1 -Tené 'a cazzimma
Neologismo studentesco intraducibile ad litteram con il quale si indica l'atteggiamento malevolo, la furbizia prevaricante di chi mira a danneggiare una controparte piú debole e perciò piú vulnerabile.
Talvolta si imbarocchisce la locuzione aggiungendo lo specificativo:
d''e papere australiane (delle oche australiane), specificazione però inutile e non comprensibile atteso che non è dato sapere che le oche di quel continente siano prevaricatrici o particolarmente furbe.
2 -Tené 'a cimma 'e scerocco
Ad litteram: tenere la sommità dello scirocco Id est: essere nervoso, irascibile, pronto a dare in escandescenze, quasi comportandosi alla medesima maniera del metereopatico condizionato dal massimo soffio dello scirocco.
3 -Tené 'e cazze ca ce abballano pe capa
Ad litteram: tenere i peni che ci danzano sulla testa Id est: essere preoccupati al massimo, aver cattivi crucci che occupano la testa. Icastica anche se becera locuzione con la quale si sostiene che ipotetici peni significanti gravi preoccupazioni ci stiano danzando in testa per rammentarci quelle inquetudini.
4 -Tené 'a magnatora vascia
Ad litteram: tenere la mangiatoia bassa Id est: non avere alcuna preoccupazione economica, e ciò non per proprii meriti, ma per cause derivanti dall’appartenenza a famiglia facoltosa, o per esser sodali di amici e/o parenti munifici e comportarsi irresponsabilmente in maniera prodiga, quando non eccessivamente dispendiosa, non badando alle spese.
5 -Tené 'a neve dint'â sacca
Ad litteram: tenere la neve in tasca Detto di chi si mostri eccessivamente dinamico o frettoloso e sia restio a fermarsi per colloquiare, quasi dovesse raggiungere rapidamente una meta prefissasi prima che si sciolga l'ipotetico ghiaccio tenuto in tasca.Va da sé che trattasi di un’espressione iperbolica attesa la impossibilità di poter realmente portare in tasca della neve o ghiaccio (basterebbe infatti il solo calore del corpo, per farli sciogliere…).
6 -Tené 'a parola superchia
Ad litteram: tenere la parola superflua. Detto di chi parli piú del dovuto o sia eccessivamente logorroico, ma anche di chi, saccente e suppunente, aggiunga sempre un' ultima inutile parola e nell'ambito di un colloquio cerchi sempre di esprimere l'ultimo concetto, perdendo -come si dice - l'occasione di tacere - atteso che le sue parole non sono né conferenti, né utili o importanti, ma solo superflue.
superchia agg.vo f.le del maschile supierchio = eccedente, superflua/o, eccessiva/o (dal lat. volg. *superculu(m), deriv. di super 'sopra' ).
7 -Tené 'a póvera 'ncopp' ê recchie
Ad litteram: tenere la polvere sulle orecchie Icastica locuzione usata a Napoli per indicare chi sia o - soltanto - sembri, per la voce e/o le movenze, un diverso accreditato di avere le orecchie cosparse di una presunta polvere , richiamante quella piú preziosa, in quanto aurea, ,che usavano per agghindarsi gli antichi dignitarii messicani e/o peruviani cosí apparsi ai conquistatori ispanici. La locuzione in epigrafe, a Napoli viene riferita ad ogni tipo di diverso, sia al ricchione (pederasta attivo), che al femmenello (pederasta passivo).
8 - Tené 'a puzza sott' a 'o naso
Ad litteram: tenere ilpuzzosotto il naso Detto di chi, borioso, tronfio e schizzinoso assuma un atteggiamento di ripulsa, quello di chi avendo un puzzo sotto il naso, non lo tollerasse.
9 - Tené a uno appiso 'ncanna o anche purtà a uno appiso 'ncanna
Ad litteram: tenere uno appeso alla gola o anche portare uno appeso alla gola Locuzione dalla doppia valenza: positiva e negativa; in quella positiva si usa per significare di avere una spiccata preferenza per una persona, quasi portandola al collo a mo' di preziosa medaglia benedetta; nella valenza negativa la locuzione è usata per indicare una situazione completamente opposta a quella testé segnalata, quella cioé in cui una persona generi moti di repulsione e di fastidio a mo' di taluni pesanti, tronfi monili che messi al collo, finiscono per infastidire chi li porti.Chiarisco qui che per meglio determinare la valenza della locuzione, quella positiva è segnalata dall'uso del verbo purtà (portare), quella negativa dall'uso del verbo tené (tenere).
10 -Tené a quaccuno appiso all'urdemo buttone d''a vrachetta
Ad litteram:tenere qualcuno appeso all'ultimo bottone della apertura anteriore dei calzoni.
Id est: Avere e mostrare aperta repulsione nei confronti di qualcuno al segno di considerarlo fastidioso elemento da poter - figuratamente - sospendere, per vilipendio, all'estremo bottone della brachetta anteriore dei calzoni.
11 -Tené a quaccuno 'ncopp' ê ppalle
Ad litteram:tenere qualcuno sui testicoli Id est: Cosí si esprime chi voglia fare intendere di nutrire profonda antipatia ed insofferenza nei confronti di qualcuno al segno di ritenerlo, sia pure figuratamente, assiso fastidiosamente sui propri testicoli.
12 -Tené 'a saràca dint' â sacca o anche 'a quaglia sotto
Ad litteram:tenere la salacca in tasca o anche la quaglia sotto
Icastiche locuzioni, usate alternativamente per indicare la medesima cosa e cioè: tentare inutilmente di nasconder qualcosa ; nel primo caso infatti è impossibile celare di avere in tasca una maleodorante salacca ; il suo puzzo l'appaleserebbe súbito; nella variante è ugualmente improbo, se non impossibile nascondere di essere affetto da una corposa, voluminosa ernia (quaglia) inguinale .
13 -Tené 'a sciorta 'e Cazzetta: jette a piscià e se ne cadette
Ad litteram:tenere il destino di Cazzetta: si dispose a mingere ed il pene cadde in terra.
Divertente locuzione usata però a bocca amara da chi voglia significare di essere estremamente sfortunato e perseguitato da una sorte malevola al segno di non potersi iperbolicamente permettere neppure le piú normali funzioni fisiologiche, senza incorrere in gravi, irreparabili disavventure quali ad es. la perdita del pene.
14 -Tené 'a sciorta d''o piecoro ca nascette curnuto e murette scannato
Ad litteram:tenere il destino del montone che nacque becco e morí squartato.
Locuzione che, come la precedente viene usata da chi si dolga del proprio infame destino, qui rapportato a quello del montone che nato cornuto (per traslato: tradito) finisce i suoi giorni ucciso.
15 -Tené 'a salute d''a carrafa d''a Zecca
Ad litteram:tenere la salute (consistenza) della caraffa della Zecca.
Id est: essere molto cagionevoli di salute al segno di poter essere figuratamente rapportati alla estrema fragilità delle ampolle di sottilissimo vetro, la cui capacità non raggiungeva il litro, che marcate e tarate dalla Regia Zecca Napoletana erano le uniche atte ad indicare la precisa quantità dei liquidi contenuti.
16 -Tené 'a vocca sporca
Ad litteram:tenere la bocca sporca Detto di chi, per abitudine parli facendo uso continuato ed immotivato di volgarità e/o parole sconce ed oscene al segno da restarne figuratamente con la bocca sporcata.
17 - Tené 'e chirchie allascate
Ad litteram:tenere i cerchi allentati Detto di chi, vacillandogli la mente, sragioni o abbia vuoti di memoria, alla stregua di una botte che per essersi allentati i cerchi contentivi delle doghe, vacilla e perde il liquido contenuto.
18 -Tené 'e gghiorde
Ad litteram:tenere la giarda Cosí ironicamente si usa dire di chi, pigro, infingardo e scansafatiche mostri di muoversi con studiata lentezza, tardo e dolente all'opera, quasi come i cavalli che affetti dalla giarda ne abbiano le giunture e il collo delle estremità ingrossati al punto da esserne impediti nei movimenti.
19 -Tené 'e lappese a quadrigliè p''a capa
Letteralmente: Avere le matite a quadretti per la testa. Presa alla lettera la locuzione non significherebbe niente. In realtà lappese a quadrigliè è la corruzione dell'espressione latina lapis quadratum (corrotto poi in lapis quadrellatum), seu opus reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l'esterno,ed il vertice verso l'interno, di piccole piramidi di tufo o altra pietra , per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente.Questa costruzione richiedeva notevole precisione ed attenzione con conseguente applicazione mentale tale da procurare fastidio e ... mal di testa per la tensione ed il nervosismo, quelli che figuratamente sono indicati con la locuzione in epigrafe.Ricorderò che erroneamente qualche scrittore di cose napoletane chiama in causa le matite o lapis propriamente detti, ed in particolare una pubblicità d'inizio del 20° secolo che mostrava una testa su cui erano conficcate a mo' di raggiera delle matite laccate a quadrettini neri e bianchi; ma atteso che la locuzione in epigrafe è molto antecedente all'epoca ( ca. 1790) di quando furono commercializzate le matite, ne discende che l'ipotesi è da scartare.
20 - Tené 'e ppalle quadrate
Ad litteram:tenere i testicoli quadrati. Icastico ed iperbolico modo di dire usato ad encomio di chi appaia nel proprio agire solerte, pronto ed attento, dotato di efficaci capacità operative attribuite all'inusuale quadratura dei suoi testicoli che risultano sia pure figuratamente non banalmente sferici.
21 -Tené 'e pecune
Ad litteram:tenere i pichi Espressione che con valenza positiva viene riferita a coloro che sebbene giovani di età, si mostrino moralmente cresciuti, intelligenti e capaci di operare al di là del presagibile, quasi che non siano gli imberbi adolescenti che l'anagrafe dice, ma a mo' degli uccelli prossimi a metter le piume, mostrino di avere, figuratamente, sparsi per il corpo quei pichi propedeutici negli uccelli allo spuntar delle piume.
22 -Tené 'e pappice 'ncapa
Ad litteram:tenere i tonchi in testa Id est: sragionare, non connettere. Locuzione usata nei confronti di coloro che con parole o atti adducano nei rapporti interpersonali, ragionamenti non consoni, assurdi, sciocchi e pretestuosi, quasi fossero generati da teste i cui cervelli fossero assaliti e lesi nelle capacità raziocinanti dai tonchi quei minuscoli insetti che talora infestano i cereali in genere e la pasta in particolare.
23 - Tené 'e pigne 'ncapo
Ad litteram:avere le pigne in testa. Locuzione di identica valenza della precedente, usata però quando si voglia intendere che la mancanza di raziocinio è ritenuta esser dovuta ad una ipotetica violenza subíta, come potrebbe esser quella di sentirsi cadere in testa i duri stròbili del pino.
24 -Tené 'e rrecchie 'e pulicano
Ad litteram:tenere le orecchie di pubblicano Locuzione dalla duplice valenza usata sia per indicare sia dotato di udito finissimo , sia - piú spesso per indicare coloro che stiano sempre, con l'orecchio teso attenti ad ascoltare ciò che accade a loro intorno, vuoi per informarsi, vuoi per non lasciarsi cogliere impreparati, comportandosi alla medesima stregua degli antichi esattori pubblici: pubblicani di cui pulicano è corruzione, pronti ad ascoltar qualunque cosa venisse detta in giro sul conto di chiunque, per non lasciarsi sfuggire un eventuale contribuente.
25 - Tené 'e rrecchie pe finimente 'e capa
Ad litteram:tenere le orecchie per guarnimento della testa. Divertente locuzione di portata esattamente contraria alla precedente, che viene usata nei confronti di chi sia cosí duro d'orecchio da fare ritenere i loro padiglioni auricolari buoni solo per agghindare la testa.
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venerdì 30 aprile 2010
VARIE 668
1 San Dunato, san Dunato: simmo tutte struppïate chillu llà cchiú bunariello tène 'a guallera e 'o scartiello.
Filastrocca autoconsolatoria che sogliono ripetersi l'un l'altro i componenti un consesso nel quale nessuno sia esente da malanni o pecche fisiche; in italiano, suona: san Donato, san Donato siamo tutti conciati male; il migliore tra di noi à l'ernia e la gobba!
guallera = ernia inguinale sost. femm. dall’arabo wadara.
scartiello = gobba posteriore sost. maschile proviene da un antico latino: cartellus (cesta/ gerla) che erano portate, proprio come una gobba posteriore, sulle spalle.
2 Jí truvanno scescé.
Letteralmente: andare in cerca di pretesti, scuse se non esimenti per non fare qualcosa o cercare un appiglio per litigare. Il termine scescé non incarna una parola precisa, ma significa tutta una situazione: quella della pretestuosa ricerca e arriva nel napoletano per il tramite del francese chercher: cercare e sta a significare il tipico reiterato andare e venire di chi cerca un quid, ma non sa bene quale esso sia e perché lo si cerchi.Con tutta probabilità durante la dominazione murattiana (1808 – 1815) un soldato francese interrogato da un popolano su cosa desiderasse rispose con una frase contenente il verbo chercher (cercare) ed il popolano che non conosceva l’idioma francese avvertí lo chercher come scescé e comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava in cerca di un non meglio identificato scescé) che da quel momento identificò scuse, pretesti e/o appigli imprecisati come imprecisato era stato lo scescé del soldato francese.
3 Essere ditto tòrtano e senza 'nzogna.
Letteralmente: esser chiamato tortano, ma esser sprovvisto di sugna.Colui che viene indicato responsabile di qualcosa di cui - comprovatamente - non sia stato autore suole ribellarsi con la locuzione in epigrafe affermando cioè che non lo si può chiamare tòrtano, dal momento che egli è privo di strutto (elemento essenziale della ciambella rustica détta tòrtano). Per intendere a pieno il significato della frase bisogna sapere che il tòrtano (dal lat. tortilis= ripiegato, attorcigliato) è una grossa ciambella rustica tipica del periodo pasquale, ricca di uova, salumi, provolone e formaggi, ma soprattutto di strutto che se manca non permette alla preparazione culinaria di esser détta: tòrtano; alla stessa stregua, non si potrebbe dare del ladro ad uno se non si avesse la prova provata del suo ladrocinio.
la voce ‘nzogna= indica la sugna, lo strutto ricavato dal grasso di maiale e circa l’origine della parola sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, (non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns→nz, dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare infatti che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancóra ricca di grasso.
Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nsoinia→’nzogna.
Ordunque la sugna ( che era essenzialmente di due specie: 1)‘nzogna ‘mpane(quella proveniente dal grasso sottocutaneo della groppa del maiale ed era un pannicolo interamente di grasso alto fino a tre dita); 2) lardiciello (quella proveniente dal grasso sottocutaneo della pancia del maiale ed era un pannicolo non interamente di grasso, striato di contenuti strati di carne ed alto non piú di un paio dita) era acquistata nel mese di dicembre, al tempo della macellazione dei maiali, in larghe falde in macelleria, tagliata in congrui cubi, messi poi a liquefare su di una fiamma dolce in un’ampia tiana, con poco sale fino, in compagnia di un paio di foglie di alloro, da noi detto giustamente lauro (forse da un latino: laurus / lau(da)re se non da un daurus che imiterebbe un greco drýs =quercia, pianta; lau(da)re si fa preferire rammentando che un tempo le foglie di lauro, piú che in cucina fossero usate per incoronare capitani, sacerdoti o atleti vittoriosi. Una volta ridotta allo stato liquido la sugna veniva fatta intiepidire un poco prima di esser versata in uno o più vasetti ed a temperatura ambiente la si lasciava raffreddare fino a che non acquistasse una consistenza cremosa; si recuperavano le foglie di lauro e le si poneva alla sommità del vasetto pieno, coprendo il tutto con dei fogli di carta oleata trattenuti da elastici; i residui della liquefazione dei cubi di sugna, venivano raccolti con una schiumarola forata ed adeguatamente pressati con una schiacciapatate per ricavarne dei piccoli panetti circolari detti ‘e cicule (= avanzi appunto dei pezzetti del grasso di majale, dopo cavatone lo strutto o sugna; dal latino:insciciolu(m) Va da sé che i ciculi piú gustosi fossero quelli residui del lardiciello e non della ‘nzogna ‘mpane )Rammento qui che con la medesima voce: cicoli o ciccioli in salumeria o, ma meno spesso, in macelleria si vendono dei gustosissimi prodotti industriali che provengono non dai residui della liquefazione di cubi di sugna, ma dalla cottura a vapore di carni, grasso e cotenna provenienti in massima parte dal collo del maiale, opportunamente salati e pepati. Al termine della cottura a vapore il tutto viene opportunamente pressato in forme metalliche fino ad ottenere dei grossi pani cilindrici piú larghi ( circa50 cm.) che alti(circa 15 cm) , che raffreddati vengono venduti a taglio ed a peso nelle salumerie al banco dei salumi cui sono, sia pure impropriamente apparentati; la sugna che comunque si ricava da questa spremitura di carni, grasso e cotenne viene venduta ugualmente come condimento sia pure di seconda scelta.
4 Ll'acqua 'nfraceta 'e bastimiente a mmare.
Letteralmente: l'acqua rende fradice le navi in mare. Cosí gli accaniti bevitori di vino sogliono respingere un bicchiere d'acqua che venga loro offerto, volendo significare che mutare le abitudini buone può essere pernicioso, se non deleterio.
5 Aizàmmo 'stu cummò!
Letteralmente: solleviamo questo canterano! Id est: sobbarchiamoci questa fatica. A Napoli questa esclamazione viene pronunciata a mo' di incitamento quando ci si trovi a principiare un'operazione materiale o meno, che si presuma faticosa e perciò scarsamente accetta quale quella di sollevare un pesante canterano in noce massello reso piú ponderoso da un ripiano superiore in marmo cipollino. Figuratamente poi a Napoli quando qualcuno impalma una donna tutt'altro che avvenente e, magari, molto anziana, ed a maggior disdoro sprovvista d’adeguata dote, si suole commentare con un sarcastico: s'è aizato 'stu cummò (à alzato questo mobile pesante!) cummò = canterano, grosso mobile a cassetti; sost. masch. dal francese commode.
aizàmmo = alziamo, solleviamo (voce verbale 1° pers. plur. cong. esortativo dell’infinito aizà/aizare che è dal lat.volgare *altiàre→ →auzare→aizare→aizà.
6 È gghiuto 'o ccaso 'ncopp' ê maccarune.
Letteralmente: È finito il formaggio sui maccheroni. Id est: la faccenda à avuto la sua logica e sperata conclusione, allo stesso modo come una spolverata di formaggio conclude nel miglior dei modi la presentazione di un fumante piatto di maccheroni. È da rammentarsi che un tempo, a Napoli, quando i maccheroni venivano ammanniti per istrada a frettolosi avventori da appositi rivenditori detti "maccheronari" un piatto di maccheroni in bianco servito solo con l'aggiunta di formaggio e un po' di pepe si vendeva per due soldi ed era appunto detto 'o doje allattante cioè il due al latte, mentre i maccheroni al sugo di pomodoro costavano tre soldi ed erano detti 'o tre garibbalde con riferimento al rosso della camicia del masnadiero nizzardo.
7 Va truvanno chi ll'accide.
Letteralmente: va in cerca di chi lo ammazzi. Lo si dice di chi, sciocco e masochista provochi il prossimo, lo stizzisca al punto da provocarne gli istinti omicidi nei propri confronti.
8 Essere brutto cu 'o tè cu 'o nè, 'o piripisso e 'o naianà.
Locuzione praticamente intraducibile che racchiude nei suoi quattro termini la quintessenza della bruttezza per modo che colui contro cui viene usata sarà indicato come l'essere piú brutto in circolazione. Tentare di individuare il significato dei quattro non-sense della locuzione è cosa impossibile ed esercizio inutile: un napoletano sa benissimo cosa vuole significare quando afferma di qualcuno che è brutto cu 'o tè cu 'o nè, 'o piripisso e 'o naianà.
9 Buono p'aparà 'o mastrillo.
Letteralmente: buono per armare la trappolina.Il mastrillo (dal lat. mustriculu(m) è la piccola trappola per topi nella quale a mo' di esca si pone un irrisorio pezzetto di formaggio; cosí che quando di si dice di una razione alimentare che è bbona p’aparà ‘o mastrillo (che è buona per armare la trappola), si vuol significare che la razione è veramente parva res, esigua e non adatta a soddisfare neppure un normale appetito.
10 Jí ascianno guaje cu 'o lanternino.
Letteralmente: andare alla ricerca di guai con la lanterna. Id est: cacciarsi nei guai quasi con voluttà al punto di andarne alla ricerca con una metaforica lanterna che illumini i luoghi dove i guai stanno nascosti. Il termine asciare significa cercare qualcosa con insistenza quasi fiutandola e viene dal latino adflare→adsciare→asciare: annusare con consueta trasformazione di fl in sci come per flos che in napoletano diventa sciore, flumen che diventa sciummo.
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Filastrocca autoconsolatoria che sogliono ripetersi l'un l'altro i componenti un consesso nel quale nessuno sia esente da malanni o pecche fisiche; in italiano, suona: san Donato, san Donato siamo tutti conciati male; il migliore tra di noi à l'ernia e la gobba!
guallera = ernia inguinale sost. femm. dall’arabo wadara.
scartiello = gobba posteriore sost. maschile proviene da un antico latino: cartellus (cesta/ gerla) che erano portate, proprio come una gobba posteriore, sulle spalle.
2 Jí truvanno scescé.
Letteralmente: andare in cerca di pretesti, scuse se non esimenti per non fare qualcosa o cercare un appiglio per litigare. Il termine scescé non incarna una parola precisa, ma significa tutta una situazione: quella della pretestuosa ricerca e arriva nel napoletano per il tramite del francese chercher: cercare e sta a significare il tipico reiterato andare e venire di chi cerca un quid, ma non sa bene quale esso sia e perché lo si cerchi.Con tutta probabilità durante la dominazione murattiana (1808 – 1815) un soldato francese interrogato da un popolano su cosa desiderasse rispose con una frase contenente il verbo chercher (cercare) ed il popolano che non conosceva l’idioma francese avvertí lo chercher come scescé e comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava in cerca di un non meglio identificato scescé) che da quel momento identificò scuse, pretesti e/o appigli imprecisati come imprecisato era stato lo scescé del soldato francese.
3 Essere ditto tòrtano e senza 'nzogna.
Letteralmente: esser chiamato tortano, ma esser sprovvisto di sugna.Colui che viene indicato responsabile di qualcosa di cui - comprovatamente - non sia stato autore suole ribellarsi con la locuzione in epigrafe affermando cioè che non lo si può chiamare tòrtano, dal momento che egli è privo di strutto (elemento essenziale della ciambella rustica détta tòrtano). Per intendere a pieno il significato della frase bisogna sapere che il tòrtano (dal lat. tortilis= ripiegato, attorcigliato) è una grossa ciambella rustica tipica del periodo pasquale, ricca di uova, salumi, provolone e formaggi, ma soprattutto di strutto che se manca non permette alla preparazione culinaria di esser détta: tòrtano; alla stessa stregua, non si potrebbe dare del ladro ad uno se non si avesse la prova provata del suo ladrocinio.
la voce ‘nzogna= indica la sugna, lo strutto ricavato dal grasso di maiale e circa l’origine della parola sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, (non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns→nz, dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare infatti che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancóra ricca di grasso.
Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nsoinia→’nzogna.
