risposta che si merita codesto sciocco è quella in epigrafe, che nel caso dell'esempio starebbe a significare: Sei così stupido da non renderti conto che se anche io fossi nella mia integrità fisica, non avrei difficoltà a fare ciò che hai fatto tu!
64 Frijere 'o pesce cu ll' acqua. Letteralmente: friggere il pesce con l'acqua. La locuzione stigmatizza il comportamento insulso o quanto meno eccessivamente parsimonioso di chi tenti di raggiungere un risultato apprezzabile senza averne i mezzi occorrenti e necessari in mancanza dei quali si va certamente incontro a risultati errati o di risibile efficacia.
65 Meglio 'na mala jurnata, ca 'na mala vicina. Meglio una cattiva giornata che una cattiva vicina. Ed il perché è facile da comprendersi: una giornata cattiva, prima o poi passa e con essa i suoi effetti negativi, ma una cattiva vicina, perdurante la sua stabile vicinanza, di giornate cattive ne può procurare parecchie...
66 S' è fatta notte a 'o pagliaro. Letteralmente: E' calata la notte sul fienile. La locuzione viene usata a mo' di incitamento all'operosità verso colui che procrastini sine die il compimento di un lavoro per il quale - magari - ha già ricevuto la propria mercede; tanto è vero che si suole commentare: chi pava primma è male servuto (chi paga in anticipo è malamente servito...)
67 Quanto è bbello e 'o patrone s''o venne! Letteralmente: Quanto è bello, eppure il padrone lo vende. Era la frase che a mo' di imbonimento pronunciava un robivecchi portando in giro, per venderla al migliore offerente, la statua di un santo presentata sotto una campana di vetro. Con tale espressione ci si prende gioco di chi si pavoneggia, millantando una bellezza fisica che non corrisponde assolutamente alla realtà.
68 Si 'o gallo cacava, Cocò nun mureva. Letteralmente: Se il gallo avesse defecato, Cocò non sarebbe morto. La locuzione la si oppone sarcasticamente, a chi si ostina a mettere in relazione di causa ed effetto due situazioni chiaramente incongruenti, a chi insomma continui a fare ragionamenti privi di conseguenzialità logica.
69 Ha perzo 'e vuoje e va cercanno 'e ccorna. Letteralmente: Ha perduto i buoi e va in cerca delle loro corna. Lo si dice ironicamente di chi, avendo - per propria insipienza - perduto cose di valore, ne cerca piccole vestigia, adducendo sciocche rimostranze e pretestuose argomentazioni.
70 Pure ll'onore so' castighe 'e Ddio. Letteralmente: Anche gli onori son castighi di Dio. Id est: anche agli onori si accompagnano gli òneri; nessun posto di preminenza è scevro di fastidiose incombenze. La locuzione ricorda l'antico brocardo latino: Ubi commoda, ibi et incommoda.
71 Madonna mia fa' stà bbuono a Nirone Letteralmente: Madonna mia, mantieni in salute Nerone. E' l'invocazione scherzosa rivolta dal popolo alla Madre di Dio affinché protegga la salute dell'uomo forte, di colui che all'occorrenza possa intervenire per aggiustare le faccende quotidiane. Nella locuzione c'è la chiara indicazione che il popolo preferisce l'uomo forte e deciso, piuttosto che l'imbelle democratico.
72 Pe ttre ccalle 'e sale, se perde 'a menesta. Letteralmente: per pochi soldi di sale si perde la minestra. La locuzione la si usa quando si voglia commentare la sventatezza di qualcuno che per non aver voluto usare una piccola diligenza nel condurre a termine un'operazione, ha prodotto danni incalcolabili, tali da nuocere alla stessa conclusione dell'operazione. 'O treccalle era la più piccola moneta divisionale napoletana pari a stento al mezzo tornese ed aveva un limitatissimo potere d'acquisto, per cui era da stupidi rischiare di rovinare un'intera minestra per lesinare sull'impiego di trecalli per acquistare il necessario sale.
73 S'è aunito 'o strummolo a tiriteppete e 'a funicella corta. Letteralmente: si è unita la trottolina scentrata e lo spago corto. Id est: hanno concorso due fattori altamente negativi per il raggiungimento di uno scopo prefisso, come nel caso in epigrafe la trottolina di legno non esattamente bilanciata e lo spago troppo corto e perciò inadatto a poterle imprimere il classico movimento rotatorio.
-74 Ll'aucielle s'apparono 'ncielo e 'e chiaveche 'nterra. Letteralmente: gli uccelli si accoppiano in cielo e gli uomini spregevoli in terra. E' la trasposizione in chiave rappresentativa del latino: similis cum similibus, con l'aggravante della spregevolezza degli individui che fanno comunione sulla terra. Il termine: chiaveche è un aggettivo sostantivato, formato volgendo al maschile plurale il termine originario: chiaveca che è la cloaca, la fogna; tenendo ciò presente si può capire quale valenza morale abbiano per i napoletani, gli uomini detti chiaveche.
-75 'E ciucce s'appiccecano e 'e varrile se scassano. Letteralmente: Gli asini litigano e i barili si rompono. Id est: i comandanti litigano e le conseguenze le sottortano i soldati. Così va il mondo: la peggio l'hanno sempre i più deboli, anche quando non sono direttamente responsabili d'alcunché. La cultura popolare napoletana ha tradotto icasticamente il verso oraziano: quidquid delirant reges, plectuntur Achivi (Qualsiasi delirio dei re, lo piangano gli Achei...).
BRAK
stà = stare, trovarsi, essere voce verbale infinito di stare/stà con etimo dritto per dritto dal tardo latino stare =, fermarsi interrompendo un movimento; stare, trovarsi, essere;
2 Essere muro e mmuro cu 'a Vicaria. Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti e puniti.
La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco.
muro e mmuro letteralmente è muro con muro quasi muro addossato a muro e dunque per traslato adiacente, collegato, unito espressione che si usa non solo in senso reale architettonico, di muro costruito addossato ad altro, ma anche traslato riferito a cose e/o persone che si trovino a stare anche solo idealmente, connessi e legati con loro omologhi; la voce muro è dal lat. muru(m) da un antico moiru(m) o moeru(m) da collegarsi ad una radice moe – mu di moenia= mura di cinta della città contrapposto a paries= pareti o muri della casa e munire=fortificare.
3 Cu 'o tiempo e cu 'a paglia... Per esteso e completo il proverbio recita: Cu ‘o tiempo e cu ‘a paglia, ammaturano ‘e nespole.
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, ad attendere, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o nespole coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti, ad un dipresso ciò che avviene per le famose mele annurche che raccolte non ancòra completamente mature vengono distese su paglia e periodicamente girate fino a che non acquistano il tipico colore rosso cupo indice del completamento della maturazione che rendono annurco=indulcato il frutto.
tiempo= tempo dal lat. tempus con tipica dittongazione popolare nella sillaba d’avvio ie
ammaturano= maturano voce verbale (3° pers. plur.ind. pres.) dell’infinito ammaturà rafforzativo di maturà che è dal lat. maturare, deriv. di maturus 'maturo';
nespole = nespole sost. femm. plurale di nespola tipico frutto del nespolo (arbusto con foglie ellittiche, fiori bianchi e frutti globosi di color ocra, che diventano commestibili solo staccati dall'albero e lasciati maturar sulla paglia) (fam. Rosacee) l’etimo è dal lat. mespilum, dal gr. méspilon con conversione popolare della originale m etimologica in n e cambio di genere intendendo femminile il neutro plurale mespila;
annurca tipica varietà di mela campana che al massimo della maturazione (che avviene su approntati lettucci di paglia su cui vengono distese le raccolte ancòra semiacerbe e periodicamente girate a mano fino a che non maturino assumendo un tipico colore rosso cupo ma brillante, mentre la polpa soda e croccante perde un originario sapore aspro e si addolcisce: dal verbo latino indulcare= addolcire deriva la voce annurca secondo il percorso indulcata>annulcata>annurca(ta), quantunque qualcuno un po’ troppo fantasiosamente ricollegandosi ad uno scritto (?) di Plinio il vecchio parli di una orcola (mela coltivata nell’agro puteolano nella zona dell’ Orco/Solfatara (?) da orcola si sarebbe avuto anorcola ed annorcola ma nessuno spiega la via semantica ed il perché di tale trasformazione, dimostrando solo che alla fantasia non v’è limite!
5 Stammo all'evera. Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è più niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera più estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.
6 Hê sciupato ‘nu Sangradale. Letteralmente: ÀI sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria più cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituì la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri.
7 Fatte capitano e magne galline. Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione ha pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa le viste di essere un capitano e godine i benefici.
8 Chi nasce tunno nun pò murì quatro. Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
9 A chi parla areto, 'o culo le risponne. Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salve di peti.
10 A craje a craje comme a' curnacchia. Letteralmente: a crai, a crai come una cornacchia. La locuzione, che si usa per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso della cornacchia e la parola latina cras che in napoletano suona craje e che significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non ha seria intenzione di lavorare .
11 Chello ca nun se fa nun se sape. Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.
12 'O pesce gruosso, magna 'o piccerillo. Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est più generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande.
13 'O puorco se 'ngrassa pe ne fà sacicce. Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
14 Jì mettenno 'a fune 'e notte. Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente così oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
15 Se so' rutte 'e tiempe, bagnajuò. Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai più clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione la si usa quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
16 Parla quanno piscia ‘a gallina! Letteralmente: parla quando orina la gallina. Così, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, magari gratuite cattiverie. Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che debba tacere sempre.
17 Puozze passà p''a Loggia. Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). E' come a dire: Possa tu morire. Per la zona della Loggia di Genova, infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei diretti al Camposanto.
18 Core cuntento a' Loggia. Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Così il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi.
19 Cesso a vviento! Letteralmente: gabinetto aperto. Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente che viene equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti, per consentire un agevole ricambio d'aria, sia in alto che in basso.
20 'A malora 'e Chiaja. Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Così a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri più eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un borgo molto prossimo al mare ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleodoranti dei grossi pitali nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora.
21 Farne una cchiù 'e Catuccio. Letteralmente: compierne una più di Catuccio. Id est: farne di tutti i colori, compiere infamie e scelleratezze tali da sorpassare quelle compiute in Francia dal settecentesco Louis Philippe Bourguignon celebre brigante soprannominato Cartouche corrotto in napoletano con il termine Catuccio. La locuzione viene usata per bollare il comportamento non raccomandabile di chi agisce procurando danno a terzi, ma iperbolicamente anche per sottolineare il comportamento un po' troppo vivace dei ragazzi.
22 Essere passata 'e còveta o 'e cuttura. Letteralmente: essere passata di raccolta cioè già sfiorita sull'albero perché abbondandemente maturata oppure essere oramai passata di cottura cioè bruciacchiata perchè troppo cotta. Ambedue le espressioni fanno furbescamente riferimento ad una donna piuttosto in avanti con gli anni perciò sfiorita e non più degna di attenzioni galanti alla medesima stregua o di un frutto lasciato sul ramo troppo tempo dopo la maturazione o come un cibo lasciato sul fuoco oltre il tempo necessario, facendolo quasi bruciare.
