‘E MMAZZATE
Con il termine in epigrafe, in napoletano, non si indicano solamente, come a prima vista potrebbe sembrare i colpi inferti con la mazza, quanto piú estensivamente tutti i colpi, le battiture,etc. resi in italiano col generico termine di percosse che è participio passato dal latino per-cotere= scuotere intensamente e continuatamente; queste mazzate partenopee sono però identificate volta a volta con parole ben precise, a seconda del tipo di percosse o dei mezzi usati per conferirle, al segno che esistono in napoletano alla bisogna, numerosissimi vocaboli (taluno si è preso la briga di contarli e pare ne abbia potuto elencare addirittura sessanta!); qui di sèguito e senza alcuna pretesa di essere esauriente , tenterò di illustrarne qualcuno, tenendo da parte i piú desueti, per soffermarmi su quelli ancora in uso; naturalmente mi interesserò di illustrare soprattutto i colpi inferti con le mani, accennando appena a quelli inferti da sole o in concorrenza con altre parti del corpo: gomiti, piedi o testa.
E cominciamo:
Buffo/ Buffettone= schiaffo assestato sul viso con mano aperta e distesa; etimologicamente dal suono onomatopeico buff prodotto appunto dal colpo assestato sul viso; il buffettone che è il potente schiaffo o ceffone, accrescitivo attraverso i suff.ett ed one del precedente buffo, etimologicamente, pur partendo dalla medesima radice onomatopeica buff, deriva dallo spagnolo bofetòn di medesimo significato;
Cagliosa= colpo duro e violento diretto verso qualsivoglia parte del corpo ed assestato indifferentemente con le mani o con i piedi, colpo cosí violento da indurre chi lo riceve a zittire subito; etimologicamente dallo spagnolo callar = zittire.
Carocchia = nocchino, colpo secco e doloroso assestato al capo e portato con movimento veloce dall’alto verso il basso con le nocche maggiori delle dita serrate a pugno. Etimologicamente non dal lat. crotalum che indica la nacchera, strumento musicale e non tipo di percossa…,ma dal greco karà=testa attraverso un lat. regionale *caròclu(m) ed il plurale reso femm. caròcla (tipica la mutazione cl in ch come in clausu(m) che diventa chiuso).
Cauciata = non si tratta (come pure il vocabolo potrebbe far pensare) di una lunga e variata serie di calci, ma di una totalizzante bastonatura cui concorrono mani, piedi (prevalentemente) e tutte le altre parti del corpo atte a colpire; il termine però è chiaramente forgiato sulla parola caucio (calcio) che è dal basso latino calcius forma aggettivale sostantivata di calx - calcis
Cepolla = colpo radente assestato con la mano aperta e diretto alla testa etimologicamente richiamata nella caepa d’avvio;infatti in latino caepulla da cui la nostra cepolla ma pure l’italiana cipolla, è il diminutivo di caepa= testa.
Chianetta = veloce colpo assestato sul centro del cranio a mano aperta, derivante dal latino: planus addizionato del suff. diminutivo etta; con il medesimo termine chianetta si indica in napoletano un piccolo cappelluccio appena sufficiente a coprire il cranio; talvolta il medesimo veloce colpo è detto pure carcacoppola id est: pigia-coppola dove la coppola è il classico berretto basso con visiera dalla forma concava, etimologicamente forgiato sul latino cuppa(m);
Cutogna = generico violento e doloroso colpo inferto con le mani e diretto a qualsivoglia parte del corpo, colpo cosí violento da poter provocare sul corpo enfiagioni paragonabili per la forma e gli effetti ai grossi ed aspri frutti del melo cotogno (dal lat. cotonium). Rammento qui, per sottolineare l’asprezza e la violenza della percossa detta cutogna, un’espressione idiomatica che un tempo si poteva spesso udire a mo’ di consiglio:
Quanno siente ‘o fieto d’’e cutogne, a fují nun è vriogna! che si può rendere: Quando avverti avvisaglie di dure percosse, non è vergognoso scappare!;
Cunessa= breve, ma intenso colpo inferto a mo’ di taglio con la mano tesa ed aperta , e diretto con precisione alla nuca, tra testa e collo; non univoca l’etimologia che qualcuno vorrebbe agganciare al greco kopto (batto), ma altri forse piú opportunamente al latino cuneus (cuneo) e dico piú opportunamente stante la genericità del battere greco, mentre il cuneo latino mi pare riproduca piú esattamente la precisione della cunessa che a mo’ di cuneo si insinua tra capo e collo.
Crisceto = bastonatura totalizzante diretta ovunque ed operata con varie parti del corpo: mani, piedi, gomiti, testa, bastonatura cosí violenta da procurare enfiagioni sul corpo di chi ne è fatto segno, cosí come il panetto di pasta acida detto crisceto,che immesso nell’impasto di acqua e farina ne determina la crescita.
Non ò preso in considerazione il termine cazzotto che è il colpo violento dato col pugno chiuso, forgiato probabilmente sul termine cazzo colto nel momento dell’erezione, se non su di una forma latina capitium variante di caput nella pretesa che il cazzotto sia colpo da assestare al capo quasi sinonimo di scapaccione, ma è idea che poco mi convince; dicevo che non ò preso in considerazione il termine cazzotto in quanto parola che sebbene usata non è napoletana,ma (pur se ritenuta parola volgare) della lingua nazionale; passo dunque ad illustrare altri tipi di percosse e termini ancora in uso;
Mascone= violento schiaffo diretto al volto e segnatamente alla zona mascellare, tale da procurare l’enfiagione della masca (mascella); la masca da cui mascone riproduce la voce mediterranea maska dai molteplici significati, tra cui: lato della nave, maschera, mascella ed addirittura bozzolo doppio che – a ben pensare – riproduce la forma delle gote enfiate; quando il violento schiaffo non sia solo, ma reiterato e quasi ritmato si ànno i c.d. mascune a tarantella;
‘Ntosa = duro colpo assestato nella parte frontale della testa con la mano chiusa a pugno; etimologicamente dal latino intusus p.pass. del verbo intundere (colpire);
Pàccaro o Pàcchero =schiaffo a mano aperta e tesa indirizzato al volto, colpo che quando sia cosí violento da lasciare il segno è detto paccaro a ‘ntorzafaccia; percossa violenta in tutto simile al mascone esaminato dianzi; da non confondere con la pacca della lingua toscana che è un colpo amichevole assestato solitamente sulle spalle, colpo che – contrariamente al pàccaro – non connota intenzioni proditorie e/o aggressive; va da sé che il pàccaro napoletano non possa etimologicamente derivare dalla suddetta pacca toscana attesa la gran diversità delle funzioni e scopi dei due colpi; infatti mentre la pacca toscana à una derivazione probabilmente onomatopeica, il pàccaro napoletano è da collegarsi al termine pacca (natica) addizionato del suffisso di pertinenza arius: la pacca di riferimento non è ovviamente quella onomatopeica toscana, bensí quella che viene da un basso latino pacca(m) forgiato su di un longobardo pakka che indica appunto la natica, ma pure la quarta parte ricavata in senso longitudinale di una mela o pera; con ogni probabilità, originariamente il pàccaro/pàcchero fu la sberla con cui si colpivano le natiche, una sorta di sculacciata cioè e da ciò ne derivò il nome che fu mantenuto, accanto ad altri, quando il colpo, lo schiaffo mutò destinazione; una gran copia di pàccari assestati in veloce combinazione prende il nome di paccariàta che oltre a sostanziare un’offesa è da intendersi anche quale forma di dileggio;
Palïata ed il suo accrescitivo Palïatone sono la bastonatura o la pesante bastonatura generica, che posson comportare l’uso di un po’ tutti i colpi fin qui illustrati; i termini palïata e palïatone derivano il loro nome dal fatto che originariamente designarono la bastonatura inferta con il palo e probabilmente ci si sarebbero attesi i termini palata (colpo di palo/a) e palatone( gran colpo di palo/a), ma poiché in napoletano già esistevano le voci palata e palatone con tutt’altro significato (vedi oltre) ecco che per distinguere le voci, le nuove subirono una sorta di anaptissi della vocale i(che servisse a far chiarezza e distinguere) e probabilmente per evitare di dover ricorrere anche alla epentesi di una consonante eufonica (n, v?) si preferí fornire di dieresi la i evitando cosí il fastidioso dittongo ia e si ottennero palïata e palïatone per indicare le percosse, mantenendo palata e palatone per indicare due diverse pezzature di pane; etimologicamente palïata e palïatone sono deverbali dell’iberico palehar= bastonare ;va da sé che la voce palïata non va confusa, come ò detto (e come purtroppo inopinatamente fanno un po’ tutti i vocabolaristi) con palàta che è un’altra cosa e cioè un filone di pane da un kg. e qui ne parlo facendo una breve digressione; il pane: insostituibile alimento che è una delle figure piú comuni e piú ricorrenti nei sogni del popolino partenopeo e cioè quell’imprescindibile,sacro alimento (trasformato da Cristo nel Suo Corpo!) dell’uomo; tale alimento ricorre nei sogni nelle piú varie forme o pezzature, corrispondenti a quelle normalmente in uso a Napoli e si avrà perciò ‘o paniello o ‘a panella (etimologicamente dal latino panis + i suffissi di genere iello o ella ): ampia pagnotta rotondeggiante di ca 1 kg.; avremo altresí ‘o palatone (grosso filone di ca 2 kg., bastevole al fabbisogno giornaliero di una famiglia numerosa, il suo nome gli deriva dal fatto che al momento di infornarlo, detto filone occupa per intero la lunga pala usata alla bisogna; la palata è invece il filone il cui peso non eccede 1 kg. ed occupa la metà della pala per infornare; un quarto o meno della pala occupano le c.d. palatelle (piccoli filoncini da 500 o 250 gr.); tornando all’àmbito propriamente linguistico rammenterò che ‘o ppane (etimologicamente dal latino pane(m) ) è un alimento e come tale di genere neutro, ciò che comporta una grafia con la geminazione della consonante d’avvio: ‘o ppane e non ‘o pane.
Panesiglio = è l’intenso ceffone, la pesante percossa, il duro manrovescio diretto al volto, che produce, d’un súbito, il rigonfiarsi (a mo’ di pagnottella) della gota su cui si abbatte; etimologicamente, messa da parte la tentazione greca cui potrebbe indurre il pan d’avvio, dirò che il termine è l’esatta riproduzione dello spagnolo panecillo (panino),ma non gli è estraneo un basso latino: panesculus id est: parvus panis(pagnottina);
Papagno = pesante schiaffo inferto a mano aperta ed indirizzato al volto, tale da stordire chi lo riceve, cosí come stordisce l’oppio contenuto nel papavero che in napoletano è appunto ‘o papagno (dal lat. papaver si va ad un derivato papaveaneus da cui papa(va)nju con successiva sincope di (va) e passaggio di nj a gn (cfr. il basso lat. companjo = nap. Cumpagno);
Perepessa = colpo quasi simile alla precedente cunessa,da cui si differenzia perché la cunessa è uncolpo inferto a mo’ di taglio con la mano tesa ed aperta , e diretto con precisione alla nuca, tra testa e collo, mentre questo a margine colpo inferto, muovendo rapidamente l’arto dall’alto in basso con la mano tesa ed aperta , e diretto con precisione alla sommità e centro della testa; dubbia la derivazione: o dal sost. latino: perpessio = sofferenza o dal part. pass.f.le perpressa→perep(r)essa= stretta, calcata dell’infinito perprimere= stringere o calcare con violenza oppure, ma meno probabilmente dal greco peripeteia = accidenti inopinato;ricordo a margine l’esistenza nel napoletano di una sorta di maschile della voce a margine e cioè piripisso (che è dal p.p.m.le latino) perpressus= calcato, con chiusura in i della e intesa lunga, assimilazione regressiva alla ricavata i della seconda e ed anaptissi eufonica della seconda i; la voce piripisso però non indica una percossa, ma un piccolo cappelluccio di panno di colore blu o nero , in uso per solito tra gli uomini, cappelluccio di forma circolare simile ad un baschetto che si porta calcato al centro della sommità della testa; al centro di tale cappelluccio esiste una piccola appendice cilindrica che per metonimia prende pur’essa il nome di piripisso.
Perucculata = originariamente colpo inferto al capo o al corpo con la peroccola (bastone) ed estensivamente colpi portati con gli arti superiori induriti e tesi a mo’ di bastone; peroccola etimologicamente o dal basso lat.: parocca e il suo diminutivo paroccola propriamente: stanga o sempre da un basso latino: pedruncola che è ramo; propendo per paroccola;
Scerevecchia ed il suo accrescitivo Scerevecchione che son propriamente lo scapaccione o scapezzone (forma antica del precedente), colpo tale da far temere, per eccesso, di far saltare il capo che lo subisce; l’etimo è pacificamente latino forgiato sul verbo ex-cervicare che propriamente è capitozzare;
Sciacquamola violentissimo ceffone a mano aperta diretto al volto tra mento e guancia, schiaffo tanto forte da poter (per iperbole) determinare la caduta di alcuni molari cosa che genererebbe la necessità di sciacquare la bocca con acqua fredda per arrestare un probabile versamento di sangue conseguenza della caduta dei molari saltati via per il ceffone; etimologicamente la voce a margine è il risultato dell’unione della voce verbale sciacqua (3° persona sg. ind. pres. dell’infinito sciacquare/à=sciacquare (la bocca), fare sciacqui con acqua o con una soluzione medicamentosa; per estens., bere una piccola quantità di qualcosa;il verbo sciacquare è dal lat. tardo exaquare, deriv. di aqua 'acqua')+ il s.vo f.le mola= molare, ciascuno dei denti che, nell'uomo e in altri mammiferi, ànno la funzione di masticare il cibo; nell'uomo, gli ultimi tre denti situati in ognuno dei due lati dell'arcata superiore e inferiore; l’etimo del napoletano mola è dal lat. mola(rem) 'grossa pietra' e '(dente) molare', deriv. di mola 'mola, macina'. A margine della voce sciacquamola rammenterò che nella parlata napoletana l’espressione sciacquarse ‘na mola vale: andare incontro ad ingenti spese quali son quelle necessarie per servirsi dell’opera d’un medico dentista che ponga riparo ai deleterei effetti causati da qualche violento sciacquamola.
Scoppola ed il suo accrescitivo Scuppulone che propriamente sono i colpi piú o meno pesanti inferti in modo da far saltar via il cappello (la coppola vd. sopra);
Scusuta = letteralmente scucita che vale generica e totale bastonatura tanto grave da determinare, in chi ne è fatto segno, ampie ferite (eufemisticamente détte scuciture); etimologicamente scusuta come l’italiano scucita è p.p. del basso latino ex-cosire per il classico ex-consuere;
Sicutennosse = per il vero questa parola è abbondantemente desueta ed, a stretto rigore, dovrei disinteressarmene, ma è parola cosí interessante e presente sebbene con piccole varianti, ma analogo significato, nelle lingue regionali calabre: zicutnose, zichitinos che mi pare opportuno di parlarne brevemente; il sicutennosse è il colpo assestato con una verga sulla testa o sulle spalle; etimologicamente la parola è una chiara, scherzosa deformazione del latino: sicut nos (come noi) che si incontra nella parte finale della preghiera pater noster ;
un tempo nelle cattedrali o nelle basiliche cattoliche esistevano i c.d. penitenzieri maggiori, sorta di prelati abilitati,nell’amministrare il sacramento della confessione,ad assolvere anche i piú gravi peccati, tali penitenzieri maggiori inalberavano sul lato destro del loro confessionale, dove sedevano ad ascoltare le confessioni dei penitenti, una lunga canna con la quale solevano colpire sulla testa o le spalle i penitenti a mo’ di suggello dell’avvenuta assoluzione.Poiché il piú delle volte i penitenzieri maggiori nel congedare i penitenti, facevan recitar loro il pater noster assestavano il previsto colpo di canna sul finire della recita della preghiera, proprio in coincidenza delle parole sicut nos e da ciò il colpo ne trasse il nome di sicutennosse.