Ordunque la sugna ( che era essenzialmente di due specie: 1)‘nzogna ‘mpane(quella proveniente dal grasso sottocutaneo della groppa del maiale ed era un pannicolo interamente di grasso alto fino a tre dita); 2) lardiciello (quella proveniente dal grasso sottocutaneo della pancia del maiale ed era un pannicolo non interamente di grasso, striato di contenuti strati di carne ed alto non piú di un paio dita) era acquistata nel mese di dicembre, al tempo della macellazione dei maiali, in larghe falde in macelleria, tagliata in congrui cubi, messi poi a liquefare su di una fiamma dolce in un’ampia tiana, con poco sale fino, in compagnia di un paio di foglie di alloro, da noi detto giustamente lauro (forse da un latino: laurus / lau(da)re se non da un daurus che imiterebbe un greco drýs =quercia, pianta; lau(da)re si fa preferire rammentando che un tempo le foglie di lauro, piú che in cucina fossero usate per incoronare capitani, sacerdoti o atleti vittoriosi. Una volta ridotta allo stato liquido la sugna veniva fatta intiepidire un poco prima di esser versata in uno o più vasetti ed a temperatura ambiente la si lasciava raffreddare fino a che non acquistasse una consistenza cremosa; si recuperavano le foglie di lauro e le si poneva alla sommità del vasetto pieno, coprendo il tutto con dei fogli di carta oleata trattenuti da elastici; i residui della liquefazione dei cubi di sugna, venivano raccolti con una schiumarola forata ed adeguatamente pressati con una schiacciapatate per ricavarne dei piccoli panetti circolari detti ‘e cicule (= avanzi appunto dei pezzetti del grasso di majale, dopo cavatone lo strutto o sugna; dal latino:insciciolu(m) Va da sé che i ciculi piú gustosi fossero quelli residui del lardiciello e non della ‘nzogna ‘mpane )Rammento qui che con la medesima voce: cicoli o ciccioli in salumeria o, ma meno spesso, in macelleria si vendono dei gustosissimi prodotti industriali che provengono non dai residui della liquefazione di cubi di sugna, ma dalla cottura a vapore di carni, grasso e cotenna provenienti in massima parte dal collo del maiale, opportunamente salati e pepati. Al termine della cottura a vapore il tutto viene opportunamente pressato in forme metalliche fino ad ottenere dei grossi pani cilindrici piú larghi ( circa50 cm.) che alti(circa 15 cm) , che raffreddati vengono venduti a taglio ed a peso nelle salumerie al banco dei salumi cui sono, sia pure impropriamente apparentati; la sugna che comunque si ricava da questa spremitura di carni, grasso e cotenne viene venduta ugualmente come condimento sia pure di seconda scelta.
4 Ll'acqua 'nfraceta 'e bastimiente a mmare.
Letteralmente: l'acqua rende fradice le navi in mare. Cosí gli accaniti bevitori di vino sogliono respingere un bicchiere d'acqua che venga loro offerto, volendo significare che mutare le abitudini buone può essere pernicioso, se non deleterio.
5 Aizàmmo 'stu cummò!
Letteralmente: solleviamo questo canterano! Id est: sobbarchiamoci questa fatica. A Napoli questa esclamazione viene pronunciata a mo' di incitamento quando ci si trovi a principiare un'operazione materiale o meno, che si presuma faticosa e perciò scarsamente accetta quale quella di sollevare un pesante canterano in noce massello reso piú ponderoso da un ripiano superiore in marmo cipollino. Figuratamente poi a Napoli quando qualcuno impalma una donna tutt'altro che avvenente e, magari, molto anziana, ed a maggior disdoro sprovvista d’adeguata dote, si suole commentare con un sarcastico: s'è aizato 'stu cummò (à alzato questo mobile pesante!) cummò = canterano, grosso mobile a cassetti; sost. masch. dal francese commode.
aizàmmo = alziamo, solleviamo (voce verbale 1° pers. plur. cong. esortativo dell’infinito aizà/aizare che è dal lat.volgare *altiàre→ →auzare→aizare→aizà.
6 È gghiuto 'o ccaso 'ncopp' ê maccarune.
Letteralmente: È finito il formaggio sui maccheroni. Id est: la faccenda à avuto la sua logica e sperata conclusione, allo stesso modo come una spolverata di formaggio conclude nel miglior dei modi la presentazione di un fumante piatto di maccheroni. È da rammentarsi che un tempo, a Napoli, quando i maccheroni venivano ammanniti per istrada a frettolosi avventori da appositi rivenditori detti "maccheronari" un piatto di maccheroni in bianco servito solo con l'aggiunta di formaggio e un po' di pepe si vendeva per due soldi ed era appunto detto 'o doje allattante cioè il due al latte, mentre i maccheroni al sugo di pomodoro costavano tre soldi ed erano detti 'o tre garibbalde con riferimento al rosso della camicia del masnadiero nizzardo.
7 Va truvanno chi ll'accide.
Letteralmente: va in cerca di chi lo ammazzi. Lo si dice di chi, sciocco e masochista provochi il prossimo, lo stizzisca al punto da provocarne gli istinti omicidi nei propri confronti.
8 Essere brutto cu 'o tè cu 'o nè, 'o piripisso e 'o naianà.
Locuzione praticamente intraducibile che racchiude nei suoi quattro termini la quintessenza della bruttezza per modo che colui contro cui viene usata sarà indicato come l'essere piú brutto in circolazione. Tentare di individuare il significato dei quattro non-sense della locuzione è cosa impossibile ed esercizio inutile: un napoletano sa benissimo cosa vuole significare quando afferma di qualcuno che è brutto cu 'o tè cu 'o nè, 'o piripisso e 'o naianà.
9 Buono p'aparà 'o mastrillo.
Letteralmente: buono per armare la trappolina.Il mastrillo (dal lat. mustriculu(m) è la piccola trappola per topi nella quale a mo' di esca si pone un irrisorio pezzetto di formaggio; cosí che quando di si dice di una razione alimentare che è bbona p’aparà ‘o mastrillo (che è buona per armare la trappola), si vuol significare che la razione è veramente parva res, esigua e non adatta a soddisfare neppure un normale appetito.
10 Jí ascianno guaje cu 'o lanternino.
Letteralmente: andare alla ricerca di guai con la lanterna. Id est: cacciarsi nei guai quasi con voluttà al punto di andarne alla ricerca con una metaforica lanterna che illumini i luoghi dove i guai stanno nascosti. Il termine asciare significa cercare qualcosa con insistenza quasi fiutandola e viene dal latino adflare→adsciare→asciare: annusare con consueta trasformazione di fl in sci come per flos che in napoletano diventa sciore, flumen che diventa sciummo.
brak
'O CIUCCIO 'E FECHELLA
Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: trentatré chiaje e pure ‘a cora fràceta!
Ad litteram: Sembra l’asino di Fichella: trentatré piaghe ed anche la coda marcia. Divertente, sarcastica espressione (nata,e ne dirò, in àmbito sportivo intorno al 1929), usata in riferimento a chi realmente sia o a chi faccia le viste di essere di salute estremamente malferma, continuamente in preda ad acciacchi, malesseri piccoli o grandi cosa che gli impedisce di attendere con costanza e congruenza ai proprî uffici con conseguente fastidio di parenti o colleghi che devono sobbarcarsi anche il suo lavoro. Questo( ma non si sa quanto veridicamente) malmesso, malaticcio, cagionevole individuo viene paragonato ad un famoso asino, di proprietà d’un tal Fechella (di cui dirò), usato per piccoli trasporti di derrate alimentari e/o oggettistica, asino che gravato di basto ne aveva la schiena piagata in piú punti, asino di cui si diceva che perfino la coda fosse marcita; a differenza però dell’individuo cui è paragonato il solerte asino, a malgrado delle sue afflizioni continuava ad essere adibito costantemente al suo lavoro e non se ne lagnava. Tuttavia il paragone tra il piagato asino e chi sia piú o meno autenticamente in modo continuo oppresso, abbattuto, prostrato, avvilito, tormentato, perché afflitto da malanni, acciacchi, malattie ricorrenti, m’appare ugualmente icasticamente calzante! Ciò precisato diamo dapprima un rapido sguardo alle voci dell’espressione, riservandoci di dire in coda del Fechella e della storia del suo asino.
ciuccio s.vo m.le = asino (cfr. antea sub 22);
trentatré agg. num. card. invar.
1 numero naturale corrispondente a trenta unità più tre; nella numerazione araba è rappresentato da 33, in quella romana da XXXIII
2 posposto al sostantivo, con valore di ordinale;
3 come s.vo m.le la parola che il paziente è invitato a pronunciare durante l'auscultazione del torace, perché genera un fremito dal quale il medico può trarre indicazioni circa la presenza di affezioni broncopolmonari: dica trentatré!. dal lat. pop. volg. tr(i)enta+tre(s) per il cl. trigintatre(s);
chiaje s.vo f.le pl. di chiaja = piaga, 1 lesione della pelle o di una mucosa, piú o meno profonda, che presenta difficoltà a rimarginarsi:tené ‘o cuorpo cupierto ‘e chiaje (avere il corpo coperto di piaghe) | essere tutto ‘na chiaja(essere tutto una piaga), averne in tutto il corpo.
2 (fig.) grave male, flagello: ‘e chiaje d’ Eggitto( le piaghe d'Egitto), secondo il racconto biblico, le dieci calamità con cui Dio puní gli egizi che tenevano gli ebrei in schiavitú
3 (fig.) dolore cocente: tené ‘na chiaja dint’ ô core(avere una piaga nel cuore); arapí ‘na vecchia chiaja(riaprire una vecchia piaga), rinnovare un dolore non del tutto sopito ' mettere ‘o dito ‘ncopp’â chiaja (mettere il dito sulla, nella piaga), toccare un argomento doloroso, delicato, imbarazzante; anche, rilevare il punto critico di una situazione
4 (fig. scherz.) persona molto noiosa, lamentosa: sî ‘na chiaja(sei una piaga, fai la piaga).
Voce dal lat. plaga(m) con tipico mutamento di pl in chi (cfr. platea→chiazza - plumbeum→chiummo etc.)
córa s.vo f.le = coda, estremità posteriore del corpo degli animali vertebrati, formata, nei mammiferi e nei rettili, da un prolungamento della colonna vertebrale. Voce dal lat. volg. coda(m), per il class. cauda(m) con tipica rotacizzazione osco-mediterranea d→r.
fràceta agg.vo f.le (al m.le fràceto) fradicia/o,marcia/o, marcita/o dal lat.fracida(m) f.le di fracidu(m) con sostituzione espressiva della occlusiva dentale sonora (d)
con l’occlusiva dentale sorda (t).
Fechella letteralmente piccola fica in quanto la voce a margine è il diminutivo (cfr. il suff. ella) di fica (= albero e frutto del fico e per traslato vulva; con etimo dal lat. *fica(m) femminilizzazione di ficu(m) marcato sul greco súkon che à anche il significato osceno; piú spesso in luogo del diminutivo f.le a margine se ne usa uno m.le: ficuciello con suff. m.le iello e suono di transizione – c – (cfr. balcone→balcun-c-iello); nel caso che ci occupa la voce a margine fu un soprannome cioè un appellativo familiare, scherzoso o ingiurioso, di una persona, diverso dal cognome e dal nome proprio, che prende generalmente spunto da qualche caratteristica individuale, fu un soprannome assegnato ad un piccolo, rinsecchito, vizzo omettino (un tale don Mimí(Domenico) Ascione, originario di Torre del Greco, ma non meglio identificato) che negli anni tra il 1928 ed il 1930, servendosi di un vecchio e malmesso somaro provvisto di basto e/o piccolo birroccio forniva servizio di piccolo trasporto di vettovaglie e/o masserizie. nella zona del cosiddetto Rione Luzzatti (rione di case popolari edificato nella zona orientale della città cioè a Poggioreale, voluto da Luzzatti Luigi uomo politico ed economista italiano, presidente del Consiglio nel periodo 1910-1911 (Venezia 1841 -† Roma 1927). Orbene nella zona suddetta don Mimí Ascione/Fechella ed il suo asino erano notissimi cosí che quando nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli (la Società Sportiva Calcio Napoli S.p.A., abbreviata in SSC Napoli e nota come Napoli, fu ed ancóra è la principale società calcistica della città di Napoli, militante all’attualità in Serie A; fu fondata il 1º agosto 1926 su iniziativa dell'industriale napoletano, ma di ascendenze semitiche, Giorgio Ascarelli(Napoli, 18 maggio 1894 – †12 marzo 1930) con il nome di Associazione Calcio Napoli, ed assunse poi l'attuale denominazione nel 1964.
Il simbolo del club attualmente è l'Asinello,ma in origine fu quello del Cavallo rampante sfrenato il medesimo del municipio cittadino, mentre il colore sociale è l'azzurro-cielo e non il blu-savoia di talune improvvide, iettatorie divise talvolta indossate. Gioca attualmente le partite interne allo stadio San Paolo, inaugurato nel 1959.)Ripeto: cosí che quando nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli uno stadio progettato da Amedeo D'Albora su commissione del primo presidente del Napoli l’industriale Giorgio Ascarelli ed edificato nei pressi della zona nota come "Rione Luzzatti", sulle tribune costruite in legno dell'impianto, inizialmente denominato "Stadio Vesuvio"),sulle tribune, tra i 20.000 spettatori ce n’erano numerosissimi provenienti appunto dalla predetta zona; la squadra di calcio del Napoli alle sue prime esibizioni non ebbe eccessiva fortuna ed i risultati ottenuti furono tutt’altro che esaltanti, cosí avvenne che all’ennesima sconfitta rimediata dalla squadra napoletana tra le mura amiche si levò la voce anonima d’uno spettatore, peraltro tifoso azzurro da quel momento diventato anonimamente famoso, che esclamò:” Ato ca cavallo sfrenato, chisto me pare ‘o ciuccio ‘e Fechella!” (Altro che cavallo sfrenato, questo mi sembra l’asino di Fichella!); da quel momento l’emblema del Napoli calcio non fu piú il cavallo rampante e sfrenato, ma l’umile paziente laborioso asinello.
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Ad litteram: Sembra l’asino di Fichella: trentatré piaghe ed anche la coda marcia. Divertente, sarcastica espressione (nata,e ne dirò, in àmbito sportivo intorno al 1929), usata in riferimento a chi realmente sia o a chi faccia le viste di essere di salute estremamente malferma, continuamente in preda ad acciacchi, malesseri piccoli o grandi cosa che gli impedisce di attendere con costanza e congruenza ai proprî uffici con conseguente fastidio di parenti o colleghi che devono sobbarcarsi anche il suo lavoro. Questo( ma non si sa quanto veridicamente) malmesso, malaticcio, cagionevole individuo viene paragonato ad un famoso asino, di proprietà d’un tal Fechella (di cui dirò), usato per piccoli trasporti di derrate alimentari e/o oggettistica, asino che gravato di basto ne aveva la schiena piagata in piú punti, asino di cui si diceva che perfino la coda fosse marcita; a differenza però dell’individuo cui è paragonato il solerte asino, a malgrado delle sue afflizioni continuava ad essere adibito costantemente al suo lavoro e non se ne lagnava. Tuttavia il paragone tra il piagato asino e chi sia piú o meno autenticamente in modo continuo oppresso, abbattuto, prostrato, avvilito, tormentato, perché afflitto da malanni, acciacchi, malattie ricorrenti, m’appare ugualmente icasticamente calzante! Ciò precisato diamo dapprima un rapido sguardo alle voci dell’espressione, riservandoci di dire in coda del Fechella e della storia del suo asino.
ciuccio s.vo m.le = asino (cfr. antea sub 22);
trentatré agg. num. card. invar.
1 numero naturale corrispondente a trenta unità più tre; nella numerazione araba è rappresentato da 33, in quella romana da XXXIII
2 posposto al sostantivo, con valore di ordinale;
3 come s.vo m.le la parola che il paziente è invitato a pronunciare durante l'auscultazione del torace, perché genera un fremito dal quale il medico può trarre indicazioni circa la presenza di affezioni broncopolmonari: dica trentatré!. dal lat. pop. volg. tr(i)enta+tre(s) per il cl. trigintatre(s);
chiaje s.vo f.le pl. di chiaja = piaga, 1 lesione della pelle o di una mucosa, piú o meno profonda, che presenta difficoltà a rimarginarsi:tené ‘o cuorpo cupierto ‘e chiaje (avere il corpo coperto di piaghe) | essere tutto ‘na chiaja(essere tutto una piaga), averne in tutto il corpo.
2 (fig.) grave male, flagello: ‘e chiaje d’ Eggitto( le piaghe d'Egitto), secondo il racconto biblico, le dieci calamità con cui Dio puní gli egizi che tenevano gli ebrei in schiavitú
3 (fig.) dolore cocente: tené ‘na chiaja dint’ ô core(avere una piaga nel cuore); arapí ‘na vecchia chiaja(riaprire una vecchia piaga), rinnovare un dolore non del tutto sopito ' mettere ‘o dito ‘ncopp’â chiaja (mettere il dito sulla, nella piaga), toccare un argomento doloroso, delicato, imbarazzante; anche, rilevare il punto critico di una situazione
4 (fig. scherz.) persona molto noiosa, lamentosa: sî ‘na chiaja(sei una piaga, fai la piaga).
Voce dal lat. plaga(m) con tipico mutamento di pl in chi (cfr. platea→chiazza - plumbeum→chiummo etc.)
córa s.vo f.le = coda, estremità posteriore del corpo degli animali vertebrati, formata, nei mammiferi e nei rettili, da un prolungamento della colonna vertebrale. Voce dal lat. volg. coda(m), per il class. cauda(m) con tipica rotacizzazione osco-mediterranea d→r.
fràceta agg.vo f.le (al m.le fràceto) fradicia/o,marcia/o, marcita/o dal lat.fracida(m) f.le di fracidu(m) con sostituzione espressiva della occlusiva dentale sonora (d)
con l’occlusiva dentale sorda (t).
Fechella letteralmente piccola fica in quanto la voce a margine è il diminutivo (cfr. il suff. ella) di fica (= albero e frutto del fico e per traslato vulva; con etimo dal lat. *fica(m) femminilizzazione di ficu(m) marcato sul greco súkon che à anche il significato osceno; piú spesso in luogo del diminutivo f.le a margine se ne usa uno m.le: ficuciello con suff. m.le iello e suono di transizione – c – (cfr. balcone→balcun-c-iello); nel caso che ci occupa la voce a margine fu un soprannome cioè un appellativo familiare, scherzoso o ingiurioso, di una persona, diverso dal cognome e dal nome proprio, che prende generalmente spunto da qualche caratteristica individuale, fu un soprannome assegnato ad un piccolo, rinsecchito, vizzo omettino (un tale don Mimí(Domenico) Ascione, originario di Torre del Greco, ma non meglio identificato) che negli anni tra il 1928 ed il 1930, servendosi di un vecchio e malmesso somaro provvisto di basto e/o piccolo birroccio forniva servizio di piccolo trasporto di vettovaglie e/o masserizie. nella zona del cosiddetto Rione Luzzatti (rione di case popolari edificato nella zona orientale della città cioè a Poggioreale, voluto da Luzzatti Luigi uomo politico ed economista italiano, presidente del Consiglio nel periodo 1910-1911 (Venezia 1841 -† Roma 1927). Orbene nella zona suddetta don Mimí Ascione/Fechella ed il suo asino erano notissimi cosí che quando nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli (la Società Sportiva Calcio Napoli S.p.A., abbreviata in SSC Napoli e nota come Napoli, fu ed ancóra è la principale società calcistica della città di Napoli, militante all’attualità in Serie A; fu fondata il 1º agosto 1926 su iniziativa dell'industriale napoletano, ma di ascendenze semitiche, Giorgio Ascarelli(Napoli, 18 maggio 1894 – †12 marzo 1930) con il nome di Associazione Calcio Napoli, ed assunse poi l'attuale denominazione nel 1964.
Il simbolo del club attualmente è l'Asinello,ma in origine fu quello del Cavallo rampante sfrenato il medesimo del municipio cittadino, mentre il colore sociale è l'azzurro-cielo e non il blu-savoia di talune improvvide, iettatorie divise talvolta indossate. Gioca attualmente le partite interne allo stadio San Paolo, inaugurato nel 1959.)Ripeto: cosí che quando nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli uno stadio progettato da Amedeo D'Albora su commissione del primo presidente del Napoli l’industriale Giorgio Ascarelli ed edificato nei pressi della zona nota come "Rione Luzzatti", sulle tribune costruite in legno dell'impianto, inizialmente denominato "Stadio Vesuvio"),sulle tribune, tra i 20.000 spettatori ce n’erano numerosissimi provenienti appunto dalla predetta zona; la squadra di calcio del Napoli alle sue prime esibizioni non ebbe eccessiva fortuna ed i risultati ottenuti furono tutt’altro che esaltanti, cosí avvenne che all’ennesima sconfitta rimediata dalla squadra napoletana tra le mura amiche si levò la voce anonima d’uno spettatore, peraltro tifoso azzurro da quel momento diventato anonimamente famoso, che esclamò:” Ato ca cavallo sfrenato, chisto me pare ‘o ciuccio ‘e Fechella!” (Altro che cavallo sfrenato, questo mi sembra l’asino di Fichella!); da quel momento l’emblema del Napoli calcio non fu piú il cavallo rampante e sfrenato, ma l’umile paziente laborioso asinello.
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VARIE 667
1. Ô ricco lle more 'a mugliera, ô pezzente le more 'o ciuccio.
Ad litteram: al ricco viene a mancare la moglie, al povero, l'asino... Id est:Il povero è sempre quello piú bersagliato dalla mala sorte: infatti al povero viene a mancare l'asino che era la fonte del suo sostentamento, mentre al ricco viene a mancare la moglie, colei che gli dilapidava il patrimonio; morta la moglie il ricco non à da temere rivolgimenti di fortuna, mentre il povero che à perso l'asino sarà sempre piú in miseria.
2. Pazze e ccriature, 'o Signore ll'ajuta.
Ad litteram: pazzi e bimbi, Dio li aiuta. Id est: gli irresponsabili godono di una particolare protezione da parte del Cielo. Con questo proverbio, a Napoli, si soleva disinteressarsi di matti o altri irresponsabili, affidandoli al buonvolere di Dio e alla Sua divina provvidenza e protezione .
3. Si comme tiene 'a vocca, tenisse 'o culo, farrísse ciento pirete e nun te n'addunasse.
Ad litteram: se come tieni la bocca, avessi il sedere faresti cento peti e non te n'accorgeresti; il proverbio è usato per
bollare l'eccessiva verbosità di taluni, specie di chi è logorroico e parla a vanvera, senza alcun costrutto, di chi - come si dice - apre la bocca per farle prendere aria, non per esprimere concetti sensati.
culo = culo, sedere; etimo:dal lat. culum che è dal greco koilos – kolon
pireto= peto, scorreggia; etimo: latino peditum
addunasse= accorgeresti voce verbale (cong. imperfetto 2° p. sing.) di addunà/arse= accorgersi; etimo: franc. s’addonner (darsi, dedicarsi).
4. Si 'a rena è rrossa, nun ce mettere nasse.
Ad litteram: se la sabbia(il fondale del mare) è rossa, non mettervi le nasse(perché sarebbe inutile). Id est: Se il fondale marino è rosso - magari per la presenza di corallo, non provare a pescare, ché non prenderesti nulla. Per traslato il proverbio significa che se un uomo o una donna ànno inclinazioni cattive, è inutile tentare di crear con loro un qualsiasi rapporto: non si otterrebbero buoni risultati.
5. Si 'a tavernara è bbona, 'o cunto è sempe caro.
Ad litteram: se l'ostessa è procace, il conto risulterà sempre salato. Lo si dice a mo' d'ammonimento a tutti coloro che si ostinano a frequentare donne lascive e procaci, che per il sol fatto di mostrar le loro grazie pretendono di esser remunerate in maniera eccessiva...
6. Nun te dà malincunía, nè pe malu tiempo, nè pe mala signuria.
Ad litteram: non preoccuparti nè per cattivo tempo, nè per pessimi governanti. Id est: sia il cattivo tempo, che i governanti cattivi prima o poi cambiano o spariscono per cui non te ne devi preoccupare eccessivamente fino a prenderne malinconia...