23 Quanno 'o diavulo t'accarezza è signo ca vò ll'anema. Letteralmente : quando il diavolo ti carezza, significa che vuole l'anima. Lo si afferma a commento delle azioni degli adulatori o di coloro che godono di cattiva fame; se uno di costoro ti blandisce, offrendoti servigi o opere gratuite, bisogna non fidarsi, giacché nel loro operare c'è nascosta la richiesta di qualcosa molto più importante della prestazione offerta.
24 E' gghiuto 'o ccaso 'a sotto e 'e maccarune 'a coppa. Letteralmente: è finito il cacio sotto ed i maccheroni sopra. La locuzione la si usa per commentare con disappunto una situazione che non si sia evoluta secondo i principi logici ed esatti e codificati. In effetti, secondo logica si vorrebbe che il formaggio guarnisse dal di sopra un piatto di maccheroni, non che facesse loro da strame. Id est: maledizione! Il mondo va alla rovescia!
25 Doppo muorto, buzzarato. Letteralmente: dopo morto, buggerato; dopo aver subito la morte, sopportare anche il vilipendio. La locuzione corrisponde, anche se in maniera un po' più dura al toscano: il danno e la beffa. Essa fu usata nel corposo linguaggio partenopeo da un napoletano che assistette al consueto percuotimento del capo del defunto papa PIO XII, con il previsto martelletto d'argento operato dal cardinale camerlengo, per accertarsi che il pontefice non reagisse dimostrando così d'essere morto.
26 Troppi galle a cantà nun schiara maje juorne. Letteralmente: troppi galli a cantare, non spunta mai il giorno. Id est: quando ci sono troppe persone ad esprimere un'opinione, un parere, non si arriva mai ad una conclusione; ed in effetti tenendo presente l'antico adagio latino: tot capita, tot sententiae: tante teste, tanti pareri, sarà ben difficile, anzi sarà impossibile trovarne di collimanti per modo che si possa finalmente giungere ad una conclusione.
27 Nun c'è prereca senza sant' Austino. Letteralmente: Non v'è predica senza sant'Agostino. Come si sa, sant'Agostino, vescovo d' Ippona, è uno dei più famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non usi citare gli scritti del santo vescovo. L'espressione in epigrafe viene usata a mo' di risentimento da chi si senta chiamato in causa - soprattutto ingiustamente - e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò non desiderate.
28 'A malanova ll'accumpagna 'o viento. Letteralmente: la cattiva notizia viaggia sulle ali del vento. Id est: le cattive notizie ti raggiungono rapidamente, spinte come sono dal vento; per cui il popolo è solito affermare: nessuna nuova, buona nuova, poichè sono le cattive notizie a giungere sospinte dal vento; se non ne giungono, significa che si tratta di buone notizie che - per solito - non viaggiano col vento.
29 E bravo a 'o fesso! Letteralmente: E bravo allo sciocco! La frase in epigrafe la si usa sempre quando si voglia ironicamente plaudire all'operato di chi pretende da saccente e supponente, con la propria azione di dimostrare la propria valentia nei confronti di qualcuno a cui non riesca di agire alla medesima stregua. Più chiaramente, la locuzione è usata a mo' di presa in giro di coloro che fanno le viste di ritenersi superiori agli altri e in realtà se lo sono non è per maggiori capacità fisiche e/o morali, ma solo per fortunose o ovvie ragioni. Per meglio chiarire spieghiamo con un esempio. Poniamo vi sia un uomo infortunato alle gambe che abbia difficoltà ad ascendere una scala a pioli. Si presenta uno sciocco che, essendo pienamente integro nella sua salute, con irrisoria facilità ascende la scala e commenta con aria saccente: "Visto come è facile?". La risposta che si merita codesto sciocco è quella in epigrafe, che nel caso dell'esempio starebbe a significare: Sei così stupido da non renderti conto che se anche io fossi nella mia integrità fisica, non avrei difficoltà a fare ciò che hai fatto tu!
64 Frijere 'o pesce cu ll' acqua. Letteralmente: friggere il pesce con l'acqua. La locuzione stigmatizza il comportamento insulso o quanto meno eccessivamente parsimonioso di chi tenti di raggiungere un risultato apprezzabile senza averne i mezzi occorrenti e necessari in mancanza dei quali si va certamente incontro a risultati errati o di risibile efficacia.
65 Meglio 'na mala jurnata, ca 'na mala vicina. Meglio una cattiva giornata che una cattiva vicina. Ed il perché è facile da comprendersi: una giornata cattiva, prima o poi passa e con essa i suoi effetti negativi, ma una cattiva vicina, perdurante la sua stabile vicinanza, di giornate cattive ne può procurare parecchie...
66 S' è fatta notte a 'o pagliaro. Letteralmente: E' calata la notte sul fienile. La locuzione viene usata a mo' di incitamento all'operosità verso colui che procrastini sine die il compimento di un lavoro per il quale - magari - ha già ricevuto la propria mercede; tanto è vero che si suole commentare: chi pava primma è male servuto (chi paga in anticipo è malamente servito...)
67 Quanto è bbello e 'o patrone s''o venne! Letteralmente: Quanto è bello, eppure il padrone lo vende. Era la frase che a mo' di imbonimento pronunciava un robivecchi portando in giro, per venderla al migliore offerente, la statua di un santo presentata sotto una campana di vetro. Con tale espressione ci si prende gioco di chi si pavoneggia, millantando una bellezza fisica che non corrisponde assolutamente alla realtà.
68 Si 'o gallo cacava, Cocò nun mureva. Letteralmente: Se il gallo avesse defecato, Cocò non sarebbe morto. La locuzione la si oppone sarcasticamente, a chi si ostina a mettere in relazione di causa ed effetto due situazioni chiaramente incongruenti, a chi insomma continui a fare ragionamenti privi di conseguenzialità logica.
69 Ha perzo 'e vuoje e va cercanno 'e ccorna. Letteralmente: Ha perduto i buoi e va in cerca delle loro corna. Lo si dice ironicamente di chi, avendo - per propria insipienza - perduto cose di valore, ne cerca piccole vestigia, adducendo sciocche rimostranze e pretestuose argomentazioni.
70 Pure ll'onore so' castighe 'e Ddio. Letteralmente: Anche gli onori son castighi di Dio. Id est: anche agli onori si accompagnano gli òneri; nessun posto di preminenza è scevro di fastidiose incombenze. La locuzione ricorda l'antico brocardo latino: Ubi commoda, ibi et incommoda.
71 Madonna mia fa' stà bbuono a Nirone Letteralmente: Madonna mia, mantieni in salute Nerone. E' l'invocazione scherzosa rivolta dal popolo alla Madre di Dio affinché protegga la salute dell'uomo forte, di colui che all'occorrenza possa intervenire per aggiustare le faccende quotidiane. Nella locuzione c'è la chiara indicazione che il popolo preferisce l'uomo forte e deciso, piuttosto che l'imbelle democratico.
72 Pe ttre ccalle 'e sale, se perde 'a menesta. Letteralmente: per pochi soldi di sale si perde la minestra. La locuzione la si usa quando si voglia commentare la sventatezza di qualcuno che per non aver voluto usare una piccola diligenza nel condurre a termine un'operazione, ha prodotto danni incalcolabili, tali da nuocere alla stessa conclusione dell'operazione. 'O treccalle era la più piccola moneta divisionale napoletana pari a stento al mezzo tornese ed aveva un limitatissimo potere d'acquisto, per cui era da stupidi rischiare di rovinare un'intera minestra per lesinare sull'impiego di trecalli per acquistare il necessario sale.
73 S'è aunito 'o strummolo a tiriteppete e 'a funicella corta. Letteralmente: si è unita la trottolina scentrata e lo spago corto. Id est: hanno concorso due fattori altamente negativi per il raggiungimento di uno scopo prefisso, come nel caso in epigrafe la trottolina di legno non esattamente bilanciata e lo spago troppo corto e perciò inadatto a poterle imprimere il classico movimento rotatorio.
-74 Ll'aucielle s'apparono 'ncielo e 'e chiaveche 'nterra. Letteralmente: gli uccelli si accoppiano in cielo e gli uomini spregevoli in terra. E' la trasposizione in chiave rappresentativa del latino: similis cum similibus, con l'aggravante della spregevolezza degli individui che fanno comunione sulla terra. Il termine: chiaveche è un aggettivo sostantivato, formato volgendo al maschile plurale il termine originario: chiaveca che è la cloaca, la fogna; tenendo ciò presente si può capire quale valenza morale abbiano per i napoletani, gli uomini detti chiaveche.
-75 'E ciucce s'appiccecano e 'e varrile se scassano. Letteralmente: Gli asini litigano e i barili si rompono. Id est: i comandanti litigano e le conseguenze le sottortano i soldati. Così va il mondo: la peggio l'hanno sempre i più deboli, anche quando non sono direttamente responsabili d'alcunché. La cultura popolare napoletana ha tradotto icasticamente il verso oraziano: quidquid delirant reges, plectuntur Achivi (Qualsiasi delirio dei re, lo piangano gli Achei...).
BRAK
'E denare so' comm'ê chiattille etc.
'E denare so' comm'ê chiattille: s'attaccano ê cugliune. Letteralmente: i soldi son come le piattole: si attaccano ai testicoli. Nel crudo, ma espressivo adagio partenopeo il termine cugliune viene usato per intendere propriamente i testicoli, e per traslato, gli sciocchi e sprovveduti cioé quelli che annettono così tanta importanza al danaro da legarvisi saldamente.
denare= soldi; plurale di denaro dal lat. denariu(m) (nummum), propr. '(moneta) da dieci', deriv. di dìni 'a dieci a dieci';
chiattille plurale di chiattillo = piattola pidocchio parassita dell'uomo, che si annida soprattutto nella regione inguinale; sia per l’italiano che per il napoletano la derivazione è dal lat. volg. *blattula(m)/*plattula(m), dim. di blatta 'tignola', incrociato con l'agg. piatto, a causa della forma schiacciata dell'insetto; nel napoletano si è verificato il consueto passaggio di bl/pl a chi;
cugliune plurale metafonetico di cuglione= testicolo e figuratamente, persona imbecille, minchione derivato dal tardo lat. coleone(m).
Raffaele Bracale
denare= soldi; plurale di denaro dal lat. denariu(m) (nummum), propr. '(moneta) da dieci', deriv. di dìni 'a dieci a dieci';
chiattille plurale di chiattillo = piattola pidocchio parassita dell'uomo, che si annida soprattutto nella regione inguinale; sia per l’italiano che per il napoletano la derivazione è dal lat. volg. *blattula(m)/*plattula(m), dim. di blatta 'tignola', incrociato con l'agg. piatto, a causa della forma schiacciata dell'insetto; nel napoletano si è verificato il consueto passaggio di bl/pl a chi;
cugliune plurale metafonetico di cuglione= testicolo e figuratamente, persona imbecille, minchione derivato dal tardo lat. coleone(m).
Raffaele Bracale
Addò nun miette ll'aco, nce miette 'a capa.