Struncone = altra parola desueta, ma ne parlo in quanto una delle poche che si riferisce ed identifichi un colpo inferto con gli arti inferiori e diretto ad essi, sorta di violento calcio portato in senso circolare antiorario e diretto alle gambe di un malcapitato; il termine (da non confondere con l’omofono che indica la grossa sega, azionata da due persone contemporaneamente ed atta a recidere robusti tronchi) è un deverbale di struncare, dal latino: truncare con consueta protesi di una S intensiva, che è quasi mozzare, recidere, mutilare di una parte quasi che il violento calcio, portato come détto, mirasse a mutilare il ricevente dell’arto colpito ;
Varrata = pesante colpo portato al corpo, con due mani che stringono la varra (grosso bastone, randello); la varra, da cui varrata etimologicamente è, con tipica alternanza B/V dal basso latino barra che a sua volta è dal celtico bar = ramo;
e chiudo con Vertulina = generica e totalizzante bastonatura fatta a mani nude o con l’ausilio di agevole corpo contundente: bastone, pertica o simili, percosse reiterate e rapide; difficile stabilirne l’etimo; forse estensivamente da bertula (macchina usata per configgere in terra i pali nelle vigne), ma non si può escludere una derivazione da vertula (da un basso latino: averta) sorta di bisaccia o zaino in uso tra i pastori che la usavano, ruotandola vorticosamente, quale arma di difesa delle pecore assalite da animali predatori; l’ipotesi che però piú mi convince è che vertulina derivi dallo spagnolo verduco (bastone animato) attraverso una *verducolina che conduce a giungere a vertulina; ma siamo nel campo delle ipotesi!
Raffaele Bracale
giovedì 30 settembre 2010
‘E PAPARELLE
‘E PAPARELLE
Nel parlato napoletano, ma pure nei reperti letterarî c’ è e ci fu un congruo numero di termini usati per indicare il danaro; qualcuno si è preso la briga di contarli e ne à trovato circa sessanta a cominciare in ordine alfabetico da quel sonante abbrunzo che richiama ovviamente la lega metallica (bronzo) con cui s’usava tempo addietro batter moneta, per passare poi al termine agresta che in primis indica l’uva primaticcia, quasi acerba, quella stessa che era effigiata in una cornucopia sul verso di un’antica moneta spagnola in uso nella seconda metà del 1500;
rammento ancora l’ironica acquavite che è bevanda notoriamente tonica ed è fuor di dubbio che il danaro dia tonicità a chi ne possieda;
ricorderò ora il termine agniento che di per sé indica l’unguento, il balsamo, e va da sé che il danaro è un balsamo che può lenire parecchi mali, oltre che l’unguento che a mo’ di grasso s’usa per ungere chi di dovere per assicurarsi un beneficio;
sempre con riferimento alle capacità curative si pone il termine aruta l’erba aromatica che il popolo ritiene apportatrice di tanti benefici effetti: aruta ogne male stuta al pari del danaro che si ritiene possa risolver ogni problema sia fisico che morale;
lasciando da parte ora i riferimenti curativi o lenitivi rammenterò il termine argiamma patente corruzione del francese argent in riferimento, come il pregresso abbrunzo, al metallo usato per batter moneta.
E continuiamo con una rapida elencazione in ordine alfabetico dei termini più comunemente usati per indicare il danaro:
bisante o besante dal bizantino:buzantion (moneta d’oro);
boragna forse dal greco bora (nutrimento);
chiuove probabilmente per la somiglianza delle monete con le grosse teste dei chiodi;
cianfrone dallo spagnolo chanflon moneta argentea che al tempo di Carlo V (1530 ca) valeva 1 ducato e sotto Filippo III (1598 ca) causa l’inflazione solo ½ ducato;
ciaraffe dall’arabo giarif (moneta sonante)
cicere (ceci) il povero legume usato un tempo come merce di baratto;
crespielle dal francese crêpe frittella increspata e dorata richiamante l’oro della moneta e la rugosità del conio;
crie monete così chiamate perché portavano effigiata la spiga dell’orzo (in greco kri),
cuocciole dal greco còclos (conchiglia) un tempo le conchiglie furono usate come moneta negli scambi commerciali;
dummineche dal nome di Giandomenico Tramontano abilissimo coniatore di stampi di moneta, attivo presso la zecca napoletana nella seconda metà del 1500;
fajenze dal nome della città di Faenza dove erano prodotte le costosissime stoviglie in terracotta pregiata; col nome della città di Faenza sostantivato in fajenza e nel suo plurale fajenze si finì per designare il danaro in generale atteso che ne occorreva impiegare moltissimo per acquistare le terracotte ivi prodotte;
filusce o filusse o ancora felusse. Sull’origine del termine si è a lungo discusso chiamando in causa volta a volta, ma fantasiosamente il latino folliculus contenitore dei soldi e per estensione soldi medesimi o ancora più fantasiosamente il nome dei sovrani spagnoli Filippo I o II o III da cui: Felippo, Felippusse ed infine Filusse. La faccenda è molto più semplice e seria derivando, a mio avviso, il vocabolo de quo dall’arabo fulus plurale di fals (dal greco phóllis =obolo)nel significato appunto di moneta, danaro; la voce araba invase tutto il bacino mediterraneo al segno che in Calabria, con analogo significato, abbiamo filusu , in Sicilia: filussi, in Toscana: pilosso, in Spagna: felùs ed in Portogallo: fuluz;
frisole (i fagioli spagnoli) e fasule
( dal lat. phaseolu(m), dim. di phasílus, dal gr. phásílos)
usati, temporibus illis a mo’ di moneta o merce di scambio al pari dei ciceri summenzionati in precedenza;
furmelle il termine originariamente indicò i bottoni fatti con grossi dischetti di legno, di osso o di metallo, dischettisemplici o ricoperti di stoffa, successivamente con il detto termine si indicarono pure per la loro somigliante forma le grosse, sonanti monete coniate dalla zecca partenopea;
gigliati in riferimento al giglio d’oro impresso sulle monete d’epoca angioina;
gliuommero dal latino: glomus-eris principalmente gomitolo e poi anche: rotolo di monete e da esso monete tout cour;
grano d’ovvia valenza simile all’odierna grana, ma quanto più espressivamente corretta attesa la sacertà del cereale richiamato;
manteca dall’omologo termine spagnolo: saporita crema di panna, burro, latte e zucchero che richiama l’idea del buono ed utile ungere proprii del danaro;
maglie dritto per dritto dal francese: maille=moneta, rammentado che chi è sprovvisto di danaro s’usa indicarlo come: sfasulato (con riferimento ai pregressi fasule) o – giustappunto: smagliato;
medaglie o cemmeraglie per l’ovvia somiglianza tra le battute monete e le coniate medaglie;
miglio sulla falsariga del precedente grano;
mignòle o mognèle termini però abbondandemente desueti;
numerosissimi i vocaboli sotto la lettera P , ricorderò:
patane s.vo f.le letteralmente: patata: pianta erbacea annuale con fiori bianchi o violetti in corimbi, foglie composte e frutti a bacca; originaria dell'America meridionale, fu importata in Europa agli inizi del sec. XVI (fam. Solanacee);
il tubero commestibile di questa pianta, dal quale si ricavano fecola, amido e alcol: patate lesse, fritte, arrosto, in umido | patata bollente, (fig.) argomento, problema scottante: passare ad altri la patata bollente | spirito di patata, l'alcol che si ricava dal tubero; (fig.) facezia sciocca, spiritosaggine insulsa | sacco di patate, (fig.) persona goffa, priva di scioltezza. Nel napoletano la voce a margine, oltre ad indicare il tubero e per traslato il danaro, è uno dei numerosi sinonimi usati per indicare nel linguaggio popolare e/o familiare il sesso femminile: il noto tubero edule è preso in tale accezione semanticamente a riferimento poiché come esso vive nascosto e protetto sottoterra, alla stessa stregua s’usa tener nascosta e protetta la vulva femminile, che di suo è già posta anatomicamente in posizione riservata; l’etimo della voce a margine è per adattamento con cambiamento di suffisso ( da ata ad ana ) dallo sp. patata, a sua volta sorto dall'incrocio di papa (di orig. quechua) con batata (di orig. haitiana); la voce a margine nell’accezione di danaro è di provenienza del gergo malavitoso (e ne è difficile cogliere il collegamento semantico, come avviene per ogni voce gergale);
papagne s.vo m.le pl. di papagno letteralmente: papavero, ceffone, mistura per indurre al sonno,pesante schiaffo inferto a mano aperta ed indirizzato al volto, tale da stordire chi lo riceve, cosí come stordisce l’oppio contenuto nel papavero che in napoletano è appunto ‘o papagno ( quanto alla morfologia dell’etimo dal lat. papaver si va ad un derivato papaveaneus da cui papa(va)nju con successiva sincope di (va) e passaggio di nj a gn (cfr. il basso lat. companjo = nap. Cumpagno);semanticamente la connessione tra il papavero ed il denaro è da cercarsi nella simiglianza effetti: in effetti come stordisce e mette buono l’oppio contenuto nel papavero, o un pesante ceffone, cosí sia chi possiede e sia chi riceva del danaro viene tranquillizzato e messo buono.
Parpagnole s.vo f.le pl. di parpagnola antico sostantivo che in primis (cfr. P.P.Volpi) venne registrato per indicare la palpebra e solo succesivamente, prendendo spunto dall’etimo che qui di sèguito segnalerò, indicò per traslato il danaro; infatti etimologicamente la voce parpagnola deriva dal prov. parpaillon dove valse farfalla; ora come semanticamente è facile cogliere il collegamento tra lo sbatter rapido delle ali di una farfalla ed il medesimo movimento rapido della palpebra, altrettanto facile è cogliere il collegamento tra lo sbatter rapido delle ali di una farfalla ed il successivo dileguarsi d’esso insetto, ed il medesimo movimento rapido con cui si dilegua il danaro!
patacche s.vo f.le pl. di patacca antico sostantivo indicativo in primis di una moneta di grande formato, ma di poco valore contenuto in appena cinque carlini, sostantivo passato poi ad indicare il danaro in genere ed ancóra figuratamente una cosa di poco pregio, un oggetto falso venduto come antico o di valore; scherzosamente valse medaglia, decorazione vistosa, ma di scarsa importanza ed infine nel linguaggio familiare indicò una grossa macchia d'unto; quanto all’etimo è voce derivata dal prov. patac;
penne s.vo f.le pl. di penna antico sostantivo = moneta; un tempo con la voce penna (dal lat. penna(m) 'ala' e pinna(m) 'penna, piuma', confluite in un'unica voce) a Napoli si indicò, oltre che la piuma d’un uccello, anche una vilissima moneta dal valore irrisorio, moneta che veniva spesa facilmente, senza alcuna remora o pentimento; tale moneta che valeva appena un sol carlino (nap. carrino) prese il nome di penna dal fatto che su di una faccia di tale moneta (davanti ) v’era raffigurata l’intiera scena dell’annunciazione a Maria Ss. mentre sul rovescio v’era raffigurato il particolare dell’arcangelo con un’ala (penna) dispiegata; ora sia che la penna in epigrafe indichi la piuma d’uccello, sia indichi la vilissima moneta, la sostanza dell’espressione non cambia, trattandosi di due cose: piuma o monetina che con facilità posson volar via e/o perdersi.A tale monetina è legato il detto partenopeo Miéttele nomme penna! détto che letteralmente vale : Chiamala penna!;
La locuzione viene usata, quasi volendo consigliare e suggerire rassegnazione, allorchè si voglia far intendere a qualcuno che à irrimediabilmente perduto una cosa, un oggetto, divenuto quasi (penna) piuma d'uccello; La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, procurando un cattivo affare a chi à incautamente operato un prestito atteso che spesso sparisce un oggetto prestato a taluni che per solito non restituiscono ciò che ànno ottenuto in prestito.
miéttele nomme letteralmente mettigli nome e cioè chiamalo id est: ritienilo; miéttele= metti a lui, poni+gli voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito mettere=disporre, collocare, porre con etimo dal lat. mittere 'mandare' e successivamente 'porre, mettere'; nomme = nome; elemento linguistico che indica esseri viventi, oggetti, idee, fatti o sentimenti; denominazione, con etimo dal lat. nomen e tipico raddoppiamento espressivo della labiale m come avviene ad es. in ommo←hominem, ammore←amore(m), cammisa←camisia(m) etc.
picciule s.vo m.le pl. di picciolo antico sostantivo = monetine, spiccioli e successivamente danaro in genere; ; l’etimo della voce napoletana a margine è da un lemma fonosimbolico pikk (il medesimo che à dato piccino) con ampliamento della base attraverso un suffisso latino diminutivo iolus;
esaminati tutti questi, mi soffermo ora sul termine
paparelle (s.vo f.le pl. di paparella) con il quale oggi furbescamente si suole indicare il danaro;
è pur vero che con il termine paparelle in napoletano si indicano i piccoli dell’anitra, ma con tale accezione il danaro non c’entra nulla; come significante la moneta, a mio avviso, per détto termine occorre risalire al nome del facoltosissimo e munifico nobiluomo Aurelio Paparo fondatore con un tal Nardo di Palma di un Monte di Pietà in cui profuse parecchio danaro di suo per combattere la piaga della povertà ed usura.Su di un’analoga via di beneficenza si pose Luisa, figlia di Aurelio Paparo, che sovvenzionata dal genitore fondò un tempio o conservatorio di donne povere e neglette chiamate dal popolo: paparelle.Da detto nomignolo prese il nome una strada napoletana, quella dov’era ubicato il tempio;
e continuiamo ad elencare:
pennacchie dal nome di una vilissima moneta penna dal valore esiguo di 1 carlino, quella stessa moneta che per la facilità con cui veniva spesa diede vita al detto: miéttele nomme penna (chiamala penna) in riferimento ad ogni cosa che si potesse facilmente perdere o cedere senza lasciar tracce di remore o dispiaceri;la moneta s’ebbe il nome di penna→pennacchia perché su di una delle facce v’era incisa la figura delle ali dell’arcangelo Gabriele colto nel momento dell’Annunciazione a Maria.
purchie ed il suo corrotto perucchie ambedue coniati sul termine porchia
nel significato di gemma, pollone, richiamante quel rigoglio della vita facilmente assimilabile alla rigogliosità che può dare il danaro;
prubbeca che si ritrovò con qualche adattamento morfologico in altre regioni del meridione; in origine con la voce prubbeca (poi passata a designare genericamente il danaro metallico) si indicò una moneta di rame del valore d’un tornese (vedi alibi) o di sei calli (ca(va)lli) fatta coniare da Filippo III di Spagna intorno al 1550; su detta moneta era coniato il motto publica commoditas donde si ricavò popolarmente il termine metatetico prubbeca;
e potrei ancora continuare in un’elencazione, ma correrei il rischio di segnalare termini non più usati; preferisco perciò indicare solo un ultimo ed attuale, corrente e cioè:
sfardelle termine un po’ becero, ma ancora oggi in uso nel parlare popolare anche se di lontanissima provenienza in quanto corruzione della parola ferdinandelle o ferrantelle da cui ferradelle e poi fardelle ed infine sfardelle dal nome di una moneta battuta tra il 1460 ed il 1490 a Napoli sotto Ferdinando o Ferrante d’Aragona, figlio naturale seppure illegittimo e successore di Alfonso il Magnanimo.
Raffaele Bracale
Nel parlato napoletano, ma pure nei reperti letterarî c’ è e ci fu un congruo numero di termini usati per indicare il danaro; qualcuno si è preso la briga di contarli e ne à trovato circa sessanta a cominciare in ordine alfabetico da quel sonante abbrunzo che richiama ovviamente la lega metallica (bronzo) con cui s’usava tempo addietro batter moneta, per passare poi al termine agresta che in primis indica l’uva primaticcia, quasi acerba, quella stessa che era effigiata in una cornucopia sul verso di un’antica moneta spagnola in uso nella seconda metà del 1500;
rammento ancora l’ironica acquavite che è bevanda notoriamente tonica ed è fuor di dubbio che il danaro dia tonicità a chi ne possieda;
ricorderò ora il termine agniento che di per sé indica l’unguento, il balsamo, e va da sé che il danaro è un balsamo che può lenire parecchi mali, oltre che l’unguento che a mo’ di grasso s’usa per ungere chi di dovere per assicurarsi un beneficio;
sempre con riferimento alle capacità curative si pone il termine aruta l’erba aromatica che il popolo ritiene apportatrice di tanti benefici effetti: aruta ogne male stuta al pari del danaro che si ritiene possa risolver ogni problema sia fisico che morale;
lasciando da parte ora i riferimenti curativi o lenitivi rammenterò il termine argiamma patente corruzione del francese argent in riferimento, come il pregresso abbrunzo, al metallo usato per batter moneta.