7. 'Ammuina è bbona p''a guerra...
Ad litteram: il caos, la baraonda è utile in caso di guerra; id est: per aver successo in caso di lotta occorre che ci sia del caos, della baraonda; mestando in esse cose si può giungere alla vittoria nella lotta intrapresa.
ammuina = chiasso, confusione, fastidio; etimo: deverbale del verbo spagnalo amohinar(infastidire).
8. Astipate 'o piezzo janco* pe quanno venono 'e juorne nire.
Ad litteram: conserva il pezzo bianco per quando verranno le giornate nere. Id est: cerca di comportarti come una formica;
‘o piezzo janco è letteralmente il pezzo bianco e cioè la grossa moneta d’argento (scudo) anticamente detta appunta piezzo; non dilapidare tutto quel che ài: cerca di tener da parte sia pure un solo scudo d'argento (pezzo bianco) di cui potrai servirti quando verranno le giornate di miseria e bisogno.
9. Male e bbene a ffine vène.
Ad litteram: il male o il bene ànno un loro termine. Id est: Non preoccuparti soverchiamente ma non vivere sugli allori perché sia il male sia il bene che ti incorrono,non sono eterni e come son cominciati, cosí finiranno.
10. Chi tène pane e vvino, 'e sicuro è giacubbino.
Ad litteram: chi tiene pane e vino, di certo è giacobino. Durante il periodo (23/1-13/6 1799)della Repubblica Partenopea, il popolo napoletano considerò benestanti, i sostenitori del nuovo regime politico. Attualmente il proverbio è inteso nel senso che sono ritenuti capaci di procacciarsi pane e vino, id est: prebende e sovvenzioni coloro che militano o fanno vista di militare sotto le medesime bandiere politiche degli amministratori comunali, regionali o provinciali che a questi nuovi giacobini son soliti procacciare piccoli o grossi favori, non supportati da alcuna seria e conclamata bravura, ma solo da una vera o pretesa militanza politica.
11. Dicette 'o paglietta: a ttuorto o a rraggione, 'a cca à dda ascí 'a zuppa e 'o pesone.
Ad litteram: disse l'avvocatucolo: si abbia torto o ragione, di qui devon scaturire il pasto e la pigione; id est: non importa se la causa sarà vinta o persa, è giusto assumerne il patrocinio che procurerà il danaro utile al sostentamento e al pagamento del fitto di casa. Oggi il proverbio è usato quando ci si imbarchi in un'operazione qualsiasi senza attendersene esiti positivi, purché sia ben remunerata.
pesone = pigione, fitto da pagare; etimo: latino acc. pensione(m)da pendere= pesare, pagare.
12. 'O diavulo, quanno è vviecchio, se fa monaco cappuccino.
Ad litteram: il diavolo diventato vecchio si fa monaco cappuccino. Id est: spesso chi à vissuto una vita dissoluta e peccaminosa, giunto alla vecchiaia, cerca di riconciliarsi con Dio nella speranza di salvarsi l'anima in extremis.
13. Chi tène 'o lupo pe cumpare, è mmeglio ca purtasse 'o cane sott'ô mantiello.
Ad litteram: chi à un lupo per socio, è meglio che porti il cane sotto il mantello. Id est: chi à cattive frequentazioni è meglio che si premunisca fornendosi di adeguato aiuto per le necessità che gli si presenteranno proprio per le cattive frequentazioni. Da notare come in napoletano il congiuntivo esortativo non è reso con il presente, ma con l'imperfetto...
14. Si 'o ciuccio nun vo' vevere, aje voglia d''o siscà...
Ad litteram: se l'asino non vuole bere, potrai fischiare quanto vuoi (non otterrai nulla)Id est: è inutile cercar di convincere il saccente e presuntuoso; tale ignobile testardo si redime ed accetta il nuovo solo con il proprio autoconvincimento... ; alibi si dice:’o purpo s’à dda cocere cu ll’acqua soja=il polpo deve cuocersi nella propria acqua…
15.Mo m'hê rotte cinche corde 'nfacci' â chitarra e 'a sesta poco tene.
Ad litteram: ora mi ài rotto cinque corde della chitarra e la sesta è prossima a spezzarsi. Simpatica locuzione che a Napoli viene pronunciata verso chi à cosí tanto infastidito una persona da condurlo all'estremo limite della pazienza e dunque prossimo alla reazione conseguente, come chi vedesse manomessa la propria chitarra nell'integrità delle corde di cui cinque fossero state rotte e la sesta allentata al punto tale da non poter reggere piú l'accordatura.
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Ad litteram: al ricco viene a mancare la moglie, al povero, l'asino... Id est:Il povero è sempre quello piú bersagliato dalla mala sorte: infatti al povero viene a mancare l'asino che era la fonte del suo sostentamento, mentre al ricco viene a mancare la moglie, colei che gli dilapidava il patrimonio; morta la moglie il ricco non à da temere rivolgimenti di fortuna, mentre il povero che à perso l'asino sarà sempre piú in miseria.
2. Pazze e ccriature, 'o Signore ll'ajuta.
Ad litteram: pazzi e bimbi, Dio li aiuta. Id est: gli irresponsabili godono di una particolare protezione da parte del Cielo. Con questo proverbio, a Napoli, si soleva disinteressarsi di matti o altri irresponsabili, affidandoli al buonvolere di Dio e alla Sua divina provvidenza e protezione .
3. Si comme tiene 'a vocca, tenisse 'o culo, farrísse ciento pirete e nun te n'addunasse.
Ad litteram: se come tieni la bocca, avessi il sedere faresti cento peti e non te n'accorgeresti; il proverbio è usato per
bollare l'eccessiva verbosità di taluni, specie di chi è logorroico e parla a vanvera, senza alcun costrutto, di chi - come si dice - apre la bocca per farle prendere aria, non per esprimere concetti sensati.
culo = culo, sedere; etimo:dal lat. culum che è dal greco koilos – kolon
pireto= peto, scorreggia; etimo: latino peditum
addunasse= accorgeresti voce verbale (cong. imperfetto 2° p. sing.) di addunà/arse= accorgersi; etimo: franc. s’addonner (darsi, dedicarsi).
4. Si 'a rena è rrossa, nun ce mettere nasse.
Ad litteram: se la sabbia(il fondale del mare) è rossa, non mettervi le nasse(perché sarebbe inutile). Id est: Se il fondale marino è rosso - magari per la presenza di corallo, non provare a pescare, ché non prenderesti nulla. Per traslato il proverbio significa che se un uomo o una donna ànno inclinazioni cattive, è inutile tentare di crear con loro un qualsiasi rapporto: non si otterrebbero buoni risultati.
5. Si 'a tavernara è bbona, 'o cunto è sempe caro.
Ad litteram: se l'ostessa è procace, il conto risulterà sempre salato. Lo si dice a mo' d'ammonimento a tutti coloro che si ostinano a frequentare donne lascive e procaci, che per il sol fatto di mostrar le loro grazie pretendono di esser remunerate in maniera eccessiva...
6. Nun te dà malincunía, nè pe malu tiempo, nè pe mala signuria.
Ad litteram: non preoccuparti nè per cattivo tempo, nè per pessimi governanti. Id est: sia il cattivo tempo, che i governanti cattivi prima o poi cambiano o spariscono per cui non te ne devi preoccupare eccessivamente fino a prenderne malinconia...
7. 'Ammuina è bbona p''a guerra...
Ad litteram: il caos, la baraonda è utile in caso di guerra; id est: per aver successo in caso di lotta occorre che ci sia del caos, della baraonda; mestando in esse cose si può giungere alla vittoria nella lotta intrapresa.
ammuina = chiasso, confusione, fastidio; etimo: deverbale del verbo spagnalo amohinar(infastidire).
8. Astipate 'o piezzo janco* pe quanno venono 'e juorne nire.
Ad litteram: conserva il pezzo bianco per quando verranno le giornate nere. Id est: cerca di comportarti come una formica;
‘o piezzo janco è letteralmente il pezzo bianco e cioè la grossa moneta d’argento (scudo) anticamente detta appunta piezzo; non dilapidare tutto quel che ài: cerca di tener da parte sia pure un solo scudo d'argento (pezzo bianco) di cui potrai servirti quando verranno le giornate di miseria e bisogno.
9. Male e bbene a ffine vène.
Ad litteram: il male o il bene ànno un loro termine. Id est: Non preoccuparti soverchiamente ma non vivere sugli allori perché sia il male sia il bene che ti incorrono,non sono eterni e come son cominciati, cosí finiranno.
10. Chi tène pane e vvino, 'e sicuro è giacubbino.
Ad litteram: chi tiene pane e vino, di certo è giacobino. Durante il periodo (23/1-13/6 1799)della Repubblica Partenopea, il popolo napoletano considerò benestanti, i sostenitori del nuovo regime politico. Attualmente il proverbio è inteso nel senso che sono ritenuti capaci di procacciarsi pane e vino, id est: prebende e sovvenzioni coloro che militano o fanno vista di militare sotto le medesime bandiere politiche degli amministratori comunali, regionali o provinciali che a questi nuovi giacobini son soliti procacciare piccoli o grossi favori, non supportati da alcuna seria e conclamata bravura, ma solo da una vera o pretesa militanza politica.
11. Dicette 'o paglietta: a ttuorto o a rraggione, 'a cca à dda ascí 'a zuppa e 'o pesone.
Ad litteram: disse l'avvocatucolo: si abbia torto o ragione, di qui devon scaturire il pasto e la pigione; id est: non importa se la causa sarà vinta o persa, è giusto assumerne il patrocinio che procurerà il danaro utile al sostentamento e al pagamento del fitto di casa. Oggi il proverbio è usato quando ci si imbarchi in un'operazione qualsiasi senza attendersene esiti positivi, purché sia ben remunerata.
pesone = pigione, fitto da pagare; etimo: latino acc. pensione(m)da pendere= pesare, pagare.
12. 'O diavulo, quanno è vviecchio, se fa monaco cappuccino.
Ad litteram: il diavolo diventato vecchio si fa monaco cappuccino. Id est: spesso chi à vissuto una vita dissoluta e peccaminosa, giunto alla vecchiaia, cerca di riconciliarsi con Dio nella speranza di salvarsi l'anima in extremis.
13. Chi tène 'o lupo pe cumpare, è mmeglio ca purtasse 'o cane sott'ô mantiello.
Ad litteram: chi à un lupo per socio, è meglio che porti il cane sotto il mantello. Id est: chi à cattive frequentazioni è meglio che si premunisca fornendosi di adeguato aiuto per le necessità che gli si presenteranno proprio per le cattive frequentazioni. Da notare come in napoletano il congiuntivo esortativo non è reso con il presente, ma con l'imperfetto...
14. Si 'o ciuccio nun vo' vevere, aje voglia d''o siscà...
Ad litteram: se l'asino non vuole bere, potrai fischiare quanto vuoi (non otterrai nulla)Id est: è inutile cercar di convincere il saccente e presuntuoso; tale ignobile testardo si redime ed accetta il nuovo solo con il proprio autoconvincimento... ; alibi si dice:’o purpo s’à dda cocere cu ll’acqua soja=il polpo deve cuocersi nella propria acqua…
15.Mo m'hê rotte cinche corde 'nfacci' â chitarra e 'a sesta poco tene.
Ad litteram: ora mi ài rotto cinque corde della chitarra e la sesta è prossima a spezzarsi. Simpatica locuzione che a Napoli viene pronunciata verso chi à cosí tanto infastidito una persona da condurlo all'estremo limite della pazienza e dunque prossimo alla reazione conseguente, come chi vedesse manomessa la propria chitarra nell'integrità delle corde di cui cinque fossero state rotte e la sesta allentata al punto tale da non poter reggere piú l'accordatura.
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VARIE 666
1 -Tené fatto a quaccuno
Locuzione impossibile da tradurre ad litteram, usata da chi voglia fare intendere di avere completamente in pugno qualcuno, di tenerlo nella propria disponibilità, avendolo quasi plagiato.
2-Tené arteteca
Ad litteram:stare in agitazione continua Detto soprattutto di ragazzi irrequieti, instabili e vivaci in perenne movimento, incapaci di star fermi in un luogo e adusi a stender le mani su tutto ciò che capiti nei loro pressi.La parola arteteca, semanticamente viene da un tardo latino: arthritica con il significato nell'Italia meridionale di irrequietezza mentre nella restante parte dello stivale sta per artrite.
3 - Tené 'mmano
Ad litteram: tenere in mano id est: attendere, rimandare, procrastinare, quasi trattenendo nelle mani ciò che vorrebbe esser fatto subito.
4 -Tené 'mpont' ê ddete
Ad litteram: tenere in punta alle dita; id est: essere pienamente padrone d'un'arte o mestiere, conoscendone a menadito la strada ed i tempi da seguire per ottenere degni risultati.
5 -Tené 'na pioneca 'ncuollo
Ad litteram: tenere una miseria addosso; id est: essere o ritenersi di essere perseguitati dalla malasorte , quasi vessati dalla sfortuna che si è quasi attaccata addosso a mo' di seconda pelle.
pioneca s.vo f.le miseria, sfortuna, iella, disdetta ( quanto all’etimologia, non v’è uniformità di vedute: il D.E.I. ed altri ipotizzano un accostamento a peonia( pianta erbacea ornamentale con radici tuberiformi, fiori grandi color rosa, bianco o violaceo, simili a rose ma non profumati, che è dal lat. paeonia(m), che è dal gr. paionía, f. di paiónios 'salutare, soccorritore', perché le radici della pianta hanno proprietà medicinali;per la verità non mi riesce di cogliere il collegamento semantico tra una pianta medicamentosa e la miseria, sfortuna, iella, disdetta per cui mi pare piú corretto accettare l’ipotesi di Giammarco che vede la derivazione di pionica da una forma latina *pl(i)onica passata a pjonica da *pilonica con metatesi pil/plj e doppio suffisso in/ic da pilo= pestello connesso a pinsere = pestare da collegarsi semanticamente alla miseria, sfortuna, iella, disdetta che quasi pesta e/o pigia chi è colpito dalla pioneca.
6 -Tené n' appietto 'e core
Ad litteram: avvertire una compressione toracica id est: trovarsi in uno stato di angoscia, essere ansiosi al punto di avvertire il cuore pulsare tachicardicamente nel petto, quasi comprimendosi contro la gabbia toracica.
7 -Tené 'nu chiuovo 'ncapa
Ad litteram: tenere un chiodo in testa id est:avere un'idea fissa che preoccupa ed affanna tenuta per iperbole a mo' di chiodo confitto in testa.
8 -Tené 'nfrisco a quaccuno
Ad litteram: tenere in fresco qualcuno id est: fare attendere qualcuno prima di provvedere ai suoi bisogni o desideri , o anche solo prima di prestargli ascolto, lasciarlo in sospeso, senza curarsene, come di un cibo che d'estate, prima d'esser consumato venga messo a refrigerare.
9 -Tené 'nu písemo 'ncopp'ô stommeco
Ad litteram: tenere un peso sullo stomaco id est: avere la sgradevole sensazione di portare un peso sullo stomaco, peso rappresentato - per solito - da una grave contrarietà ricevuta e risultata metaforicamente indigesta, sí da avvertirne il relativo peso sullo stomaco.
10 -Tené 'o bballo 'e san Vito
Ad litteram: essere affetto da còrea ed estensivamente essere o mostrarsi irrequieto ed instabile .
11 - Tené 'o culo a buttiglione, a mappata, a purtera, a mandulino
Ad litteram: avere il culo a forma di bottiglione, di pacco, di portiera, di mandolino. Cosí, in vario modo si suole alludere alle diverse configurazioni del fondoschiena femminile; la forma piú - diciamo - pregiata è ritenuta l'ultima: quella che arieggia la struttura del mandolino.
12 -Tené 'o culo a tre pacche
Ad litteram: avere il culo a tre natiche Atteso che la cosa è anatomicamente impossibile, la locuzione è usata ironicamente, a mo' di dileggio di ogni supponente che si ritenga titolare di eccezionali doti e talenti fisici o morali che in realtà non esistono, come è inesistente un culo con tre natiche.
13 -Tené 'o cuorio a pesone
Ad litteram: avere le cuoia a pigione id est: essere costretti a vivere a rischio continuo, in modo precario, nelle mani della malasorte, in un clima di continua incertezza, come chi - non essendo proprietario di alloggio, sia costretto a prenderne uno in pigione al rischio di vedersi improvvisamente messo fuori dal proprietario.
14 -Tené 'o ffraceto 'ncuorpo
Ad litteram: avere il fradicio in corpo id est: portarsi dentro, tentando di non appalesarle, ingenti carenze intellettive o morali, o - piú spesso - pessime inclinazioni; va da sè che ci sia poco da fidarsi di chi abbia tali carenze o inclinazioni.
15 -Tené 'o pizzo sano e 'a scella rotta
Ad litteram: avere il becco integro e l'ala rotta Detto ironicamente di chi sia sempre pronto a prendere, ma accampi scuse per esimersi dal dare . Al di là del significato traslato, la locuzione si riferisce a chi sia sempre pronto a mangiare e restio a lavorare.
16 - Tené 'e ppezze
Ad litteram: avere le pezze id est: essere ricco, disporre di molto danaro, atteso che qui il termine pezza non sta a significare: straccio, ma - appunto - moneta; rammenterò che al tempo dei Borbone, nel Reame di Napoli la pezza era una ben identificata, grossa moneta d'argento detta anche piastra del valore di ben 15 carlini; essere in possesso di tante piastre o pezze significava essere ricco assai.
17 -Tené 'e fruvole pazze 'int' a 'o mazzo
Ad litteram: avere le folgori pazze nel sedere Riferito soprattutto a ragazzi irrequieti e chiassosi, recalcitranti ai freni ritenuti titolari di folgori pazze (tipo di fuochi artificiali)allocate nel sedere, che con il loro scoppiettío, costringono i ragazzi a non stare fermi e ad agitarsi continuamente. . Letteralmente 'e fruvole sono i fulmini, le folgori dal latino fulgor con rotacizzazione e successiva metatesi della elle.
18 -Tené 'e sette vizzie d''a rosamarina
Ad litteram: avere i setti vizi del rosmarino Detto iperbolicamente di chi non sia ritenuto titolare di alcuna virtú, anzi - al contrario di troppi vizi ; tra i quali sono considerati anche le eccessive voglie, i desideri, le richieste pressanti in ispecie quelle di taluni incontentabili ragazzi, ma anche di qualche adulto di sesso femminile.
La pianta del rosmarino, arbusto aromatico che viene molto usato in cucina , ma anche sfruttato in erboristeria per la produzione di profumi, ed in farmacopea - per le sue capacità terapeutiche, è ritenuto però ricca di vizi, che se non sono sette come affermato nella locuzione in epigrafe, son comunque tanti: è pianta che brucia con difficoltà , fa molto fumo e poca fiamma e dunque non riscalda, quando brucia, contrariamente a ciò che avviene normalmente, putisce ed irrita fastidiosamente gli occhi con il suo fumo.
19 -Tené 'o sfunnolo
Ad litteram: avere lo stomaco sfondato Detto iperbolicamente di chi sia
cosí tanto vorace ed insaziabile da mangiare continuatamente ad immettendo tantissimo cibo nello stomaco, senza mai satollarsi, quasi che lo stomaco fosse sfondato e non fosse possibile riempirlo mai.
20 -Tené 'o stommaco 'mpietto e 'o velliculo ô pizzo sujo.
Ad litteram: avere lo stomaco nel petto e l'ombellico al suo (giusto) posto. Detto ironicamente di chi lamenti continui,gravi ma - in realtà -
inesistenti malanni.
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Locuzione impossibile da tradurre ad litteram, usata da chi voglia fare intendere di avere completamente in pugno qualcuno, di tenerlo nella propria disponibilità, avendolo quasi plagiato.
2-Tené arteteca
Ad litteram:stare in agitazione continua Detto soprattutto di ragazzi irrequieti, instabili e vivaci in perenne movimento, incapaci di star fermi in un luogo e adusi a stender le mani su tutto ciò che capiti nei loro pressi.La parola arteteca, semanticamente viene da un tardo latino: arthritica con il significato nell'Italia meridionale di irrequietezza mentre nella restante parte dello stivale sta per artrite.
3 - Tené 'mmano
Ad litteram: tenere in mano id est: attendere, rimandare, procrastinare, quasi trattenendo nelle mani ciò che vorrebbe esser fatto subito.
4 -Tené 'mpont' ê ddete
Ad litteram: tenere in punta alle dita; id est: essere pienamente padrone d'un'arte o mestiere, conoscendone a menadito la strada ed i tempi da seguire per ottenere degni risultati.
5 -Tené 'na pioneca 'ncuollo
Ad litteram: tenere una miseria addosso; id est: essere o ritenersi di essere perseguitati dalla malasorte , quasi vessati dalla sfortuna che si è quasi attaccata addosso a mo' di seconda pelle.
pioneca s.vo f.le miseria, sfortuna, iella, disdetta ( quanto all’etimologia, non v’è uniformità di vedute: il D.E.I. ed altri ipotizzano un accostamento a peonia( pianta erbacea ornamentale con radici tuberiformi, fiori grandi color rosa, bianco o violaceo, simili a rose ma non profumati, che è dal lat. paeonia(m), che è dal gr. paionía, f. di paiónios 'salutare, soccorritore', perché le radici della pianta hanno proprietà medicinali;per la verità non mi riesce di cogliere il collegamento semantico tra una pianta medicamentosa e la miseria, sfortuna, iella, disdetta per cui mi pare piú corretto accettare l’ipotesi di Giammarco che vede la derivazione di pionica da una forma latina *pl(i)onica passata a pjonica da *pilonica con metatesi pil/plj e doppio suffisso in/ic da pilo= pestello connesso a pinsere = pestare da collegarsi semanticamente alla miseria, sfortuna, iella, disdetta che quasi pesta e/o pigia chi è colpito dalla pioneca.
6 -Tené n' appietto 'e core
Ad litteram: avvertire una compressione toracica id est: trovarsi in uno stato di angoscia, essere ansiosi al punto di avvertire il cuore pulsare tachicardicamente nel petto, quasi comprimendosi contro la gabbia toracica.
7 -Tené 'nu chiuovo 'ncapa
Ad litteram: tenere un chiodo in testa id est:avere un'idea fissa che preoccupa ed affanna tenuta per iperbole a mo' di chiodo confitto in testa.
8 -Tené 'nfrisco a quaccuno
Ad litteram: tenere in fresco qualcuno id est: fare attendere qualcuno prima di provvedere ai suoi bisogni o desideri , o anche solo prima di prestargli ascolto, lasciarlo in sospeso, senza curarsene, come di un cibo che d'estate, prima d'esser consumato venga messo a refrigerare.
9 -Tené 'nu písemo 'ncopp'ô stommeco
Ad litteram: tenere un peso sullo stomaco id est: avere la sgradevole sensazione di portare un peso sullo stomaco, peso rappresentato - per solito - da una grave contrarietà ricevuta e risultata metaforicamente indigesta, sí da avvertirne il relativo peso sullo stomaco.
10 -Tené 'o bballo 'e san Vito
Ad litteram: essere affetto da còrea ed estensivamente essere o mostrarsi irrequieto ed instabile .
11 - Tené 'o culo a buttiglione, a mappata, a purtera, a mandulino
Ad litteram: avere il culo a forma di bottiglione, di pacco, di portiera, di mandolino. Cosí, in vario modo si suole alludere alle diverse configurazioni del fondoschiena femminile; la forma piú - diciamo - pregiata è ritenuta l'ultima: quella che arieggia la struttura del mandolino.
12 -Tené 'o culo a tre pacche
Ad litteram: avere il culo a tre natiche Atteso che la cosa è anatomicamente impossibile, la locuzione è usata ironicamente, a mo' di dileggio di ogni supponente che si ritenga titolare di eccezionali doti e talenti fisici o morali che in realtà non esistono, come è inesistente un culo con tre natiche.