Addò nun miette ll'aco, nce miette 'a capa. Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare così grande da lasciar passare il capo, così un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato subito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
BRAK
BRAK
‘A ZÒZA
‘A ZÒZA
Con il vocabolo in epigrafe il napoletano indica varie cose: il sudiciume in genere,un brodo sciapito o preparato senza il rituale mazzetto di erbe aromatiche, ma pure il fango o la fanghiglia, i rimasugli o pure gli intrugli edibili che, pur presentati come autentiche leccornie,non incontrando il favore del gusto delle persone cui siano ammanniti vengon da costoro rifiutati e definiti zòza ed infine qualsiasi roba che sia ributtante, nauseante, una generica robaccia, una porcheria od anche una minestra eccessivamente brodosa e cattiva, una brodaglia insomma o ancora una pozione medicamentosa,dal disgustoso sapore tale che proprio non la si riesca a deglutire(e mi tornano in mente i maleolenti olio di ricino e olio di fegato di merluzzo della fanciullezza o talune preparazioni galeniche, dal nausebondo sapore, approntate contro tossi e febbri da volenterosi semplicisti : farmacisti - erboristi cosí chiamati in quanto venditori di preparati per i quali venivano usate erbe medicinali dette appunto simplex) ed estensivamente ogni cosa che sia stata fatta male, in maniera raffazzonata di talché il risultato risulti essere scadente, riprovevole e non confacente; fino a giungere all’offensivo: sî ‘na zòza totalizzante offesa rivolta all’indirizzo di chi si voglia concisamente , ma duramente indicare come persona fisicamente sporca, laida, ma soprattutto moralmente disgustosa e ributtante.
Tutte le medesime cose,con l’eccezione della totalizzante offesa, in toscano sono indicate con il termine zózza che nel suo significato primo stette ad indicare una miscela di liquori scadenti e successivamente tutto il surriportato e che etimologicamente risulta essere un’alterazione popolare della parola suzzacchera (forgiata sul greco:oxy-sakcharòn=zucchero acido) con eliminazione della parte finale: cchera ritenuta, ma erroneamente, terminazione diminutiva.
Detto ciò, seguitiamo col dire, quanto all’etimologia della parola in epigrafe, che bisogna lasciar perdere innanzitutto la tentazione che zòza sia semplicemente un adeguamento dialettale (mediante l’eliminazione di una Z e cambio di accento della o tonica, chiusa nel toscano e aperta in napoletano) della zózza toscana; alla medesima stregua, a mio avviso non bisogna lasciarsi suggestionare dalla base latina suc da cui sucus= succo, unto→sucidus e poi per metatesi sudicius per il tramite di una forma sostantivata neutra, poi sentita femminile *sucia =cose sporche, sudice.
In realtà la parola napoletana è molto più recente rispetto al basso latino sucia o alla voce toscana zózza, e risale alla seconda metà del ‘700, quando vi fu a Napoli una sorta d’invasione dei cuochi francesi – che súbito, i napoletani, corrompendo il termine monsieur dissero munzú - chiamati nel Reame, in occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina Maria Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo moglie di Ferdinando I Borbone, sorella di Maria Antonietta regina di Francia, quella che il giorno prima che fosse ghigliottinata, per lo spavento incanutí d’un colpo. L’intento di Maria Carolina fu quello di voler elevare, mediante il supporto dei raffinati cuochi francesi, la troppo semplice cucina partenopea; il risultato però non fu quello sperato: i munzú d’oltralpe e le loro raffinate preparazioni culinarie mal si sposarono (con la sola eccezione del sartú (dal francese surtout ) tronfio e saporito timballo di riso, che entrò a vele spiegate nella cucina napoletana) con i gusti dei partenopei; essi – è noto – amano ed amavano preparazioni semplici e veloci ed i sughi a base di pomodoro, per cui non compresero, né apprezzarono le sauces francesi a base di burro, latte, farina e talvolta uova e rifiutarono la salsa gallica storpiandone il nome che da sauce (lèggi: sós(e)) divenne zòza con tutte le estensioni summenzionate.E che l’etimo della zoza napoletana debba ricercarsi nella sauce francese piuttosto che (come propone l’amico prof. Carlo Iandolo, e come ò già riportato ) da una forma sostantivata *sucia = cose sporche (neutro plurale poi sentito femminile) secondo un percorso morfologico in cui s→z e ci→cj→z deriva dal fatto che semanticamente una originaria salsa francese a base di burro, farina, latte ed uova ben potesse essere tanto estranea al gusto partenopeo da farla ritenere una zoza; né d’altro canto la trasformazione morfologica di sauce in zoza fa meraviglia e/o scandalo, visto che linguisticamente è normale che la iniziale s di sau= so trasmigri nel napoletano come anche nell’italiano (cfr. ad es. in italiano e napoletano zuppa da un gotico *suppa) in zo mentre il ce finale di sauce pur essendo vero che non muta normalmente in zeta, nella fattispecie può accadere per quel fenomeno linguistico che è l’assimilazione progressiva per cui la prima consonante s→z si trascina dietro la c di ce trasformando anch’essa in zeta .
Torniamo in chiusura, al titolo di monzú rammentando che esso attecchí tanto nel parlato partenopeo fino a diventare la denominazione che spettava solo ai grandi cuochi.
Divenne quasi come un titolo onorifico, tanto ambito che - cosí come riportato da Salvatore di Giacomo - un celebre cuoco lo preferí ad una lauta ricompensa che Ferdinando II di Borbone pure gli aveva offerto, per i servigi resi nelle cucine di palazzo.
Raffaele Bracale
Con il vocabolo in epigrafe il napoletano indica varie cose: il sudiciume in genere,un brodo sciapito o preparato senza il rituale mazzetto di erbe aromatiche, ma pure il fango o la fanghiglia, i rimasugli o pure gli intrugli edibili che, pur presentati come autentiche leccornie,non incontrando il favore del gusto delle persone cui siano ammanniti vengon da costoro rifiutati e definiti zòza ed infine qualsiasi roba che sia ributtante, nauseante, una generica robaccia, una porcheria od anche una minestra eccessivamente brodosa e cattiva, una brodaglia insomma o ancora una pozione medicamentosa,dal disgustoso sapore tale che proprio non la si riesca a deglutire(e mi tornano in mente i maleolenti olio di ricino e olio di fegato di merluzzo della fanciullezza o talune preparazioni galeniche, dal nausebondo sapore, approntate contro tossi e febbri da volenterosi semplicisti : farmacisti - erboristi cosí chiamati in quanto venditori di preparati per i quali venivano usate erbe medicinali dette appunto simplex) ed estensivamente ogni cosa che sia stata fatta male, in maniera raffazzonata di talché il risultato risulti essere scadente, riprovevole e non confacente; fino a giungere all’offensivo: sî ‘na zòza totalizzante offesa rivolta all’indirizzo di chi si voglia concisamente , ma duramente indicare come persona fisicamente sporca, laida, ma soprattutto moralmente disgustosa e ributtante.
Tutte le medesime cose,con l’eccezione della totalizzante offesa, in toscano sono indicate con il termine zózza che nel suo significato primo stette ad indicare una miscela di liquori scadenti e successivamente tutto il surriportato e che etimologicamente risulta essere un’alterazione popolare della parola suzzacchera (forgiata sul greco:oxy-sakcharòn=zucchero acido) con eliminazione della parte finale: cchera ritenuta, ma erroneamente, terminazione diminutiva.
Detto ciò, seguitiamo col dire, quanto all’etimologia della parola in epigrafe, che bisogna lasciar perdere innanzitutto la tentazione che zòza sia semplicemente un adeguamento dialettale (mediante l’eliminazione di una Z e cambio di accento della o tonica, chiusa nel toscano e aperta in napoletano) della zózza toscana; alla medesima stregua, a mio avviso non bisogna lasciarsi suggestionare dalla base latina suc da cui sucus= succo, unto→sucidus e poi per metatesi sudicius per il tramite di una forma sostantivata neutra, poi sentita femminile *sucia =cose sporche, sudice.
In realtà la parola napoletana è molto più recente rispetto al basso latino sucia o alla voce toscana zózza, e risale alla seconda metà del ‘700, quando vi fu a Napoli una sorta d’invasione dei cuochi francesi – che súbito, i napoletani, corrompendo il termine monsieur dissero munzú - chiamati nel Reame, in occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina Maria Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo moglie di Ferdinando I Borbone, sorella di Maria Antonietta regina di Francia, quella che il giorno prima che fosse ghigliottinata, per lo spavento incanutí d’un colpo. L’intento di Maria Carolina fu quello di voler elevare, mediante il supporto dei raffinati cuochi francesi, la troppo semplice cucina partenopea; il risultato però non fu quello sperato: i munzú d’oltralpe e le loro raffinate preparazioni culinarie mal si sposarono (con la sola eccezione del sartú (dal francese surtout ) tronfio e saporito timballo di riso, che entrò a vele spiegate nella cucina napoletana) con i gusti dei partenopei; essi – è noto – amano ed amavano preparazioni semplici e veloci ed i sughi a base di pomodoro, per cui non compresero, né apprezzarono le sauces francesi a base di burro, latte, farina e talvolta uova e rifiutarono la salsa gallica storpiandone il nome che da sauce (lèggi: sós(e)) divenne zòza con tutte le estensioni summenzionate.E che l’etimo della zoza napoletana debba ricercarsi nella sauce francese piuttosto che (come propone l’amico prof. Carlo Iandolo, e come ò già riportato ) da una forma sostantivata *sucia = cose sporche (neutro plurale poi sentito femminile) secondo un percorso morfologico in cui s→z e ci→cj→z deriva dal fatto che semanticamente una originaria salsa francese a base di burro, farina, latte ed uova ben potesse essere tanto estranea al gusto partenopeo da farla ritenere una zoza; né d’altro canto la trasformazione morfologica di sauce in zoza fa meraviglia e/o scandalo, visto che linguisticamente è normale che la iniziale s di sau= so trasmigri nel napoletano come anche nell’italiano (cfr. ad es. in italiano e napoletano zuppa da un gotico *suppa) in zo mentre il ce finale di sauce pur essendo vero che non muta normalmente in zeta, nella fattispecie può accadere per quel fenomeno linguistico che è l’assimilazione progressiva per cui la prima consonante s→z si trascina dietro la c di ce trasformando anch’essa in zeta .
Torniamo in chiusura, al titolo di monzú rammentando che esso attecchí tanto nel parlato partenopeo fino a diventare la denominazione che spettava solo ai grandi cuochi.
Divenne quasi come un titolo onorifico, tanto ambito che - cosí come riportato da Salvatore di Giacomo - un celebre cuoco lo preferí ad una lauta ricompensa che Ferdinando II di Borbone pure gli aveva offerto, per i servigi resi nelle cucine di palazzo.
Raffaele Bracale
mercoledì 26 marzo 2008
Jí truvanno Cristo ‘int’ ê lupine
Jí truvanno Cristo ‘int’ ê lupine
o meglio Jí truvanno Cristo dinto a la pina
ad litteram: Andar cercando Cristo fra i lupini o meglio Andar cercando Cristo nella pigna. Id est: mettersi alla ricerca di una cosa difficile da trovarsi o da conseguirsi; cosa pretestuosa e probabilmente inutile, per cui, il piú delle volte, non metterebbe conto il mettersene alla ricerca, per estensione: cercare il pelo nell’uovo o cercar pretesti.