E continuiamo con una rapida elencazione in ordine alfabetico dei termini più comunemente usati per indicare il danaro:
bisante o besante dal bizantino:buzantion (moneta d’oro);
boragna forse dal greco bora (nutrimento);
chiuove probabilmente per la somiglianza delle monete con le grosse teste dei chiodi;
cianfrone dallo spagnolo chanflon moneta argentea che al tempo di Carlo V (1530 ca) valeva 1 ducato e sotto Filippo III (1598 ca) causa l’inflazione solo ½ ducato;
ciaraffe dall’arabo giarif (moneta sonante)
cicere (ceci) il povero legume usato un tempo come merce di baratto;
crespielle dal francese crêpe frittella increspata e dorata richiamante l’oro della moneta e la rugosità del conio;
crie monete così chiamate perché portavano effigiata la spiga dell’orzo (in greco kri),
cuocciole dal greco còclos (conchiglia) un tempo le conchiglie furono usate come moneta negli scambi commerciali;
dummineche dal nome di Giandomenico Tramontano abilissimo coniatore di stampi di moneta, attivo presso la zecca napoletana nella seconda metà del 1500;
fajenze dal nome della città di Faenza dove erano prodotte le costosissime stoviglie in terracotta pregiata; col nome della città di Faenza sostantivato in fajenza e nel suo plurale fajenze si finì per designare il danaro in generale atteso che ne occorreva impiegare moltissimo per acquistare le terracotte ivi prodotte;
filusce o filusse o ancora felusse. Sull’origine del termine si è a lungo discusso chiamando in causa volta a volta, ma fantasiosamente il latino folliculus contenitore dei soldi e per estensione soldi medesimi o ancora più fantasiosamente il nome dei sovrani spagnoli Filippo I o II o III da cui: Felippo, Felippusse ed infine Filusse. La faccenda è molto più semplice e seria derivando, a mio avviso, il vocabolo de quo dall’arabo fulus plurale di fals (dal greco phóllis =obolo)nel significato appunto di moneta, danaro; la voce araba invase tutto il bacino mediterraneo al segno che in Calabria, con analogo significato, abbiamo filusu , in Sicilia: filussi, in Toscana: pilosso, in Spagna: felùs ed in Portogallo: fuluz;
frisole (i fagioli spagnoli) e fasule
( dal lat. phaseolu(m), dim. di phasílus, dal gr. phásílos)
usati, temporibus illis a mo’ di moneta o merce di scambio al pari dei ciceri summenzionati in precedenza;
furmelle il termine originariamente indicò i bottoni fatti con grossi dischetti di legno, di osso o di metallo, dischettisemplici o ricoperti di stoffa, successivamente con il detto termine si indicarono pure per la loro somigliante forma le grosse, sonanti monete coniate dalla zecca partenopea;
gigliati in riferimento al giglio d’oro impresso sulle monete d’epoca angioina;
gliuommero dal latino: glomus-eris principalmente gomitolo e poi anche: rotolo di monete e da esso monete tout cour;
grano d’ovvia valenza simile all’odierna grana, ma quanto più espressivamente corretta attesa la sacertà del cereale richiamato;
manteca dall’omologo termine spagnolo: saporita crema di panna, burro, latte e zucchero che richiama l’idea del buono ed utile ungere proprii del danaro;
maglie dritto per dritto dal francese: maille=moneta, rammentado che chi è sprovvisto di danaro s’usa indicarlo come: sfasulato (con riferimento ai pregressi fasule) o – giustappunto: smagliato;
medaglie o cemmeraglie per l’ovvia somiglianza tra le battute monete e le coniate medaglie;
miglio sulla falsariga del precedente grano;
mignòle o mognèle termini però abbondandemente desueti;
numerosissimi i vocaboli sotto la lettera P , ricorderò:
patane s.vo f.le letteralmente: patata: pianta erbacea annuale con fiori bianchi o violetti in corimbi, foglie composte e frutti a bacca; originaria dell'America meridionale, fu importata in Europa agli inizi del sec. XVI (fam. Solanacee);
il tubero commestibile di questa pianta, dal quale si ricavano fecola, amido e alcol: patate lesse, fritte, arrosto, in umido | patata bollente, (fig.) argomento, problema scottante: passare ad altri la patata bollente | spirito di patata, l'alcol che si ricava dal tubero; (fig.) facezia sciocca, spiritosaggine insulsa | sacco di patate, (fig.) persona goffa, priva di scioltezza. Nel napoletano la voce a margine, oltre ad indicare il tubero e per traslato il danaro, è uno dei numerosi sinonimi usati per indicare nel linguaggio popolare e/o familiare il sesso femminile: il noto tubero edule è preso in tale accezione semanticamente a riferimento poiché come esso vive nascosto e protetto sottoterra, alla stessa stregua s’usa tener nascosta e protetta la vulva femminile, che di suo è già posta anatomicamente in posizione riservata; l’etimo della voce a margine è per adattamento con cambiamento di suffisso ( da ata ad ana ) dallo sp. patata, a sua volta sorto dall'incrocio di papa (di orig. quechua) con batata (di orig. haitiana); la voce a margine nell’accezione di danaro è di provenienza del gergo malavitoso (e ne è difficile cogliere il collegamento semantico, come avviene per ogni voce gergale);
papagne s.vo m.le pl. di papagno letteralmente: papavero, ceffone, mistura per indurre al sonno,pesante schiaffo inferto a mano aperta ed indirizzato al volto, tale da stordire chi lo riceve, cosí come stordisce l’oppio contenuto nel papavero che in napoletano è appunto ‘o papagno ( quanto alla morfologia dell’etimo dal lat. papaver si va ad un derivato papaveaneus da cui papa(va)nju con successiva sincope di (va) e passaggio di nj a gn (cfr. il basso lat. companjo = nap. Cumpagno);semanticamente la connessione tra il papavero ed il denaro è da cercarsi nella simiglianza effetti: in effetti come stordisce e mette buono l’oppio contenuto nel papavero, o un pesante ceffone, cosí sia chi possiede e sia chi riceva del danaro viene tranquillizzato e messo buono.
Parpagnole s.vo f.le pl. di parpagnola antico sostantivo che in primis (cfr. P.P.Volpi) venne registrato per indicare la palpebra e solo succesivamente, prendendo spunto dall’etimo che qui di sèguito segnalerò, indicò per traslato il danaro; infatti etimologicamente la voce parpagnola deriva dal prov. parpaillon dove valse farfalla; ora come semanticamente è facile cogliere il collegamento tra lo sbatter rapido delle ali di una farfalla ed il medesimo movimento rapido della palpebra, altrettanto facile è cogliere il collegamento tra lo sbatter rapido delle ali di una farfalla ed il successivo dileguarsi d’esso insetto, ed il medesimo movimento rapido con cui si dilegua il danaro!
patacche s.vo f.le pl. di patacca antico sostantivo indicativo in primis di una moneta di grande formato, ma di poco valore contenuto in appena cinque carlini, sostantivo passato poi ad indicare il danaro in genere ed ancóra figuratamente una cosa di poco pregio, un oggetto falso venduto come antico o di valore; scherzosamente valse medaglia, decorazione vistosa, ma di scarsa importanza ed infine nel linguaggio familiare indicò una grossa macchia d'unto; quanto all’etimo è voce derivata dal prov. patac;
penne s.vo f.le pl. di penna antico sostantivo = moneta; un tempo con la voce penna (dal lat. penna(m) 'ala' e pinna(m) 'penna, piuma', confluite in un'unica voce) a Napoli si indicò, oltre che la piuma d’un uccello, anche una vilissima moneta dal valore irrisorio, moneta che veniva spesa facilmente, senza alcuna remora o pentimento; tale moneta che valeva appena un sol carlino (nap. carrino) prese il nome di penna dal fatto che su di una faccia di tale moneta (davanti ) v’era raffigurata l’intiera scena dell’annunciazione a Maria Ss. mentre sul rovescio v’era raffigurato il particolare dell’arcangelo con un’ala (penna) dispiegata; ora sia che la penna in epigrafe indichi la piuma d’uccello, sia indichi la vilissima moneta, la sostanza dell’espressione non cambia, trattandosi di due cose: piuma o monetina che con facilità posson volar via e/o perdersi.A tale monetina è legato il detto partenopeo Miéttele nomme penna! détto che letteralmente vale : Chiamala penna!;
La locuzione viene usata, quasi volendo consigliare e suggerire rassegnazione, allorchè si voglia far intendere a qualcuno che à irrimediabilmente perduto una cosa, un oggetto, divenuto quasi (penna) piuma d'uccello; La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, procurando un cattivo affare a chi à incautamente operato un prestito atteso che spesso sparisce un oggetto prestato a taluni che per solito non restituiscono ciò che ànno ottenuto in prestito.
miéttele nomme letteralmente mettigli nome e cioè chiamalo id est: ritienilo; miéttele= metti a lui, poni+gli voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito mettere=disporre, collocare, porre con etimo dal lat. mittere 'mandare' e successivamente 'porre, mettere'; nomme = nome; elemento linguistico che indica esseri viventi, oggetti, idee, fatti o sentimenti; denominazione, con etimo dal lat. nomen e tipico raddoppiamento espressivo della labiale m come avviene ad es. in ommo←hominem, ammore←amore(m), cammisa←camisia(m) etc.
picciule s.vo m.le pl. di picciolo antico sostantivo = monetine, spiccioli e successivamente danaro in genere; ; l’etimo della voce napoletana a margine è da un lemma fonosimbolico pikk (il medesimo che à dato piccino) con ampliamento della base attraverso un suffisso latino diminutivo iolus;
esaminati tutti questi, mi soffermo ora sul termine
paparelle (s.vo f.le pl. di paparella) con il quale oggi furbescamente si suole indicare il danaro;
è pur vero che con il termine paparelle in napoletano si indicano i piccoli dell’anitra, ma con tale accezione il danaro non c’entra nulla; come significante la moneta, a mio avviso, per détto termine occorre risalire al nome del facoltosissimo e munifico nobiluomo Aurelio Paparo fondatore con un tal Nardo di Palma di un Monte di Pietà in cui profuse parecchio danaro di suo per combattere la piaga della povertà ed usura.Su di un’analoga via di beneficenza si pose Luisa, figlia di Aurelio Paparo, che sovvenzionata dal genitore fondò un tempio o conservatorio di donne povere e neglette chiamate dal popolo: paparelle.Da detto nomignolo prese il nome una strada napoletana, quella dov’era ubicato il tempio;
e continuiamo ad elencare:
pennacchie dal nome di una vilissima moneta penna dal valore esiguo di 1 carlino, quella stessa moneta che per la facilità con cui veniva spesa diede vita al detto: miéttele nomme penna (chiamala penna) in riferimento ad ogni cosa che si potesse facilmente perdere o cedere senza lasciar tracce di remore o dispiaceri;la moneta s’ebbe il nome di penna→pennacchia perché su di una delle facce v’era incisa la figura delle ali dell’arcangelo Gabriele colto nel momento dell’Annunciazione a Maria.
purchie ed il suo corrotto perucchie ambedue coniati sul termine porchia
nel significato di gemma, pollone, richiamante quel rigoglio della vita facilmente assimilabile alla rigogliosità che può dare il danaro;
prubbeca che si ritrovò con qualche adattamento morfologico in altre regioni del meridione; in origine con la voce prubbeca (poi passata a designare genericamente il danaro metallico) si indicò una moneta di rame del valore d’un tornese (vedi alibi) o di sei calli (ca(va)lli) fatta coniare da Filippo III di Spagna intorno al 1550; su detta moneta era coniato il motto publica commoditas donde si ricavò popolarmente il termine metatetico prubbeca;
e potrei ancora continuare in un’elencazione, ma correrei il rischio di segnalare termini non più usati; preferisco perciò indicare solo un ultimo ed attuale, corrente e cioè:
sfardelle termine un po’ becero, ma ancora oggi in uso nel parlare popolare anche se di lontanissima provenienza in quanto corruzione della parola ferdinandelle o ferrantelle da cui ferradelle e poi fardelle ed infine sfardelle dal nome di una moneta battuta tra il 1460 ed il 1490 a Napoli sotto Ferdinando o Ferrante d’Aragona, figlio naturale seppure illegittimo e successore di Alfonso il Magnanimo.
Raffaele Bracale
SCARTE FRÚSCIO E PIGLIE PRIMERA!
SCARTE FRÚSCIO E PIGLIE PRIMERA!
Icastica, sarcastica locuzione esclamativa partenopea che per apparir piú chiara dovrebbe addizionarsi d’un nun(non) diventando scarte frúscio e nun piglie primera! (ma in tal guisa perderebbe tutto il suo gustoso sapore di ironia e sarcasmo e quindi meglio lasciar le cose come sono ed esclamare Scarte frúscio e piglie primera!
Che è un’ esclamazione intraducibile ad litteram che però si può rendere comunque lato sensu con di male in peggio oppure Cader dalla padella nella brace quantunque l’espressione napoletana abbia una sfumatura di malevola soddisfazione (nuance assente nell’espressione italiana) nel constatare la sgradevole situazione di chi – per sua insipienza - abbia scartato un frùscio sperando di avere una primiera e sia rimasto chiaramente a mani vuote, peggiorando cioè la propria situazione,id est cadendo dalla padella nella brace.
Ò parlato di espressione intraducibile ad litteram in quanto è assolutamente fuori luogo (come chiarisco qui di sèguito) tentar di renderla con un inconferente: Scarti flusso (fruscio) e raccogli primiera!
Infatti la parola napoletana frúscio non può esser tradotto, indicando cosa del tutto diversa, non può esser tradotto (come pure inopinatamente fece Raffaele D’Ambra nel suo dizionario napolitano, e come fanno tutti coloro (Altamura, D’Ascoli etc.) che spudoratamente vi attingono…), non può tradursi flusso, frúscio/fruscío, rumore leggero, continuo, sibilante prodotto da qualcosa che striscia, sfrega e simili; il napoletano frúscio agg.vo e s.vo neutro (deverbale del lat. *frustiare = frusciare che in primis sta per fare in pezzi, sciupare, consumare ed à poi, nella forma riflessiva frusciarse, i significati estensivi di vantarsi a torto, gloriarsi, pavoneggiarsi senza motivo) vale cosa floscia,insignificante,di scarso valore, inconsistente, moscia, tutte cose che - come è intuitivo - nulla ànno a che spartire con flusso, frúscio (attestato talora soprattuto di vestiti,o foglie come fruscío), rumore leggero, continuo, sibilante prodotto da qualcosa che striscia, sfrega etc.; il s.vo e solo s.vo italiano frúscio/fruscío à un’etimologia onomatopeica e connota cosa affatto diversa dal frúscio napoletano che è – come ò détto – è un agg.vo e s.vo neutro (deverbale del lat. *frustiare).
A questo punto, per parlar fuor de ’l velame de li versi strani,
converrà fare un passetto indietro e chiarire cosa siano il frúscio e la primera dell’epigrafe; chiariti i due concetti, forse si chiarirà tutta la portata dell’espressione in esame.