13 -Tené 'o cuorio a pesone
Ad litteram: avere le cuoia a pigione id est: essere costretti a vivere a rischio continuo, in modo precario, nelle mani della malasorte, in un clima di continua incertezza, come chi - non essendo proprietario di alloggio, sia costretto a prenderne uno in pigione al rischio di vedersi improvvisamente messo fuori dal proprietario.
14 -Tené 'o ffraceto 'ncuorpo
Ad litteram: avere il fradicio in corpo id est: portarsi dentro, tentando di non appalesarle, ingenti carenze intellettive o morali, o - piú spesso - pessime inclinazioni; va da sè che ci sia poco da fidarsi di chi abbia tali carenze o inclinazioni.
15 -Tené 'o pizzo sano e 'a scella rotta
Ad litteram: avere il becco integro e l'ala rotta Detto ironicamente di chi sia sempre pronto a prendere, ma accampi scuse per esimersi dal dare . Al di là del significato traslato, la locuzione si riferisce a chi sia sempre pronto a mangiare e restio a lavorare.
16 - Tené 'e ppezze
Ad litteram: avere le pezze id est: essere ricco, disporre di molto danaro, atteso che qui il termine pezza non sta a significare: straccio, ma - appunto - moneta; rammenterò che al tempo dei Borbone, nel Reame di Napoli la pezza era una ben identificata, grossa moneta d'argento detta anche piastra del valore di ben 15 carlini; essere in possesso di tante piastre o pezze significava essere ricco assai.
17 -Tené 'e fruvole pazze 'int' a 'o mazzo
Ad litteram: avere le folgori pazze nel sedere Riferito soprattutto a ragazzi irrequieti e chiassosi, recalcitranti ai freni ritenuti titolari di folgori pazze (tipo di fuochi artificiali)allocate nel sedere, che con il loro scoppiettío, costringono i ragazzi a non stare fermi e ad agitarsi continuamente. . Letteralmente 'e fruvole sono i fulmini, le folgori dal latino fulgor con rotacizzazione e successiva metatesi della elle.
18 -Tené 'e sette vizzie d''a rosamarina
Ad litteram: avere i setti vizi del rosmarino Detto iperbolicamente di chi non sia ritenuto titolare di alcuna virtú, anzi - al contrario di troppi vizi ; tra i quali sono considerati anche le eccessive voglie, i desideri, le richieste pressanti in ispecie quelle di taluni incontentabili ragazzi, ma anche di qualche adulto di sesso femminile.
La pianta del rosmarino, arbusto aromatico che viene molto usato in cucina , ma anche sfruttato in erboristeria per la produzione di profumi, ed in farmacopea - per le sue capacità terapeutiche, è ritenuto però ricca di vizi, che se non sono sette come affermato nella locuzione in epigrafe, son comunque tanti: è pianta che brucia con difficoltà , fa molto fumo e poca fiamma e dunque non riscalda, quando brucia, contrariamente a ciò che avviene normalmente, putisce ed irrita fastidiosamente gli occhi con il suo fumo.
19 -Tené 'o sfunnolo
Ad litteram: avere lo stomaco sfondato Detto iperbolicamente di chi sia
cosí tanto vorace ed insaziabile da mangiare continuatamente ad immettendo tantissimo cibo nello stomaco, senza mai satollarsi, quasi che lo stomaco fosse sfondato e non fosse possibile riempirlo mai.
20 -Tené 'o stommaco 'mpietto e 'o velliculo ô pizzo sujo.
Ad litteram: avere lo stomaco nel petto e l'ombellico al suo (giusto) posto. Detto ironicamente di chi lamenti continui,gravi ma - in realtà -
inesistenti malanni.
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giovedì 29 aprile 2010
VARIE 665
1.Canta ca te faje canonico!
Letteralmente: Canta ché diventerai canonico Id est: Urla piú forte ché avrai ragione Il proverbio intende sottolineare l'abitudine di tanti che in una discussione, non avendo serie argomentazioni da apportare alle proprie tesi, alzano il tono della voce ritenendo cosí di prevalere o convincere l'antagonista.Il proverbio rammenta i canonici della Cattedrale che son soliti cantare l'Ufficio divino con tonalità spesso elevate, per farsi udire da tutti i fedeli.
2. Armammoce e gghiate.
Letteralmente: armiamoci, ma andate! Id est: Tirarsi indietro davanti al pericolo; come son soliti fari troppi comandanti, solerti nel dare ordini, ma mai disposti a muovere i passi verso il luogo della lotta; cosí soleva comportarsi il generale francese Manhès che inviato dal re Gioacchino Murat in Abruzzo a combattere i briganti inviò colà la truppa e restò a Napoli a bivaccare e non è dato sapere se raggiunse mai i suoi soldati.
3. A - Cane e ccane nun se mozzecano B- Cuovere e cuovere nun se cecano ll'uocchie.
Letteralmente: A- CANI E CANI NON SI AZZANNANO B- CORVI E CORVI NON SI ACCECANO Ambedue i proverbi sottolineano lo spirito di corpo che esiste tra le bestie, per traslato i proverbi li si usa riferire anche agli uomini, ma intendo sottolineare che persone di cattivo stampo non son solite farsi guerra, ma - al contrario - usano far causa comune in danno dei terzi.
4.Cca 'e ppezze e cca 'o sapone.
Letteralmente: Qui gli stracci e qui il sapone. Espressione che compendia l'avviso che non si fa credito e che al contrario a prestazione segue immediata controprestazione. Era usata temporibus illis a Napoli dai rigattieri che davano in cambio di abiti smessi o altre cianfrusaglie, del sapone per bucato e che perciò erano detti sapunare.
5.Tené 'a sàraca dint' â sacca
Letteralmente: tenere la salacca in tasca. Id est: mostrarsi impaziente e frettoloso alla stregua di chi abbia in tasca una maleodorante salacca (aringa)e sia impaziente di raggiungere un luogo dove possa liberarsi della scomoda compagna.
6.T'aggi''a fà n'asteco areto a 'e rine...
Letteralmente Ti devo fare un solaio nella schiena.Id est: Devo percuoterti violentemente dietro le spalle. Per comprendere appieno la portata di questa grave minaccia contenuta nella locuzione in epigrafe, occorre sapere che per asteco a Napoli si intende il solaio di copertura delle case, solaio che anticamente era formato con abbondante lapillo vulcanico ammassato all'uopo e poi violentemente percosso con appositi martelli al fine di grandemente compattarlo e renderlo impermeabile alle infiltrazioni di acqua piovana.
7.Ogne anno Ddio 'o cumanna
Letteralmente: una volta all'anno lo comanda Iddio. La locuzione partenopea traduce quasi quella latina: semel in anno licet insanire, anche se i napoletani con il loro proverbio chiamano in causa Dio ritenuto corresponsabile delle pazzie umane quale ordinante delle medesime.
8. Pe gulío 'e lardo, mettere 'e ddete 'nculo ô puorco.
Letteralmente: per desiderio di lardo, porre le mani nell'ano del porco. Id est: per appagare un desiderio esser pronto a qualsiasi cosa, anche ad azioni riprovevoli e che comunque non assicurano il raggiungimento dello scopo prefisso. La parola gulío attestato anche come vulío= voglia, desiderio pressante non deriva dall'italiano gola essendo il gulío/vulío non espressamente lo smodato desiderio di cibo o bevande; piú esattamente la parola gulío/vulío è da riallacciarsi al greco boulomai=volere intensamente con consueta trasformazione della B greca nella napoletana G come avviene per es. anche con il latino dove habeo è divenuto in napoletano aggio o come rabies divenuta (a)rraggia.
9.Sciorta e mole spontano 'na vota sola.
Letteralmente:la fortuna ed i molari compaiono una sola volta. Id est: bisogna saper cogliere l'attimo fuggente e non lasciarsi sfuggire l'occasione propizia che - come i molari - spunta una sola volta e non si ripropone
10.Ll'arte 'e tata è mmeza 'mparata.
Letteralmente: l'arte del padre è appresa per metà. Con questa locuzione a Napoli si suole rammentare che spesso i figli che seguano il mestiere del genitore son favoriti rispetto a coloro che dovessero apprenderlo ex novo. Partendo da quanto affermato in epigrafe spesso però capita che taluni si vedano la strada spianata laddove invece al redde rationem mostrano di non aver appreso un bel nulla dal loro genitore e finisce che la locuzione nei riguardi di tali pessimi allievi debba essere intesa in senso ironico ed antifrastico.
11.Attaccarse ê felínie.
Letteralmente: appigliarsi alle ragnatele. Icastica locuzione usata a Napoli per identificare l'azione di chi in una discussione - non avendo solidi argomenti su cui poggiare il proprio ragionamento e perciò e le proprie pretese - si attacchi a pretesti o ragionamenti poco solidi, se non inconsistenti, simili -appunto - a delle evanescenti ragnatele.
12. Jí facenno 'o Ggiorgio Cutugno.
Letteralmente: andar facendo il Giorgio Cotugno. Id est: andare in giro bighellonando, facendo il bellimbusto, assumendo un'aria tracotante e guappesca alla stessa stregua di tal mitico Cotugno scolpito in tali atteggiamenti su di una tomba della chiesa di san Giorgio maggiore a Napoli. Con la locuzione in epigrafe il re Ferdinando II Borbone Napoli soleva apostrofare il duca Giovanni Del Balzo che era solito incedere con aria tracotante anche davanti al proprio re.
13. 'Ncasà 'o cappiello dint' ê rrecchie.
Letteralmente: calcare il cappello fin dentro alle orecchie ossia calcarlo in testa con tanta forza che il cappello con la sua tesa faccia quasi accartocciare i padiglioni auricolari. A Napoli, l'icastica espressione fotografa una situazione nella quale ci sia qualcuno che vessatoriamente, approfittando della ingenuità e disponibilità di un altro richieda a costui e talvolta ottenga prestazioni o pagamenti superiori al dovuto, costringendo - sia pure metaforicamente - il soccombente a portare un supposto cappello calcato in testa fin sulle orecchie.
14. Rompere 'o 'nciarmo.
Letteralmente: spezzare l'incantesimo. A Napoli la frase è usata davanti a situazioni che per potersi mutare hanno bisogno di decisione e pronta azione in quanto dette situazioni si ritengono quasi permeate di magia che con i normali mezzi è impossibile vincere per cui bisogna agire quasi armata manu per venire a capo della faccenda.
15.'Ngrifarse comme a 'nu gallerinio.
Letteralmente:arruffar le penne come un tacchino. Il tacchino o gallo d'india (da cui gallerinio) allorché subodora un pericolo, si pone in guardia arruffando le penne segno questo - per chi si accosti ad esso - che non lo troverà impreparato.La locuzione è usata a mo' di dileggio nei confronti di chi si mostri spettinato, quasi con i capelli ritti in testa; di costui si dice che sta 'ngrifato comme a 'nu gallerinio, anche se il soggetto 'ngrifato non sia arrabbiato o leso, ma solamente spettinato.
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Letteralmente: Canta ché diventerai canonico Id est: Urla piú forte ché avrai ragione Il proverbio intende sottolineare l'abitudine di tanti che in una discussione, non avendo serie argomentazioni da apportare alle proprie tesi, alzano il tono della voce ritenendo cosí di prevalere o convincere l'antagonista.Il proverbio rammenta i canonici della Cattedrale che son soliti cantare l'Ufficio divino con tonalità spesso elevate, per farsi udire da tutti i fedeli.
2. Armammoce e gghiate.
Letteralmente: armiamoci, ma andate! Id est: Tirarsi indietro davanti al pericolo; come son soliti fari troppi comandanti, solerti nel dare ordini, ma mai disposti a muovere i passi verso il luogo della lotta; cosí soleva comportarsi il generale francese Manhès che inviato dal re Gioacchino Murat in Abruzzo a combattere i briganti inviò colà la truppa e restò a Napoli a bivaccare e non è dato sapere se raggiunse mai i suoi soldati.
3. A - Cane e ccane nun se mozzecano B- Cuovere e cuovere nun se cecano ll'uocchie.
Letteralmente: A- CANI E CANI NON SI AZZANNANO B- CORVI E CORVI NON SI ACCECANO Ambedue i proverbi sottolineano lo spirito di corpo che esiste tra le bestie, per traslato i proverbi li si usa riferire anche agli uomini, ma intendo sottolineare che persone di cattivo stampo non son solite farsi guerra, ma - al contrario - usano far causa comune in danno dei terzi.
4.Cca 'e ppezze e cca 'o sapone.
Letteralmente: Qui gli stracci e qui il sapone. Espressione che compendia l'avviso che non si fa credito e che al contrario a prestazione segue immediata controprestazione. Era usata temporibus illis a Napoli dai rigattieri che davano in cambio di abiti smessi o altre cianfrusaglie, del sapone per bucato e che perciò erano detti sapunare.
5.Tené 'a sàraca dint' â sacca
Letteralmente: tenere la salacca in tasca. Id est: mostrarsi impaziente e frettoloso alla stregua di chi abbia in tasca una maleodorante salacca (aringa)e sia impaziente di raggiungere un luogo dove possa liberarsi della scomoda compagna.
6.T'aggi''a fà n'asteco areto a 'e rine...
Letteralmente Ti devo fare un solaio nella schiena.Id est: Devo percuoterti violentemente dietro le spalle. Per comprendere appieno la portata di questa grave minaccia contenuta nella locuzione in epigrafe, occorre sapere che per asteco a Napoli si intende il solaio di copertura delle case, solaio che anticamente era formato con abbondante lapillo vulcanico ammassato all'uopo e poi violentemente percosso con appositi martelli al fine di grandemente compattarlo e renderlo impermeabile alle infiltrazioni di acqua piovana.
7.Ogne anno Ddio 'o cumanna
Letteralmente: una volta all'anno lo comanda Iddio. La locuzione partenopea traduce quasi quella latina: semel in anno licet insanire, anche se i napoletani con il loro proverbio chiamano in causa Dio ritenuto corresponsabile delle pazzie umane quale ordinante delle medesime.
8. Pe gulío 'e lardo, mettere 'e ddete 'nculo ô puorco.
Letteralmente: per desiderio di lardo, porre le mani nell'ano del porco. Id est: per appagare un desiderio esser pronto a qualsiasi cosa, anche ad azioni riprovevoli e che comunque non assicurano il raggiungimento dello scopo prefisso. La parola gulío attestato anche come vulío= voglia, desiderio pressante non deriva dall'italiano gola essendo il gulío/vulío non espressamente lo smodato desiderio di cibo o bevande; piú esattamente la parola gulío/vulío è da riallacciarsi al greco boulomai=volere intensamente con consueta trasformazione della B greca nella napoletana G come avviene per es. anche con il latino dove habeo è divenuto in napoletano aggio o come rabies divenuta (a)rraggia.
9.Sciorta e mole spontano 'na vota sola.
Letteralmente:la fortuna ed i molari compaiono una sola volta. Id est: bisogna saper cogliere l'attimo fuggente e non lasciarsi sfuggire l'occasione propizia che - come i molari - spunta una sola volta e non si ripropone
10.Ll'arte 'e tata è mmeza 'mparata.
Letteralmente: l'arte del padre è appresa per metà. Con questa locuzione a Napoli si suole rammentare che spesso i figli che seguano il mestiere del genitore son favoriti rispetto a coloro che dovessero apprenderlo ex novo. Partendo da quanto affermato in epigrafe spesso però capita che taluni si vedano la strada spianata laddove invece al redde rationem mostrano di non aver appreso un bel nulla dal loro genitore e finisce che la locuzione nei riguardi di tali pessimi allievi debba essere intesa in senso ironico ed antifrastico.
11.Attaccarse ê felínie.
Letteralmente: appigliarsi alle ragnatele. Icastica locuzione usata a Napoli per identificare l'azione di chi in una discussione - non avendo solidi argomenti su cui poggiare il proprio ragionamento e perciò e le proprie pretese - si attacchi a pretesti o ragionamenti poco solidi, se non inconsistenti, simili -appunto - a delle evanescenti ragnatele.
12. Jí facenno 'o Ggiorgio Cutugno.
Letteralmente: andar facendo il Giorgio Cotugno. Id est: andare in giro bighellonando, facendo il bellimbusto, assumendo un'aria tracotante e guappesca alla stessa stregua di tal mitico Cotugno scolpito in tali atteggiamenti su di una tomba della chiesa di san Giorgio maggiore a Napoli. Con la locuzione in epigrafe il re Ferdinando II Borbone Napoli soleva apostrofare il duca Giovanni Del Balzo che era solito incedere con aria tracotante anche davanti al proprio re.
13. 'Ncasà 'o cappiello dint' ê rrecchie.
Letteralmente: calcare il cappello fin dentro alle orecchie ossia calcarlo in testa con tanta forza che il cappello con la sua tesa faccia quasi accartocciare i padiglioni auricolari. A Napoli, l'icastica espressione fotografa una situazione nella quale ci sia qualcuno che vessatoriamente, approfittando della ingenuità e disponibilità di un altro richieda a costui e talvolta ottenga prestazioni o pagamenti superiori al dovuto, costringendo - sia pure metaforicamente - il soccombente a portare un supposto cappello calcato in testa fin sulle orecchie.
14. Rompere 'o 'nciarmo.
Letteralmente: spezzare l'incantesimo. A Napoli la frase è usata davanti a situazioni che per potersi mutare hanno bisogno di decisione e pronta azione in quanto dette situazioni si ritengono quasi permeate di magia che con i normali mezzi è impossibile vincere per cui bisogna agire quasi armata manu per venire a capo della faccenda.
15.'Ngrifarse comme a 'nu gallerinio.
Letteralmente:arruffar le penne come un tacchino. Il tacchino o gallo d'india (da cui gallerinio) allorché subodora un pericolo, si pone in guardia arruffando le penne segno questo - per chi si accosti ad esso - che non lo troverà impreparato.La locuzione è usata a mo' di dileggio nei confronti di chi si mostri spettinato, quasi con i capelli ritti in testa; di costui si dice che sta 'ngrifato comme a 'nu gallerinio, anche se il soggetto 'ngrifato non sia arrabbiato o leso, ma solamente spettinato.
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VARIE 664
1.'Amice e vino ànno 'a essere viecchie!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data.
2.'A meglia vita è cchella d''e vaccarepecché, tutta 'a jurnata, manejano zizze e denare.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
3.'O turco fatto crestiano, vo' 'mpalà tutte chille ca ghiastemmano.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
4.'O Pataterno addó vede 'a culata, lla spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
5.'O galantomo appezzentúto, addiventa 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
6.'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che ànno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
7. 'E vruoccole so' bbuone dint’ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
8. Statte bbuono ê sante: è zumpata 'a vacca 'ncuollo ô vojo!
Letteralmente: buonanotte!la vacca ha montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni così contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare.
9.Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte acìto.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, più aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe cosí cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
10. 'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
11. 'O fatto d''e quatte surde.
Letteralmente: il racconto dei quattro sordi. Il raccontino che qui di seguito si narra, adombra il dramma della incomunicabilità e la locuzione in epigrafe viene pronunciata a Napoli a sapido commento in una situazione nella quale non ci si riesca a capire alla stregua di quei quattro sordi che viaggiatori del medesimo treno, giunti ad una stazione, così dialogarono: Il primo: Scusate simmo arrivate a Napule? (Scusate, siamo giunti a Napoli?) Il secondo: Nonzignore, cca è Napule!(Nossignore, qua è Napoli!) Il terzo: I' me penzavo ca stevamo a Napule (Io credevo che stessimo a Napoli). Il quarto concluse: Maje pe cumanno, quanno stammo a Napule, m'avvisate? (Per cortesia, quando saremo a Napoli, mi terrete informato?).
12. A 'nu cetrangolo spremmuto, chiavece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
13.Chi va pe chisti mare, chisti pisce piglia.
Letteralmente: chi corre questi mari può pescare solo questo tipo di pesce. Id est: chi si sofferma a compiere un tipo di operazione difficile e/o pericolosa, non può che sopportarne le conseguenze, né può attendersi risultati diversi o migliori.
14. Ammore, tosse e rogna nun se ponno annasconnere.
Amore, tosse e scabbia non si posson celare; le manifestazioni di queste tre situazioni sono così eclatanti che nessuno può nasconderle; per quanto ci si ingegni in senso opposto amore, tosse e scabbia saranno sempre palesi; la locuzione è usata sempre che si voglia alludere a situazioni non celabili.
15.'Mparate a parlà, no a faticà.
Letteralmente: impara a parlare, non a lavorare. Amaro, ma ammiccante proverbio napoletano dal quale è facile comprendere la disistima tenuta dai napoletani per tutti coloro che non si guadagnano da vivere con un serio e duro lavoro, ma fondono la prapria esistenza sul fumo dell'eloquio, ritenuto però estremamente utile al conseguimento di mezzi di sussistenza, molto piú dell'onesto e duro lavoro (FATICA)in fondo la vita è dei furbi di quelli capaci di riempirti la testa di vuote chiacchiere e di non lavorare mai vivendo ugualmente benissimo.
16. 'A sotto p''e chiancarelle.
Letteralmente: attenti ai panconcelli! Esclamazione usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po' più colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le sottili assi trasversali di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano olim da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando Sanfelice che fattosi erigere un palazzo nella zona detta della Sanità, vi appose un'epigrafe dittante: eques Ferdinandus Sanfelicius fecit(il cav. Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il Sanfelice paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali Levàteve 'a sotto (toglietevi di sotto! ).
17. A 'stu nunno sulo 'o cantero è nicessario.
Letteralmente: la sola cosa necessaria a questo mondo è il pitale. Id est: niente e - soprattutto - nessuno sono veramente necessarii alla buona riuascita dell'esistenza la sola cosa che conta è nutrirsi bene e digerire meglio. In effetti con la parola cantero - oggetto destinato ad accogliere gli esiti fisiologici - si vuole proprio adombrare la buona salute indicata da una buona digestione, che intanto avviene se si è avuta la possibilità di nutrirsi. Si tenga presente che la parola cantero non à l'esatto corrispettivo in italiano essendo il pitale(con la quale parola si è reso in italiano) destinato ad accogliere gli esiti prettamente liquidi, mentre il cantaro era destinato ad accogliere quelli solidi.
18.Sparterse 'a cammisa 'e Cristo.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Cosí a Napoli si dice di chi, esoso al massimo,profitti di una situazione e si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato il Cristo sul Golgota , ne divisero, per appropriarsene, in quattro parti l'unica tunica di cui era ricoperto il Signore.
19. Essere aurio 'e chiazza e tribbulo 'e casa.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e lamentarsi in casa. Così a Napoli si suole dire - specie di uomini che in piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto simpatico, mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche immotivato.
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Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data.
2.'A meglia vita è cchella d''e vaccarepecché, tutta 'a jurnata, manejano zizze e denare.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
3.'O turco fatto crestiano, vo' 'mpalà tutte chille ca ghiastemmano.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
4.'O Pataterno addó vede 'a culata, lla spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
5.'O galantomo appezzentúto, addiventa 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
6.'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che ànno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
7. 'E vruoccole so' bbuone dint’ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
8. Statte bbuono ê sante: è zumpata 'a vacca 'ncuollo ô vojo!
Letteralmente: buonanotte!la vacca ha montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni così contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare.
9.Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte acìto.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, più aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe cosí cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
10. 'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
11. 'O fatto d''e quatte surde.
Letteralmente: il racconto dei quattro sordi. Il raccontino che qui di seguito si narra, adombra il dramma della incomunicabilità e la locuzione in epigrafe viene pronunciata a Napoli a sapido commento in una situazione nella quale non ci si riesca a capire alla stregua di quei quattro sordi che viaggiatori del medesimo treno, giunti ad una stazione, così dialogarono: Il primo: Scusate simmo arrivate a Napule? (Scusate, siamo giunti a Napoli?) Il secondo: Nonzignore, cca è Napule!(Nossignore, qua è Napoli!) Il terzo: I' me penzavo ca stevamo a Napule (Io credevo che stessimo a Napoli). Il quarto concluse: Maje pe cumanno, quanno stammo a Napule, m'avvisate? (Per cortesia, quando saremo a Napoli, mi terrete informato?).