Come ò segnalato la prima locuzione è meno esatta della seconda che risulta essere quella originaria, mentre la prima ne è solo una frettolosa corruzione determinata da un’erronea agglutinazione dell’articolo la con il sostantivo pina, agglutinazione che produsse lo scorretto lupine ( che sono i semi commestibili di una pianta erbacea che produce appunto dei semi gialli che bolliti e salati sono gustosi e commestibili, simili alle fave (fam. Leguminose)) ; ed in effetti se si analizza la seconda locuzione, quella consigliata, si può intendere a pieno la valenza delle espressioni, valenza che è difficile cogliere accettando la prima locuzione che fa riferimento ad incoferenti e pretestuosi lupini (che – ribadisco - son dei semi di una leguminosa e non le piccole arselle che a Napoli ànno il medesimo nome di lupini) in effetti prendendo per buona la versione che parla di lupini sia che li si intenda semi o pianta, sia li si intenda arselle non si comprende perché Nostro Signore Gesù Cristo vi si sia nascosto, costringendo qualcuno ad andarne in cerca!; ; quanto piú corretta la seconda ipotesi, quella che fa riferimento alla pigna in quanto i pinoli in essa contenuti presentano spesso un ciuffetto di cinque peli, ciuffo comunemente detto: manina di Cristo e la locuzione richiama la ricerca di detta manina, operazione lunga e fastidiosa che non sempre si conclude positavamente: infatti occorre innanzitutto procurarsi una pigna fresca, abbrustolirla al fuoco per poi spaccarla ed estrarne i contenitori dei pinoli, da cui trar fuori i suddetti ed alla fine andare alla ricerca della manina e cioè di Cristo; spesso capita però che i contenitori siano vuoti di pinoli o che i pinoli manchino del ciuffetto-manina e dunque tutta la fatica fatta vada sprecata e si riveli inutile.
- lupine plurale di lupino pianta leguminosa dai semi gialli commestibili – il seme stesso etimologicamente derivato del lat. lupinu(m), agg. deriv. di lupus 'lupo'; propr. 'erba dei lupi'; con altra accezione con la voce lupine si indica nel meridione tutto, forse per la forma tondeggiante simile a quella del seme giallo, una piccola vongola detta altrove arsella
- vongola mollusco bivalve di mare ed anche panzana, sciocchezza; voce in origine partenopea derivata dal lat. concula(m)>gongola>ongola>vongola trasmigrata poi nell’italiano;
- arsella nome popolare di varie specie di molluschi bivalvi marini commestibili. derivato dal lat. tardo arcella(m) 'astuccio', dim. di arca;
- pina sost. femm. = pigna frutto conico delle conifere, costituito da squame legnose che racchiudono i semi (pinoli) dal lat. (nucem) pinea(m)= noce del pino.
Qualche altro scrittore di cose napoletane nel vano tentativo di fare accogliere la prima locuzione, fa riferimento ad una non meglio annotata o rammentata leggenda che vede stranamente la Vergine Maria non esser misericordiosa durante una sua presunta fuga, con la pianta di lupini; nelle mie ricerche tale leggenda è risultata pressocché sconosciuta e del resto non chiarirebbe l’espressione , mentre non v’è anziano popolano partenopeo che non sia a conoscenza della manina di Cristo.
- Jí truvanno o Jí ascianno = andare in cerca letteralmente: jí = andare infinito del verbo jí/jire dal latino ire; truvanno voce verbale (gerundio) dell’infinito truvà =trovare, ma anche e qui cercare forse dal lat. volg. *tropare,(esprimersi per tropi) dal class. tropus 'tropo'(qualsiasi uso linguistico che trasferisca una parola dal significato suo proprio a un altro figurato; traslato: la metafora, la metonimia, la sineddoche, l'antifrasi, l'iperbole sono tropi ); ma l'etimo è incerto; ascianno voce verbale (gerundio) dell’infinito asciare/ ascià= cercare con impegno, quasi affannosamente con etimo dal lat. volgare adflare>afflare =annusare con il normale esito fl>sci;
- Cristo appellativo riservato a Ns. Signore Gesù; Unto dal lat. Christu(m), traslitterazione del gr. Christós, che traduce l'ebr. mashiah =Messia e cioè Unto (dal Signore).
Raffaele Bracale
o meglio Jí truvanno Cristo dinto a la pina
ad litteram: Andar cercando Cristo fra i lupini o meglio Andar cercando Cristo nella pigna. Id est: mettersi alla ricerca di una cosa difficile da trovarsi o da conseguirsi; cosa pretestuosa e probabilmente inutile, per cui, il piú delle volte, non metterebbe conto il mettersene alla ricerca, per estensione: cercare il pelo nell’uovo o cercar pretesti.
Come ò segnalato la prima locuzione è meno esatta della seconda che risulta essere quella originaria, mentre la prima ne è solo una frettolosa corruzione determinata da un’erronea agglutinazione dell’articolo la con il sostantivo pina, agglutinazione che produsse lo scorretto lupine ( che sono i semi commestibili di una pianta erbacea che produce appunto dei semi gialli che bolliti e salati sono gustosi e commestibili, simili alle fave (fam. Leguminose)) ; ed in effetti se si analizza la seconda locuzione, quella consigliata, si può intendere a pieno la valenza delle espressioni, valenza che è difficile cogliere accettando la prima locuzione che fa riferimento ad incoferenti e pretestuosi lupini (che – ribadisco - son dei semi di una leguminosa e non le piccole arselle che a Napoli ànno il medesimo nome di lupini) in effetti prendendo per buona la versione che parla di lupini sia che li si intenda semi o pianta, sia li si intenda arselle non si comprende perché Nostro Signore Gesù Cristo vi si sia nascosto, costringendo qualcuno ad andarne in cerca!; ; quanto piú corretta la seconda ipotesi, quella che fa riferimento alla pigna in quanto i pinoli in essa contenuti presentano spesso un ciuffetto di cinque peli, ciuffo comunemente detto: manina di Cristo e la locuzione richiama la ricerca di detta manina, operazione lunga e fastidiosa che non sempre si conclude positavamente: infatti occorre innanzitutto procurarsi una pigna fresca, abbrustolirla al fuoco per poi spaccarla ed estrarne i contenitori dei pinoli, da cui trar fuori i suddetti ed alla fine andare alla ricerca della manina e cioè di Cristo; spesso capita però che i contenitori siano vuoti di pinoli o che i pinoli manchino del ciuffetto-manina e dunque tutta la fatica fatta vada sprecata e si riveli inutile.
- lupine plurale di lupino pianta leguminosa dai semi gialli commestibili – il seme stesso etimologicamente derivato del lat. lupinu(m), agg. deriv. di lupus 'lupo'; propr. 'erba dei lupi'; con altra accezione con la voce lupine si indica nel meridione tutto, forse per la forma tondeggiante simile a quella del seme giallo, una piccola vongola detta altrove arsella
- vongola mollusco bivalve di mare ed anche panzana, sciocchezza; voce in origine partenopea derivata dal lat. concula(m)>gongola>ongola>vongola trasmigrata poi nell’italiano;
- arsella nome popolare di varie specie di molluschi bivalvi marini commestibili. derivato dal lat. tardo arcella(m) 'astuccio', dim. di arca;
- pina sost. femm. = pigna frutto conico delle conifere, costituito da squame legnose che racchiudono i semi (pinoli) dal lat. (nucem) pinea(m)= noce del pino.
Qualche altro scrittore di cose napoletane nel vano tentativo di fare accogliere la prima locuzione, fa riferimento ad una non meglio annotata o rammentata leggenda che vede stranamente la Vergine Maria non esser misericordiosa durante una sua presunta fuga, con la pianta di lupini; nelle mie ricerche tale leggenda è risultata pressocché sconosciuta e del resto non chiarirebbe l’espressione , mentre non v’è anziano popolano partenopeo che non sia a conoscenza della manina di Cristo.
- Jí truvanno o Jí ascianno = andare in cerca letteralmente: jí = andare infinito del verbo jí/jire dal latino ire; truvanno voce verbale (gerundio) dell’infinito truvà =trovare, ma anche e qui cercare forse dal lat. volg. *tropare,(esprimersi per tropi) dal class. tropus 'tropo'(qualsiasi uso linguistico che trasferisca una parola dal significato suo proprio a un altro figurato; traslato: la metafora, la metonimia, la sineddoche, l'antifrasi, l'iperbole sono tropi ); ma l'etimo è incerto; ascianno voce verbale (gerundio) dell’infinito asciare/ ascià= cercare con impegno, quasi affannosamente con etimo dal lat. volgare adflare>afflare =annusare con il normale esito fl>sci;
- Cristo appellativo riservato a Ns. Signore Gesù; Unto dal lat. Christu(m), traslitterazione del gr. Christós, che traduce l'ebr. mashiah =Messia e cioè Unto (dal Signore).
Raffaele Bracale
Jì ascianno ova ‘e lupo e piettene 'e quinnece.
Jì ascianno ova ‘e lupo e piettene 'e quinnece.
Ad litteram: Andare in cerca di pettini di quindici (denti). Espressione usata quando si voglia indicare una situazione o una faccenda impossibile da raggiungere, o una cosa assurda, inconcepibile; per comprendere la portata dell'espressione bisogna rammentare che, oltre l’ovvietà che il lupo –animale mammifero – non deposita o cova uova, i pettini richiamati erano un antico attrezzo usato per la cardatura manuale della lana e simili pettini non contavano mai piú di tredici denti; andare in cerca di pettini con quindici denti era cosa inutile quanto impossibile e pretestuosamente vana;
ascianno è il gerundio del verbo asciare (cercare con applicazione attenta e continuata quasi come farebbe un segugio)dal lat.: adflare>afflare>asciare =annusare
Raffaele Bracale
Ad litteram: Andare in cerca di pettini di quindici (denti). Espressione usata quando si voglia indicare una situazione o una faccenda impossibile da raggiungere, o una cosa assurda, inconcepibile; per comprendere la portata dell'espressione bisogna rammentare che, oltre l’ovvietà che il lupo –animale mammifero – non deposita o cova uova, i pettini richiamati erano un antico attrezzo usato per la cardatura manuale della lana e simili pettini non contavano mai piú di tredici denti; andare in cerca di pettini con quindici denti era cosa inutile quanto impossibile e pretestuosamente vana;
ascianno è il gerundio del verbo asciare (cercare con applicazione attenta e continuata quasi come farebbe un segugio)dal lat.: adflare>afflare>asciare =annusare
Raffaele Bracale
IL MANDRACCHIO
IL MANDRACCHIO
La zona di Napoli compresa tra le vie C. Colombo – De Gasperi – Depretis, anticamente fu chiamata ‘o mandracchio. Scartando tutte le ipotesi fantasiose che fanno derivare detto nome da una lingua orientale o quella ancor piú fantasiosa che parla di mandrie al pascolo; non risulta invero da nessuna parte che nella zona a ridosso del porto e del mare vi fossero terreni adibiti a pascolo, occorre – a mio avviso – risalire al termine spagnolo mandrache: darsena; nella zona a ridosso del mare e del porto vi fu ubicata in tempo viceregnale una darsena che, per essere al solito caotica e –forse – lercia fu ricordata con il termine spagnolo addizzionato del suffisso spregiativo acchio.