L’espressione attestata già anticamente, è mutuata da un gioco d’azzardo di carte, chiamato appunto primiera (voce derivata da primiero, in quanto la primiera si ottiene possedendo le carte di ogni seme che ànno il punteggio piú alto ( punteggio non facciale, ma prestabilito: i medesimi in uso nel conteggio della primiera nel gioco della scopa e cioè: 7 – 21 punti, 6 – 18 punti ,asso – 16 punti, 5 - 15 punti etc.a decrescere sino alle figure che valgono 10 punti cadauna )); la primiera è dunque un gioco d'azzardo nel quale vince il giocatore che somma il maggior numero di punti con quattro carte di quattro semi diversi; nel medesimo giuoco il fruscio è la somma del maggior numero di punti con quattro carte del medesimo seme; il fruscio è una combinazione secondiara che permette la vincita solo di una posta inferiore a quella destinata alla primiera, ma a chi possieda un fruscio dopo la prima distribuzione di carte, è dato la facoltà di scartarne alcune ( due o tre) e farsele sostituire dal cartaro sperando di riceverne di piú atte a mettere insieme una primiera che dà diritto alla vincita della posta piú alta; va da sé che era ed è rischioso e spesso improvvido scartare un fruscio che comunque dà diritto ad una piccola vincita, per rincorrere la conquista di una primiera difficilissima da conseguire; era ed è rischioso e spesso improvvido scartare un fruscio perché il piú delle volte non si consegue la primiera e si perde anche il fruscio scartato! Giunti a questo punto si comprende dunque la portata ironica se non sarcastica della locuzione partenopea in epigrafe che viene spesso usata con malevola, ostile, rancorosa soddisfazione per le disgrazie altrui, nei confronti di chi abbia lasciato il certo per l’incerto e prendendosi gioco di costui gli si rinfacci ironicamente (giacché in realtà non è avvenuta l’evenienza migliore…attesa, ma non conseguita) di aver scartato un fruscio e preso una primiera (piú chiaramente: di aver scartato un fruscio e(non) aver preso una primiera) d’aver cioè peggiorata la situazione, cadendo dalla padella nella brace.
In coda rammento gli etimi delle voci incontrate e non ancóra esaminate:
scarte = scarti voce verbale (2° prs.sg.) ind. pres. dell’infinito scartà = scartare (denominale di carta con protesi d’una esse distrattiva):
1 togliere un oggetto dalla carta che lo avvolge: scartà ‘nu pacco(scartare un pacco)
2 ( ed è il caso che ci occupa) nei giochi di carte, eliminare o sostituire una carta con particolari intendimenti a seconda del gioco; 3 mettere da parte, respingere come dannoso o inutile: scartare una proposta; scartare i libri superflui; scartare qualcuno alla visita di leva, dichiararlo non idoneo al servizio militare;
piglie pigli voce verbale (2° prs.sg.) ind. pres. dell’infinito piglià = prendere, pigliare ( dal lat. volg. *piliare, dal class. pilare 'rubare, saccheggiare').
Raffaele Bracale
Icastica, sarcastica locuzione esclamativa partenopea che per apparir piú chiara dovrebbe addizionarsi d’un nun(non) diventando scarte frúscio e nun piglie primera! (ma in tal guisa perderebbe tutto il suo gustoso sapore di ironia e sarcasmo e quindi meglio lasciar le cose come sono ed esclamare Scarte frúscio e piglie primera!
Che è un’ esclamazione intraducibile ad litteram che però si può rendere comunque lato sensu con di male in peggio oppure Cader dalla padella nella brace quantunque l’espressione napoletana abbia una sfumatura di malevola soddisfazione (nuance assente nell’espressione italiana) nel constatare la sgradevole situazione di chi – per sua insipienza - abbia scartato un frùscio sperando di avere una primiera e sia rimasto chiaramente a mani vuote, peggiorando cioè la propria situazione,id est cadendo dalla padella nella brace.
Ò parlato di espressione intraducibile ad litteram in quanto è assolutamente fuori luogo (come chiarisco qui di sèguito) tentar di renderla con un inconferente: Scarti flusso (fruscio) e raccogli primiera!
Infatti la parola napoletana frúscio non può esser tradotto, indicando cosa del tutto diversa, non può esser tradotto (come pure inopinatamente fece Raffaele D’Ambra nel suo dizionario napolitano, e come fanno tutti coloro (Altamura, D’Ascoli etc.) che spudoratamente vi attingono…), non può tradursi flusso, frúscio/fruscío, rumore leggero, continuo, sibilante prodotto da qualcosa che striscia, sfrega e simili; il napoletano frúscio agg.vo e s.vo neutro (deverbale del lat. *frustiare = frusciare che in primis sta per fare in pezzi, sciupare, consumare ed à poi, nella forma riflessiva frusciarse, i significati estensivi di vantarsi a torto, gloriarsi, pavoneggiarsi senza motivo) vale cosa floscia,insignificante,di scarso valore, inconsistente, moscia, tutte cose che - come è intuitivo - nulla ànno a che spartire con flusso, frúscio (attestato talora soprattuto di vestiti,o foglie come fruscío), rumore leggero, continuo, sibilante prodotto da qualcosa che striscia, sfrega etc.; il s.vo e solo s.vo italiano frúscio/fruscío à un’etimologia onomatopeica e connota cosa affatto diversa dal frúscio napoletano che è – come ò détto – è un agg.vo e s.vo neutro (deverbale del lat. *frustiare).
A questo punto, per parlar fuor de ’l velame de li versi strani,
converrà fare un passetto indietro e chiarire cosa siano il frúscio e la primera dell’epigrafe; chiariti i due concetti, forse si chiarirà tutta la portata dell’espressione in esame.
L’espressione attestata già anticamente, è mutuata da un gioco d’azzardo di carte, chiamato appunto primiera (voce derivata da primiero, in quanto la primiera si ottiene possedendo le carte di ogni seme che ànno il punteggio piú alto ( punteggio non facciale, ma prestabilito: i medesimi in uso nel conteggio della primiera nel gioco della scopa e cioè: 7 – 21 punti, 6 – 18 punti ,asso – 16 punti, 5 - 15 punti etc.a decrescere sino alle figure che valgono 10 punti cadauna )); la primiera è dunque un gioco d'azzardo nel quale vince il giocatore che somma il maggior numero di punti con quattro carte di quattro semi diversi; nel medesimo giuoco il fruscio è la somma del maggior numero di punti con quattro carte del medesimo seme; il fruscio è una combinazione secondiara che permette la vincita solo di una posta inferiore a quella destinata alla primiera, ma a chi possieda un fruscio dopo la prima distribuzione di carte, è dato la facoltà di scartarne alcune ( due o tre) e farsele sostituire dal cartaro sperando di riceverne di piú atte a mettere insieme una primiera che dà diritto alla vincita della posta piú alta; va da sé che era ed è rischioso e spesso improvvido scartare un fruscio che comunque dà diritto ad una piccola vincita, per rincorrere la conquista di una primiera difficilissima da conseguire; era ed è rischioso e spesso improvvido scartare un fruscio perché il piú delle volte non si consegue la primiera e si perde anche il fruscio scartato! Giunti a questo punto si comprende dunque la portata ironica se non sarcastica della locuzione partenopea in epigrafe che viene spesso usata con malevola, ostile, rancorosa soddisfazione per le disgrazie altrui, nei confronti di chi abbia lasciato il certo per l’incerto e prendendosi gioco di costui gli si rinfacci ironicamente (giacché in realtà non è avvenuta l’evenienza migliore…attesa, ma non conseguita) di aver scartato un fruscio e preso una primiera (piú chiaramente: di aver scartato un fruscio e(non) aver preso una primiera) d’aver cioè peggiorata la situazione, cadendo dalla padella nella brace.
In coda rammento gli etimi delle voci incontrate e non ancóra esaminate:
scarte = scarti voce verbale (2° prs.sg.) ind. pres. dell’infinito scartà = scartare (denominale di carta con protesi d’una esse distrattiva):
1 togliere un oggetto dalla carta che lo avvolge: scartà ‘nu pacco(scartare un pacco)
2 ( ed è il caso che ci occupa) nei giochi di carte, eliminare o sostituire una carta con particolari intendimenti a seconda del gioco; 3 mettere da parte, respingere come dannoso o inutile: scartare una proposta; scartare i libri superflui; scartare qualcuno alla visita di leva, dichiararlo non idoneo al servizio militare;
piglie pigli voce verbale (2° prs.sg.) ind. pres. dell’infinito piglià = prendere, pigliare ( dal lat. volg. *piliare, dal class. pilare 'rubare, saccheggiare').
Raffaele Bracale
ARZIGOGOLO e dintorni
ARZIGOGOLO e dintorni
L’amico N.C. (i consueti problemi di privatezza mi impongono l’indicazione delle sole iniziali di nome e cognome) mi chiese di parlare della voce in epigrafe e delle corrispondenti voci del napoletano. L’accontento qui di sèguito con il dire che con la voce in epigrafe arzigogolo ( con etimo derivato da girigogolo allungamento di girigoro secondo un percorso morfologico comportante la trasposizione di lettere nel primo elemento e cioè: argi→arzi per giri) la lingua ufficiale nazionale intende volta a volta un discorso o un ragionamento astruso e lambiccato, una fantasticheria, un cavillo, un espediente dialettico, una trovata spesso truffaldina, ma ingegnosa, un giro di parole ingegnoso e bizzarro, un raggiro fuorviante, un pretesto etc.
Il napoletano per tali necessità à parecchie voci ed ognuna piú circostanziata ed esattamente coniata per indicare con maggior precisione ognuna delle suaccennate occorrenze; tento qui di sèguito di elencare tali voci partenopee dandone, ove possibile, l’etimo ed il preciso campo d’applicazione; cominciamo:
allefrecaglia/arrefrecaglia che nel significato di giro di parole ingegnoso e bizzarro, sono ambedue ampliamento di lefrecaglia deverbale del basso latino *refragare = cavillare, sminuzzare etc.;
ciaranfa che nel significato di discorso astruso e lambiccato, noiosamente ripetitivo trova il suo etimo nell’adattamento popolare della voce ciaraffa che di per sé (con provenienza dall’arabo giarif) indica una moneta sonante, ma di poco valore e semanticamente la cosa si spiega col fatto che come la moneta ciaraffa è sonante,sí ma in realtà di poco valore, cosí la ciaranfa quale discorso astruso e lambiccato, noiosamente ripetitivo, produce solo rumore, ma non significante e quindi senza valore;
‘mbròglia s.vo f.le è una fantasticheria intrisa di parole eccedenti, un pretesto lungamente... diluito di chiacchiere tendenti al raggiro ed è quanto all’etimo un deverbale di ‘mbruglià= imbrogliare che a sua volta è dal fr. ant. brouiller 'mescolare, confondere', deriv. di brou 'brodo' e semanticamente si spiega essendo – come ò detto – la ‘mbroglia null’altro che una sequela di parole eccedenti, un pretesto di chiacchiere diluite tali quale un brodo;
nzànzera s.vo f.le sinonimo del precedente in quanto sciocchezza profferita in modo chiassoso, fandonia eclatante tendente al raggiro, frottola mistificatrice in uso tra compagni di baldoria, menzogna, panzana, balla propalata al fine di far ricadere su altri componenti la mala brigata le spese per il divertimento da sostenere o sostenute o le respensabilità di azioni comuni; etimologicamente è voce costruita ponendo in posizione protetica una n eufonica (che non derivando dall’aferesi di un in→’n non necessita di alcun segno diacritico (‘)) al s.vo del basso lat.zingiber→zanz(ib)er→zanzera→nzanzera (che diede anche zenzero = radice dall’aroma piccante) semanticamente da accostarsi per il gusto pepato, caustico che connota sia la radice che figuratamente la sciocchezza profferita in modo chiassoso, la fandonia eclatante, la frottola mistificatrice mistificatrice.
pagliettaría s.vo f.le è precisamente il cavillo, l’ espediente dialettico, la trovata quasi sempre truffaldina, ma ingegnosa, azioni che di per sé son tutte riconducibili al modo di agire dei cosiddetti paglietta voce singolare maschile che indica un avvocatucolo,un leguleio cavilloso, ma inesperto e spesso truffaldino; letteralmente la voce a margine parrebbe essere un diminutivo vezzeggiativo di paglia e come tale femminile, mentre in realtà è – come ò detto- voce singolare maschile (‘o paglietta) nei significati detti ed è voce che al plurale va scritta correttamente ‘e pagliette, mentre scritta con la geminazione iniziale: ‘e ppagliette torna ad esser femminile indicando i tipici cappelli di paglia, solitamente usati dagli uomini) e va letta con la geminazione iniziale della p; scritta però, come ò detto, con la iniziale p scempia: ‘e pagliette, la medesima voce plurale di paglietta è maschile e per chiaro traslato o sineddoche indica appunto avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti quegli stessi cioè che ad inizio del 1900 usavano indossare a mo’ di divisa comune una paglietta (cappello di paglia (donde il nome, partendo da un lat. palea(m)) da uomo, con cupolino alto, in foggia di tamburo, bordato di nastro di seta, ampia e piatta tesa rigida il tutto rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, in ispecie nella bella stagione, pagliette di color chiaro; e con questa spiegazione penso d’aver fatto giustizia sommaria del parere di qualcuno (ma non ne ricordo il nome…né meriterebbe d’esser rammentato ) che fantasiosamente fa risalire il termine paglietta inteso, come riportato, quale avvocatucolo, leguleio cavilloso, ma inesperto e truffaldino all’ampia gorgiera rigida indossata sulle toghe dagli avvocati d’antan; ora atteso che la gorgiera fu colletto plissettato ed inamidato indossato da talune categorie di notabili in epoca cinquecentesca e seicentesca,e poi definitivamente dismesso, mentre il tipo paglietta inteso avvocatucolo etc. è figura del tardo ‘800 – principî ‘900, non vedo dove (se non presso un costumista tearale) un avvocatucolo del tardo ‘800 o dei primi del ‘900 avrebbe potuto reperire una gorgiera inamidata e plissettata da indossare sulla toga...
da paglietta con aggiunta del suffisso di pertinenza ria si è giunto a pagliettaría voce che per sua fortuna è rimasta nell’àmbito della parlata napoletana e non è pervenuto in quello della lingua italiana dove è pur presente la voce paglietta nel significato di avvocatucolo etc.; ò detto per sua fortuna poi che se la voce pagliettaría fosse approdata nel dialetto di alighieri dante sarebbe stata certamente stravolta in pagliettería= azione o comportamento da paglietta subendo lo stesso trattamento della voce partenopea fessaría che pervenuta nell’italiano divenne fessería assumendo una inesatta e chiusa e non etimologica al posto della esatta aperta a forse nella sciocca convinzione che una vocale chiusa fosse piú consona di una aperta alla eleganza (?) della lingua nazionale;
raciàmmulo s.vo m.le voce singolare maschile usata per indicare un giro di parole ingegnoso e bizzarro e fuorviante che miri a nascondere verità altrimenti palesi; etimologicamente è un derivato del tardo latino *racimulus, diminutivo per il class. racímus; =gracimolo,ciascun rametto di un grappolo d'uva; piccolo grappolo d'uva; semanticamente si spiega col fatto che come il gracimolo si nasconde tra i pampini e copre a sua volta gli acini del grappolo, cosí il raciàmmulo tenta di non far apparire, nascondendole con giri di parole, talune verità altrimenti palesi;
scazzella s.vo m.le voce singolare maschile (a malgrado della desinenza in a) usata esattamente per indicare non l’azione cavillosa, pretestuosa, capziosa quando non litigiosa, ma per indicare colui che agisca e si esprima cavillosamente, pretestuosamente, capziosamente; in effetti la parola a margine (‘o scazzella) risulta essere etimologicamente una contrazione del termine scazzazella a sua volta formato dal verbo scazzà/scazzecà= schiacciare, scacciare, sommuovere (da una base di lat. reg. s(intensivo) + capticare frequentativo di captiare= cacciare) + il sost. zella =tigna, debito, magagna, imbroglio (da un lat. reg. psilla(m)); va da sé che chi schiaccia, smuove i residui della tigna lo fa in maniera attenta, cavillosa, pretestuosa alla medesima maniera di chi tenti di schiacciare, scacciare, sommuovere un debito o magagna;
tràstula s.vo f.le sostantivo femm. sing. usato per indicare un generico trucco e/o inganno; in realtà come deverbale di trastulià (che letteralmente è il porre in essere innocenti giochini o inganni da saltimbanchi) la voce a margine solo estensivamente indica ogni altro inganno teso ad imbrogliare, raggirare etc; ad un superficiale esame potrebbe sembrare che il verbo napoletano trastulià donde la derivata tràstula sia un adattamento del toscano trastullare; non è cosí però; è vero che ambedue i verbi, l’italiano ed il napoletano, partono da un comune latino transtum che fu in origine il banco cui erano assisi i rematori delle galee romane, per poi divenire i banchi su cui si esibivano i saltimbanchi con i loro trucchi ed inganni detti in napoletano trastule e chi li eseguiva fu il trastulante passato in seguito a definir semplicemente l’imbroglione , ma mentre l’italiano trastullare è usato nel ridotto significato di dilettare con giochini i bambini, il napoletano trastulià à il piú duro significato di mettere in atto trucchi ed inganni, e non per divertire i bambini, quanto per ledere gli adulti;
Giunti a questo punto rammenterò che tutte le voci che ò elencate furono usate negli scrittori partenopei (poeti, drammaturghi etc.) a far tempo dal 1400 con eccezione di quelle nate (ad. es. pagliettaría) in epoche successive. C’è una sola voce che non à trovato posto nei reperti letterarii, ma è rimasta a far tempo dal 1940 circa, nel parlato popolare ed ancora vi permane ben salda avendo soppiantato quasi tutte le voci elencate fin qui con le sole eccezioni di ‘mbroglia e tràstula; la voce è
paraustiello s.vo m.le voce singolare maschile nata in origine in senso positivo per significare esempio, spiegazione ma che à finito per prendere il senso negativo di ragionamento caustico, capzioso, pretestuoso cavillo, metafora maliziosa e furbesca, appiglio gratuito, arbitrario, infondato, fittizio, esempio, ma ad usum delphini, argomentazione tortuosa etc. Quanto all’etimologia ancòra c’è qualcuno che sulla scorta del primo significato di esempio, spiegazione propende per l’iberico para usted (per voi) quasi che con la parola paraustiello si volesse avvertire: tutto ciò che abbiamo detto è stato un esempio portato per voi. La cosa non convince soprattutto perché il paraustiello fin quasi dal suo apparire non fu usato solo nel senso positivo di esempio, spiegazione ma prese quasi súbito nell’uso del discorrere popolare (come ò detto) il senso negativo di ragionamento caustico, capzioso, metafora maliziosa e furbesca, appiglio gratuito, arbitrario, infondato, fittizio,argomentazione tortuosa e dunque mi pare corretto pensare per l’etimo di paraustiello ad un adattamento del greco paràstasis che vale giustappunto ragionamento, metafora, argomentazione.