12. A 'nu cetrangolo spremmuto, chiavece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
13.Chi va pe chisti mare, chisti pisce piglia.
Letteralmente: chi corre questi mari può pescare solo questo tipo di pesce. Id est: chi si sofferma a compiere un tipo di operazione difficile e/o pericolosa, non può che sopportarne le conseguenze, né può attendersi risultati diversi o migliori.
14. Ammore, tosse e rogna nun se ponno annasconnere.
Amore, tosse e scabbia non si posson celare; le manifestazioni di queste tre situazioni sono così eclatanti che nessuno può nasconderle; per quanto ci si ingegni in senso opposto amore, tosse e scabbia saranno sempre palesi; la locuzione è usata sempre che si voglia alludere a situazioni non celabili.
15.'Mparate a parlà, no a faticà.
Letteralmente: impara a parlare, non a lavorare. Amaro, ma ammiccante proverbio napoletano dal quale è facile comprendere la disistima tenuta dai napoletani per tutti coloro che non si guadagnano da vivere con un serio e duro lavoro, ma fondono la prapria esistenza sul fumo dell'eloquio, ritenuto però estremamente utile al conseguimento di mezzi di sussistenza, molto piú dell'onesto e duro lavoro (FATICA)in fondo la vita è dei furbi di quelli capaci di riempirti la testa di vuote chiacchiere e di non lavorare mai vivendo ugualmente benissimo.
16. 'A sotto p''e chiancarelle.
Letteralmente: attenti ai panconcelli! Esclamazione usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po' più colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le sottili assi trasversali di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano olim da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando Sanfelice che fattosi erigere un palazzo nella zona detta della Sanità, vi appose un'epigrafe dittante: eques Ferdinandus Sanfelicius fecit(il cav. Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il Sanfelice paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali Levàteve 'a sotto (toglietevi di sotto! ).
17. A 'stu nunno sulo 'o cantero è nicessario.
Letteralmente: la sola cosa necessaria a questo mondo è il pitale. Id est: niente e - soprattutto - nessuno sono veramente necessarii alla buona riuascita dell'esistenza la sola cosa che conta è nutrirsi bene e digerire meglio. In effetti con la parola cantero - oggetto destinato ad accogliere gli esiti fisiologici - si vuole proprio adombrare la buona salute indicata da una buona digestione, che intanto avviene se si è avuta la possibilità di nutrirsi. Si tenga presente che la parola cantero non à l'esatto corrispettivo in italiano essendo il pitale(con la quale parola si è reso in italiano) destinato ad accogliere gli esiti prettamente liquidi, mentre il cantaro era destinato ad accogliere quelli solidi.
18.Sparterse 'a cammisa 'e Cristo.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Cosí a Napoli si dice di chi, esoso al massimo,profitti di una situazione e si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato il Cristo sul Golgota , ne divisero, per appropriarsene, in quattro parti l'unica tunica di cui era ricoperto il Signore.
19. Essere aurio 'e chiazza e tribbulo 'e casa.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e lamentarsi in casa. Così a Napoli si suole dire - specie di uomini che in piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto simpatico, mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche immotivato.
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VARIE 663
1.'O turco fatto crestiano, vo' 'mpalà tutte chille ca ghiastemmano.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
2. 'O Pataterno addó vede 'a culata, lla spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, là invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorrono.
'a culata è appunto il bucato (che è dal ted. bukon) ed è detto culata (deverbale di colare) per indicare il momento della colatura ossia del versamento dell'acqua bollente sui panni già lavati,ma necessarii di sbiancatura, sistemanti in un grosso capace contenitore; l'acqua bollente veniva fatta colare sui panni attraverso un telo sul quale , temporibus illis, era sistemata della cenere (ricca di per sé di soda, agente sbiancante(in sostituzione di chimici detergenti)), e dei pezzi di arbusti profumati(per conferire al bucato un buon odore di pulito)…; il telo proprio per il fatto di accogliere la cenere fu détto cennerale
3.'O galantomo appezzentùto, addevènta 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
Chiaveco s.vo ed a.vo m.le = sporco, lercio e per estensione cattivo soggetto, essere spregevole; è un adattamento al maschile del s.vo f.le chiaveca/chiavica= fogna, porcheria,sozzura che è dal tardo lat. clàvica per il classico cloaca normale il passaggio cl→chj→ chi come ad es. clarum→chiaro.
4.'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che hanno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
5.'E vruoccole so' bbuone dint’ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
6. Statte bbuono ê sante: è zumpata 'a vacca 'ncuollo ô vojo!
Letteralmente: buonanotte!la vacca ha montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni così contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare.
7.Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte acíto.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe così cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
8.'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
9. A 'nu cetrangolo spremmuto, chiavece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
10.Chi troppo s''o sparagna, vene 'a 'atta e se lu magna.
Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo profittatore che disperde o consuma tutto il messo da parte.
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Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
2. 'O Pataterno addó vede 'a culata, lla spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, là invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorrono.
'a culata è appunto il bucato (che è dal ted. bukon) ed è detto culata (deverbale di colare) per indicare il momento della colatura ossia del versamento dell'acqua bollente sui panni già lavati,ma necessarii di sbiancatura, sistemanti in un grosso capace contenitore; l'acqua bollente veniva fatta colare sui panni attraverso un telo sul quale , temporibus illis, era sistemata della cenere (ricca di per sé di soda, agente sbiancante(in sostituzione di chimici detergenti)), e dei pezzi di arbusti profumati(per conferire al bucato un buon odore di pulito)…; il telo proprio per il fatto di accogliere la cenere fu détto cennerale
3.'O galantomo appezzentùto, addevènta 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
Chiaveco s.vo ed a.vo m.le = sporco, lercio e per estensione cattivo soggetto, essere spregevole; è un adattamento al maschile del s.vo f.le chiaveca/chiavica= fogna, porcheria,sozzura che è dal tardo lat. clàvica per il classico cloaca normale il passaggio cl→chj→ chi come ad es. clarum→chiaro.
4.'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che hanno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
5.'E vruoccole so' bbuone dint’ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
6. Statte bbuono ê sante: è zumpata 'a vacca 'ncuollo ô vojo!
Letteralmente: buonanotte!la vacca ha montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni così contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare.
7.Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte acíto.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe così cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
8.'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
9. A 'nu cetrangolo spremmuto, chiavece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
10.Chi troppo s''o sparagna, vene 'a 'atta e se lu magna.
Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo profittatore che disperde o consuma tutto il messo da parte.
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VARIE 662
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1 - Quanno si 'ncunia statte e quanno si martiello vatte
Letteralmente: quando sei incudine sta’ fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ci è favorevole.
quanno avv. di tempo = quando, in quale tempo, in quale momento, nel tempo in cui, nel momento in cui (con valore temporale), ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo), giacché, dal momento che (con valore causale), mentre (con valore avversativo) se, qualora (con valore condizionale, seguito dal verbo al congiunt.) derivato del latino quando con consueta assimilazione progressiva nd→nn;
‘ncunia sost. femm. = incudine con etimo da un aferizzato lat. volgare parlato *ancunia ed *incunia da collegarsi ad un lat. tardo incudine(m), deriv. di incudere 'battere col martello', comp. di in-(illativo) e cudere 'battere'; talvolta in napoletano, specialmente antico (Basile ed altri) in vece della voce a margine aferizzata ‘ncunia si trova il pretto latino volgare parlato ancunia senza variazioni di sorta;
statte = ad litteram: sta’/stai+ tu voce verbale (2° pers. sing. Imperativo ) dell’infinito stare/stà= fermarsi interrompendo un movimento; restare immobile, ma anche costare (es.: quanto sta?= quanto costa) ed anche accettare, prestar fede (es.: me stongo a cchello ca tu dice= presto fede a ciò che tu dici.) estensivamente: accettare sopportando con etimo dal lat. stare;
martiello sost. masch. = martello con etimo dal lat. martellu(m)=martulu(m) diminutivo di *martus sinonimo del classico marcus;
vatte =batti, picchia, percuoti voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito vàttere= picchiare, percuotere, colpire, percuotere con le mani o con un arnese; urtare con forza con etimo dal lat. tardo bàttere, per il class. battúere con consueta alternanza partenopea b/v.
2 - 'Mbarcarse senza viscuotte.
Letteralmente:Imbarcarsi senza biscotti. Id est: agire da sprovveduti, accingersi ad un'operazione, senza disporre dei mezzi necessari o talvolta, senza le occorrenti capacità mentali e/o pratiche.
Anticamenti i pescatori che si mettevano in mare per un periodo che poteva durare anche piú giorni si cibavano di carni salate, pesci sotto sale e gallette o biscotti, preferiti al pane perché non ammuffivano, ed anche secchi erano sempre edibili ammollati nell'acqua anche marina non ancora inquinata.
‘mbarcarse/’mmarcarse = imbarcarsi voce verbale infinito riflessivo dell’infinito ‘mbarcà = imbarcare, salire da passeggeri o merci su di una nave, su di una imbarcazione e, per estens., anche su altri mezzi di trasporto; voce denominale di barca questa volta stranamente, senza la tipica alternanza partenopea b/v che rende barca→varca;
senza= senza, privi di, indica mancanza, esclusione, privazione (si unisce ai nomi direttamente e ai pronomi personali o dimostrativi mediante la prep.’e= di); l’etimo è dal lat. (ab)sentia, che all'ablativo significa 'in mancanza di'
viscuotte sost. masch. plur. di viscuotto= biscotto innanzitutto piccola pasta dolce a base di farina, zucchero, uova e varî altri ingredienti, a seconda delle forme e dei tipi, cotta a lungo in forno perché risulti asciutta e croccante, ma qui, piú acconciamente: pane cotto due volte perché sia conservabile a lungo; etimologicamente dal lat. biscoctu(m) 'cotto (coctum) due volte (bis)
con consueta alternanza di b/v, ed assimilazione progressiva di ct→tt.
3 -'O sparagno nun è maje guaragno...
Il risparmio non è mai un guadagno..Le merci acquistate ad un prezzo palesemente inferiore a quello di mercato, il più delle volte nascondono una magagna (difetto di fabbricazione nel caso di strumentazioni, specialmente elettroniche, prossimità della scadenza in caso di prodotti alimentari) di talché alla fine il preteso o atteso risparmio si tramuterà in una perdita secca quando occorrerà ricomprare la strumentazione difettosa, o buttare il prodotto alimentare per acquistarne di più fresco, dimostrando la veridicità dell’assunto che cioè quasi sempre ciò che appare essere un profitto, è in realtà si è rivelato come una perdita, un passivo, una rimessa.
sparagno= risparmio, economia, profitto etimologicamente deverbale di sparagnà(= risparmiare, consumare con parsimonia ) che è forgiato su un antico italico * sparmiare che con l’anaptissi della a diede *sparamiare e con la variazione di mi→gn come in scigna←simia;
guaragno/guadambio sostantivo masch. = utilità ,frutto, vantaggio;
deverbale di guaragnà/guadagnà derivato dal francone *waidanjan, da waida 'pascolo'; propr. 'pascolare', quindi 'trarre un profitto; per la forma guadambio che è deverbale di guadambià,ci troviamo di fronte ad una voce frutto di un fuorviante ipercorrettismo popolare che attesa erronea la desinenza agno di guadagno/guaragno, pensò di renderla migliore mutandola in un ambio inteso più elegante di agno.
4 - S'à dda fà 'o pireto pe quanto è ggruosso 'o culo.
Becero, ma icastico consiglio che letteralmente è : occorre fare il peto secondo la grandezza dell'ano. In forma meno cruda, a senso può rendersi: occorre fare il passo per quanto è lunga la gamba (evitando strappi muscolari o dei pantaloni!)Id est: bisogna commisurare le proprie azioni alle proprie forze e capacità fisiche e/o morali, evitando di eccedere per non incorrere o in brutte figure o in pessimi risultati. Nell’inteso partenopeo la brutta figura preconizzabile o i pessimi risultati producili, nel caso di ostinarsi a far peti più vasti del proprio deretano, sarebbero rappresentati dall’imbrattamento dei vestiti operato dalle proprie feci emesse in uno con gli ampi peti eccedenti le possibilità fisiche, o – per traslato – qualsiasi altro effetto negativo prodotto dalle azioni eccedenti di chi operasse al di là delle proprie possibilità o facoltà.
s’à dda fà ad litteram è: si à da fare che è il modo napoletano di rendere il si deve fare, occorre fare; si à è la voce verbale impersonale (3° pers. sing. indicativo presente) dell’infinito avere/avé = avere, tenere, possedere ma in unione con la preposizione semplice da id est: avere ‘a = avere da vale dovere, occorrere; avere/avé etimologicamente è dal lat. habére da una radice indo-europea sah= hab= tenere; nel napoletano c’è la tipica alternanza b/v ed aferesi dell’aspirata d’avvio h intesa superflua ed inutile;
fà = fare infinito della voce verbale fare/fà con etimo dalla sincope del latino fa(ce)re; chiarisco qui che molti scrittori napoletani usano scrivere in napoletano l’infinito a margine: fa’ con una forma apocopata che non ritengo esatta: il monosillabo fa’ può anche adombrare la 2° pers. sing. dell’imperativo apocopato di fare e cioè: fai= fa’; preferisco per ciò usare per l’infinito la forma tronca fà forma omologa di quasi tutti gli infiniti dei verbi napoletani che risultano apocopati, ma tonicamente accentati sulla sillaba finale (es.: mangià=mangiare, campà=campare, saglí = salire, sentí = sentire, cadé= cadere;etc. );
pireto sost. masch. = peto, emissione gassosa intestinale, rumorosa, ma raramente fetida al contrario della loffa, emissione gassosa intestinale, silenziosa, ma olfattivamente tremenda; etimologicamente pireto è dal lat. peditum deriv. di pedere ' fare scorregge', mentre loffa è da collegarsi al tedesco luft/loft= aria;
pe quanto locuz. avverbiale con varî valori: concessivo, limitativo (ed è il ns. caso)= per quanto, nella misura in cui, limitatamente a;
quanto etimologicamente è dal lat. quantum;
gruosso aggettivo qualif.= grosso, che à dimensioni notevoli (per volume, capacità, spessore, corporatura, estensione) con etimo dal tardo latino grossu(m) tipica la dittongazione uo←o nella sillaba d’avvio intesa breve;
culo sost. masch. culo, sedere, deretano ed estensimamente fondo di un sacco, fondo di un recipiente di vetro: il culo di un fiasco, di una bottiglia, culi di bicchiere; etimologicamente dal tardo latino culu(m) da un greco koîlon e kolon (intestino).
5 - Chi se mette cu 'e criature, cacato se trova.
Letteralmente: chi intrattiene rapporti con i bambini, si ritrova sporco d'escrementi. Id est: chi entra in competizione con persone molto più giovani di lui o intrattiene rapporti con persone non particolarmente serie, è destinato a fine ingloriosa; per solito chi contratta con i bambini dovrà sopportarne le amare conseguenze, derivanti dalla naturale mancanza di serietà ed immaturità dei bambini, la medesima immaturità che denotano coloro che non ànno serietà di comportamento o di pensiero.
mette = mette,ma pure intrattiene rapporti, contratta; voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito mettere= mettere, porre ma pure, come qui intrattenere rapporti, contrattare con etimo dal lat. mittere 'mandare' e 'porre, mettere';
criature esattamente sost. plurale di criaturo/ra= bambino/bambina; il plurale criature che in napoletano vale sia per il maschile che per il femminile con la sola differenza che preceduto dall’art. determ. plurale, il maschile ‘e (i) criature= ibambini si scrive con la c scempia, mentre il femminile ‘e (le) ccriature= le bambine vuole la c geminata; rammenterò che nel caso del proverbio in epigrafe è stato usato il termine maschile ‘e criature, inteso termine generico indicante un determinato lasso di età, onnicomprensivo dei maschi e delle femmine e non dei soli bambini maschi;
cacato di per sé cacato, defecato ma qui vale lordato, sporco d’escrementi e per traslasto perdente, sconfitto; voce verbale (part. passato aggettivato masch.) dell’infinito cacare/cacà che è dal basso latino cacare;
se trova = si trova, ne ricava voce verbale (3° p.sing. indicativo presente) dell’infinito truvar-se= riceverne, ricavarne, ottenerne;
incerto l’etimo del verbo truvà anche se quasi tutti concordemente parlano di un lat. volg. *tropare= esprimersi mediante tropi, dal class. tropus 'tropo' (qualsiasi uso linguistico che trasferisca una parola dal significato suo proprio a un altro figurato; traslato: la metafora, la metonimia ecc.
6 - Mo abbrusciale pure'a bbarba e po' dice ca so' stat' io!
Letteralmente: Adesso àrdigli anche la barba e poi di' che sono stato io... La locuzione viene usata con gran risentimento da chi si voglia difendere da un'accusa, manifestamente falsa.
Si narra che durante un'Agonia (predica del venerdì santo)un agitato predicatore brandendo un crocefisso accusava, quasi ad personam, i fedeli presenti in chiesa dicendo volta a volta che essi, peccatori, avevano forato mani e piedi del Cristo, gli avevano inferto il colpo nel costato, gli avevano calzato in testa la corona di spine lo avevano flaggellato con i loro peccati e così via. Nell'agitazione dell'eloquio finì per avvicinare il crocefisso in maniera maldestra ad un cero acceso correndo il rischio di bruciare la barba del Cristo. Al che, uno dei fedeli lo apostrofò con la frase in epigrafe, entrata a far parte della cultura popolare...
mo avv. di tempo =ora, adesso, in questo momento ed anche talora, come nel caso in esame, nel significato estensivo di anche, in aggiunta; la maggior parte degli addetti ai lavori fa derivare l’avverbio da quello latino modo= ora, adesso e qualche vocabolarista della lingua italiana dove il napoletano mo vi è pervenuto negli identici significati di ora, adesso, in questo momento , è costretto a scriverlo mo’ con il segno dell’apocope indicante la caduta della sillaba do, incorrendo però fatalmente nella confusione tra il mo’ avverbio di tempo ed il mo’ s. m. troncamento del sostantivo modo, usato solo nella loc. a mo' di, a guisa di, in funzione di: a mo' d'esempio; per non incorrere in simili confusioni preferisco ritenere il mo avv. nap. a margine, derivato dall’avv. latino mox con caduta della sola consonante x , caduta che non necessita di alcun segno diacritico come avviene anche per co/cu(con) derivato di cum o pe (per) e ciò a malgrado si ritenga che, secondo le regole della glottologia, la caduta di una consonante doppia x=cs dovrebbe pur lasciare un residuo, fosse anche un segno diacritico, ma le eccezioni esistono proprio perché vi son le regole!;
abbrusciale= brucia+gli voce verbale (2° per. sing. imperativo) (addizionata in posizione enclitica del pronome obliquo le=gli, a lui )
dell’infinito abbruscià=bruciare, ardere che è dal latino volgare *ad brusiare rafforzativo di brusiare;
pure congiunzione =quand'anche; sebbene, tuttavia, nondimeno, eppure (con valore avversativo) al fine di (introduce una prop. finale implicita con il verbo all'inf. oppure avverbio= anche (con valore aggiuntivo), proprio, davvero (con valore asseverativo) derivato dal lat. pure 'puramente, semplicemente' e anche, nel lat. tardo, 'senza riserve, senza condizione;
barba sost. femm.= barba l'insieme dei peli che crescono sulle guance e sul mento dell'uomo; per estens., i peli del muso di alcuni animali dal latino barba(m); talora in napoletano con tipica alternanza b/v si trova pure varva e si tratta dello stesso sostantivo;
po= poi, in seguito, dopo, appresso avv. di tempo dal lat. po(st); la caduta delle consonanti, come ò ricordato, non necessitano in napoletano di segni diacritici d’apocope0, in questo caso poi anche inutile perché in napoletano esiste già un po’ ma è l’apocope, ovviamente sillabica di po(te)= può 3° p. sg. ind. pres. di puté ;
dice= dici, di’ voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito dí/ dícere dal latino di(ce)re;
ca cong. ed altrove anche pronome relativo= che con etimo dal latino q(ui)a; come pronome deriva dal lat. quid;
so’ stato/songo stato = sono stato voce verbale (1° pers. sing. pass. pross.) dell’infinito essere dritto per dritto dal lat. volg. *essere, per il class. esse.
7 - Puozz'avé mez'ora 'e petrïata dinto a 'nu viculo astritto e ca nun sponta, farmacíe nchiuse e mierece guallaruse!
Imprecazione divertente, ma malevola, se non cattiva, rivolta contro un inveterato nemico cui, con spirito esacerbato, si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subìta in un vicolo stretto e cieco, (che non offra cioè possibilità di fuga) e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte e di imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti a prestar soccorso.
puozz’ avé = possa avere id est: possa subire; puozze= possa voce verbale (2° pers. sing. cong. pres.) dell’infinito puté =potere, avere la forza, la facoltà, la capacità, la possibilità, la libertà di fare qualcosa, mancando ostacoli di ordine materiale o non materiale che lo impediscano; nell’espressione a margine puozze vale ti auguro; l’etimo di puté/potere è dal lat. volg. *potìre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -entis; avé= avere e molti altri significati positivi come: conseguire, ottenere; ricevere; entrare in possesso o negativi come: subire; per l’etimo vedi sopra;
petrïata/petrata sost. femm; letteralmente la petrata è la pietrata,il tiro e il colpo di una singola pietra, mentre con la voce petrïata si intende una prolungata gragnuola di colpi di pietra, quasi una lapidazione; anticamente a far tempo dalla fine del ‘500, a Napoli soprattutto in talune zone della città quali Arenaccia, Arena alla Sanità, San Carlo Arena, ricche di detriti sassosi, residuali di piogge che trasportavano a valle terriccio e sassi provenienti dalle alture di Capodimonte, Fontanelle etc. o, nelle stagioni secche, residui di fiumiciattoli (es. Sebéto) in secca si svolgevano, tra opposte bande di scugnizzi e/o bassa plebaglia, delle autentiche battaglie(petrïate) a colpi di pietre e sassi con feriti spesso gravi; ai primi del ‘600 tali battaglie divennero cosí cruente che i viceré dell’epoca furono costretti ad emanar prammatiche, nel (peraltro) vano tentativo di limitare il fenomeno… Si ricorda una divertente espressione in uso tra i contendenti di tali petrïate: Menàte ‘e grosse, pecché ‘e piccerelle vanno dint’ a ll’uocchie! (Tirate le (pietre) grandi, giacché quelle piccole vanno negli occhi!).