Raffaele Bracale
La zona di Napoli compresa tra le vie C. Colombo – De Gasperi – Depretis, anticamente fu chiamata ‘o mandracchio. Scartando tutte le ipotesi fantasiose che fanno derivare detto nome da una lingua orientale o quella ancor piú fantasiosa che parla di mandrie al pascolo; non risulta invero da nessuna parte che nella zona a ridosso del porto e del mare vi fossero terreni adibiti a pascolo, occorre – a mio avviso – risalire al termine spagnolo mandrache: darsena; nella zona a ridosso del mare e del porto vi fu ubicata in tempo viceregnale una darsena che, per essere al solito caotica e –forse – lercia fu ricordata con il termine spagnolo addizzionato del suffisso spregiativo acchio.
Raffaele Bracale
lunedì 24 marzo 2008
I monosillabi SI nella lingua napoletana
I monosillabi SI nella lingua napoletana
Cominciamo con un esempio che penso ci potrà spianare la strada per illustrare ciò che è in epigrafe.
Prendiamo la seguente frase della lingua italiana:
“Se sei tu a dirmi di sí etc.”
Essa va resa in lingua napoletana con:
Si sî tu a dirme ‘e sí etc.
Va da sé che se la frase è letta o pronunciata i significati dei varî monosillabi si che si susseguono possono essere facilmente colti riconoscendo nel primo si la congiunzione italiana se, nel secondo la voce verbale che in italiano è sei e nell’ultimo si l’avv.bio affermativo sí; il problema si complica quando la frase napoletana bisogna metterla per iscritto; chi non è molto versato nella grafia della lingua napoletana (e quanti, ahimé, se ne annoverano anche tra coloro che si dicono napoletani e con baldanzosa sicumera usano a continuato sproposito la nostra lingua madre, per i loro sedicenti componimenti poetici e/o teatrali ) potrebbe incorrere nell’errore di usare una anonima sequela di si indistinti che metterebbe in forse il significato della intera frase.
Ed invece, tenendo presente una semplice regoletta grammaticale, che lo prescrive, occorrerà fare un esatto uso di diversi segni diacritici (distintivi) per ognuna delle parole ed a maggior ragione per quelle monosillabiche, omofone in modo da poterne far stabilire e cogliere d’acchito il reale valore e/o significato pur avulso dal contesto della frase.
Vediamo dunque che nella fattispecie avremo:
1) si scritto senza alcun segno diacritico, per rendere negli identici significati e medesime funzioni la congiunzione italiana se che vale: posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico); il si a margine è dal tardo lat. si(d), dall'incrocio del class. si 'se' col pron. quid 'che cosa';
2) sî scritto con il segno diacritico dell’accento circonflesso sulla i , per rendere negli identico significato e medesime funzioni la voce verbale italiana sei (2° pers. sing. ind. presente dell’infinito essere); il sî a margine può tanto essere scrittura contratta dell’italiano sei, quanto piú probabilmente derivato del sis (si(es)) (2° pers. sing. cong. presente dell’infinito lat. esse);
3) sí scritto con il segno diacritico dell’accento acuto sulla i , per rendere negli identico significato e medesime funzioni l’omografo ed omofono avverbio sí della lingua italiana che si usa (spesso contrapposto a no) nelle risposte come equivalente di un'intera frase affermativa; l’etimo di questo sí a margine è dal lat. sic 'cosí', forma abbr. della loc. sic est 'cosí è'. Rammento qui (per incidens) che la í accentata, cosí come la ú, essendo le vocali piú chiuse dei sette suoni vocalici noti, esigono, contrariamente a quanto disposto sulle tastiere in uso dei nostri computers, esigono – dicevo – l’accento acuto (chiuso) e non quello grave (aperto) che è di pertinenza delle vocali con suono aperto: à – è -ò.
4) si’ scritto con il segno (‘) dell’apocope di solito precede un nome proprio maschile di persona; questo si’ vale si(gnore). Come tutte le parole, terminanti per vocale, apocopate di una o piú sillabe vanno segnate con il segno diacritico dell’apostrofo, cosí accade per il si’ a margine.
Rammento che spesso sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, questo si’ è reso con uno scorretto zi’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) per cui si ottiene gli scorretti zi’ prevete e zi’ badessa,o pure zi’ Pascale etc. in luogo dei corretti si’ prevete e sie’ badessa o si’ Pascale etc. dove il si’voce maschile (ò detto) è l’apocope di si(gnore) che etimologicamente è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano mentre la corrispondente voce femminile del si’ è sie’ che è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→sei-gneuse→ sie(gneuse).
E faccio punto qui convinto d’aver chiarito a sufficienza in quanti e quali modi son da scrivere i tre o quattro si della lingua napoletana e nella speranza di far qualche proselito fra chi si accosti da neofita alla scrittura della lingua partenopea.
Raffaele Bracale
Cominciamo con un esempio che penso ci potrà spianare la strada per illustrare ciò che è in epigrafe.
Prendiamo la seguente frase della lingua italiana:
“Se sei tu a dirmi di sí etc.”
Essa va resa in lingua napoletana con:
Si sî tu a dirme ‘e sí etc.
Va da sé che se la frase è letta o pronunciata i significati dei varî monosillabi si che si susseguono possono essere facilmente colti riconoscendo nel primo si la congiunzione italiana se, nel secondo la voce verbale che in italiano è sei e nell’ultimo si l’avv.bio affermativo sí; il problema si complica quando la frase napoletana bisogna metterla per iscritto; chi non è molto versato nella grafia della lingua napoletana (e quanti, ahimé, se ne annoverano anche tra coloro che si dicono napoletani e con baldanzosa sicumera usano a continuato sproposito la nostra lingua madre, per i loro sedicenti componimenti poetici e/o teatrali ) potrebbe incorrere nell’errore di usare una anonima sequela di si indistinti che metterebbe in forse il significato della intera frase.
Ed invece, tenendo presente una semplice regoletta grammaticale, che lo prescrive, occorrerà fare un esatto uso di diversi segni diacritici (distintivi) per ognuna delle parole ed a maggior ragione per quelle monosillabiche, omofone in modo da poterne far stabilire e cogliere d’acchito il reale valore e/o significato pur avulso dal contesto della frase.
Vediamo dunque che nella fattispecie avremo:
1) si scritto senza alcun segno diacritico, per rendere negli identici significati e medesime funzioni la congiunzione italiana se che vale: posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico); il si a margine è dal tardo lat. si(d), dall'incrocio del class. si 'se' col pron. quid 'che cosa';
2) sî scritto con il segno diacritico dell’accento circonflesso sulla i , per rendere negli identico significato e medesime funzioni la voce verbale italiana sei (2° pers. sing. ind. presente dell’infinito essere); il sî a margine può tanto essere scrittura contratta dell’italiano sei, quanto piú probabilmente derivato del sis (si(es)) (2° pers. sing. cong. presente dell’infinito lat. esse);
3) sí scritto con il segno diacritico dell’accento acuto sulla i , per rendere negli identico significato e medesime funzioni l’omografo ed omofono avverbio sí della lingua italiana che si usa (spesso contrapposto a no) nelle risposte come equivalente di un'intera frase affermativa; l’etimo di questo sí a margine è dal lat. sic 'cosí', forma abbr. della loc. sic est 'cosí è'. Rammento qui (per incidens) che la í accentata, cosí come la ú, essendo le vocali piú chiuse dei sette suoni vocalici noti, esigono, contrariamente a quanto disposto sulle tastiere in uso dei nostri computers, esigono – dicevo – l’accento acuto (chiuso) e non quello grave (aperto) che è di pertinenza delle vocali con suono aperto: à – è -ò.
4) si’ scritto con il segno (‘) dell’apocope di solito precede un nome proprio maschile di persona; questo si’ vale si(gnore). Come tutte le parole, terminanti per vocale, apocopate di una o piú sillabe vanno segnate con il segno diacritico dell’apostrofo, cosí accade per il si’ a margine.
Rammento che spesso sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, questo si’ è reso con uno scorretto zi’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) per cui si ottiene gli scorretti zi’ prevete e zi’ badessa,o pure zi’ Pascale etc. in luogo dei corretti si’ prevete e sie’ badessa o si’ Pascale etc. dove il si’voce maschile (ò detto) è l’apocope di si(gnore) che etimologicamente è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano mentre la corrispondente voce femminile del si’ è sie’ che è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→sei-gneuse→ sie(gneuse).
E faccio punto qui convinto d’aver chiarito a sufficienza in quanti e quali modi son da scrivere i tre o quattro si della lingua napoletana e nella speranza di far qualche proselito fra chi si accosti da neofita alla scrittura della lingua partenopea.
Raffaele Bracale
Hê 'a murí rusecato da 'e zzoccole etc.
Hê 'a murí rusecato da 'e zzoccole e 'o primmo muorzo te ll'à da dà màmmeta.Che possa morire rosicchiato dai grossi topi di fogna ed il primo morso lo devi avere da tua madre.
Icastica maledizione partenopea giocata sulla doppia valenza del termine zoccola che, a Napoli, identifica sia il topo di fogna che la donna di malaffare.
raffaele bracale
Icastica maledizione partenopea giocata sulla doppia valenza del termine zoccola che, a Napoli, identifica sia il topo di fogna che la donna di malaffare.
raffaele bracale
guardarse 'mmocca pe gulio
Guardarse ‘mmocca pe gulio.
Ad litteram: guardarsi in bocca per desiderio Id est: soffermarsi a guardare intensamente qualcuno in volto, ma con maggiore riguardo per la bocca, ed estensivamente per tutte le parti del corpo che sollecitino l’attenzione e l’interesse procurando addirittura l’eccitazione dei sensi, spinti da acuto desiderio; tale fu il vicendevole atteggiamento che gli innamorati d’un tempo solevano tenere stando mano nella mano con i relativi omologhi.
guardarse = guardarsi, rimirarsi, osservarsi voce verbale riflessiva dell’infinito guardà = volgere, fissare lo sguardo su qualcosa o su qualcuno con etimo dal francone *wardon 'stare in guardia'; cfr. il ted. warten 'custodire' e Warte 'vedetta';
‘mmocca = in + bocca cioè la cavità nella parte anteriore del viso dell'uomo, delimitata dalle labbra, che è organo della respirazione, della nutrizione e della fonazione;... l’etimo è dal lat. bucca(m) 'guancia', poi 'bocca'tipico nel napoletano il passaggio a m della n di in accostato alla labiale esplosiva b di bucca: da inbucca→imbucca→’mbucca→’mmucca→ ’mmocca.
gulío = voglia intensa, desiderio acceso; etimologicamente gulío è forse voce derivata dall’incrocio di gola (dal lat. gula(m)) con voglia (deverbale di volere) ma qualcuno, probabilmente non a torto, pensa ad un deverbale, diretta derivazione ricostruita sul tema del pres. volo e del perfetto volui
dal lat. volg. *volìre, per il class. velle.