zellemmo s.vo m.le ma usato nella quasi totalità dei casi solo al pl. zellemme nel significato di pretesti, cavilli, scuse, sofisticherie quasi innominabili e da celare; etimologicamente la voce è un derivato di zella (da un lat. regionale (p)silla(m) dal greco psilòs =nudo, calvo; il raddoppiamento della liquida nel latino regionale è d’origine popolare) cui è stato aggiunto il suffisso emmo←immo suffisso in genere di chiaro sapore dispregiativo o riduttivo ma talora anche, come in questo caso, intensivo , suffisso probabilmente coniato su di un latino: ime(n) con successivo raddopiamento rafforzativo della emme fino a giungere ad immo o imma.
Ed a questo punto penso d’avere esaurito l’argomento, d’aver contentato l’amico N.C.e qualche altro dei miei ventiquattro lettori e poter ben dire Satis est.
Raffaele Bracale
L’amico N.C. (i consueti problemi di privatezza mi impongono l’indicazione delle sole iniziali di nome e cognome) mi chiese di parlare della voce in epigrafe e delle corrispondenti voci del napoletano. L’accontento qui di sèguito con il dire che con la voce in epigrafe arzigogolo ( con etimo derivato da girigogolo allungamento di girigoro secondo un percorso morfologico comportante la trasposizione di lettere nel primo elemento e cioè: argi→arzi per giri) la lingua ufficiale nazionale intende volta a volta un discorso o un ragionamento astruso e lambiccato, una fantasticheria, un cavillo, un espediente dialettico, una trovata spesso truffaldina, ma ingegnosa, un giro di parole ingegnoso e bizzarro, un raggiro fuorviante, un pretesto etc.
Il napoletano per tali necessità à parecchie voci ed ognuna piú circostanziata ed esattamente coniata per indicare con maggior precisione ognuna delle suaccennate occorrenze; tento qui di sèguito di elencare tali voci partenopee dandone, ove possibile, l’etimo ed il preciso campo d’applicazione; cominciamo:
allefrecaglia/arrefrecaglia che nel significato di giro di parole ingegnoso e bizzarro, sono ambedue ampliamento di lefrecaglia deverbale del basso latino *refragare = cavillare, sminuzzare etc.;
ciaranfa che nel significato di discorso astruso e lambiccato, noiosamente ripetitivo trova il suo etimo nell’adattamento popolare della voce ciaraffa che di per sé (con provenienza dall’arabo giarif) indica una moneta sonante, ma di poco valore e semanticamente la cosa si spiega col fatto che come la moneta ciaraffa è sonante,sí ma in realtà di poco valore, cosí la ciaranfa quale discorso astruso e lambiccato, noiosamente ripetitivo, produce solo rumore, ma non significante e quindi senza valore;
‘mbròglia s.vo f.le è una fantasticheria intrisa di parole eccedenti, un pretesto lungamente... diluito di chiacchiere tendenti al raggiro ed è quanto all’etimo un deverbale di ‘mbruglià= imbrogliare che a sua volta è dal fr. ant. brouiller 'mescolare, confondere', deriv. di brou 'brodo' e semanticamente si spiega essendo – come ò detto – la ‘mbroglia null’altro che una sequela di parole eccedenti, un pretesto di chiacchiere diluite tali quale un brodo;
nzànzera s.vo f.le sinonimo del precedente in quanto sciocchezza profferita in modo chiassoso, fandonia eclatante tendente al raggiro, frottola mistificatrice in uso tra compagni di baldoria, menzogna, panzana, balla propalata al fine di far ricadere su altri componenti la mala brigata le spese per il divertimento da sostenere o sostenute o le respensabilità di azioni comuni; etimologicamente è voce costruita ponendo in posizione protetica una n eufonica (che non derivando dall’aferesi di un in→’n non necessita di alcun segno diacritico (‘)) al s.vo del basso lat.zingiber→zanz(ib)er→zanzera→nzanzera (che diede anche zenzero = radice dall’aroma piccante) semanticamente da accostarsi per il gusto pepato, caustico che connota sia la radice che figuratamente la sciocchezza profferita in modo chiassoso, la fandonia eclatante, la frottola mistificatrice mistificatrice.
pagliettaría s.vo f.le è precisamente il cavillo, l’ espediente dialettico, la trovata quasi sempre truffaldina, ma ingegnosa, azioni che di per sé son tutte riconducibili al modo di agire dei cosiddetti paglietta voce singolare maschile che indica un avvocatucolo,un leguleio cavilloso, ma inesperto e spesso truffaldino; letteralmente la voce a margine parrebbe essere un diminutivo vezzeggiativo di paglia e come tale femminile, mentre in realtà è – come ò detto- voce singolare maschile (‘o paglietta) nei significati detti ed è voce che al plurale va scritta correttamente ‘e pagliette, mentre scritta con la geminazione iniziale: ‘e ppagliette torna ad esser femminile indicando i tipici cappelli di paglia, solitamente usati dagli uomini) e va letta con la geminazione iniziale della p; scritta però, come ò detto, con la iniziale p scempia: ‘e pagliette, la medesima voce plurale di paglietta è maschile e per chiaro traslato o sineddoche indica appunto avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti quegli stessi cioè che ad inizio del 1900 usavano indossare a mo’ di divisa comune una paglietta (cappello di paglia (donde il nome, partendo da un lat. palea(m)) da uomo, con cupolino alto, in foggia di tamburo, bordato di nastro di seta, ampia e piatta tesa rigida il tutto rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, in ispecie nella bella stagione, pagliette di color chiaro; e con questa spiegazione penso d’aver fatto giustizia sommaria del parere di qualcuno (ma non ne ricordo il nome…né meriterebbe d’esser rammentato ) che fantasiosamente fa risalire il termine paglietta inteso, come riportato, quale avvocatucolo, leguleio cavilloso, ma inesperto e truffaldino all’ampia gorgiera rigida indossata sulle toghe dagli avvocati d’antan; ora atteso che la gorgiera fu colletto plissettato ed inamidato indossato da talune categorie di notabili in epoca cinquecentesca e seicentesca,e poi definitivamente dismesso, mentre il tipo paglietta inteso avvocatucolo etc. è figura del tardo ‘800 – principî ‘900, non vedo dove (se non presso un costumista tearale) un avvocatucolo del tardo ‘800 o dei primi del ‘900 avrebbe potuto reperire una gorgiera inamidata e plissettata da indossare sulla toga...
da paglietta con aggiunta del suffisso di pertinenza ria si è giunto a pagliettaría voce che per sua fortuna è rimasta nell’àmbito della parlata napoletana e non è pervenuto in quello della lingua italiana dove è pur presente la voce paglietta nel significato di avvocatucolo etc.; ò detto per sua fortuna poi che se la voce pagliettaría fosse approdata nel dialetto di alighieri dante sarebbe stata certamente stravolta in pagliettería= azione o comportamento da paglietta subendo lo stesso trattamento della voce partenopea fessaría che pervenuta nell’italiano divenne fessería assumendo una inesatta e chiusa e non etimologica al posto della esatta aperta a forse nella sciocca convinzione che una vocale chiusa fosse piú consona di una aperta alla eleganza (?) della lingua nazionale;
raciàmmulo s.vo m.le voce singolare maschile usata per indicare un giro di parole ingegnoso e bizzarro e fuorviante che miri a nascondere verità altrimenti palesi; etimologicamente è un derivato del tardo latino *racimulus, diminutivo per il class. racímus; =gracimolo,ciascun rametto di un grappolo d'uva; piccolo grappolo d'uva; semanticamente si spiega col fatto che come il gracimolo si nasconde tra i pampini e copre a sua volta gli acini del grappolo, cosí il raciàmmulo tenta di non far apparire, nascondendole con giri di parole, talune verità altrimenti palesi;
scazzella s.vo m.le voce singolare maschile (a malgrado della desinenza in a) usata esattamente per indicare non l’azione cavillosa, pretestuosa, capziosa quando non litigiosa, ma per indicare colui che agisca e si esprima cavillosamente, pretestuosamente, capziosamente; in effetti la parola a margine (‘o scazzella) risulta essere etimologicamente una contrazione del termine scazzazella a sua volta formato dal verbo scazzà/scazzecà= schiacciare, scacciare, sommuovere (da una base di lat. reg. s(intensivo) + capticare frequentativo di captiare= cacciare) + il sost. zella =tigna, debito, magagna, imbroglio (da un lat. reg. psilla(m)); va da sé che chi schiaccia, smuove i residui della tigna lo fa in maniera attenta, cavillosa, pretestuosa alla medesima maniera di chi tenti di schiacciare, scacciare, sommuovere un debito o magagna;
tràstula s.vo f.le sostantivo femm. sing. usato per indicare un generico trucco e/o inganno; in realtà come deverbale di trastulià (che letteralmente è il porre in essere innocenti giochini o inganni da saltimbanchi) la voce a margine solo estensivamente indica ogni altro inganno teso ad imbrogliare, raggirare etc; ad un superficiale esame potrebbe sembrare che il verbo napoletano trastulià donde la derivata tràstula sia un adattamento del toscano trastullare; non è cosí però; è vero che ambedue i verbi, l’italiano ed il napoletano, partono da un comune latino transtum che fu in origine il banco cui erano assisi i rematori delle galee romane, per poi divenire i banchi su cui si esibivano i saltimbanchi con i loro trucchi ed inganni detti in napoletano trastule e chi li eseguiva fu il trastulante passato in seguito a definir semplicemente l’imbroglione , ma mentre l’italiano trastullare è usato nel ridotto significato di dilettare con giochini i bambini, il napoletano trastulià à il piú duro significato di mettere in atto trucchi ed inganni, e non per divertire i bambini, quanto per ledere gli adulti;
Giunti a questo punto rammenterò che tutte le voci che ò elencate furono usate negli scrittori partenopei (poeti, drammaturghi etc.) a far tempo dal 1400 con eccezione di quelle nate (ad. es. pagliettaría) in epoche successive. C’è una sola voce che non à trovato posto nei reperti letterarii, ma è rimasta a far tempo dal 1940 circa, nel parlato popolare ed ancora vi permane ben salda avendo soppiantato quasi tutte le voci elencate fin qui con le sole eccezioni di ‘mbroglia e tràstula; la voce è
paraustiello s.vo m.le voce singolare maschile nata in origine in senso positivo per significare esempio, spiegazione ma che à finito per prendere il senso negativo di ragionamento caustico, capzioso, pretestuoso cavillo, metafora maliziosa e furbesca, appiglio gratuito, arbitrario, infondato, fittizio, esempio, ma ad usum delphini, argomentazione tortuosa etc. Quanto all’etimologia ancòra c’è qualcuno che sulla scorta del primo significato di esempio, spiegazione propende per l’iberico para usted (per voi) quasi che con la parola paraustiello si volesse avvertire: tutto ciò che abbiamo detto è stato un esempio portato per voi. La cosa non convince soprattutto perché il paraustiello fin quasi dal suo apparire non fu usato solo nel senso positivo di esempio, spiegazione ma prese quasi súbito nell’uso del discorrere popolare (come ò detto) il senso negativo di ragionamento caustico, capzioso, metafora maliziosa e furbesca, appiglio gratuito, arbitrario, infondato, fittizio,argomentazione tortuosa e dunque mi pare corretto pensare per l’etimo di paraustiello ad un adattamento del greco paràstasis che vale giustappunto ragionamento, metafora, argomentazione.
zellemmo s.vo m.le ma usato nella quasi totalità dei casi solo al pl. zellemme nel significato di pretesti, cavilli, scuse, sofisticherie quasi innominabili e da celare; etimologicamente la voce è un derivato di zella (da un lat. regionale (p)silla(m) dal greco psilòs =nudo, calvo; il raddoppiamento della liquida nel latino regionale è d’origine popolare) cui è stato aggiunto il suffisso emmo←immo suffisso in genere di chiaro sapore dispregiativo o riduttivo ma talora anche, come in questo caso, intensivo , suffisso probabilmente coniato su di un latino: ime(n) con successivo raddopiamento rafforzativo della emme fino a giungere ad immo o imma.
Ed a questo punto penso d’avere esaurito l’argomento, d’aver contentato l’amico N.C.e qualche altro dei miei ventiquattro lettori e poter ben dire Satis est.
Raffaele Bracale
SE FRUSCIA PINTAURO ETC.
SE FRUSCIA PINTAURO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO. variante: SE FRUSCIA PANTUSCO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO.