Etimologicamente sia petrata che petrïata sono un derivato metatetico di preta metatesi del lat. . petra(m), che è dal gr. pétra; nella voce petrïata generata dopo petrata si è avuta l’anaptissi (inserzione di una vocale in un gruppo consonantico o tra una consonante ed una vocale; epentesi vocalica) di una i durativa allo scopo di espander nel tempo il senso della parola d’origine;l’anaptissi di questa i à determinato altresí la ritrazione dell’accento tonico e si è avuto petrïata in luogo di petriàta;
dinto (a) = dentro (ad) avverbio e prep. impropria dal basso lat. de intus; da notare che in napoletano, come prep. impropria, dinto debba sempre essere accompagnata dalla prep. semplice a o dalle sue articolate â = a + ‘a (alla ) ô= a + lo ( al/allo) ê= a + i/a + le (ai/alle) per modo che si abbia ad es. dint’ ô treno (dentro al treno ) di contro il corrispondente italiano dentro il treno. La medesima cosa càpita come alibi dissi per ‘ncoppa (sopra) ,sotto (sotto), ‘mmiezo (in mezzo) fora (fuori) ed ogni altro avverbio e/o preposizione impropria;
viculo = vicolo, vico via molto stretta e di secondaria importanza, in un centro urbano ; l’etimo è dal lat. viculu(m), dim. di vicus;
astritto o astrinto agg. qual. masch. stretto, poco sviluppato nel senso della larghezza; non largo, non ampio; angusto; l’etimo è dal lat. *a(d)strictus part. pass. di un *a(d)stringere, rafforzativo di stringere;
ca nun sponta letteralmente: che non sfocia in altra strada cioè: vicolo (stretto e) cieco; sponta =sfocia voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito spuntà= sbottonare, spuntare, comparire all’improvviso,sfociare; in primis spuntare con etimo dal latino *ex-punctare vale toglier la punta, metter fuori la punta ed il senso di spuntare, comparire all’improvviso,sfociare deriva dal fatto che chi spunta (appare), compare all’improvviso o sfocia in qualche luogo proveniente da un altro, non lo fa di colpo, ma paulatim et gradatim quasi mettendo fuori innanzi tutto la propria punta e poi il resto del corpo; ugualmente il senso di sbottonare è dato dal fatto che il bottone vien fuori dall’asola prima per la parte limitrofa(punta.) poi tutt’intero;
farmacíe sost. femm. plurale di farmacía che in napoletano, piú restrettivamente del corrispondente italiano,( dove con derivazione dal greco pharmakéia 'medicina, rimedio', da phármakon 'farmaco'si intende l'insieme degli studi e delle pratiche che ànno per oggetto le proprietà, l'uso terapeutico e la preparazione dei medicinali) si intende, derivato dal francese pharmacie esclusivamente il locale destinato alla vendita e, soprattutto nel passato, anche alla preparazione dei medicinali;
nchiuse agg. plur. femm. = chiuse, serrate, strette etimologicamente trattasi del part. pass. aggettivato femm. del verbo nchiurere= chiudere, ostruire, sbarrare, impedire un accesso; bloccare un passaggio con etimo dal basso latino cludere, per il class. claudere; faccio notare come nel verbo napoletano nchiurere si è avuta la consueta trasformazione di cl→chi come altrove ad es.: chiesia←(ec)clesia, chiuovo←clavus etc, la tipica rotacizzazione mediterranea d→r e la protesi di una n eufonica che non va marcata con alcun segno diacritico (‘n) in quanto essa n non è l’aferesi di in, ma solo una consonante eufonica come nel caso di nc’è= c’è, ragion per cui erra chi dovesse scrivere la voce a margine ‘nchiuse da un inesatto ‘nchiurere atteso che , come ò detto, nchiurere deriva da n(eufonica)+ cludere non da in(illativo)→’n+cludere;
mierece sost. masch. plurale di miedeco/miereco= medico, chi professa la medicina avendo conseguito il titolo accademico e l'abilitazione all'esercizio della professione; l’etimo è dal lat.medicu(m), deriv. di medìri 'curare, soccorrere'con dittongazione nella sillaba d’avvio intesa breve ie←e, e rotacizzazione mediterranea d/r;
guallaruse agg. masch. plur. di guallaruso= affetto da ernia probabilmente inguinale tale da limitare il movimento deambulatorio; la voce a margine (che è maschile, come dal suff. use plurale di uso, il femminile avrebbe avuto il metafonetico suff. ose pl. di osa) è un derivato del sostantivo guallera(= ernia) che è dall’arabo wadara.
8 -Jí ascianno ova ‘e lupo e piettene ‘e quinnece.
Ad litteram: andar cercando di uova di lupo e pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose ma vane come sarebbe l’andare in cerca di uova di lupo che – mammifero - è un animale viviparo e non deposita uova,oppure cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i pettini da cardatura non ne contavano mai più di tredici.Cominciamo a rammentare ai più giovani, che un tempo – quando non esistevano materassi ortopedici e/o in lattice, quelli in uso erano dei sacconi di cotone riempiti di lana ovina, lana che periodicamente occorreva smuovere, lavare e pettinare (cardare) in profondità per ridarle volume e morbidezza; tale operazione consistente, come detto parallelizzare le fibre tessili in fiocco, naturali (p. e. lana, cotone, canapa) o artificiali (p. e. raion), era fatta da tipici operai, detti lanaioli o cardatori che all’uopo si servivano di uno strumento dentato detto scardasso o in origine della pianta di cardo (dal lat. tardo cardu(m), per il class. carduus) le cui infiorescenze uncinate si usavano appunto per cardare la lana; la pianta cardo cedette il nome all’azione cardare; dismesso l’uso del cardo, i lanaioli napoletani presero a servirsi prima che dello scardasso (attrezzo a forma di cavalletto in cui due serie di punte d'acciaio, una delle quali montata su una parte mobile azionata a mano, provvedono alla sfioccatura delle fibre tessili; voce derivata di cardo con protesi di una s intensiva ed un suffisso dispregiativo (l’attrezzo fu brutto da vedersi e – se non usato con cautela – spesso produceva danni ai fiocchi cardati, strappandoli anzi che pareggiarli) asso per accio), di particolari pettini fabbricati all’uopo, pettini che in Campania ( e segnatamente a Napoli) non contavano mai piú di tredici denti.
jí ascianno letteralmente andar cercando locuzione verbale formata dall’infinito jí= andare (dal lat. ire) e dal gerundio ascianno = cercando dell’infinito asciare/ascià=cercare con insistenza ed applicazione; l’etimo di ascià potrebbe essere da un lat. volg. *anxiare(ansimare, anelare) denom. di *anxia; ma preferisco l’ipotesi che ascià derivi dal tardo lat. *adflare (annusare) verbo nel quale è riconoscibile il digramma fl che in napoletano è sempre sci (es.: sciore←flos,sciummo←flumen, scioccele ←flacces etc. ) da a(d)flare→aflare→asciare;
ova sost. neutro plur. di uovo da un lat. volg. òvu(m) per il class. óvu(m); in napoletano il plur. ova giustamente perde la u del dittongo mobile uovo laddove in italiano ( l’uovo – le uova) essa u viene conservata, ma non se ne comprende il motivo.
lupo sost. masch.= lupo, mammifero carnivoro selvatico simile al cane, che vive prevalentemente in branchi ed è caratterizzato da muso aguzzo, orecchie grandi ed erette, pelame folto; la femmina, che da mammifera non depone uova, genera vivipari; l’etimo di lupo è dal lat. lupu(m) per *vlupu(m),*vlucu(m) che come il greco lýkos, * vlýkos il gotico vulfas, l’ant. ted. wolf ed altre lingue son tutti riconducibili alla radice vark o valk/vlak= strappare, lacerare;
piéttene sost. masch. plur. di pèttene= pettine, arnese di materiale vario, costituito di una serie di denti più o meno fitti innestati su una costola che serve da impugnatura; è usato per mettere in ordine capelli o pelame similare; quello usato dai cardatori non contava mai piú di tredici denti.
la voce pettene sing. di piettene (in cui è da notare la tipica dittongazione ie di un’iniziale e intesa breve, con successiva chiusura della é in sillaba tonica del maschile plurale dell’aperta tonica è del singolare; es.: ‘o scèmo – ‘e sciéme, ma se femm.: ‘a scèma – ‘e scème; ) etimologicamente è dall’acc. lat. pectine(m) deverbale di pectere 'pettinare' con tipica assimilazione regressiva ct→tt ;
quinnece agg. numerale cardinale = quindici dal lat. quindece(m), comp. di quinque 'cinque' e decem 'dieci'nella voce napoletana si è avuta la tipica assimilazione progressiva nd→nn.
Raffaele Bracale
1 - Quanno si 'ncunia statte e quanno si martiello vatte
Letteralmente: quando sei incudine sta’ fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ci è favorevole.
quanno avv. di tempo = quando, in quale tempo, in quale momento, nel tempo in cui, nel momento in cui (con valore temporale), ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo), giacché, dal momento che (con valore causale), mentre (con valore avversativo) se, qualora (con valore condizionale, seguito dal verbo al congiunt.) derivato del latino quando con consueta assimilazione progressiva nd→nn;
‘ncunia sost. femm. = incudine con etimo da un aferizzato lat. volgare parlato *ancunia ed *incunia da collegarsi ad un lat. tardo incudine(m), deriv. di incudere 'battere col martello', comp. di in-(illativo) e cudere 'battere'; talvolta in napoletano, specialmente antico (Basile ed altri) in vece della voce a margine aferizzata ‘ncunia si trova il pretto latino volgare parlato ancunia senza variazioni di sorta;
statte = ad litteram: sta’/stai+ tu voce verbale (2° pers. sing. Imperativo ) dell’infinito stare/stà= fermarsi interrompendo un movimento; restare immobile, ma anche costare (es.: quanto sta?= quanto costa) ed anche accettare, prestar fede (es.: me stongo a cchello ca tu dice= presto fede a ciò che tu dici.) estensivamente: accettare sopportando con etimo dal lat. stare;
martiello sost. masch. = martello con etimo dal lat. martellu(m)=martulu(m) diminutivo di *martus sinonimo del classico marcus;
vatte =batti, picchia, percuoti voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito vàttere= picchiare, percuotere, colpire, percuotere con le mani o con un arnese; urtare con forza con etimo dal lat. tardo bàttere, per il class. battúere con consueta alternanza partenopea b/v.
2 - 'Mbarcarse senza viscuotte.
Letteralmente:Imbarcarsi senza biscotti. Id est: agire da sprovveduti, accingersi ad un'operazione, senza disporre dei mezzi necessari o talvolta, senza le occorrenti capacità mentali e/o pratiche.
Anticamenti i pescatori che si mettevano in mare per un periodo che poteva durare anche piú giorni si cibavano di carni salate, pesci sotto sale e gallette o biscotti, preferiti al pane perché non ammuffivano, ed anche secchi erano sempre edibili ammollati nell'acqua anche marina non ancora inquinata.
‘mbarcarse/’mmarcarse = imbarcarsi voce verbale infinito riflessivo dell’infinito ‘mbarcà = imbarcare, salire da passeggeri o merci su di una nave, su di una imbarcazione e, per estens., anche su altri mezzi di trasporto; voce denominale di barca questa volta stranamente, senza la tipica alternanza partenopea b/v che rende barca→varca;
senza= senza, privi di, indica mancanza, esclusione, privazione (si unisce ai nomi direttamente e ai pronomi personali o dimostrativi mediante la prep.’e= di); l’etimo è dal lat. (ab)sentia, che all'ablativo significa 'in mancanza di'
viscuotte sost. masch. plur. di viscuotto= biscotto innanzitutto piccola pasta dolce a base di farina, zucchero, uova e varî altri ingredienti, a seconda delle forme e dei tipi, cotta a lungo in forno perché risulti asciutta e croccante, ma qui, piú acconciamente: pane cotto due volte perché sia conservabile a lungo; etimologicamente dal lat. biscoctu(m) 'cotto (coctum) due volte (bis)
con consueta alternanza di b/v, ed assimilazione progressiva di ct→tt.
3 -'O sparagno nun è maje guaragno...
Il risparmio non è mai un guadagno..Le merci acquistate ad un prezzo palesemente inferiore a quello di mercato, il più delle volte nascondono una magagna (difetto di fabbricazione nel caso di strumentazioni, specialmente elettroniche, prossimità della scadenza in caso di prodotti alimentari) di talché alla fine il preteso o atteso risparmio si tramuterà in una perdita secca quando occorrerà ricomprare la strumentazione difettosa, o buttare il prodotto alimentare per acquistarne di più fresco, dimostrando la veridicità dell’assunto che cioè quasi sempre ciò che appare essere un profitto, è in realtà si è rivelato come una perdita, un passivo, una rimessa.
sparagno= risparmio, economia, profitto etimologicamente deverbale di sparagnà(= risparmiare, consumare con parsimonia ) che è forgiato su un antico italico * sparmiare che con l’anaptissi della a diede *sparamiare e con la variazione di mi→gn come in scigna←simia;
guaragno/guadambio sostantivo masch. = utilità ,frutto, vantaggio;
deverbale di guaragnà/guadagnà derivato dal francone *waidanjan, da waida 'pascolo'; propr. 'pascolare', quindi 'trarre un profitto; per la forma guadambio che è deverbale di guadambià,ci troviamo di fronte ad una voce frutto di un fuorviante ipercorrettismo popolare che attesa erronea la desinenza agno di guadagno/guaragno, pensò di renderla migliore mutandola in un ambio inteso più elegante di agno.
4 - S'à dda fà 'o pireto pe quanto è ggruosso 'o culo.
Becero, ma icastico consiglio che letteralmente è : occorre fare il peto secondo la grandezza dell'ano. In forma meno cruda, a senso può rendersi: occorre fare il passo per quanto è lunga la gamba (evitando strappi muscolari o dei pantaloni!)Id est: bisogna commisurare le proprie azioni alle proprie forze e capacità fisiche e/o morali, evitando di eccedere per non incorrere o in brutte figure o in pessimi risultati. Nell’inteso partenopeo la brutta figura preconizzabile o i pessimi risultati producili, nel caso di ostinarsi a far peti più vasti del proprio deretano, sarebbero rappresentati dall’imbrattamento dei vestiti operato dalle proprie feci emesse in uno con gli ampi peti eccedenti le possibilità fisiche, o – per traslato – qualsiasi altro effetto negativo prodotto dalle azioni eccedenti di chi operasse al di là delle proprie possibilità o facoltà.
s’à dda fà ad litteram è: si à da fare che è il modo napoletano di rendere il si deve fare, occorre fare; si à è la voce verbale impersonale (3° pers. sing. indicativo presente) dell’infinito avere/avé = avere, tenere, possedere ma in unione con la preposizione semplice da id est: avere ‘a = avere da vale dovere, occorrere; avere/avé etimologicamente è dal lat. habére da una radice indo-europea sah= hab= tenere; nel napoletano c’è la tipica alternanza b/v ed aferesi dell’aspirata d’avvio h intesa superflua ed inutile;
fà = fare infinito della voce verbale fare/fà con etimo dalla sincope del latino fa(ce)re; chiarisco qui che molti scrittori napoletani usano scrivere in napoletano l’infinito a margine: fa’ con una forma apocopata che non ritengo esatta: il monosillabo fa’ può anche adombrare la 2° pers. sing. dell’imperativo apocopato di fare e cioè: fai= fa’; preferisco per ciò usare per l’infinito la forma tronca fà forma omologa di quasi tutti gli infiniti dei verbi napoletani che risultano apocopati, ma tonicamente accentati sulla sillaba finale (es.: mangià=mangiare, campà=campare, saglí = salire, sentí = sentire, cadé= cadere;etc. );
pireto sost. masch. = peto, emissione gassosa intestinale, rumorosa, ma raramente fetida al contrario della loffa, emissione gassosa intestinale, silenziosa, ma olfattivamente tremenda; etimologicamente pireto è dal lat. peditum deriv. di pedere ' fare scorregge', mentre loffa è da collegarsi al tedesco luft/loft= aria;
pe quanto locuz. avverbiale con varî valori: concessivo, limitativo (ed è il ns. caso)= per quanto, nella misura in cui, limitatamente a;
quanto etimologicamente è dal lat. quantum;
gruosso aggettivo qualif.= grosso, che à dimensioni notevoli (per volume, capacità, spessore, corporatura, estensione) con etimo dal tardo latino grossu(m) tipica la dittongazione uo←o nella sillaba d’avvio intesa breve;
culo sost. masch. culo, sedere, deretano ed estensimamente fondo di un sacco, fondo di un recipiente di vetro: il culo di un fiasco, di una bottiglia, culi di bicchiere; etimologicamente dal tardo latino culu(m) da un greco koîlon e kolon (intestino).
5 - Chi se mette cu 'e criature, cacato se trova.
Letteralmente: chi intrattiene rapporti con i bambini, si ritrova sporco d'escrementi. Id est: chi entra in competizione con persone molto più giovani di lui o intrattiene rapporti con persone non particolarmente serie, è destinato a fine ingloriosa; per solito chi contratta con i bambini dovrà sopportarne le amare conseguenze, derivanti dalla naturale mancanza di serietà ed immaturità dei bambini, la medesima immaturità che denotano coloro che non ànno serietà di comportamento o di pensiero.
mette = mette,ma pure intrattiene rapporti, contratta; voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito mettere= mettere, porre ma pure, come qui intrattenere rapporti, contrattare con etimo dal lat. mittere 'mandare' e 'porre, mettere';
criature esattamente sost. plurale di criaturo/ra= bambino/bambina; il plurale criature che in napoletano vale sia per il maschile che per il femminile con la sola differenza che preceduto dall’art. determ. plurale, il maschile ‘e (i) criature= ibambini si scrive con la c scempia, mentre il femminile ‘e (le) ccriature= le bambine vuole la c geminata; rammenterò che nel caso del proverbio in epigrafe è stato usato il termine maschile ‘e criature, inteso termine generico indicante un determinato lasso di età, onnicomprensivo dei maschi e delle femmine e non dei soli bambini maschi;
cacato di per sé cacato, defecato ma qui vale lordato, sporco d’escrementi e per traslasto perdente, sconfitto; voce verbale (part. passato aggettivato masch.) dell’infinito cacare/cacà che è dal basso latino cacare;
se trova = si trova, ne ricava voce verbale (3° p.sing. indicativo presente) dell’infinito truvar-se= riceverne, ricavarne, ottenerne;
incerto l’etimo del verbo truvà anche se quasi tutti concordemente parlano di un lat. volg. *tropare= esprimersi mediante tropi, dal class. tropus 'tropo' (qualsiasi uso linguistico che trasferisca una parola dal significato suo proprio a un altro figurato; traslato: la metafora, la metonimia ecc.
6 - Mo abbrusciale pure'a bbarba e po' dice ca so' stat' io!
Letteralmente: Adesso àrdigli anche la barba e poi di' che sono stato io... La locuzione viene usata con gran risentimento da chi si voglia difendere da un'accusa, manifestamente falsa.
Si narra che durante un'Agonia (predica del venerdì santo)un agitato predicatore brandendo un crocefisso accusava, quasi ad personam, i fedeli presenti in chiesa dicendo volta a volta che essi, peccatori, avevano forato mani e piedi del Cristo, gli avevano inferto il colpo nel costato, gli avevano calzato in testa la corona di spine lo avevano flaggellato con i loro peccati e così via. Nell'agitazione dell'eloquio finì per avvicinare il crocefisso in maniera maldestra ad un cero acceso correndo il rischio di bruciare la barba del Cristo. Al che, uno dei fedeli lo apostrofò con la frase in epigrafe, entrata a far parte della cultura popolare...
mo avv. di tempo =ora, adesso, in questo momento ed anche talora, come nel caso in esame, nel significato estensivo di anche, in aggiunta; la maggior parte degli addetti ai lavori fa derivare l’avverbio da quello latino modo= ora, adesso e qualche vocabolarista della lingua italiana dove il napoletano mo vi è pervenuto negli identici significati di ora, adesso, in questo momento , è costretto a scriverlo mo’ con il segno dell’apocope indicante la caduta della sillaba do, incorrendo però fatalmente nella confusione tra il mo’ avverbio di tempo ed il mo’ s. m. troncamento del sostantivo modo, usato solo nella loc. a mo' di, a guisa di, in funzione di: a mo' d'esempio; per non incorrere in simili confusioni preferisco ritenere il mo avv. nap. a margine, derivato dall’avv. latino mox con caduta della sola consonante x , caduta che non necessita di alcun segno diacritico come avviene anche per co/cu(con) derivato di cum o pe (per) e ciò a malgrado si ritenga che, secondo le regole della glottologia, la caduta di una consonante doppia x=cs dovrebbe pur lasciare un residuo, fosse anche un segno diacritico, ma le eccezioni esistono proprio perché vi son le regole!;
abbrusciale= brucia+gli voce verbale (2° per. sing. imperativo) (addizionata in posizione enclitica del pronome obliquo le=gli, a lui )
dell’infinito abbruscià=bruciare, ardere che è dal latino volgare *ad brusiare rafforzativo di brusiare;
pure congiunzione =quand'anche; sebbene, tuttavia, nondimeno, eppure (con valore avversativo) al fine di (introduce una prop. finale implicita con il verbo all'inf. oppure avverbio= anche (con valore aggiuntivo), proprio, davvero (con valore asseverativo) derivato dal lat. pure 'puramente, semplicemente' e anche, nel lat. tardo, 'senza riserve, senza condizione;
barba sost. femm.= barba l'insieme dei peli che crescono sulle guance e sul mento dell'uomo; per estens., i peli del muso di alcuni animali dal latino barba(m); talora in napoletano con tipica alternanza b/v si trova pure varva e si tratta dello stesso sostantivo;
po= poi, in seguito, dopo, appresso avv. di tempo dal lat. po(st); la caduta delle consonanti, come ò ricordato, non necessitano in napoletano di segni diacritici d’apocope0, in questo caso poi anche inutile perché in napoletano esiste già un po’ ma è l’apocope, ovviamente sillabica di po(te)= può 3° p. sg. ind. pres. di puté ;
dice= dici, di’ voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito dí/ dícere dal latino di(ce)re;
ca cong. ed altrove anche pronome relativo= che con etimo dal latino q(ui)a; come pronome deriva dal lat. quid;
so’ stato/songo stato = sono stato voce verbale (1° pers. sing. pass. pross.) dell’infinito essere dritto per dritto dal lat. volg. *essere, per il class. esse.
7 - Puozz'avé mez'ora 'e petrïata dinto a 'nu viculo astritto e ca nun sponta, farmacíe nchiuse e mierece guallaruse!
Imprecazione divertente, ma malevola, se non cattiva, rivolta contro un inveterato nemico cui, con spirito esacerbato, si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subìta in un vicolo stretto e cieco, (che non offra cioè possibilità di fuga) e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte e di imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti a prestar soccorso.
puozz’ avé = possa avere id est: possa subire; puozze= possa voce verbale (2° pers. sing. cong. pres.) dell’infinito puté =potere, avere la forza, la facoltà, la capacità, la possibilità, la libertà di fare qualcosa, mancando ostacoli di ordine materiale o non materiale che lo impediscano; nell’espressione a margine puozze vale ti auguro; l’etimo di puté/potere è dal lat. volg. *potìre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -entis; avé= avere e molti altri significati positivi come: conseguire, ottenere; ricevere; entrare in possesso o negativi come: subire; per l’etimo vedi sopra;
petrïata/petrata sost. femm; letteralmente la petrata è la pietrata,il tiro e il colpo di una singola pietra, mentre con la voce petrïata si intende una prolungata gragnuola di colpi di pietra, quasi una lapidazione; anticamente a far tempo dalla fine del ‘500, a Napoli soprattutto in talune zone della città quali Arenaccia, Arena alla Sanità, San Carlo Arena, ricche di detriti sassosi, residuali di piogge che trasportavano a valle terriccio e sassi provenienti dalle alture di Capodimonte, Fontanelle etc. o, nelle stagioni secche, residui di fiumiciattoli (es. Sebéto) in secca si svolgevano, tra opposte bande di scugnizzi e/o bassa plebaglia, delle autentiche battaglie(petrïate) a colpi di pietre e sassi con feriti spesso gravi; ai primi del ‘600 tali battaglie divennero cosí cruente che i viceré dell’epoca furono costretti ad emanar prammatiche, nel (peraltro) vano tentativo di limitare il fenomeno… Si ricorda una divertente espressione in uso tra i contendenti di tali petrïate: Menàte ‘e grosse, pecché ‘e piccerelle vanno dint’ a ll’uocchie! (Tirate le (pietre) grandi, giacché quelle piccole vanno negli occhi!).