Raffaele Bracale
Ad litteram: guardarsi in bocca per desiderio Id est: soffermarsi a guardare intensamente qualcuno in volto, ma con maggiore riguardo per la bocca, ed estensivamente per tutte le parti del corpo che sollecitino l’attenzione e l’interesse procurando addirittura l’eccitazione dei sensi, spinti da acuto desiderio; tale fu il vicendevole atteggiamento che gli innamorati d’un tempo solevano tenere stando mano nella mano con i relativi omologhi.
guardarse = guardarsi, rimirarsi, osservarsi voce verbale riflessiva dell’infinito guardà = volgere, fissare lo sguardo su qualcosa o su qualcuno con etimo dal francone *wardon 'stare in guardia'; cfr. il ted. warten 'custodire' e Warte 'vedetta';
‘mmocca = in + bocca cioè la cavità nella parte anteriore del viso dell'uomo, delimitata dalle labbra, che è organo della respirazione, della nutrizione e della fonazione;... l’etimo è dal lat. bucca(m) 'guancia', poi 'bocca'tipico nel napoletano il passaggio a m della n di in accostato alla labiale esplosiva b di bucca: da inbucca→imbucca→’mbucca→’mmucca→ ’mmocca.
gulío = voglia intensa, desiderio acceso; etimologicamente gulío è forse voce derivata dall’incrocio di gola (dal lat. gula(m)) con voglia (deverbale di volere) ma qualcuno, probabilmente non a torto, pensa ad un deverbale, diretta derivazione ricostruita sul tema del pres. volo e del perfetto volui
dal lat. volg. *volìre, per il class. velle.
Raffaele Bracale
GUAGLIONE
GUAGLIONE – significato ed etimologia.
La parola in epigrafe, pur se accolta in tutti i dizionarii della lingua toscana, nasce a Napoli e poi di qui trasmigra, come tante altre parole quali camorra e suoi derivati, guappo e consimili e con il termine guaglione viene indicato l’adolescente, il ragazzo poco più che decenne che abbia eletto per proprio regno la strada nel cui
rutilante chiasso, si diverte, gioca e magari presta la sua piccola opera servizievole nell’intento di lucrare piccolo guadagno: ‘o guaglione d’’e servizie o guaglione ‘e puteca quando si tratti di ragazzo avviato ad un lavoro più o meno stabilmente retribuito Pertanto con il termine guaglione a Napoli non si indica il bambino, che è detto propriamente: criaturo o anche ninno o nennillo e – quando si tratti di piccolissimo anche anema ‘e Ddio.
Per ciò che riguarda l’etimologia, la questione è di non poca cosa,
avendo il vocabolo scatenato la fantasia di addetti ai lavori o filologi della domenica e sono state avanzate le ipotesi più disparate ed è molto difficile bordeggiandole attingere un sicuro approdo.
Ecco perché mi limiterò a dare un sommario elenco di dette ipotesi, e a suggerire alla fine, l’ipotesi che ritengo più perseguibile.
A – si cominciò, temporibus illis, a scomodare il greco kallos, kallion: bellino, grazioso, nella pretesa forse che il guaglione dovesse essere per forza grazioso, ma chiunque si può render conto che si trattava di una pretesa non supportata da alcuna documentata prova, per cui escluderei senz’altro l’ipotesi.
B –Si congetturò pure che guaglione potesse derivare sempre dal greco, ma dalla parola gala = latte, ma non si vede cosa possa mettere in rapporto il latte con il ragazzo di strada che non è certamente un poppante; l’ipotesi è pertanto – a mio avviso - da scartare.
Come è, a mio avviso, da scartare l’ipotesi C, sebbene caldeggiata dall’Alessio nel suo dottissimo D.E.I., che fa derivare la parola di cui ci occupiamo dal greco gàneone(m) che sta ad indicare il frequentatore di bettole, l’ubriacone, o peggio! il frequentatore di postriboli: personaggi che non posson certo configurare, d’acchito, il guaglione. Non nego che, talvolta, il guaglione possa aver alzato il gomito o frequentato bordelli, ma da ciò a ritenerle sue precipue attività (tanto da farne derivare il nome...)mi pare ce ne corra!
D – Ugualmente non perseguibile mi pare l’opinione espressa dal pur grandissimo Rholfs, che accosta la parola guaglione a guagnone e cioè: colui che piange, ma anche questa mi pare una petizione di principio inconferente; perché mai il guaglione dovrebbe tanto piangere, da far trarre da ciò l’origine della parola?
E – Ipotesi ugualmente da scartare son quelle che che tirano dentro le parole latine : qualus= cesto e qualis= quale, termini che chiaramente sono inconferenti rispetto la sostanza del nostro guaglione
F – Si è cercato, da qualcuno di coinvolgere il francese con la parola garçon, che –è vero – indica il ragazzo di bottega, ma da esso lemma in napoletano è derivato guarzone, per cui scarto l’ipotesi.
G. – Neppure mi convince l’idea, espressa marginalmente dall’ amico prof. C. Jandolo nel suo conciso Dizionario etimologico napoletano, che guaglione possa derivare da un ipotizzato *valione(m) dal verbo valére: valido, vispo; non mi risulta infatti che tutti i guagliuni siano necessariamente vispi, validi e valenti…
H -Scarto altresí la pretestuosa derivazione dal francese gaillard, amologa del nostro gagliardo, giacché non è scritto da nessuna parte che ‘o guaglione debba essere forte e muscoloso.
I - Sempre nell’ambito della lingua francese riporto quanto ebbe a dire il giornalista A. Fratta scrivendo sul Mattino di Napoli allorché affermò di avere udito in quel di Marsiglia apostrofare i ragazzi di strada con il termine vuaiú (voyou) stranamente simile al suono del nostro guagliú (vocativo di guagliune plurale di guaglione; si tratta di una tentazione, ma se si esclude il tenue legame del francese voie = strada con il guaglione partenopeo, troppe sono le discrepanze morfologiche e semantiche che ostano a che si possa accettare simile discendenza.
Per concludere mi pare si possa proporre l’ipotesi di far discendere dal sempre vivo basso latino galione(m)= giovane mozzo,servo sulle galee)la parola guaglione soprattutto tenendo presente quel ragazzo dei servizi o guaglione ‘e puteca di cui sopra. Ricorderò d’aver ritrovato attestato la voce galionem a pag. 640 del Du Cange – Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis.
RaffaeleBracale
La parola in epigrafe, pur se accolta in tutti i dizionarii della lingua toscana, nasce a Napoli e poi di qui trasmigra, come tante altre parole quali camorra e suoi derivati, guappo e consimili e con il termine guaglione viene indicato l’adolescente, il ragazzo poco più che decenne che abbia eletto per proprio regno la strada nel cui
rutilante chiasso, si diverte, gioca e magari presta la sua piccola opera servizievole nell’intento di lucrare piccolo guadagno: ‘o guaglione d’’e servizie o guaglione ‘e puteca quando si tratti di ragazzo avviato ad un lavoro più o meno stabilmente retribuito Pertanto con il termine guaglione a Napoli non si indica il bambino, che è detto propriamente: criaturo o anche ninno o nennillo e – quando si tratti di piccolissimo anche anema ‘e Ddio.
Per ciò che riguarda l’etimologia, la questione è di non poca cosa,
avendo il vocabolo scatenato la fantasia di addetti ai lavori o filologi della domenica e sono state avanzate le ipotesi più disparate ed è molto difficile bordeggiandole attingere un sicuro approdo.
Ecco perché mi limiterò a dare un sommario elenco di dette ipotesi, e a suggerire alla fine, l’ipotesi che ritengo più perseguibile.
A – si cominciò, temporibus illis, a scomodare il greco kallos, kallion: bellino, grazioso, nella pretesa forse che il guaglione dovesse essere per forza grazioso, ma chiunque si può render conto che si trattava di una pretesa non supportata da alcuna documentata prova, per cui escluderei senz’altro l’ipotesi.
B –Si congetturò pure che guaglione potesse derivare sempre dal greco, ma dalla parola gala = latte, ma non si vede cosa possa mettere in rapporto il latte con il ragazzo di strada che non è certamente un poppante; l’ipotesi è pertanto – a mio avviso - da scartare.
Come è, a mio avviso, da scartare l’ipotesi C, sebbene caldeggiata dall’Alessio nel suo dottissimo D.E.I., che fa derivare la parola di cui ci occupiamo dal greco gàneone(m) che sta ad indicare il frequentatore di bettole, l’ubriacone, o peggio! il frequentatore di postriboli: personaggi che non posson certo configurare, d’acchito, il guaglione. Non nego che, talvolta, il guaglione possa aver alzato il gomito o frequentato bordelli, ma da ciò a ritenerle sue precipue attività (tanto da farne derivare il nome...)mi pare ce ne corra!
D – Ugualmente non perseguibile mi pare l’opinione espressa dal pur grandissimo Rholfs, che accosta la parola guaglione a guagnone e cioè: colui che piange, ma anche questa mi pare una petizione di principio inconferente; perché mai il guaglione dovrebbe tanto piangere, da far trarre da ciò l’origine della parola?
E – Ipotesi ugualmente da scartare son quelle che che tirano dentro le parole latine : qualus= cesto e qualis= quale, termini che chiaramente sono inconferenti rispetto la sostanza del nostro guaglione
F – Si è cercato, da qualcuno di coinvolgere il francese con la parola garçon, che –è vero – indica il ragazzo di bottega, ma da esso lemma in napoletano è derivato guarzone, per cui scarto l’ipotesi.
G. – Neppure mi convince l’idea, espressa marginalmente dall’ amico prof. C. Jandolo nel suo conciso Dizionario etimologico napoletano, che guaglione possa derivare da un ipotizzato *valione(m) dal verbo valére: valido, vispo; non mi risulta infatti che tutti i guagliuni siano necessariamente vispi, validi e valenti…
H -Scarto altresí la pretestuosa derivazione dal francese gaillard, amologa del nostro gagliardo, giacché non è scritto da nessuna parte che ‘o guaglione debba essere forte e muscoloso.
I - Sempre nell’ambito della lingua francese riporto quanto ebbe a dire il giornalista A. Fratta scrivendo sul Mattino di Napoli allorché affermò di avere udito in quel di Marsiglia apostrofare i ragazzi di strada con il termine vuaiú (voyou) stranamente simile al suono del nostro guagliú (vocativo di guagliune plurale di guaglione; si tratta di una tentazione, ma se si esclude il tenue legame del francese voie = strada con il guaglione partenopeo, troppe sono le discrepanze morfologiche e semantiche che ostano a che si possa accettare simile discendenza.
Per concludere mi pare si possa proporre l’ipotesi di far discendere dal sempre vivo basso latino galione(m)= giovane mozzo,servo sulle galee)la parola guaglione soprattutto tenendo presente quel ragazzo dei servizi o guaglione ‘e puteca di cui sopra. Ricorderò d’aver ritrovato attestato la voce galionem a pag. 640 del Du Cange – Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis.