Ad litteram: Si vanta (a torto) Pintauro delle (sue) sfogliatelle (che invece risultano) inacidite; nella variante, il cognome Pintauro, ( che come chiarirò fu quello del piú famoso pasticciere napoletano principale produttore, se non ideatore, di sfogliatelle (fra i piú tipici e rinomati dolci partenopei) fu sostituito con il nome di fantasia Pantusco, per non incorrere con l’espressione in epigrafe, nelle ire del sig. Pintauro che si vedeva messo in ridicolo e punto sul vivo in ciò ch’egli riteneva tra le sue migliori capacità: quella di sfornare ottime sfogliatelle che normalmente erano freschissime e gustose e non certo inacidite, come si tentava di far credere. Locuzione popolarissima usata a sapido, anzi sarcastico commento delle azioni di chi, supponente ed arrogante, si glori, vantandosi a spropositodel proprio operato che – lungi dall’esser commendevole – è in realtà di segno opposto. Nella stesura della locuzione, di origine popolare si prese a riferimento dapprima il dolciere Pasquale Pintauro, che – come vedremo – aveva fatto le sue fortune commerciali fabbricando un dolce diventato poi famosissimo, la cui ricetta originaria (e lo vedremo) gli era stata forse suggerita da una sua anziana congiunta, monaca nel monastero di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini nelle cui cucine era stata casualmente inventata la santarosa tronfia antenata della sfogliatella. Successivamente, forse a causa delle rimostranze di P.Pintauro che vedeva coinvolto il suo nome in una locuzione negativa, si mutò il nome di Pintauro (personaggio reale ed esistente) in quello di un inventato di Pantusco che, d’altro canto, storicamente nulla aveva a che spartire (né poteva essendo persona inesistente) con la sfogliatella. E di quest’ultima tracciamo ora brevemente una storia. Comincerò col dire che, come è intuibile, ogni dolce à una sua storia. A volte faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata. La storia della sfogliatella appartiene fortunatamente alla prima categoria. L’antenata sfogliatella, dolce tipicamente partenopeo nacque (sia pure con un nome diverso) come spesso accadde per tanti dolci napoletani in un monastero: quello di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In quel riservato luogo ci si dedicava tantissimo alla preghiera, allo studio ed al lavoro manuale; il poco tempo libero residuo, (non potendo le monache intrattener rapporti con il mondo esterno…) veniva speso in cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il loro orto e la loro vigna, sí da ridurre al minimo i contatti con l’esterno, ed aumentare, con la preghiera, quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menú servito a refettorio era ovviamente uguale per tutte; soltanto le monache piú anziane potevano godere di un vitto speciale, fatto di semplici, ma nutrienti minestrine. Avvenne cosí che un giorno di tanto tempo fa (siamo nel 1600) la suora addetta alla cucina si accorse che in un tegame era avanzata un po’ di semola cotta nel latte, preparata per una vecchia suora sdentata; buttarla sarebbe stato un sacrilegio. Fu cosí che, come ispirata dal Cielo , la suora cuciniera vi cacciò dentro un paio di uova, due o tre cucchiai di ricotta, un po’ di frutta secca tritata , dello zucchero e del liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”, disse fra sé e sé. Ma da metter dentro a che cosa? La fantasia non le mancava e risolse súbito il problema: preparò con uova e farina due sfoglie di una sorta di pasta frolla sagomandole in forma di conchiglia vi aggiunse strutto e vino bianco, e vi sistemò nel mezzo il ripieno. Poi,sigillate con un po’ d’uovo battuto le due sfoglie per soddisfare il suo gusto estetico,lavorò alquanto con le mani unte di strutto la conchiglia ripiena dandole la definitiva forma di un cappuccio di monaca, ed infornò il tutto. A cottura ultimata, guarní il dolce con un cordone di crema pasticciera e delle amarene candite. La Madre Superiora, a cui per prima fu ammannito il dolce, sulle prime lo annusò , e súbito dopo (non si è Madri superiore indarno o per caso!...) fiutò l’affare: con quell’invenzione benedetta (e soprattutto saporita) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse del convento. La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce poteva esser messo nella classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci avessero messo (in entrata), qualche moneta. Al dolce venne assegnato ovviamente , il nome della Santa a cui era dedicato il convento. Come tutti i doni di Dio, la santarosa non poteva restare confinata in un sol luogo, per la gioia di pochi. Occorse del tempo, ma poi il dolce divenne noto in tutto il napoletano; in effetti la santarosa impiegò circa centocinquant’anni per percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui vi arrivò ai primi del 1800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro, nipote di una delle monache del convento amalfitano. I napoletani d’antan potrebbero opporre che Pintauro fu un pasticciere, e non un oste. Eppure al tempo di cui stiamo parlando, P.Pintauro era effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di fronte alla strada di Santa Brigida. La bottega di P.Pintauro rimase un’osteria fino al 1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso, probabilmente come grazioso dono della sua zia monaca che gliene parlò in articulo mortis, della ricetta originale della santarosa. Fu cosí che Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertí in un laboratorio dolciario, dove si produssero con le sfogliatelle anche altri dolci pare d’invenzione dello stesso Pintauro: zeppole di san Giuseppe, code d’aragoste ,babà con l’uvetta e naturalmente tutti gli altri dolci della tradizione partenopea, nati quasi tutti nei monasteri femminili napoletani e/o della provincia o copiati da altri famosi dolcieri come nel caso del diplomatico e del ministeriale . Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la modificò alquanto: mantenne la doppia sfoglia di pasta frolla arricchita, ma eliminò la crema pasticciera e l’amarena, e ne mutò leggermente la forma che non fu piú di conchiglia triangolare, ma quasi rotonda sia pure con una base diritta: era nata la sfogliatella; successivamente affiancò alla sfogliatella di pasta frolla una seconda varietà che presto diventò addirittura piú famosa della consorella,cioè la cosiddetta “riccia”,fatta di pasta sfoglia e necessaria d’una particolare lavorazione sulla quale non mi dilungo.Da allora nulla è cambiato e la sfogliatella riccia mantiene inalterata la sua forma triangolare, a conchiglia, vagamente rococò. Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli, con gran soddisfazione. Se si cerca l’eccellenza però,accanto alla bottega dei F.lli Attanasio al vico Ferrovia (che sull’insegna e la carta intestata scrive Napule tre ccose tene ‘e bbello: ‘o mare, ‘o Vesuvio e ‘e sfugliatelle bisogna cercare la bottega di Pintauro che è ancòra là a Toledo: à cambiato gestione, ma non à cambiato il nome e neppure l’insegna, e tanto meno la qualità. Che resta quella di quasi duecento anni or sono e da allora si continua imperterriti a sfornare saporitissime e godibilissime sfogliatelle ricce o frolle, nonché in onore della tradizione (spesso però solo su richiesta) delle tronfie santarose che però son solo di pasta sfoglia.
se fruscia = si vanta, si pavoneggia, si gloria voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) del riflessivo frusciarse da fruscià/frusciare che con etimo dal b.latino frustiare sta per fare in pezzi, sciupare, consumare; i significati estensivi di vantarsi, gloriarsi, pavoneggiarsi del riflessivo frusciarse sono da collegarsi con un po’ di fatica in quanto la strada da percorrere è impervia, al significato primo del riflessivo che è affaccendarsi in qlc., facendo mostra del proprio impegno. Pintauro: Come abbiamo visto si tratta dell’oste, poi pasticciere (sfogliatelle,santarose, zeppole di san Giuseppe, code di aragoste ed altri dolci) Pasquale Pintauro che ebbe dapprima osteria e poi pasticceria in un piccolo antichissimo locale sito in Napoli alla via Toledo; di tale oste/dolciere mancano precise note biografiche; la tradizione vuole che fosse il nipote d’una monaca di clausura, che – come ò détto – gli forní, in punto di morte, la ricetta della santarosa da cui l’oste ricavò la sfogliatella.
Pantusco inesistente personaggio il cui nome inventato dal popolino venne usato per sostituire l’originario Pintauro che s’era adontato sentondosi ingiustamente chiamato ironicamente in causa, con la prima locuzione in esame, come produttore di dolci non freschissimi.
sfugliatelle = sfogliatelle s.vo f.le pl. di sfugliatella piccolo, gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di semola, uova e ricotta, canditi e spezie varie; etimologicamente è un derivato di sfoglia→sfogliata→sfogliatella.
jute= andate voce verbale (part. pass. femm.plur.) dell’infinito jí= andare dal lat. ire.
acito= aceto s.vo m.le prodotto della fermentazione del vino o di altri liquidi alcolici, usato come condimento, nella conservazione di prodotti alimentari e in farmacia; (etimo dal lat. acitu(m)); l’espressione jí acito vale inacidire, andare a male ed è detto soprattutto dei cibi che, o perché confezionati con ingredienti non freschissimi o perché mal conservati o esposti ad improprî agenti atmosferici, perdono l’originario sapore e diventano acidi, rovinandosi tanto da non esser piú commestibili; in senso estensivo e traslato l’espressione può essere usata anche nei riguardi di situazioni interpersonali che, per svariati motivi, si logorano perdendo l’originaria freschezza fino a determinare la interruzione di quei rapporti logorati.
Raffaele Bracale
Ad litteram: Si vanta (a torto) Pintauro delle (sue) sfogliatelle (che invece risultano) inacidite; nella variante, il cognome Pintauro, ( che come chiarirò fu quello del piú famoso pasticciere napoletano principale produttore, se non ideatore, di sfogliatelle (fra i piú tipici e rinomati dolci partenopei) fu sostituito con il nome di fantasia Pantusco, per non incorrere con l’espressione in epigrafe, nelle ire del sig. Pintauro che si vedeva messo in ridicolo e punto sul vivo in ciò ch’egli riteneva tra le sue migliori capacità: quella di sfornare ottime sfogliatelle che normalmente erano freschissime e gustose e non certo inacidite, come si tentava di far credere. Locuzione popolarissima usata a sapido, anzi sarcastico commento delle azioni di chi, supponente ed arrogante, si glori, vantandosi a spropositodel proprio operato che – lungi dall’esser commendevole – è in realtà di segno opposto. Nella stesura della locuzione, di origine popolare si prese a riferimento dapprima il dolciere Pasquale Pintauro, che – come vedremo – aveva fatto le sue fortune commerciali fabbricando un dolce diventato poi famosissimo, la cui ricetta originaria (e lo vedremo) gli era stata forse suggerita da una sua anziana congiunta, monaca nel monastero di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini nelle cui cucine era stata casualmente inventata la santarosa tronfia antenata della sfogliatella. Successivamente, forse a causa delle rimostranze di P.Pintauro che vedeva coinvolto il suo nome in una locuzione negativa, si mutò il nome di Pintauro (personaggio reale ed esistente) in quello di un inventato di Pantusco che, d’altro canto, storicamente nulla aveva a che spartire (né poteva essendo persona inesistente) con la sfogliatella. E di quest’ultima tracciamo ora brevemente una storia. Comincerò col dire che, come è intuibile, ogni dolce à una sua storia. A volte faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata. La storia della sfogliatella appartiene fortunatamente alla prima categoria. L’antenata sfogliatella, dolce tipicamente partenopeo nacque (sia pure con un nome diverso) come spesso accadde per tanti dolci napoletani in un monastero: quello di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In quel riservato luogo ci si dedicava tantissimo alla preghiera, allo studio ed al lavoro manuale; il poco tempo libero residuo, (non potendo le monache intrattener rapporti con il mondo esterno…) veniva speso in cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il loro orto e la loro vigna, sí da ridurre al minimo i contatti con l’esterno, ed aumentare, con la preghiera, quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menú servito a refettorio era ovviamente uguale per tutte; soltanto le monache piú anziane potevano godere di un vitto speciale, fatto di semplici, ma nutrienti minestrine. Avvenne cosí che un giorno di tanto tempo fa (siamo nel 1600) la suora addetta alla cucina si accorse che in un tegame era avanzata un po’ di semola cotta nel latte, preparata per una vecchia suora sdentata; buttarla sarebbe stato un sacrilegio. Fu cosí che, come ispirata dal Cielo , la suora cuciniera vi cacciò dentro un paio di uova, due o tre cucchiai di ricotta, un po’ di frutta secca tritata , dello zucchero e del liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”, disse fra sé e sé. Ma da metter dentro a che cosa? La fantasia non le mancava e risolse súbito il problema: preparò con uova e farina due sfoglie di una sorta di pasta frolla sagomandole in forma di conchiglia vi aggiunse strutto e vino bianco, e vi sistemò nel mezzo il ripieno. Poi,sigillate con un po’ d’uovo battuto le due sfoglie per soddisfare il suo gusto estetico,lavorò alquanto con le mani unte di strutto la conchiglia ripiena dandole la definitiva forma di un cappuccio di monaca, ed infornò il tutto. A cottura ultimata, guarní il dolce con un cordone di crema pasticciera e delle amarene candite. La Madre Superiora, a cui per prima fu ammannito il dolce, sulle prime lo annusò , e súbito dopo (non si è Madri superiore indarno o per caso!...) fiutò l’affare: con quell’invenzione benedetta (e soprattutto saporita) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse del convento. La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce poteva esser messo nella classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci avessero messo (in entrata), qualche moneta. Al dolce venne assegnato ovviamente , il nome della Santa a cui era dedicato il convento. Come tutti i doni di Dio, la santarosa non poteva restare confinata in un sol luogo, per la gioia di pochi. Occorse del tempo, ma poi il dolce divenne noto in tutto il napoletano; in effetti la santarosa impiegò circa centocinquant’anni per percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui vi arrivò ai primi del 1800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro, nipote di una delle monache del convento amalfitano. I napoletani d’antan potrebbero opporre che Pintauro fu un pasticciere, e non un oste. Eppure al tempo di cui stiamo parlando, P.Pintauro era effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di fronte alla strada di Santa Brigida. La bottega di P.Pintauro rimase un’osteria fino al 1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso, probabilmente come grazioso dono della sua zia monaca che gliene parlò in articulo mortis, della ricetta originale della santarosa. Fu cosí che Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertí in un laboratorio dolciario, dove si produssero con le sfogliatelle anche altri dolci pare d’invenzione dello stesso Pintauro: zeppole di san Giuseppe, code d’aragoste ,babà con l’uvetta e naturalmente tutti gli altri dolci della tradizione partenopea, nati quasi tutti nei monasteri femminili napoletani e/o della provincia o copiati da altri famosi dolcieri come nel caso del diplomatico e del ministeriale . Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la modificò alquanto: mantenne la doppia sfoglia di pasta frolla arricchita, ma eliminò la crema pasticciera e l’amarena, e ne mutò leggermente la forma che non fu piú di conchiglia triangolare, ma quasi rotonda sia pure con una base diritta: era nata la sfogliatella; successivamente affiancò alla sfogliatella di pasta frolla una seconda varietà che presto diventò addirittura piú famosa della consorella,cioè la cosiddetta “riccia”,fatta di pasta sfoglia e necessaria d’una particolare lavorazione sulla quale non mi dilungo.Da allora nulla è cambiato e la sfogliatella riccia mantiene inalterata la sua forma triangolare, a conchiglia, vagamente rococò. Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli, con gran soddisfazione. Se si cerca l’eccellenza però,accanto alla bottega dei F.lli Attanasio al vico Ferrovia (che sull’insegna e la carta intestata scrive Napule tre ccose tene ‘e bbello: ‘o mare, ‘o Vesuvio e ‘e sfugliatelle bisogna cercare la bottega di Pintauro che è ancòra là a Toledo: à cambiato gestione, ma non à cambiato il nome e neppure l’insegna, e tanto meno la qualità. Che resta quella di quasi duecento anni or sono e da allora si continua imperterriti a sfornare saporitissime e godibilissime sfogliatelle ricce o frolle, nonché in onore della tradizione (spesso però solo su richiesta) delle tronfie santarose che però son solo di pasta sfoglia.
se fruscia = si vanta, si pavoneggia, si gloria voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) del riflessivo frusciarse da fruscià/frusciare che con etimo dal b.latino frustiare sta per fare in pezzi, sciupare, consumare; i significati estensivi di vantarsi, gloriarsi, pavoneggiarsi del riflessivo frusciarse sono da collegarsi con un po’ di fatica in quanto la strada da percorrere è impervia, al significato primo del riflessivo che è affaccendarsi in qlc., facendo mostra del proprio impegno. Pintauro: Come abbiamo visto si tratta dell’oste, poi pasticciere (sfogliatelle,santarose, zeppole di san Giuseppe, code di aragoste ed altri dolci) Pasquale Pintauro che ebbe dapprima osteria e poi pasticceria in un piccolo antichissimo locale sito in Napoli alla via Toledo; di tale oste/dolciere mancano precise note biografiche; la tradizione vuole che fosse il nipote d’una monaca di clausura, che – come ò détto – gli forní, in punto di morte, la ricetta della santarosa da cui l’oste ricavò la sfogliatella.