Etimologicamente sia petrata che petrïata sono un derivato metatetico di preta metatesi del lat. . petra(m), che è dal gr. pétra; nella voce petrïata generata dopo petrata si è avuta l’anaptissi (inserzione di una vocale in un gruppo consonantico o tra una consonante ed una vocale; epentesi vocalica) di una i durativa allo scopo di espander nel tempo il senso della parola d’origine;l’anaptissi di questa i à determinato altresí la ritrazione dell’accento tonico e si è avuto petrïata in luogo di petriàta;
dinto (a) = dentro (ad) avverbio e prep. impropria dal basso lat. de intus; da notare che in napoletano, come prep. impropria, dinto debba sempre essere accompagnata dalla prep. semplice a o dalle sue articolate â = a + ‘a (alla ) ô= a + lo ( al/allo) ê= a + i/a + le (ai/alle) per modo che si abbia ad es. dint’ ô treno (dentro al treno ) di contro il corrispondente italiano dentro il treno. La medesima cosa càpita come alibi dissi per ‘ncoppa (sopra) ,sotto (sotto), ‘mmiezo (in mezzo) fora (fuori) ed ogni altro avverbio e/o preposizione impropria;
viculo = vicolo, vico via molto stretta e di secondaria importanza, in un centro urbano ; l’etimo è dal lat. viculu(m), dim. di vicus;
astritto o astrinto agg. qual. masch. stretto, poco sviluppato nel senso della larghezza; non largo, non ampio; angusto; l’etimo è dal lat. *a(d)strictus part. pass. di un *a(d)stringere, rafforzativo di stringere;
ca nun sponta letteralmente: che non sfocia in altra strada cioè: vicolo (stretto e) cieco; sponta =sfocia voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito spuntà= sbottonare, spuntare, comparire all’improvviso,sfociare; in primis spuntare con etimo dal latino *ex-punctare vale toglier la punta, metter fuori la punta ed il senso di spuntare, comparire all’improvviso,sfociare deriva dal fatto che chi spunta (appare), compare all’improvviso o sfocia in qualche luogo proveniente da un altro, non lo fa di colpo, ma paulatim et gradatim quasi mettendo fuori innanzi tutto la propria punta e poi il resto del corpo; ugualmente il senso di sbottonare è dato dal fatto che il bottone vien fuori dall’asola prima per la parte limitrofa(punta.) poi tutt’intero;
farmacíe sost. femm. plurale di farmacía che in napoletano, piú restrettivamente del corrispondente italiano,( dove con derivazione dal greco pharmakéia 'medicina, rimedio', da phármakon 'farmaco'si intende l'insieme degli studi e delle pratiche che ànno per oggetto le proprietà, l'uso terapeutico e la preparazione dei medicinali) si intende, derivato dal francese pharmacie esclusivamente il locale destinato alla vendita e, soprattutto nel passato, anche alla preparazione dei medicinali;
nchiuse agg. plur. femm. = chiuse, serrate, strette etimologicamente trattasi del part. pass. aggettivato femm. del verbo nchiurere= chiudere, ostruire, sbarrare, impedire un accesso; bloccare un passaggio con etimo dal basso latino cludere, per il class. claudere; faccio notare come nel verbo napoletano nchiurere si è avuta la consueta trasformazione di cl→chi come altrove ad es.: chiesia←(ec)clesia, chiuovo←clavus etc, la tipica rotacizzazione mediterranea d→r e la protesi di una n eufonica che non va marcata con alcun segno diacritico (‘n) in quanto essa n non è l’aferesi di in, ma solo una consonante eufonica come nel caso di nc’è= c’è, ragion per cui erra chi dovesse scrivere la voce a margine ‘nchiuse da un inesatto ‘nchiurere atteso che , come ò detto, nchiurere deriva da n(eufonica)+ cludere non da in(illativo)→’n+cludere;
mierece sost. masch. plurale di miedeco/miereco= medico, chi professa la medicina avendo conseguito il titolo accademico e l'abilitazione all'esercizio della professione; l’etimo è dal lat.medicu(m), deriv. di medìri 'curare, soccorrere'con dittongazione nella sillaba d’avvio intesa breve ie←e, e rotacizzazione mediterranea d/r;
guallaruse agg. masch. plur. di guallaruso= affetto da ernia probabilmente inguinale tale da limitare il movimento deambulatorio; la voce a margine (che è maschile, come dal suff. use plurale di uso, il femminile avrebbe avuto il metafonetico suff. ose pl. di osa) è un derivato del sostantivo guallera(= ernia) che è dall’arabo wadara.
8 -Jí ascianno ova ‘e lupo e piettene ‘e quinnece.
Ad litteram: andar cercando di uova di lupo e pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose ma vane come sarebbe l’andare in cerca di uova di lupo che – mammifero - è un animale viviparo e non deposita uova,oppure cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i pettini da cardatura non ne contavano mai più di tredici.Cominciamo a rammentare ai più giovani, che un tempo – quando non esistevano materassi ortopedici e/o in lattice, quelli in uso erano dei sacconi di cotone riempiti di lana ovina, lana che periodicamente occorreva smuovere, lavare e pettinare (cardare) in profondità per ridarle volume e morbidezza; tale operazione consistente, come detto parallelizzare le fibre tessili in fiocco, naturali (p. e. lana, cotone, canapa) o artificiali (p. e. raion), era fatta da tipici operai, detti lanaioli o cardatori che all’uopo si servivano di uno strumento dentato detto scardasso o in origine della pianta di cardo (dal lat. tardo cardu(m), per il class. carduus) le cui infiorescenze uncinate si usavano appunto per cardare la lana; la pianta cardo cedette il nome all’azione cardare; dismesso l’uso del cardo, i lanaioli napoletani presero a servirsi prima che dello scardasso (attrezzo a forma di cavalletto in cui due serie di punte d'acciaio, una delle quali montata su una parte mobile azionata a mano, provvedono alla sfioccatura delle fibre tessili; voce derivata di cardo con protesi di una s intensiva ed un suffisso dispregiativo (l’attrezzo fu brutto da vedersi e – se non usato con cautela – spesso produceva danni ai fiocchi cardati, strappandoli anzi che pareggiarli) asso per accio), di particolari pettini fabbricati all’uopo, pettini che in Campania ( e segnatamente a Napoli) non contavano mai piú di tredici denti.
jí ascianno letteralmente andar cercando locuzione verbale formata dall’infinito jí= andare (dal lat. ire) e dal gerundio ascianno = cercando dell’infinito asciare/ascià=cercare con insistenza ed applicazione; l’etimo di ascià potrebbe essere da un lat. volg. *anxiare(ansimare, anelare) denom. di *anxia; ma preferisco l’ipotesi che ascià derivi dal tardo lat. *adflare (annusare) verbo nel quale è riconoscibile il digramma fl che in napoletano è sempre sci (es.: sciore←flos,sciummo←flumen, scioccele ←flacces etc. ) da a(d)flare→aflare→asciare;
ova sost. neutro plur. di uovo da un lat. volg. òvu(m) per il class. óvu(m); in napoletano il plur. ova giustamente perde la u del dittongo mobile uovo laddove in italiano ( l’uovo – le uova) essa u viene conservata, ma non se ne comprende il motivo.
lupo sost. masch.= lupo, mammifero carnivoro selvatico simile al cane, che vive prevalentemente in branchi ed è caratterizzato da muso aguzzo, orecchie grandi ed erette, pelame folto; la femmina, che da mammifera non depone uova, genera vivipari; l’etimo di lupo è dal lat. lupu(m) per *vlupu(m),*vlucu(m) che come il greco lýkos, * vlýkos il gotico vulfas, l’ant. ted. wolf ed altre lingue son tutti riconducibili alla radice vark o valk/vlak= strappare, lacerare;
piéttene sost. masch. plur. di pèttene= pettine, arnese di materiale vario, costituito di una serie di denti più o meno fitti innestati su una costola che serve da impugnatura; è usato per mettere in ordine capelli o pelame similare; quello usato dai cardatori non contava mai piú di tredici denti.
la voce pettene sing. di piettene (in cui è da notare la tipica dittongazione ie di un’iniziale e intesa breve, con successiva chiusura della é in sillaba tonica del maschile plurale dell’aperta tonica è del singolare; es.: ‘o scèmo – ‘e sciéme, ma se femm.: ‘a scèma – ‘e scème; ) etimologicamente è dall’acc. lat. pectine(m) deverbale di pectere 'pettinare' con tipica assimilazione regressiva ct→tt ;
quinnece agg. numerale cardinale = quindici dal lat. quindece(m), comp. di quinque 'cinque' e decem 'dieci'nella voce napoletana si è avuta la tipica assimilazione progressiva nd→nn.
Raffaele Bracale
‘O MARIUOLO
‘O MARIUOLO
e cioè il mariolo, il ladro ed estensivamente la generica persona disonesta anche quando non sia dedita al furto continuato; nella parlata napoletana che à voci capaci di fotografare tutta la vita nelle sue manifestazioni ed accezioni non poteva mancare una parola come mariuolo che designasse la figura del cattivo soggetto che (prima di comprendere il disonesto in genere, il furbo e truffatore) segnatamente fu quel ladro di basso profilo che a far tempo dalla fine del ‘700 ed i princípî dell’’800 operava piccoli furti di destrezza in istrada sottraendo a disattenti pedoni orologi da tasca , fazzoletti di seta e portamonete; esistettero negli anni che ò détto addirittura delle scuole ad hoc dove i mariuoli alle prime armi prendevano lezione e si allenavano sottraendo a dei fantocci preparati all’uopo le mercanzie ricordate, facendo attenzione durante gli… allenamenti a non far titinnare i numerosi campanelli di cui erano forniti i pupazzi, campanelli che se avessero titinnato avrebbero dimostrato che il mariuolo non stesse agendo con la dovuta rapidità e destrezza e pertanto avrebbe dovuto continuare ad imparare, magari sferzato dolorosamente dalla verga o dallo staffile del maestro mariuolo. Per ciò che attiene all’etimologia del termine mariuolo non c’è uniformità di vedute; taluno si trincera dietro un etimo incerto, qualche altro (D.E.I.) propende per un antico aggettivo francese mariol = furbacchione,forse da collegare ad un’origine orientale (turca) donde forse anche il greco mod. margiólos= astuto, furbo etc. qualche altro ancóra lo legherebbe allo spagnolo marraio e marrullero = imbroglione, monello;la proposta del D.E.I.sarebbe interessante se si fermasse al francese mariol e non chiamasse in causa (senza specificarla!) un’origine turca, ma Carlo Battisti che si prese la responsabilità della lettera M evita di chiarire o precisare e con la sua proposta non mi convince per cui non mi sento di accoglierla, come non posso accogliere l’idea dello spagnolo marraio o marrullero morfologicamente troppo lontana da mariuolo e non chiarita nel percorso morfologico da seguire per pervenirvi; trovo invece molto interessante la scuola di pensiero (C. Iandolo) che fa risalire la voce mariuolo ad un acc. latino malevolu(m)→marevolu(m)→marevuolo con sincope definitiva della v donde mareólo→ mareuólo e mariuólo
quantunque nel napoletano siano rintracciabili piú frequentemente delle epentesi consonantiche eufoniche ( n, v) infisse a mezzo di dittonghi o di iati, che delle sincopi.
In coda a quanto fin qui détto, rammento che in napoletano il termine ladro è reso oltre che con il generico termine mariuolo con altri due, piú circoscritti termini che qui prendo in esame:
ferrajuolo s.vo m.le in primis indicò un ampio mantello a ruota, largo e senza maniche, di seta o di stoffa leggera di vario colore, usato in età rinascimentale dagli uomini di elevata condizione sociale,e successivamente in epoca ottocentesca, in panno pesante, da persone di bassa condizione sociale quali pastori e/o contadini; infine nel tardo ottocento il ferrajuolo di panno pesante fu usato anche dai ladri per ripararsi durante il loro incedere notturno e per metinomia tale mantello indicò il ladro che l’usava. Oggi, tornato ad essere un ampio mantello a ruota, largo e senza maniche, di seta o di stoffa leggera di colore alternativamente nero o cremisi , è indossato sull’abito talare solo da preti (nero) prelati (cremisi) e cardinali (rosso) | (estens.) ampio mantello da uomo; etimologicamente è voce derivata dall'ar. fariyul, che è dal lat. palliolum, dim. di pallium 'mantello';
manacancino s.vo m.le letteralmente agglutinazione di mana cu ancino→manacancino (=mano provvista di uncino) e cioè ladro armata manu, ladro provvisto di mezzi offensivi.
ancino s.vo m.le = uncino, dispositivo di presa e trazione che si applica in genere a bastoni o pertiche di legno, costituito da una barretta di ferro con un'estremità appuntita e curvata in modo da formare un gancio a raggio di curvatura molto stretto e con la punta rivolta all'indietro; per estens., gancio appuntito, rampino; voce derivata dal lat. uncinu(m), deriv. di uncus 'uncino, arpione', che è dal gr. ónkos.
Raffaele Bracale
e cioè il mariolo, il ladro ed estensivamente la generica persona disonesta anche quando non sia dedita al furto continuato; nella parlata napoletana che à voci capaci di fotografare tutta la vita nelle sue manifestazioni ed accezioni non poteva mancare una parola come mariuolo che designasse la figura del cattivo soggetto che (prima di comprendere il disonesto in genere, il furbo e truffatore) segnatamente fu quel ladro di basso profilo che a far tempo dalla fine del ‘700 ed i princípî dell’’800 operava piccoli furti di destrezza in istrada sottraendo a disattenti pedoni orologi da tasca , fazzoletti di seta e portamonete; esistettero negli anni che ò détto addirittura delle scuole ad hoc dove i mariuoli alle prime armi prendevano lezione e si allenavano sottraendo a dei fantocci preparati all’uopo le mercanzie ricordate, facendo attenzione durante gli… allenamenti a non far titinnare i numerosi campanelli di cui erano forniti i pupazzi, campanelli che se avessero titinnato avrebbero dimostrato che il mariuolo non stesse agendo con la dovuta rapidità e destrezza e pertanto avrebbe dovuto continuare ad imparare, magari sferzato dolorosamente dalla verga o dallo staffile del maestro mariuolo. Per ciò che attiene all’etimologia del termine mariuolo non c’è uniformità di vedute; taluno si trincera dietro un etimo incerto, qualche altro (D.E.I.) propende per un antico aggettivo francese mariol = furbacchione,forse da collegare ad un’origine orientale (turca) donde forse anche il greco mod. margiólos= astuto, furbo etc. qualche altro ancóra lo legherebbe allo spagnolo marraio e marrullero = imbroglione, monello;la proposta del D.E.I.sarebbe interessante se si fermasse al francese mariol e non chiamasse in causa (senza specificarla!) un’origine turca, ma Carlo Battisti che si prese la responsabilità della lettera M evita di chiarire o precisare e con la sua proposta non mi convince per cui non mi sento di accoglierla, come non posso accogliere l’idea dello spagnolo marraio o marrullero morfologicamente troppo lontana da mariuolo e non chiarita nel percorso morfologico da seguire per pervenirvi; trovo invece molto interessante la scuola di pensiero (C. Iandolo) che fa risalire la voce mariuolo ad un acc. latino malevolu(m)→marevolu(m)→marevuolo con sincope definitiva della v donde mareólo→ mareuólo e mariuólo
quantunque nel napoletano siano rintracciabili piú frequentemente delle epentesi consonantiche eufoniche ( n, v) infisse a mezzo di dittonghi o di iati, che delle sincopi.
In coda a quanto fin qui détto, rammento che in napoletano il termine ladro è reso oltre che con il generico termine mariuolo con altri due, piú circoscritti termini che qui prendo in esame:
ferrajuolo s.vo m.le in primis indicò un ampio mantello a ruota, largo e senza maniche, di seta o di stoffa leggera di vario colore, usato in età rinascimentale dagli uomini di elevata condizione sociale,e successivamente in epoca ottocentesca, in panno pesante, da persone di bassa condizione sociale quali pastori e/o contadini; infine nel tardo ottocento il ferrajuolo di panno pesante fu usato anche dai ladri per ripararsi durante il loro incedere notturno e per metinomia tale mantello indicò il ladro che l’usava. Oggi, tornato ad essere un ampio mantello a ruota, largo e senza maniche, di seta o di stoffa leggera di colore alternativamente nero o cremisi , è indossato sull’abito talare solo da preti (nero) prelati (cremisi) e cardinali (rosso) | (estens.) ampio mantello da uomo; etimologicamente è voce derivata dall'ar. fariyul, che è dal lat. palliolum, dim. di pallium 'mantello';
manacancino s.vo m.le letteralmente agglutinazione di mana cu ancino→manacancino (=mano provvista di uncino) e cioè ladro armata manu, ladro provvisto di mezzi offensivi.
ancino s.vo m.le = uncino, dispositivo di presa e trazione che si applica in genere a bastoni o pertiche di legno, costituito da una barretta di ferro con un'estremità appuntita e curvata in modo da formare un gancio a raggio di curvatura molto stretto e con la punta rivolta all'indietro; per estens., gancio appuntito, rampino; voce derivata dal lat. uncinu(m), deriv. di uncus 'uncino, arpione', che è dal gr. ónkos.
Raffaele Bracale
mercoledì 28 aprile 2010
BOCCONCINI DI MAIALE GLASSATI CON RISO SALTATO.
BOCCONCINI DI MAIALE GLASSATI CON RISO SALTATO.
Piatto unico dal gusto spiritoso e piacevolmente deciso.
Ingredienti e dosi per 6 persone
¾ di litro di brodo vegetale da verdure fresche o da dado,
6 etti di riso carnaroli,
1,200 kg. di spalla di maiale in pezzi di cm. 5 x 4 x 3;
2 bicchieri di olio d’oliva e.v. p. s. a f.,
farina q.s.,
1 cipolla dorata mondata ed affettata sottilmente,
un rametto di rosmarino fresco,
1 bicchiere d’aceto bianco,
1 confezione di ortaglie sotto aceto tagliate a julienne (carote, peperone dolce, sedano, sedano rapa),
sale fino e pepe decorticato macinato a fresco q.s.
procedimento
Approntare dapprima il brodo vegetale e tenerlo a lento continuo bollore; lessarvi per 18 minuti il riso, scolarlo con una schiumarola, conservando a bollore il brodo e tenere il riso in caldo. In un ampio tegame versare un bicchiere di olio e farvi dorare a fuoco deciso la cipolla affettata assieme al rametto di rosmarino fresco, indi sciacquare ed infarinare abbondantemente i bocconcini, porli nel soffritto di cipolla e portarli a cottura irrorandoli con tutto il brodo in cui è stato lessato il riso; quando saranno cotti, spruzzarli con l’aceto, alzare i fuochi e farlo evaporare; aggiustare di sale e pepe, prelevare i bocconcini tenendoli in caldo e lasciando nel tegame il fondo di cottura nel quale a seguire si farà saltare per circa cinque minuti il riso lessato; al termine a fuochi spenti unire al riso la confezione di ortaglie tagliate a julienne, sgrondate dal liquido di conserva; rimestare ed impiattare le singole porzioni, ponendo il riso a specchio sul fondo del piatto ed adagiando sul riso adeguate cucchiaiate di bocconcini glassati; completare i piatti con un filo d’olio e generoso pepe decorticato.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
Piatto unico dal gusto spiritoso e piacevolmente deciso.
Ingredienti e dosi per 6 persone
¾ di litro di brodo vegetale da verdure fresche o da dado,
6 etti di riso carnaroli,
1,200 kg. di spalla di maiale in pezzi di cm. 5 x 4 x 3;
2 bicchieri di olio d’oliva e.v. p. s. a f.,
farina q.s.,
1 cipolla dorata mondata ed affettata sottilmente,
un rametto di rosmarino fresco,
1 bicchiere d’aceto bianco,
1 confezione di ortaglie sotto aceto tagliate a julienne (carote, peperone dolce, sedano, sedano rapa),
sale fino e pepe decorticato macinato a fresco q.s.
procedimento
Approntare dapprima il brodo vegetale e tenerlo a lento continuo bollore; lessarvi per 18 minuti il riso, scolarlo con una schiumarola, conservando a bollore il brodo e tenere il riso in caldo. In un ampio tegame versare un bicchiere di olio e farvi dorare a fuoco deciso la cipolla affettata assieme al rametto di rosmarino fresco, indi sciacquare ed infarinare abbondantemente i bocconcini, porli nel soffritto di cipolla e portarli a cottura irrorandoli con tutto il brodo in cui è stato lessato il riso; quando saranno cotti, spruzzarli con l’aceto, alzare i fuochi e farlo evaporare; aggiustare di sale e pepe, prelevare i bocconcini tenendoli in caldo e lasciando nel tegame il fondo di cottura nel quale a seguire si farà saltare per circa cinque minuti il riso lessato; al termine a fuochi spenti unire al riso la confezione di ortaglie tagliate a julienne, sgrondate dal liquido di conserva; rimestare ed impiattare le singole porzioni, ponendo il riso a specchio sul fondo del piatto ed adagiando sul riso adeguate cucchiaiate di bocconcini glassati; completare i piatti con un filo d’olio e generoso pepe decorticato.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
VARIE 661
1. Essere ricco ‘e vocca.
Ad litteram: essere ricco di bocca Id est: : essere un vuoto parolaio che parla a sproposito, a vanvera, e si autocelebra vantando doti fisiche e/o morali che in realtà non possiede, nè possiederà mai; essere un millantatore a cui fanno difetto i fatti, ma non le chiacchiere, essere insomma un miserabile la cui unica ricchezza è rappresentata dalla bocca.
2. Essere n’ acca ‘mmiezo ê llettere oppure n’ ícchese dinto a ll’affabbeto.
Ad litteram: essere un’acca fra le lettere oppure una ics nell’alfabeto Id est: non contare nulla, essere una nullità assoluta, valere quanto uno zero e non servire che poco o nulla al pari della muta acca che è solo una consonante di tipo diacritico o , peggio ancora, valere quanto la consonante ics che non è usata né in italiano, né in napoletano e che a stento serve per connotare un’incognita.
3. Essere ‘nu bbabbà a rrumma
Ad litteram: essere un babà irrorato di rum
Locuzione dalla doppia valenza, positiva o negativa. In senso positivo la frase in epigrafe è usata per fare un sentito complimento all’avvenenza di una bella donna assimilata alla soffice appetitosa preparazione dolciaria partenopea; in senso negativo la locuzione è usata per dileggio nei confronti di ragazzi ritenuti piuttosto creduloni e bietoloni, eccessivamente cedevoli sul piano caratteriale al pari del dolce menzionato che è morbido ed elastico.
4. Fà abbate a quaccheduno.
Ad litteram: fare abate qualcuno; id est: gabbare, imbrogliare, ingannare chi sia sciocco e credulone.Un tempo per ricevere la nomina ad abate non occorreva si fosse in possesso di grandi doti intellettive, o di particolari meriti; spesso anzi piú si era stupidi piú si avevano probabilità d’esser nominati; la locuzione prende a suo fondamento proprio l’evenienza qui ricordata.
5. Fà ‘a chiereca ê scigne.
Ad litteram: fare la tonsura alle scimmie; id est: applicarsi ad un’operazione inutile, assolutamente balorda e certamente improduttiva.
6. Fà ‘a fatica d’’e prievete.
Ad litteram: fare il lavoro dei preti. Id est: fare un’attività tranquilla e non impegnativa quale, ingiustamente, si riteneva fosse quella svolta dai sacerdoti al segno che, altrove si diceva che se il lavoro fosse stato una cosa buona, lo avrebbero fatto i preti.
7. Fà ‘na bbotta, ddoje fucetole.
Ad litteram: centrare con un sol colpo due beccafichi. Id est: conseguire un grosso risultato con il minimo impegno; locuzione un po’ piú cruenta, ma decisamente piú plausibile della corrispondente italiana: prender due piccioni con una fava: una sola cartuccia, specie se caricata di un congruo numero di pallini di piombo, può realmente e contemporaneamente colpire ed abbattere due beccafichi; non si comprende invece come si possano catturare due piccioni con l’utilizzo di una sola fava, atteso che quando questa abbia fatto da esca per un piccione risulterà poi inutilizzabile per un altro...