RaffaeleBracale
GENNARINO NUN DICE BUSCIE etc.
Gennarino nun dice buscie; dice ‘nu cuofano ‘e fessarie.
Ad litteram: Gennarino non dice bugie; dice un cumulo di sciocchezze.
Cosí, con la locuzione indicata si suole prender giuoco di ogni persona notoriamente bugiarda , poco credibile, millantatrice; l’espressione nacque allorché esistette in Napoli un tal Gennarino, venditore ambulante di panzarotti fritti (gustosissime frittelle di patate, di origine meridionale che, come alibi scrissi, sarebbe più giusto, anche in italiano, continuare a chiamare panzarotti e che invece impropriamente vengon dette crocchette) il quale era solito magnificare la propria merce in modo esagerato sottolineando le sue parole con l’aggiunta di una sorta di giuramento: Gennarino nun dice buscie (Gennarino non mente!). Atteso che la merce, invece, non era cosí buona come invece affermato dal venditore, gli scugnizzi napoletani presero a canzonarlo aggiungendo al suo giuramento una caustica chiosa: dice ‘nu cuofano ‘e fessarie. (dice un cumulo di sciocchezze) volendo significare che il sullodato Gennarino, in qualsiasi caso (si trattasse di bugie o di sciocchezze) mentiva e la sua merce era scadente!
buscía (di cui buscíe è il plurale) = bugia, menzogna ed altrove piattello ansato per ragger le candele; nel significato di bugia è parola derivante dal provenzale bauzía che è dal francone bausi = menzogna, malignità; nel senso di piattello ansato per regger candele deriva dal nome della città algerina Bugiaya dove si producevano tali piattelli e da dove, pare, s’importasse la cera per produrre le candele;
cuófano = cesto, corbello e per traslato gran quantità, abbondanza; dal latino cophinu(m)= cesta, normale il passaggio della i atona ad a atona, in parole sdrucciole;
fessaria= cosa da nulla, sciocchezza, inezia e per traslato bugia macroscopica; etimologicamente da fesso (rotto, spaccato e poi sciocco) p.pass. del verbo findere (rompere, spaccare) + il suff. di pertinenza arius/aro + la desinenza tonica ía; rammenterò che la stessa parola con i medesimi significati si ritrova pure nella lingua ufficiale sebbene in quest’ultima l’originaria ed etimologica a interconsonantica ed ovviamente aperta, la si sia sostituita con una pretestuosa e chiusa (ritenuta forse, ma scioccamente, piú consona dell’aperta a alla elegante (sic?) dialetto di Alighieri Dante, ottenendo cosí in luogo di fessaria una non migliore fesseria. Raffaele Bracale
Ad litteram: Gennarino non dice bugie; dice un cumulo di sciocchezze.
Cosí, con la locuzione indicata si suole prender giuoco di ogni persona notoriamente bugiarda , poco credibile, millantatrice; l’espressione nacque allorché esistette in Napoli un tal Gennarino, venditore ambulante di panzarotti fritti (gustosissime frittelle di patate, di origine meridionale che, come alibi scrissi, sarebbe più giusto, anche in italiano, continuare a chiamare panzarotti e che invece impropriamente vengon dette crocchette) il quale era solito magnificare la propria merce in modo esagerato sottolineando le sue parole con l’aggiunta di una sorta di giuramento: Gennarino nun dice buscie (Gennarino non mente!). Atteso che la merce, invece, non era cosí buona come invece affermato dal venditore, gli scugnizzi napoletani presero a canzonarlo aggiungendo al suo giuramento una caustica chiosa: dice ‘nu cuofano ‘e fessarie. (dice un cumulo di sciocchezze) volendo significare che il sullodato Gennarino, in qualsiasi caso (si trattasse di bugie o di sciocchezze) mentiva e la sua merce era scadente!
buscía (di cui buscíe è il plurale) = bugia, menzogna ed altrove piattello ansato per ragger le candele; nel significato di bugia è parola derivante dal provenzale bauzía che è dal francone bausi = menzogna, malignità; nel senso di piattello ansato per regger candele deriva dal nome della città algerina Bugiaya dove si producevano tali piattelli e da dove, pare, s’importasse la cera per produrre le candele;
cuófano = cesto, corbello e per traslato gran quantità, abbondanza; dal latino cophinu(m)= cesta, normale il passaggio della i atona ad a atona, in parole sdrucciole;
fessaria= cosa da nulla, sciocchezza, inezia e per traslato bugia macroscopica; etimologicamente da fesso (rotto, spaccato e poi sciocco) p.pass. del verbo findere (rompere, spaccare) + il suff. di pertinenza arius/aro + la desinenza tonica ía; rammenterò che la stessa parola con i medesimi significati si ritrova pure nella lingua ufficiale sebbene in quest’ultima l’originaria ed etimologica a interconsonantica ed ovviamente aperta, la si sia sostituita con una pretestuosa e chiusa (ritenuta forse, ma scioccamente, piú consona dell’aperta a alla elegante (sic?) dialetto di Alighieri Dante, ottenendo cosí in luogo di fessaria una non migliore fesseria. Raffaele Bracale
domenica 23 marzo 2008
GALLINA E DINTORNI
GALLINA e dintorni.
Illustro qui di sèguito alcune locuzioni e proverbi partenopei in cui si coinvolge il bipede domestico indicato in epigrafe.
1-'A gallina fa ll'uovo e ô vallo ll'abbruscia 'o mazzo.
Letteralmente:la gallina fa l'uovo e al gallo brucia l'ano. Id est: Uno lavora o sopporta pesi e disagi ed un altro si lamenta della fatica che non à fatto, o fa le viste di avere sulle proprie spalle il peso di disagi altrui. La locuzione è usata quando si voglia redarguire qualcuno che si sia vestito della pelle dell'orso catturato da altri, o che si voglia esortar qualcuno a non lamentarsi per fatiche che non abbia compiute, e di cui invece faccia le viste di portare il peso.
2- Quanno 'a gallina scacateja è ssigno ca à fatto ll'uovo.
Quando la gallina starnazza è segno che à fatto l'uovo. Al di là del senso letterale, il proverbio vuol significare(rendendo quasi il latino: excusatio non petita, accusatio manifesta) che quando ci si scusi reiteramente di qualcosa, tale fatto è indizio certo che se ne è colpevoli.
3- 'A gallina ca cammina torna â casa cu 'a vozza chiena.
La gallina che cammina torna a casa con il gozzo pieno. Id est: anche chi è sciocco ed inetto (come lo è una gallina), se si mette in azione riesce, in una maniera o in un'altra, a sbarcare il lunario o quanto meno – come si dice a Napoli – a sceppà ‘a campata (a vivacchiare)
4- Parla sulo quanno piscia 'a gallina!
Ad litteram: Parla solo quando orina la gallina! Perentorio icastico monito rivolto a chi (e segnatamente saccenti o supponenenti) si voglia indurre al silenzio e a non metter mai lingua nelle faccende altrui; monito che è rivolto, prendendo -però erroneamente - a modello la gallina che non è vero che non orini mai, ma compie le sue funzioni fisiologiche in un'unica soluzione attraverso un organo onnicomprensivo detto cloaca.
5- Aizammo 'a gallina e avasciammo 'a cecoria...
Letteralmente: aumentiamo la gallina e diminuiamo la cicoria... Id est: diamo maggior consistenza alla minestra aumentandone la carne e diminuendone i vegetali. La locuzione viene usata quando si voglia convincere qualcuno a curar maggiormente la sostanza delle faccende in cui si è impegnati e a non esagerare con il conferimento di aggiunte attinenti piú alla forma che alla sostanza.
Analizziamo le singole parole, cominciando da
gallina:tipico animale da cortile, femmina del gallo, piú piccola del maschio, con piumaggio meno vivacemente colorato, coda piú breve, cresta piccola o mancante, speroni e bargigli assenti; viene allevata per le uova e per le carni (ord. Galliformi); nell’immaginario comune è inteso animale stupido e di nessuna intelligenza e ciò forse perché – avendo testa piccola – si pensa che abbia poco cervello; etimologicamente il nome è dal lat. gallina(m), deriv. di gallus 'gallo';
uovo: l'uovo degli animali ovipari, che viene espulso dal corpo materno prima che l'embrione si sviluppi: uovo d'uccello, di pesce, d'insetto
ma in partic., l'uovo di gallina o altri bipedi: oche, struzzo etc., usati dall'uomo come alimento; etimologicamente il nome è dal lat.ovu(m);
vallo è il gallo: uccello domestico commestibile, con piumaggio brillante, testa alta con grossa cresta carnosa e bargigli, zampe fornite di speroni, coda falciforme dai colori spesso vivaci; la voce vallo risulta essere un adattamento metaplasmatico popolare dell’originario gallo che a sua volta è dal latino gallu(m) sebbene non gli sia estranea la radice centroeuropea kar,kal (risuonare); qualcuno poi à supposto un latino *gannus donde gannulus> gan’lus>gallus che troverebbe un suo parallelo nell’ant. tedesco *hano da un verbo *hanan (= lat. canere(cantare)) con riferimento al canto mattutino del gallo; a mio avviso questa di *gannus è tesi interessante e forse perseguibile;
abbruscia: brucia – voce verbale (3° p.sing. ind. pres.) dell’infinito abbruscià = ardere, bruciare, tendere al bruciore; etimologicamente da un tardo latino *ad-brusiare = bruciare, tendere al bruciore, con tipica palatalizzazione di si>sci come per simia > scimmia ed altrove;
mazzo: di per sé è il culo, sedere, deretano, il complesso delle natiche ed ano che è tipico degli esseri umani e degli animali quadrupedi di grossa taglia; gli uccelli come il gallo non son forniti di natiche, ma del solo ano; ciononpertanto si è preferito mantenere la voce mazzo riferito al gallo, piú rapido e forse meno volgare di ‘o buco d’’o culo con cui in napoletano si indica l’ano; etimologicamente la voce mazzo è dall’acc. lat. matia(m)=intestino; la voce femminile matiam è stata poi maschilizzata ed in luogo di dare mazza à dato mazzo;
scacateja: starnazza – voce verbale (3° p. sing. ind. pres.) dell’infinito scacatïà o anche scacateïà: starnazzare, schiamazzare (propr. dei polli) il verbo è stato evidentemente modellato sull’altro verbo scacà= smettere, cessare ( nella fattispecie: di fare temporaneamente le uova) con derivazione dal latino excacare;
vozza gozza = la voce risulta essere un adattamento regionale di gargozza/o, canna della gola (dal lat.gargutium), con soppressione semplificativa della prima sillaba (gar ) e successivo passaggio metaplasmatico della g a v come in gallo > vallo;
sceppà letteralmente strappare, togliere, svellere – è un infinito che si ritrova anche come scippà, ed ambedue le forme con etimo dal lat. ex-cippare; il verbo a margine in unione con il sostantivo campata(= necessario e sufficiente al sostentamento personale di un giorno, è un denominale di campus= campo, quello che un tempo fu il principale mezzo di procacciarsi il necessario per vivere) vale: vivacchiare quasi che fosse strappare alla vita il sostentamento quotidiano;
quanno: avverbio = in quale tempo, in quale momento; dal latino quando con tipica assimilazione progressiva nd>nn;
piscia = voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito piscià = orinare, espellere per via urinaria; etimologicamente derivato dal greco pytízein = gettar fuori che diede un basso latino *pitissare, pit’sare;
aizammo = voce verbale (2° pers. plur. ind. pres., (ma pure 2° pers. plur. imperativo ) dell’infinito aizà = alzare, ma pure aumentare; etimologicamente da un lat. volg. * altiare, deriv. del lat. class. altus 'alto'; il napoletano antico dal verbo *altiare trasse dapprima auzà donde poi aizà;
avasciammo = voce verbale (2° pers. plur. ind. pres., (ma pure 2° pers. plur. imperativo ) dell’infinito avascià = abbassare, calare portare, mettere qualcosa piú in basso; etimologicamente derivato dal denominale latino ad+bassus donde dapprima un abbassà→abbascià e poi per semplificazione della labiale esplosiva→abascià che divenne, con consueta alternanza partenopea b/v avascià;
cecoria = cicoria; una delle piú comuni e famose piante erbacee coltivate un po’ dovunque, ma soprattutto negli orti napoletani per le foglie commestibili, la radice di detta pianta tostata fu anche usata – soprattutto in periodo bellico - come surrogato del caffè; la cicoria (dal lat. cichorìa, neutro pl. di cichorìum, dal gr. kichórion ), in unione con altri teneri e gustosi vegetali quali scarola(voce napoletana pervenuta poi all’italiano, con derivazione dal lat. volg. *escariola(m), deriv. del lat. escarius 'che serve per mangiare', da ìsca 'cibo, esca') e borraggine o borragine ( che a Napoli è burraccia/vurraccia derivata per l’italiano dal lat. mediev. borragine(m), mentre il napoletano, con tipica alternanza partenopea b/v è dritto per dritto dall’arabo abu rach=burraccia con tipico raddoppiamento interno popolare della r e della c e deglutinazione della a iniziale intesa articolo: aburach= ‘a burraccia; di per sé abu rachc significa "padre del sudore" forse per la particolare attività di questo vegetale che è sudorifero); la borraggine o borragine è usata a Napoli nella preparazione di minestre quasi esclusivamente vegetali, di frittelle etc. ; quando poi si addizionano ai vegetali (cicoria, scarola, borraggine o borragine e verza) varî tipi di carni: bovine, avicole e suine si ottiene la famosa minestra maritata detta pure pignato grasso ed in terra iberica olla potrida.