Pantusco inesistente personaggio il cui nome inventato dal popolino venne usato per sostituire l’originario Pintauro che s’era adontato sentondosi ingiustamente chiamato ironicamente in causa, con la prima locuzione in esame, come produttore di dolci non freschissimi.
sfugliatelle = sfogliatelle s.vo f.le pl. di sfugliatella piccolo, gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di semola, uova e ricotta, canditi e spezie varie; etimologicamente è un derivato di sfoglia→sfogliata→sfogliatella.
jute= andate voce verbale (part. pass. femm.plur.) dell’infinito jí= andare dal lat. ire.
acito= aceto s.vo m.le prodotto della fermentazione del vino o di altri liquidi alcolici, usato come condimento, nella conservazione di prodotti alimentari e in farmacia; (etimo dal lat. acitu(m)); l’espressione jí acito vale inacidire, andare a male ed è detto soprattutto dei cibi che, o perché confezionati con ingredienti non freschissimi o perché mal conservati o esposti ad improprî agenti atmosferici, perdono l’originario sapore e diventano acidi, rovinandosi tanto da non esser piú commestibili; in senso estensivo e traslato l’espressione può essere usata anche nei riguardi di situazioni interpersonali che, per svariati motivi, si logorano perdendo l’originaria freschezza fino a determinare la interruzione di quei rapporti logorati.
Raffaele Bracale
mercoledì 29 settembre 2010
UN’ANTICA PAROLA NAPOLETANA: SCAMUSO
UN’ANTICA PAROLA NAPOLETANA: SCAMUSO
Antico, icastico aggettivo dell’ idioma napoletano presente in tutti i dizionarii d’antan dal D’Ambra al P.P.Volpe, all’Andreoli e riscontrabile negli scritti di autori dal ‘600 alla fine dell’ ‘800 e poi non piú ritrovato negli autori piú moderni, sebbene ancóra vivo nel parlato soprattutto del popolo della città bassa, aggettivo riferito con piccole differenze sia a soggetti animati che inanimati;
riferito a soggetti animati e piú precisamente a persone significa in italiano: rozzo, grossolano, rustico,grezzo, scostante e per ampiamento semantico si disse di persona magra ed allampanata;
riferito a cose inanimate(stoffe e/o oggetti ) vale nell’italiano: ruvido,squamoso,irto;
riferito infine a negozio o bottega indica un locale rustico,malmesso,trasandato.
Prima di soffermarci su scamuso
esaminiamo i singoli significati dell’italiano:
rozzo: agg. 1 si dice di cosa ancora ruvida, non ben levigata o rifinita: pietra rozza; lana rozza, grezza; muro rozzo, non intonacato | (estens.) non finito di lavorare, ancora in abbozzo: mobile, disegno rozzo
2 (fig.) non ingentilito, non raffinato, non dirozzato: un uomo rozzo; parole rozze; una civiltà ancora rozza | sgarbato, maleducato: avere modi molto rozzi
deriva dal lat. volg. *rudius, compar. neutro di rudis; cfr. rude;
grossolano: agg. 1 poco fine, di esecuzione poco accurata; ordinario, dozzinale: una stoffa grossolana; un lavoro grossolano
2 approssimativo, non preciso: un conto grossolano
3 di modi volgari e poco raffinati, di scarsa educazione: gente grossolana; un uomo grossolano; tenere un comportamento grossolano ' scherzi grossolani, volgari, di cattivo gusto | errore grossolano, enorme, marchiano;
derivato dal lat. tardo grossu(m) + il suff. di pertinenza aneus→ano ed epentesi eufonica del suono consonantico l;
rustico: agg. 1 di campagna: fondo rustico | stile rustico, che arieggia quello campagnolo | pizza rustica, pasticcio ripieno di formaggi, carne, salumi e aromi vari
2 (fig.) riferito a persona, poco socievole, scontroso, rozzo: un uomo dal carattere rustico; avere modi rustici | (estens.) semplice, alla buona: una cena rustica
3 detto di cose, grezzo, non rifinito: facciata rustica, senza intonaco;
deriva dal lat. rusticu(m), deriv. di rus ruris 'campagna'
grezzo: agg. 1 non lavorato né trattato: oro, diamante grezzo; lino, cotone, metallo grezzo | colore grezzo, colore greggio
2 (fig.) non elaborato, non perfezionato; primitivo; rozzo; materiale storico grezzo; una mente grezza; costumi grezzi.
deriva, come greggio di cui è variante, prob. dal lat. volg. *gregiu(m) 'del gregge (gre°x gre°gis)', cioè 'ordinario', in contrapposizione a egregi°us 'egregio, straordinario';
ruvido: agg. 1 che ha una superficie non levigata; scabro: pietra, pelle ruvida
2 (fig.) brusco, scontroso, poco cortese: un uomo ruvido; maniere ruvide | (lett.) rozzo, non rifinito;
l’etimo è dal lat. rugidu(m), propr. 'rugoso', deriv. di ruga 'grinza, ruga'
magro: agg. 1 si dice di persona, di animale o di parte del loro corpo avente scarso tessuto adiposo; scarno, secco: un uomo né grasso né magro; gambe magre; magro come un chiodo, come un'acciuga, magrissimo. DIM. magrino, magrolino, magretto
2 che non contiene grasso o ne contiene poco: brodo, prosciutto, latte, formaggio magro | cibi magri, poveri di grassi e calorie; anche, i cibi consentiti dalla chiesa cattolica nei giorni in cui è prescritta l'astinenza dalla carne | terreno magro, carente di sostanze azotate, quindi poco fertile | malta magra, con poco cemento o calce e molta sabbia
3 (fig.) povero, insufficiente, scarso;
l’etimo è dal lat. macru(m);
allampanato: agg. si dice di persona alta, ma magrissima e quindi sgraziata.
quanto all’etimo è un deverbale di allapanare che è derivato di lampana(s. f. (pop. tosc.)) 'lampada', col pref.rafforzativo a; propr. 'diventare simile a una lampada a petrolio che è stretta ed alta ;
squamoso: agg. fatto a squame; coperto di squame e quindi ruvido, scabroso: pelle squamosa;
l’etimo è dal lat. squamosu(m), deriv. di squama 'squama'
liscio: agg. 1 che non presenta asperità o diseguaglianze in superficie: pietra liscia; fucile a canna liscia, senza rigatura interna; velluto liscio, senza coste rilevate; pelle liscia, senza rughe; mare liscio, calmo, senza increspature; capelli lisci, non crespi, non ricci
2 (fig.) che non presenta difficoltà o complicazioni; semplice: la questione è meno liscia di quanto appaia | andar liscio, procedere senza intoppi o difficoltà: finora mi è andato tutto liscio | passarla liscia, cavarsela senza conseguenze negative
3 privo di ornamenti, di abbellimenti: un abito, un mobile liscio
4 (fig.) si dice di bevanda alcolica bevuta senza aggiunta di acqua, seltz o ghiaccio: un vermut liscio | tè liscio, senza latte né limone | caffè liscio, non corretto;
l’etimo è dal lat. volg. *lisiu(m), voce di orig. espressiva;
malmesso: o mal messo, agg. 1 si dice di chi porta vesti dimesse o di cattivo gusto
2 che rivela povertà o mancanza di cura, di buon gusto: una casa vecchia e malmessa | (fig.) che versa in difficili condizioni economiche o di salute: in questo periodo si trova piuttosto malmesso;
voce derivata dall’agglutinazione di male ( dal lat. male che è da malus) + messo = part. pass. di mettere (che è dal lat. mittere);
trasandato: agg. trascurato, sciatto: un uomo trasandato nel vestire; un modo di scrivere trasandato;
quanto all’etimo è il part. pass. di trasandare: trascurare, tralasciare, fare o tenere qualcosa con trascuratezza, verbo formato da tra(n)s+ andare.
E veniamo finalmente all’aggetivo napoletano scamuso del cui significato primo (malandato etc.) ò già détto e qui rammento che è aggettivo da numerosi sinonimi (sebbene alcuni derivati da un ampliamenti semantici quali acciaccuso, acciuppecuto, ammaturo, dellicato, iétteco malepatuto; mi occuperò in coda di tali sinonimi; affrontiamo ora l’etimologia di scamuso ed escludiamo súbito la facile ma fallace tentazione di un collegamento alla voce scamunéa/éja/era s.f. che con derivazione dal lat. *scammonia/scammonea che furono dal greco skammonía indicò in primis un’erba dal cui estratto si ricavava un purgante ed indicò poi (forse per un traslato espressivo) gente vile, bordaglia, unione di monelli e, piú genericamente, plebaglia, ma ognuno vede che semanticamente è difficile trovare il collegamento tra un’erba purgativa ed un vocabolo che vale malandato, messo male mal ridotto, malsano; ugualmente non mi sento di poter accettare l’idea di chi propone per scamuso un collegamento etimologico con squamoso (cfr. antea); è vero che il significato di squamoso nell’accezione di ruvido, irto può – all’incirca – valere il napoletano scamuso come è pure vero che il nesso latino qua dà spesso il napoletano ca (cfr. ad es. exquassare→scassare) pur tuttavia non mi sento di accogliere la proposta che presupporrebbe un transito di accostamento ad un vocabolo della lingua italiana, accostamenti che ò sempre bandito e non per un colpevole provincialismo, ma in nome di un’originaria derivazione di tutte le voci partenopee dagli antichi idiomi (latino, greco ed altro); d’altro canto nemmeno mi convice l’etimologia proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che lègge in scamuso una s intensiva che precede l’avverbio greco kamái = a terra ottenendo da skamái→scamuso; questa proposta, semanticamente mi appare troppo debole e morfomogicamente, sforzata con quell’unione di greco skamái con un suff. latino osus→oso→uso.
A questo punto non rimane che prender per buona l’antica idea che vede in scamuso una derivazione metaplasmatica dello spagnolo (e)scamocho che accanto al significato di avanzo e resto à pure quelli di persona magra, allampanata; d’altro canto nello spagnolo è anche vivo il verbo escamochar (guastare, sciupare) che à fornito altresí il verbo napoletano scamuscià/are nei significati di afflosciare, diventar floscio e/o senza forze.
E ciò detto non mi resta che illustrare i sinonimi che direttamente o per ampliamento semantico possono usarsi al posto di quello in epigrafe, quantunque normalmente gli aggettivi indicati qui di sèguito, sono da usarsi quasi esclusivamente per soggetti animati con riguardo ai loro fatti di salute. Abbiamo:
-acciaccuso agg.m. malaticcio, facile agli acciacchi, tormentato da continue malattie; quanto all’etimo è un derivato del verbo acciaccà= ammalarsi, buscarsi disturbi fisici, molto spesso, cronici; il verbo acciaccà donde acciaccuso è un denominale dello sp. achaque, che è dall'ar. (a)saka 'afflizione',
acciuppecuto agg.m. malaticcio, facile alle infermità, indebolito,accidentato; quanto all’etimo è un derivato del verbo acceppechí/irse=indebolirsi, illanguidirsi, intristire, contrarsi nelle membra per un malessere o per il freddo, verbo che a sua volta trae dal sost. cippus =ceppo con riferimento semantico al fatto che chi è debole, illanguidito ed intristito à atteggiamenti statici ed immoti tal quali un ceppo.
ammaturo, agg. m. letteralmente maturo, giunto a maturazione, anziano, invecchiato e per ampliamento semantico: persuaso, convinto poco a poco, che abbia messo giudizio; si dice anche di ascesso che giunga a suppurazione, di raffreddore in via di soluzione; figuratamente e nel senso che ci occupa vale: colpito, percosso, conciato per le feste, messo male; etimologicamente la voce a margine è una contrazione di ammaturato part. pass. di ammaturà che è dal lat. *ad +maturare,
dellicato agg. m. letteralmente delicato, facile a guastarsi, ad alterarsi,ed estensivamente gracile, cagionevole; quanto all’etimo deriva dal lat. delicatu(m), da delicere= allettare, . influenzato dal pl. delici°ae 'delizia'
jétteco agg. m. letteralmente tisico, etico ,e quindi estensivamente privo di rigoglio, debole, gracile, cagionevole; dal gr. hektikós "abituale, continuo", come attributo di pyretós "febbre"] con dittongazione ie della e intesa breve e successivo passaggio del gruppo hie a je ed assimilazione regressiva della dentale t,
malepatuto agg. m. letteralmente patito, di salute estremamente malandato, gracile, cagionevole;etimologicamente è il part. pass. del verbo malepaté/malepàtere = soffrire , patire molto - verbo rafforzativo nel peggio (attraverso l’agglutinazione dell’avv. male= malamente) di un originario tardo lat. *patire per il class. pati.
E penso con ciò di avere esaurito l’argomento, per cui reputo di poter far punto qui, dicendo satis est.
raffaele bracale
Antico, icastico aggettivo dell’ idioma napoletano presente in tutti i dizionarii d’antan dal D’Ambra al P.P.Volpe, all’Andreoli e riscontrabile negli scritti di autori dal ‘600 alla fine dell’ ‘800 e poi non piú ritrovato negli autori piú moderni, sebbene ancóra vivo nel parlato soprattutto del popolo della città bassa, aggettivo riferito con piccole differenze sia a soggetti animati che inanimati;
riferito a soggetti animati e piú precisamente a persone significa in italiano: rozzo, grossolano, rustico,grezzo, scostante e per ampiamento semantico si disse di persona magra ed allampanata;
riferito a cose inanimate(stoffe e/o oggetti ) vale nell’italiano: ruvido,squamoso,irto;
riferito infine a negozio o bottega indica un locale rustico,malmesso,trasandato.
Prima di soffermarci su scamuso
esaminiamo i singoli significati dell’italiano:
rozzo: agg. 1 si dice di cosa ancora ruvida, non ben levigata o rifinita: pietra rozza; lana rozza, grezza; muro rozzo, non intonacato | (estens.) non finito di lavorare, ancora in abbozzo: mobile, disegno rozzo
2 (fig.) non ingentilito, non raffinato, non dirozzato: un uomo rozzo; parole rozze; una civiltà ancora rozza | sgarbato, maleducato: avere modi molto rozzi
deriva dal lat. volg. *rudius, compar. neutro di rudis; cfr. rude;
grossolano: agg. 1 poco fine, di esecuzione poco accurata; ordinario, dozzinale: una stoffa grossolana; un lavoro grossolano
2 approssimativo, non preciso: un conto grossolano
3 di modi volgari e poco raffinati, di scarsa educazione: gente grossolana; un uomo grossolano; tenere un comportamento grossolano ' scherzi grossolani, volgari, di cattivo gusto | errore grossolano, enorme, marchiano;
derivato dal lat. tardo grossu(m) + il suff. di pertinenza aneus→ano ed epentesi eufonica del suono consonantico l;
rustico: agg. 1 di campagna: fondo rustico | stile rustico, che arieggia quello campagnolo | pizza rustica, pasticcio ripieno di formaggi, carne, salumi e aromi vari
2 (fig.) riferito a persona, poco socievole, scontroso, rozzo: un uomo dal carattere rustico; avere modi rustici | (estens.) semplice, alla buona: una cena rustica
3 detto di cose, grezzo, non rifinito: facciata rustica, senza intonaco;
deriva dal lat. rusticu(m), deriv. di rus ruris 'campagna'
grezzo: agg. 1 non lavorato né trattato: oro, diamante grezzo; lino, cotone, metallo grezzo | colore grezzo, colore greggio
2 (fig.) non elaborato, non perfezionato; primitivo; rozzo; materiale storico grezzo; una mente grezza; costumi grezzi.
deriva, come greggio di cui è variante, prob. dal lat. volg. *gregiu(m) 'del gregge (gre°x gre°gis)', cioè 'ordinario', in contrapposizione a egregi°us 'egregio, straordinario';
ruvido: agg. 1 che ha una superficie non levigata; scabro: pietra, pelle ruvida
2 (fig.) brusco, scontroso, poco cortese: un uomo ruvido; maniere ruvide | (lett.) rozzo, non rifinito;
l’etimo è dal lat. rugidu(m), propr. 'rugoso', deriv. di ruga 'grinza, ruga'
magro: agg. 1 si dice di persona, di animale o di parte del loro corpo avente scarso tessuto adiposo; scarno, secco: un uomo né grasso né magro; gambe magre; magro come un chiodo, come un'acciuga, magrissimo. DIM. magrino, magrolino, magretto
2 che non contiene grasso o ne contiene poco: brodo, prosciutto, latte, formaggio magro | cibi magri, poveri di grassi e calorie; anche, i cibi consentiti dalla chiesa cattolica nei giorni in cui è prescritta l'astinenza dalla carne | terreno magro, carente di sostanze azotate, quindi poco fertile | malta magra, con poco cemento o calce e molta sabbia
3 (fig.) povero, insufficiente, scarso;
l’etimo è dal lat. macru(m);
allampanato: agg. si dice di persona alta, ma magrissima e quindi sgraziata.
quanto all’etimo è un deverbale di allapanare che è derivato di lampana(s. f. (pop. tosc.)) 'lampada', col pref.rafforzativo a; propr. 'diventare simile a una lampada a petrolio che è stretta ed alta ;
squamoso: agg. fatto a squame; coperto di squame e quindi ruvido, scabroso: pelle squamosa;
l’etimo è dal lat. squamosu(m), deriv. di squama 'squama'
liscio: agg. 1 che non presenta asperità o diseguaglianze in superficie: pietra liscia; fucile a canna liscia, senza rigatura interna; velluto liscio, senza coste rilevate; pelle liscia, senza rughe; mare liscio, calmo, senza increspature; capelli lisci, non crespi, non ricci
2 (fig.) che non presenta difficoltà o complicazioni; semplice: la questione è meno liscia di quanto appaia | andar liscio, procedere senza intoppi o difficoltà: finora mi è andato tutto liscio | passarla liscia, cavarsela senza conseguenze negative
3 privo di ornamenti, di abbellimenti: un abito, un mobile liscio
4 (fig.) si dice di bevanda alcolica bevuta senza aggiunta di acqua, seltz o ghiaccio: un vermut liscio | tè liscio, senza latte né limone | caffè liscio, non corretto;
l’etimo è dal lat. volg. *lisiu(m), voce di orig. espressiva;
malmesso: o mal messo, agg. 1 si dice di chi porta vesti dimesse o di cattivo gusto
2 che rivela povertà o mancanza di cura, di buon gusto: una casa vecchia e malmessa | (fig.) che versa in difficili condizioni economiche o di salute: in questo periodo si trova piuttosto malmesso;
voce derivata dall’agglutinazione di male ( dal lat. male che è da malus) + messo = part. pass. di mettere (che è dal lat. mittere);
trasandato: agg. trascurato, sciatto: un uomo trasandato nel vestire; un modo di scrivere trasandato;
quanto all’etimo è il part. pass. di trasandare: trascurare, tralasciare, fare o tenere qualcosa con trascuratezza, verbo formato da tra(n)s+ andare.