8. Fà ‘alliccapettule.
Ad litteram: fare il leccapettole cioè il lecchino; id est: comportarsi da servile adulatore, da servo sciocco, prosternandosi davanti al potente di turno, leccandogli metaforicamente la falda posteriore della camicia nominata eufemisticamente in luogo della parte anatomica su cui detta falda insiste.
9. Fà ‘o spallettone oppure al femminile ‘a cciaccessa
Espressione intraducibile ad litteram in quanto in italiano manca un vocabolo unico che possa tradurlo, per cui bisogna dilungarsi nella spiegazione per poter venire a capo delle espressioni in epigrafe.
Ciò premesso, dirò che esiste, o meglio, esistette fino agli anni ’60 dello scorso secolo, a Napoli un vocabolo che,nel parlare comune, conglobava in sè tutto un vasto ventaglio di significati. E’ il vocabolo in epigrafe che si dura fatica a spiegare tante essendo le sfumature che esso ingloba.
In primis dirò che con esso vocabolo si indica il saccente, il supponente, il sopracciò, il millantatore, colui che anticamente era definito mastrisso ovvero colui che si ergeva a dotto e maestro, ma non aveva né la cultura, nè il carisma necessarii per essere preso in seria considerazione.
Piú chiaramente dirò, per considerare le sfumature che delineano il termine in epigrafe, che vien definito spallettone chi fa le viste d’essere onnisciente, capace di avere le soluzioni di tutti i problemi, specie di quelli altrui , problemi che lo spallettone dice di essere attrezzato per risolvere, naturalmente senza farsi mai coinvolgere in prima persona, ma solo dispensando consigli , che però non poggiano su nessuna conclamata scienza o esperienza, ma son frutto della propria saccenteria in virtú della quale non v’è campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone non sia versato;l’economia nazionale? E lo spallettone sa come farla girare al meglio. L’educazione dei figli altrui, mai dei propri !? Lo spallettone, a chiacchiere, sa come farne degli esseri commendevoli; e cosí via non v’è cosa che abbia segreti per lo spallettone che, specie quando non sia interpellato, si offre e tenta di imporre la propria presenza dispensando ad iosa consigli non richiesti che - il piú delle volte- comportano in chi li riceve un aggravio delle incombenze, del lavoro e dell’impegno, aggravio che va da sé finisce per essere motivo di risentimento e rabbia per il povero individuo fatto segno delle stupide e vacue chiacchiere dello spallettone.
E passiamo a quella che a mio avviso è una accettabile ipotesi etimologica del termine in epigrafe.
Premesso che tutti i compilatori di dizionarii della lingua napoletana, anche i piú moderni, con la sola eccezione forse dell’ avv.to Renato de Falco e del suo Alfabeto napoletano, non fanno riferimento alla lingua parlata, ma esclusivamente a quella scritta nei classici partenopei, va da sè che il termine spallettone non è registrato da nessun calepino, essendo termine troppo moderno ed in uso nel parlato, per esser già presente nei classici.
Orbene reputo che essendo il sostrato dello spallettone, la vuota chiacchiera, è al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul verbo parlettià (ciarlare)con la classica prostesi della S non eufonica, ma intensiva partenopea, l’assimilazione della R alla L successiva e l’aggiunta del suffisso accrescitivo ONE.
Per concludere potremo definire cosí lo spallettone:ridicolo millantatore, becero, vuoto, malevolo dispensatore di chiacchiere, da non confondere però con il pettegolo che è altra cosa e che in napoletano è reso con un termine diverso da spallettone e cioè con il termine: parlettiere.
Va da sè che il termine esaminato è esclusivamente maschile;
esiste però un corrispondente termine femminile con i medesimi significati del maschile ed è come riportato nella variante in epigrafe: cciaccessa correttamente scritto con la geminazione iniziale della C: cciaccessa; l’etimo mi è sconosciuto, ma reputo, stante anche per essa parola il sostrato di un vuoto parlare che possa essere un deverbale formatosi su di un iniziale ciarlare.
10. Fà ‘ammore cu ‘e monache.
Ad litteram: fare l’amore con le monache, id est: desiderare l’impossibile, richiedere o sperare l’irrealizzabile come sarebbe il godere dei favori di una suora.
11. Fà ll’arta leggia.
Ad litteram: praticare l’arte leggera; id est: esercitare il mestiere del ladruncolo, del borseggiatore; per praticare tali attività occorre aver leggerezza di mano ed accortezza di modi; eufemisticamente perciò il suddetti mestieri son definiti arte quasi che occorra essere degli artisti per poterli praticare ed in effetti non è da tutti possedere l’abilità necessaria in simili pur truffaldini mestieri: solo chi abbia lungamente fatto esercizio e si sia diligentemente applicato può poi lanciarsi nella mischia e sperare di conseguire risultati adeguati alla stregua di un vero artista.
12. Fà ll’arte d’’o sole.
Ad litteram: fare l’arte del sole; id est: darsi alla bella vita, magari condita di disimpegnati amori, godendosela senza intralci o preoccupazioni, alla stregua del sole che una volta che sia sorto, può tranquillamente mirarsi il creato, senza problemi o altre faticose incombenze.
13. Fà ll’opera d’’e pupe
Letteralmente: fare la rappresentazione con i pupi; id est: fare il diavolo a quattro, agitarsi oltre misura per conseguire un quid qualsiasi anche non eccessivamente serio e concreto, sforzandosi di tener sotto controllo un gran numero di cose come i pupari costretti a destreggiarsi tra un inviluppo di fili e croci lignee atti alla manovra delle teste, braccia e gambe dei pupi di cui all’epigrafe. Da notare che l’espressione fa riferimento ai pupi, alti e grossi burattini di legno che vengon manovrati dal puparo, muovendoli dall’alto; cosa diversa sono le guarattelle o guattarelle, piccole marionette che vengono manovrate dal basso tenendole infilate sulla mano a mo’ di guanto. Talvolta, con riferimento alla agitazione che è propria dell’espressione in epigrafe, quando tra due interlocutori un discorso principiato in maniera calma si stia evolvendo pericolosamente può accadere che quello degli interlocutori dotato di maggior buona volontà possa invitare l’altro interlocutore a recedere dalla discussione con il dire: “Nun facimmo ll’opera ‘e pupe” (evitiamo di fare una rappresentazione con i pupi; calmiamoci!).
14. Fà mmiria ô tre bastone
Ad litteram: fare invidia al tre di bastoni. Detto ironicamente di una donna che sia provvista di abbondante peluria sul labbro superiore al segno di detestar l’invidia del tre di bastoni la carta da giuoco del mazzo di carte napoletano che porta sovrapposto all’incrocio di tre grossi randelli un vistoso mascherone , provvisto di suo di consistenti baffoni a manubrio.
15. Fà marenna a sarachielle
Ad litteram: far colazione con piccole aringhe affumicate; id est: accontentarsi di poco, stringer la cinghia, esser costretti a fare di necessità virtú come chi si debba contentare, per la propria colazione di piccole aringhe salate ed affumicate che oltre ad essere parva res, prospettano una successiva necessità di bere copiosamente per attutire gli effetti della congrua salatura. La locuzione è usata pure a sarcastico commento delle azioni di coloro che agiscano con parsimonia di mezzi e di applicazione al segno che i risultati che posson derivare dalle loro azioni sono miserevoli ed inconferenti. In tal caso alla locuzione in epigrafe si suole premettere un icastico: Eh, sî arrivato (che può esser tradotto a senso: “Cosa pensi d’aver fatto?) per poi far seguire la locuzione in epigrafe coniugata però con un tempo di modo finito in luogo dell’infinito qui riportato.
16. Fà ‘a trezza d’’e vierme.
Ad litteram: fare la treccia di vermi; id est: spaventarsi grandemente, esser colto da eccessiva paura. Olim a Napoli, si riteneva che , soprattutto i bambini, ma pure gli adulti, se fossero stati presi da grande spavento avrebbero potuto germinare nell’intestino una gran quantità di vermi organizzati nei visceri a mo’ di treccia; per liberare i colpiti da tale iattura si ricorreva a sostanziose somministrazioni di aglio da ingerire crudo; ragion per cui era auspicabile, specie per i bambini il non essere colti da spavento o paure.
17. Fà sputazzelle ‘mmocca.
Ad litteram: fare l’acquolina in bocca La locuzione richiama, molto piú veristicamente dell’italiano, quelle situazioni in cui alla vista di cose piacevoli o appetitose aumenta a dismisura la secrezione delle ghiandole salivari fino a riempir quasi la bocca di saliva, quella che l’italiano per un malinteso senso estetico rende con la parola: acquolina. L’espressione si usa naturaliter allorché ci si trovi al cospetto di un appetitoso manicaretto la cui vista scatena la reazione di cui in epigrafe;ma è usata altresí allorché ci si trovi innanzi ad una bella donna desiderabile ed appetibile al pari di una succulenta pietanza; insomma sia il manicaretto che la bella donna posson far fare l’acquolina in bocca o – meglio ancòra – far fare sputazzèlle.
18. Fà o essere carta ‘e tre (o meglio) di tressette
Ad litteram: fare o essere una carta da tre (o meglio) di tressette; id est: essere o comportarsi da persona di vaglia, importante, capace di imporsi a tutti gli altri o per naturale carisma o per accertate capacità fisiche e/o morali; piú precisamente nel gergo malavitoso e per traslato nel linguaggio popolare la carta di tre o tressette è colui che con ogni mezzo, lecito o meno che sia riesce ad assurgere al posto di comando imponendo la propria volontà. La locuzione è mutuata dal giuco del tressette giuoco di carte nel quale alcune di esse per convenzione, pure essendo di valore facciale inferiore rispetto alle altre, nel corso del giuoco prevalgono sulle altre risultando vincitrici nelle singole prese; la scala gerarchica convenzionale del giuoco è cosí stabilita: tre, due, asso, re, cavallo, fante e poi dal sette fino al quattro secondo l’ordine decrescente;dal che si evince che la miglior carta, atta a catturare tutte le altre è il tre e a ciò si riferisce la locuzione in epigrafe.Talvolta però l’espressione viene usata a mo’ di dileggio nei confronti di chi non avendo né carisma, né capacità intellettuali, tenti di atteggiarsi ad individuo di vaglia o importante; a chi agisse in tal modo si suole raccomandar: nun fà ‘a carta ‘e tre ossia evita di assumere atteggiamenti da carta ditre (quella vincente al giuoco del tressette.)
brak
Ad litteram: essere ricco di bocca Id est: : essere un vuoto parolaio che parla a sproposito, a vanvera, e si autocelebra vantando doti fisiche e/o morali che in realtà non possiede, nè possiederà mai; essere un millantatore a cui fanno difetto i fatti, ma non le chiacchiere, essere insomma un miserabile la cui unica ricchezza è rappresentata dalla bocca.
2. Essere n’ acca ‘mmiezo ê llettere oppure n’ ícchese dinto a ll’affabbeto.
Ad litteram: essere un’acca fra le lettere oppure una ics nell’alfabeto Id est: non contare nulla, essere una nullità assoluta, valere quanto uno zero e non servire che poco o nulla al pari della muta acca che è solo una consonante di tipo diacritico o , peggio ancora, valere quanto la consonante ics che non è usata né in italiano, né in napoletano e che a stento serve per connotare un’incognita.
3. Essere ‘nu bbabbà a rrumma
Ad litteram: essere un babà irrorato di rum
Locuzione dalla doppia valenza, positiva o negativa. In senso positivo la frase in epigrafe è usata per fare un sentito complimento all’avvenenza di una bella donna assimilata alla soffice appetitosa preparazione dolciaria partenopea; in senso negativo la locuzione è usata per dileggio nei confronti di ragazzi ritenuti piuttosto creduloni e bietoloni, eccessivamente cedevoli sul piano caratteriale al pari del dolce menzionato che è morbido ed elastico.
4. Fà abbate a quaccheduno.
Ad litteram: fare abate qualcuno; id est: gabbare, imbrogliare, ingannare chi sia sciocco e credulone.Un tempo per ricevere la nomina ad abate non occorreva si fosse in possesso di grandi doti intellettive, o di particolari meriti; spesso anzi piú si era stupidi piú si avevano probabilità d’esser nominati; la locuzione prende a suo fondamento proprio l’evenienza qui ricordata.
5. Fà ‘a chiereca ê scigne.
Ad litteram: fare la tonsura alle scimmie; id est: applicarsi ad un’operazione inutile, assolutamente balorda e certamente improduttiva.
6. Fà ‘a fatica d’’e prievete.
Ad litteram: fare il lavoro dei preti. Id est: fare un’attività tranquilla e non impegnativa quale, ingiustamente, si riteneva fosse quella svolta dai sacerdoti al segno che, altrove si diceva che se il lavoro fosse stato una cosa buona, lo avrebbero fatto i preti.
7. Fà ‘na bbotta, ddoje fucetole.
Ad litteram: centrare con un sol colpo due beccafichi. Id est: conseguire un grosso risultato con il minimo impegno; locuzione un po’ piú cruenta, ma decisamente piú plausibile della corrispondente italiana: prender due piccioni con una fava: una sola cartuccia, specie se caricata di un congruo numero di pallini di piombo, può realmente e contemporaneamente colpire ed abbattere due beccafichi; non si comprende invece come si possano catturare due piccioni con l’utilizzo di una sola fava, atteso che quando questa abbia fatto da esca per un piccione risulterà poi inutilizzabile per un altro...
8. Fà ‘alliccapettule.
Ad litteram: fare il leccapettole cioè il lecchino; id est: comportarsi da servile adulatore, da servo sciocco, prosternandosi davanti al potente di turno, leccandogli metaforicamente la falda posteriore della camicia nominata eufemisticamente in luogo della parte anatomica su cui detta falda insiste.
9. Fà ‘o spallettone oppure al femminile ‘a cciaccessa
Espressione intraducibile ad litteram in quanto in italiano manca un vocabolo unico che possa tradurlo, per cui bisogna dilungarsi nella spiegazione per poter venire a capo delle espressioni in epigrafe.
Ciò premesso, dirò che esiste, o meglio, esistette fino agli anni ’60 dello scorso secolo, a Napoli un vocabolo che,nel parlare comune, conglobava in sè tutto un vasto ventaglio di significati. E’ il vocabolo in epigrafe che si dura fatica a spiegare tante essendo le sfumature che esso ingloba.
In primis dirò che con esso vocabolo si indica il saccente, il supponente, il sopracciò, il millantatore, colui che anticamente era definito mastrisso ovvero colui che si ergeva a dotto e maestro, ma non aveva né la cultura, nè il carisma necessarii per essere preso in seria considerazione.
Piú chiaramente dirò, per considerare le sfumature che delineano il termine in epigrafe, che vien definito spallettone chi fa le viste d’essere onnisciente, capace di avere le soluzioni di tutti i problemi, specie di quelli altrui , problemi che lo spallettone dice di essere attrezzato per risolvere, naturalmente senza farsi mai coinvolgere in prima persona, ma solo dispensando consigli , che però non poggiano su nessuna conclamata scienza o esperienza, ma son frutto della propria saccenteria in virtú della quale non v’è campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone non sia versato;l’economia nazionale? E lo spallettone sa come farla girare al meglio. L’educazione dei figli altrui, mai dei propri !? Lo spallettone, a chiacchiere, sa come farne degli esseri commendevoli; e cosí via non v’è cosa che abbia segreti per lo spallettone che, specie quando non sia interpellato, si offre e tenta di imporre la propria presenza dispensando ad iosa consigli non richiesti che - il piú delle volte- comportano in chi li riceve un aggravio delle incombenze, del lavoro e dell’impegno, aggravio che va da sé finisce per essere motivo di risentimento e rabbia per il povero individuo fatto segno delle stupide e vacue chiacchiere dello spallettone.
E passiamo a quella che a mio avviso è una accettabile ipotesi etimologica del termine in epigrafe.
Premesso che tutti i compilatori di dizionarii della lingua napoletana, anche i piú moderni, con la sola eccezione forse dell’ avv.to Renato de Falco e del suo Alfabeto napoletano, non fanno riferimento alla lingua parlata, ma esclusivamente a quella scritta nei classici partenopei, va da sè che il termine spallettone non è registrato da nessun calepino, essendo termine troppo moderno ed in uso nel parlato, per esser già presente nei classici.
Orbene reputo che essendo il sostrato dello spallettone, la vuota chiacchiera, è al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul verbo parlettià (ciarlare)con la classica prostesi della S non eufonica, ma intensiva partenopea, l’assimilazione della R alla L successiva e l’aggiunta del suffisso accrescitivo ONE.
Per concludere potremo definire cosí lo spallettone:ridicolo millantatore, becero, vuoto, malevolo dispensatore di chiacchiere, da non confondere però con il pettegolo che è altra cosa e che in napoletano è reso con un termine diverso da spallettone e cioè con il termine: parlettiere.
Va da sè che il termine esaminato è esclusivamente maschile;
esiste però un corrispondente termine femminile con i medesimi significati del maschile ed è come riportato nella variante in epigrafe: cciaccessa correttamente scritto con la geminazione iniziale della C: cciaccessa; l’etimo mi è sconosciuto, ma reputo, stante anche per essa parola il sostrato di un vuoto parlare che possa essere un deverbale formatosi su di un iniziale ciarlare.
10. Fà ‘ammore cu ‘e monache.
Ad litteram: fare l’amore con le monache, id est: desiderare l’impossibile, richiedere o sperare l’irrealizzabile come sarebbe il godere dei favori di una suora.
11. Fà ll’arta leggia.
Ad litteram: praticare l’arte leggera; id est: esercitare il mestiere del ladruncolo, del borseggiatore; per praticare tali attività occorre aver leggerezza di mano ed accortezza di modi; eufemisticamente perciò il suddetti mestieri son definiti arte quasi che occorra essere degli artisti per poterli praticare ed in effetti non è da tutti possedere l’abilità necessaria in simili pur truffaldini mestieri: solo chi abbia lungamente fatto esercizio e si sia diligentemente applicato può poi lanciarsi nella mischia e sperare di conseguire risultati adeguati alla stregua di un vero artista.
12. Fà ll’arte d’’o sole.
Ad litteram: fare l’arte del sole; id est: darsi alla bella vita, magari condita di disimpegnati amori, godendosela senza intralci o preoccupazioni, alla stregua del sole che una volta che sia sorto, può tranquillamente mirarsi il creato, senza problemi o altre faticose incombenze.
13. Fà ll’opera d’’e pupe
Letteralmente: fare la rappresentazione con i pupi; id est: fare il diavolo a quattro, agitarsi oltre misura per conseguire un quid qualsiasi anche non eccessivamente serio e concreto, sforzandosi di tener sotto controllo un gran numero di cose come i pupari costretti a destreggiarsi tra un inviluppo di fili e croci lignee atti alla manovra delle teste, braccia e gambe dei pupi di cui all’epigrafe. Da notare che l’espressione fa riferimento ai pupi, alti e grossi burattini di legno che vengon manovrati dal puparo, muovendoli dall’alto; cosa diversa sono le guarattelle o guattarelle, piccole marionette che vengono manovrate dal basso tenendole infilate sulla mano a mo’ di guanto. Talvolta, con riferimento alla agitazione che è propria dell’espressione in epigrafe, quando tra due interlocutori un discorso principiato in maniera calma si stia evolvendo pericolosamente può accadere che quello degli interlocutori dotato di maggior buona volontà possa invitare l’altro interlocutore a recedere dalla discussione con il dire: “Nun facimmo ll’opera ‘e pupe” (evitiamo di fare una rappresentazione con i pupi; calmiamoci!).
14. Fà mmiria ô tre bastone
Ad litteram: fare invidia al tre di bastoni. Detto ironicamente di una donna che sia provvista di abbondante peluria sul labbro superiore al segno di detestar l’invidia del tre di bastoni la carta da giuoco del mazzo di carte napoletano che porta sovrapposto all’incrocio di tre grossi randelli un vistoso mascherone , provvisto di suo di consistenti baffoni a manubrio.
15. Fà marenna a sarachielle
Ad litteram: far colazione con piccole aringhe affumicate; id est: accontentarsi di poco, stringer la cinghia, esser costretti a fare di necessità virtú come chi si debba contentare, per la propria colazione di piccole aringhe salate ed affumicate che oltre ad essere parva res, prospettano una successiva necessità di bere copiosamente per attutire gli effetti della congrua salatura. La locuzione è usata pure a sarcastico commento delle azioni di coloro che agiscano con parsimonia di mezzi e di applicazione al segno che i risultati che posson derivare dalle loro azioni sono miserevoli ed inconferenti. In tal caso alla locuzione in epigrafe si suole premettere un icastico: Eh, sî arrivato (che può esser tradotto a senso: “Cosa pensi d’aver fatto?) per poi far seguire la locuzione in epigrafe coniugata però con un tempo di modo finito in luogo dell’infinito qui riportato.
16. Fà ‘a trezza d’’e vierme.
Ad litteram: fare la treccia di vermi; id est: spaventarsi grandemente, esser colto da eccessiva paura. Olim a Napoli, si riteneva che , soprattutto i bambini, ma pure gli adulti, se fossero stati presi da grande spavento avrebbero potuto germinare nell’intestino una gran quantità di vermi organizzati nei visceri a mo’ di treccia; per liberare i colpiti da tale iattura si ricorreva a sostanziose somministrazioni di aglio da ingerire crudo; ragion per cui era auspicabile, specie per i bambini il non essere colti da spavento o paure.
17. Fà sputazzelle ‘mmocca.
Ad litteram: fare l’acquolina in bocca La locuzione richiama, molto piú veristicamente dell’italiano, quelle situazioni in cui alla vista di cose piacevoli o appetitose aumenta a dismisura la secrezione delle ghiandole salivari fino a riempir quasi la bocca di saliva, quella che l’italiano per un malinteso senso estetico rende con la parola: acquolina. L’espressione si usa naturaliter allorché ci si trovi al cospetto di un appetitoso manicaretto la cui vista scatena la reazione di cui in epigrafe;ma è usata altresí allorché ci si trovi innanzi ad una bella donna desiderabile ed appetibile al pari di una succulenta pietanza; insomma sia il manicaretto che la bella donna posson far fare l’acquolina in bocca o – meglio ancòra – far fare sputazzèlle.
18. Fà o essere carta ‘e tre (o meglio) di tressette
Ad litteram: fare o essere una carta da tre (o meglio) di tressette; id est: essere o comportarsi da persona di vaglia, importante, capace di imporsi a tutti gli altri o per naturale carisma o per accertate capacità fisiche e/o morali; piú precisamente nel gergo malavitoso e per traslato nel linguaggio popolare la carta di tre o tressette è colui che con ogni mezzo, lecito o meno che sia riesce ad assurgere al posto di comando imponendo la propria volontà. La locuzione è mutuata dal giuco del tressette giuoco di carte nel quale alcune di esse per convenzione, pure essendo di valore facciale inferiore rispetto alle altre, nel corso del giuoco prevalgono sulle altre risultando vincitrici nelle singole prese; la scala gerarchica convenzionale del giuoco è cosí stabilita: tre, due, asso, re, cavallo, fante e poi dal sette fino al quattro secondo l’ordine decrescente;dal che si evince che la miglior carta, atta a catturare tutte le altre è il tre e a ciò si riferisce la locuzione in epigrafe.Talvolta però l’espressione viene usata a mo’ di dileggio nei confronti di chi non avendo né carisma, né capacità intellettuali, tenti di atteggiarsi ad individuo di vaglia o importante; a chi agisse in tal modo si suole raccomandar: nun fà ‘a carta ‘e tre ossia evita di assumere atteggiamenti da carta ditre (quella vincente al giuoco del tressette.)
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