Raffaele Bracale
Illustro qui di sèguito alcune locuzioni e proverbi partenopei in cui si coinvolge il bipede domestico indicato in epigrafe.
1-'A gallina fa ll'uovo e ô vallo ll'abbruscia 'o mazzo.
Letteralmente:la gallina fa l'uovo e al gallo brucia l'ano. Id est: Uno lavora o sopporta pesi e disagi ed un altro si lamenta della fatica che non à fatto, o fa le viste di avere sulle proprie spalle il peso di disagi altrui. La locuzione è usata quando si voglia redarguire qualcuno che si sia vestito della pelle dell'orso catturato da altri, o che si voglia esortar qualcuno a non lamentarsi per fatiche che non abbia compiute, e di cui invece faccia le viste di portare il peso.
2- Quanno 'a gallina scacateja è ssigno ca à fatto ll'uovo.
Quando la gallina starnazza è segno che à fatto l'uovo. Al di là del senso letterale, il proverbio vuol significare(rendendo quasi il latino: excusatio non petita, accusatio manifesta) che quando ci si scusi reiteramente di qualcosa, tale fatto è indizio certo che se ne è colpevoli.
3- 'A gallina ca cammina torna â casa cu 'a vozza chiena.
La gallina che cammina torna a casa con il gozzo pieno. Id est: anche chi è sciocco ed inetto (come lo è una gallina), se si mette in azione riesce, in una maniera o in un'altra, a sbarcare il lunario o quanto meno – come si dice a Napoli – a sceppà ‘a campata (a vivacchiare)
4- Parla sulo quanno piscia 'a gallina!
Ad litteram: Parla solo quando orina la gallina! Perentorio icastico monito rivolto a chi (e segnatamente saccenti o supponenenti) si voglia indurre al silenzio e a non metter mai lingua nelle faccende altrui; monito che è rivolto, prendendo -però erroneamente - a modello la gallina che non è vero che non orini mai, ma compie le sue funzioni fisiologiche in un'unica soluzione attraverso un organo onnicomprensivo detto cloaca.
5- Aizammo 'a gallina e avasciammo 'a cecoria...
Letteralmente: aumentiamo la gallina e diminuiamo la cicoria... Id est: diamo maggior consistenza alla minestra aumentandone la carne e diminuendone i vegetali. La locuzione viene usata quando si voglia convincere qualcuno a curar maggiormente la sostanza delle faccende in cui si è impegnati e a non esagerare con il conferimento di aggiunte attinenti piú alla forma che alla sostanza.
Analizziamo le singole parole, cominciando da
gallina:tipico animale da cortile, femmina del gallo, piú piccola del maschio, con piumaggio meno vivacemente colorato, coda piú breve, cresta piccola o mancante, speroni e bargigli assenti; viene allevata per le uova e per le carni (ord. Galliformi); nell’immaginario comune è inteso animale stupido e di nessuna intelligenza e ciò forse perché – avendo testa piccola – si pensa che abbia poco cervello; etimologicamente il nome è dal lat. gallina(m), deriv. di gallus 'gallo';
uovo: l'uovo degli animali ovipari, che viene espulso dal corpo materno prima che l'embrione si sviluppi: uovo d'uccello, di pesce, d'insetto
ma in partic., l'uovo di gallina o altri bipedi: oche, struzzo etc., usati dall'uomo come alimento; etimologicamente il nome è dal lat.ovu(m);
vallo è il gallo: uccello domestico commestibile, con piumaggio brillante, testa alta con grossa cresta carnosa e bargigli, zampe fornite di speroni, coda falciforme dai colori spesso vivaci; la voce vallo risulta essere un adattamento metaplasmatico popolare dell’originario gallo che a sua volta è dal latino gallu(m) sebbene non gli sia estranea la radice centroeuropea kar,kal (risuonare); qualcuno poi à supposto un latino *gannus donde gannulus> gan’lus>gallus che troverebbe un suo parallelo nell’ant. tedesco *hano da un verbo *hanan (= lat. canere(cantare)) con riferimento al canto mattutino del gallo; a mio avviso questa di *gannus è tesi interessante e forse perseguibile;
abbruscia: brucia – voce verbale (3° p.sing. ind. pres.) dell’infinito abbruscià = ardere, bruciare, tendere al bruciore; etimologicamente da un tardo latino *ad-brusiare = bruciare, tendere al bruciore, con tipica palatalizzazione di si>sci come per simia > scimmia ed altrove;
mazzo: di per sé è il culo, sedere, deretano, il complesso delle natiche ed ano che è tipico degli esseri umani e degli animali quadrupedi di grossa taglia; gli uccelli come il gallo non son forniti di natiche, ma del solo ano; ciononpertanto si è preferito mantenere la voce mazzo riferito al gallo, piú rapido e forse meno volgare di ‘o buco d’’o culo con cui in napoletano si indica l’ano; etimologicamente la voce mazzo è dall’acc. lat. matia(m)=intestino; la voce femminile matiam è stata poi maschilizzata ed in luogo di dare mazza à dato mazzo;
scacateja: starnazza – voce verbale (3° p. sing. ind. pres.) dell’infinito scacatïà o anche scacateïà: starnazzare, schiamazzare (propr. dei polli) il verbo è stato evidentemente modellato sull’altro verbo scacà= smettere, cessare ( nella fattispecie: di fare temporaneamente le uova) con derivazione dal latino excacare;
vozza gozza = la voce risulta essere un adattamento regionale di gargozza/o, canna della gola (dal lat.gargutium), con soppressione semplificativa della prima sillaba (gar ) e successivo passaggio metaplasmatico della g a v come in gallo > vallo;
sceppà letteralmente strappare, togliere, svellere – è un infinito che si ritrova anche come scippà, ed ambedue le forme con etimo dal lat. ex-cippare; il verbo a margine in unione con il sostantivo campata(= necessario e sufficiente al sostentamento personale di un giorno, è un denominale di campus= campo, quello che un tempo fu il principale mezzo di procacciarsi il necessario per vivere) vale: vivacchiare quasi che fosse strappare alla vita il sostentamento quotidiano;
quanno: avverbio = in quale tempo, in quale momento; dal latino quando con tipica assimilazione progressiva nd>nn;
piscia = voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito piscià = orinare, espellere per via urinaria; etimologicamente derivato dal greco pytízein = gettar fuori che diede un basso latino *pitissare, pit’sare;
aizammo = voce verbale (2° pers. plur. ind. pres., (ma pure 2° pers. plur. imperativo ) dell’infinito aizà = alzare, ma pure aumentare; etimologicamente da un lat. volg. * altiare, deriv. del lat. class. altus 'alto'; il napoletano antico dal verbo *altiare trasse dapprima auzà donde poi aizà;
avasciammo = voce verbale (2° pers. plur. ind. pres., (ma pure 2° pers. plur. imperativo ) dell’infinito avascià = abbassare, calare portare, mettere qualcosa piú in basso; etimologicamente derivato dal denominale latino ad+bassus donde dapprima un abbassà→abbascià e poi per semplificazione della labiale esplosiva→abascià che divenne, con consueta alternanza partenopea b/v avascià;
cecoria = cicoria; una delle piú comuni e famose piante erbacee coltivate un po’ dovunque, ma soprattutto negli orti napoletani per le foglie commestibili, la radice di detta pianta tostata fu anche usata – soprattutto in periodo bellico - come surrogato del caffè; la cicoria (dal lat. cichorìa, neutro pl. di cichorìum, dal gr. kichórion ), in unione con altri teneri e gustosi vegetali quali scarola(voce napoletana pervenuta poi all’italiano, con derivazione dal lat. volg. *escariola(m), deriv. del lat. escarius 'che serve per mangiare', da ìsca 'cibo, esca') e borraggine o borragine ( che a Napoli è burraccia/vurraccia derivata per l’italiano dal lat. mediev. borragine(m), mentre il napoletano, con tipica alternanza partenopea b/v è dritto per dritto dall’arabo abu rach=burraccia con tipico raddoppiamento interno popolare della r e della c e deglutinazione della a iniziale intesa articolo: aburach= ‘a burraccia; di per sé abu rachc significa "padre del sudore" forse per la particolare attività di questo vegetale che è sudorifero); la borraggine o borragine è usata a Napoli nella preparazione di minestre quasi esclusivamente vegetali, di frittelle etc. ; quando poi si addizionano ai vegetali (cicoria, scarola, borraggine o borragine e verza) varî tipi di carni: bovine, avicole e suine si ottiene la famosa minestra maritata detta pure pignato grasso ed in terra iberica olla potrida.
Raffaele Bracale