E veniamo finalmente all’aggetivo napoletano scamuso del cui significato primo (malandato etc.) ò già détto e qui rammento che è aggettivo da numerosi sinonimi (sebbene alcuni derivati da un ampliamenti semantici quali acciaccuso, acciuppecuto, ammaturo, dellicato, iétteco malepatuto; mi occuperò in coda di tali sinonimi; affrontiamo ora l’etimologia di scamuso ed escludiamo súbito la facile ma fallace tentazione di un collegamento alla voce scamunéa/éja/era s.f. che con derivazione dal lat. *scammonia/scammonea che furono dal greco skammonía indicò in primis un’erba dal cui estratto si ricavava un purgante ed indicò poi (forse per un traslato espressivo) gente vile, bordaglia, unione di monelli e, piú genericamente, plebaglia, ma ognuno vede che semanticamente è difficile trovare il collegamento tra un’erba purgativa ed un vocabolo che vale malandato, messo male mal ridotto, malsano; ugualmente non mi sento di poter accettare l’idea di chi propone per scamuso un collegamento etimologico con squamoso (cfr. antea); è vero che il significato di squamoso nell’accezione di ruvido, irto può – all’incirca – valere il napoletano scamuso come è pure vero che il nesso latino qua dà spesso il napoletano ca (cfr. ad es. exquassare→scassare) pur tuttavia non mi sento di accogliere la proposta che presupporrebbe un transito di accostamento ad un vocabolo della lingua italiana, accostamenti che ò sempre bandito e non per un colpevole provincialismo, ma in nome di un’originaria derivazione di tutte le voci partenopee dagli antichi idiomi (latino, greco ed altro); d’altro canto nemmeno mi convice l’etimologia proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che lègge in scamuso una s intensiva che precede l’avverbio greco kamái = a terra ottenendo da skamái→scamuso; questa proposta, semanticamente mi appare troppo debole e morfomogicamente, sforzata con quell’unione di greco skamái con un suff. latino osus→oso→uso.
A questo punto non rimane che prender per buona l’antica idea che vede in scamuso una derivazione metaplasmatica dello spagnolo (e)scamocho che accanto al significato di avanzo e resto à pure quelli di persona magra, allampanata; d’altro canto nello spagnolo è anche vivo il verbo escamochar (guastare, sciupare) che à fornito altresí il verbo napoletano scamuscià/are nei significati di afflosciare, diventar floscio e/o senza forze.
E ciò detto non mi resta che illustrare i sinonimi che direttamente o per ampliamento semantico possono usarsi al posto di quello in epigrafe, quantunque normalmente gli aggettivi indicati qui di sèguito, sono da usarsi quasi esclusivamente per soggetti animati con riguardo ai loro fatti di salute. Abbiamo:
-acciaccuso agg.m. malaticcio, facile agli acciacchi, tormentato da continue malattie; quanto all’etimo è un derivato del verbo acciaccà= ammalarsi, buscarsi disturbi fisici, molto spesso, cronici; il verbo acciaccà donde acciaccuso è un denominale dello sp. achaque, che è dall'ar. (a)saka 'afflizione',
acciuppecuto agg.m. malaticcio, facile alle infermità, indebolito,accidentato; quanto all’etimo è un derivato del verbo acceppechí/irse=indebolirsi, illanguidirsi, intristire, contrarsi nelle membra per un malessere o per il freddo, verbo che a sua volta trae dal sost. cippus =ceppo con riferimento semantico al fatto che chi è debole, illanguidito ed intristito à atteggiamenti statici ed immoti tal quali un ceppo.
ammaturo, agg. m. letteralmente maturo, giunto a maturazione, anziano, invecchiato e per ampliamento semantico: persuaso, convinto poco a poco, che abbia messo giudizio; si dice anche di ascesso che giunga a suppurazione, di raffreddore in via di soluzione; figuratamente e nel senso che ci occupa vale: colpito, percosso, conciato per le feste, messo male; etimologicamente la voce a margine è una contrazione di ammaturato part. pass. di ammaturà che è dal lat. *ad +maturare,
dellicato agg. m. letteralmente delicato, facile a guastarsi, ad alterarsi,ed estensivamente gracile, cagionevole; quanto all’etimo deriva dal lat. delicatu(m), da delicere= allettare, . influenzato dal pl. delici°ae 'delizia'
jétteco agg. m. letteralmente tisico, etico ,e quindi estensivamente privo di rigoglio, debole, gracile, cagionevole; dal gr. hektikós "abituale, continuo", come attributo di pyretós "febbre"] con dittongazione ie della e intesa breve e successivo passaggio del gruppo hie a je ed assimilazione regressiva della dentale t,
malepatuto agg. m. letteralmente patito, di salute estremamente malandato, gracile, cagionevole;etimologicamente è il part. pass. del verbo malepaté/malepàtere = soffrire , patire molto - verbo rafforzativo nel peggio (attraverso l’agglutinazione dell’avv. male= malamente) di un originario tardo lat. *patire per il class. pati.
E penso con ciò di avere esaurito l’argomento, per cui reputo di poter far punto qui, dicendo satis est.
raffaele bracale
PIZZA NAPOLETANA
PIZZA NAPOLETANA
Questa volta – a rischio d’esser considerato un iconoclasta ed un incompetente – parlerò dell’argomento in epigrafe affermando (senza tema di smentita!) innanzitutto che è una bestemmia ritenere la cosiddetta pizza margherita ( copiata, ma non ideata nel 1889 da un pizzaiolo napoletano (ma, a mio avviso, indegno d’esser considerato partenopeo) tale Raffaele Esposito, attivo presso la pizzeria Brandi (alla salita Sant’Anna di Palazzo) che la dedicò alla regina Margherita di Savoia dandole il nome di "pizza Margherita" pizza che, nell’intento del malnato pizzaiolo tradendo il vecchio vessillo napoletano borbonico bianco con i gigli di Francia avrebbe dovuto rappresentare la nuova bandiera tricolore con il bianco della mozzarella, il rosso del pomidoro ed il verde del basilico.L’incolto Esposito, probabilmente a digiuno di storia patria, con l’omaggio fatto ai sovrani discendenti dell’usurpatore Vittorio Emanuele IISavoia-Carignano,fece sí una splendida operazione commerciale (la pizza margherita sarebbe diventata famosissima nel mondo), ma (oltre che macchiarsi di tradimento nei confronti dei vecchi regnanti Borbone), fece un’offesa gravissima nei confronti della tradizione partenopea, tradizione che voleva quali autentiche pizze napoletane le seguenti:
pizza marinara, pizza ‘nzogna e pummarole, pizza cu ‘cicenielle,pizza alla mastunnicola e, cazone ‘mbuttunato.
E l’Esposito non fu neppure originalissimo (perciò ò parlato di copia…);infatti già nel 1830, un non meglio identificato Riccio (di lui mancano precise notizie biografiche) nel libro Napoli, contorni e dintorni, aveva scritto di una pizza (quantunque poco usata) con pomodoro, mozzarella disposta, (su un disco di pasta già condita con il pomodoro), in maniera sagomata tale da da formare i varî petali quasi ovali di una margherita nonché il suo bottone centrale) e con del basilico disposto a mo’ da scimmiottare stelo e foglie della margherita; si trattava dunque di una pizza che comunque esulava da riferimenti storici e/o politici e la margherita non era dunque il nome della consorte del re savoiardo, quanto semplicemente quello del nome del fiore (di cui la mozzarella sagomata a mo’ di ovali, copiava la disposizione dei petali posti com’erano questi ovali a raggiera circolare intorno ad una sorta di bottone tondo che ripeteva il bottone centrale del fiore) ;della medesima pizza agghindata con una sorta di di margherita di mozzarella e basilico,già esistente nel 1849 scrisse anche Francesco De Bouchard nel 1866; dunque l’ Esposito fece una indegna, biasimevole furbata appropriandosi, a scopo ruffianesco, di qualcosa di dominio comune…
Giunti a questo punto facciamo un passo indietro e soffermiamoci ad illustrare i varii tipi delle autentiche pizze napoletane.
Cominciamo a soffermarci sul sostantivo pizza;
Pizza s.vo f.le
1 (gastr.) focaccia di pasta lievitata, dolce o salata: pizza rustica; pizza pasquale | per antonomasia, focaccia di forma molto schiacciata condita con olio, pomodoro e altri ingredienti; è una specialità in origine tipicamente napoletana, ma oggi diffusa ovunque: pizza margherita, marinara, quattro stagioni.
2 nel linguaggio cinematografico, la scatola piatta e circolare in cui si custodisce un rotolo di pellicola; per estens., la pellicola stessa
3 (fam. fig.) persona o cosa estremamente noiosa.
Quanto all’etimo della voce pizza qualcuno ipotizza ch’esso sia da collegarsi alla voce pita voce mediterranea e balcanica, di origine greca; secondo questa ipotesi la parola deriverebbe dall'ebraico פִּתָּה o פיתה, dall'arabo كماج o dal greco πίτα, da cui anche pita che appartiene alla stessa categoria di pane o focacce; qualche altro ipotizza una derivazione dal longob. bizzo 'morso, focaccia', ma io reputo piú esatta e logica una derivazione dal latino pinsam (placentam)→pizza (placentam)=focaccia schiacciata dal verbo pinsere=pigiare, schiacciare con ns→nz→zz per assimilazione regressiva)
A margine rammento che della pizza napoletana (sia pure in senso generico, come il piú usuale cibo popolare partenopeo) le prime notizie vengono fatte risalire al periodo che va dal 1715 al 1725 ad opera di un tal Vincenzo Corrado (Oria, 29 marzo 1738 – Napoli, 4 novembre 1836)celebre cuoco e letterato italiano. che alla metà del '700 scrisse un pregevole trattato sulle abitudini alimentari della città di Napoli,trattato in cui osservò come fosse costume del popolo condire la pizza ed i maccheroni con del pomodoro. In un certo senso quelle osservazioni del Corrado costituiscon quasi la data di nascita della pizza napoletana, un sottile disco di pasta condito dapprima con strutto pomodoro e formaggio e successivamente con altri ingredienti tra i quali l’olio d’oliva che sostituí lo strutto. Le prime pizzerie comparvero a Napoli nel corso del XIX secolo e fino alla metà del XX secolo esse furono un fenomeno esclusivo della città partenopea. A partire dalla seconda metà del '900 le pizzerie si sono diffuse ovunque nel mondo, quasi sempre all’insegna di PIZZA NAPOLETANA,termine spesso palesemente usurpato in quanto il piú delle volte chi conduceva quelle pizzerie non era napoletano né approntava autentiche pizze napoletane, ma le piú svariate schiacciate o focacce condite alla bell’ e meglio con i piú svariati ingredienti, anche i meno idonei! Rammenterò che la pizza, quale uno dei consueti nutrimenti popolari si conquistò un posto persino nella smorfia (cfr. alibi), dove è considerato sotto il numero 24 ed anche con moltissimi altri numeri, secondo come sia variamente condita, per cui avremo: p. napoletana – 2,p.dolce -36, p. rustica – 37, p. con sugna e formaggio – 61, p. con alici fresche – 62, p. pomidoro e mozzarella – 53.
Torniamo ad illustrare i varii tipi di autentiche pizze napoletane:
1) pizza alla mastunnicola (pizza alla mastro Nicola) è questa la originaria prima pizza napoletana,ideata da un non meglio identificato mastro Nicola che conduceva ( 1490 ca) una piccola taverna con cucina casareccia nei dintorni della centrale Rua Catalana dove aprivono bottega numerosissimi artieri ed artigiani che si rifocillavano quotidianamente in quella piccola taverna; tale originaria prima pizza napoletana con la variazione successiva (cfr. n° 2) diede il la a tutte le altre;si tratta di una semplicissima pizza per la cui pasta vedi al successivo n° 2 sub A, condita con dello strutto di maiale, con abbondante formaggio pecorino, guarnita con del basilico e cotta in forno.
2) pizza pomidoro, sugna e formaggio;
si tratta della variazione apportata alla originaria prima pizza napoletana, variazione che diede il la a tutte le altre ( la variazione fu forse apportata dalla stesso mastro Nicola (1501 ca)per contentare i marinai che avevano cominciato a far conoscere in giro nelle taverne napoletane come pianta edibile quel pomodoro importato con le loro navi mercantali dal Perú, pomodoro che alibi (Francia) era usato quale pianta ornamentale ritenuta velenosa;
A) l’autentica ricetta originaria prevede che per ogni litro di acqua necessitino 50 grammi di sale, 5 grammi di lievito e 1,8 kg di farina. È codificato altresí che la farina debba essere aggiunta gradualmente e lentamente (non meno di dieci minuti) e che l'impasto vada lavorato per venti minuti fino a che non raggiunga il cosiddetto punto di pasta, cioè fino a quando l’impasto non risulti gonfio e liscio, molto estensibile e poco elastico.Ancóra è codificato che lo impasto vada lasciato a riposare su di un piano di marmo o in una madia di legno per quattro ore coperto da un panno inumidito per evitare che la superficie indurisca. Trascorse le quattro ore l’impasto va poi suddiviso in pezzi (palle) sferici di circa 180-200 gr.cadauno. Da ogni singola sfera si ricaverà una pizza che si deve stendere, senza l’ausilio di matterello, soltano con abili movimenti delle mani, pigliandola e stendendola su un piano di marmo coperto di fior di farina fino a che lo spessore diventa pari a circa 0,3 cm nella parte centrale e pari ad 1 cm per il bordo (cornicione).
B)A questo punto si può procedere ad aggiungere i condimenti sui dischi (di circa 15 – 20 cm. di diametro cadauno) di pasta approntati l’uno accanto all’altro sul piano di marmo; i condimenti per la pizza a margine sono pochi e semplici; su ogni pizza viene distribuito, per tutta la superficie (con movimento a spirale partendo dal centro della pizza) un cucchiaio e mezzo di sugna; indi con uguale procedimento si aggiungono due cucchiai di pomidoro passato, infine si sala ad libitum e si aggiunge un cucchiaio e mezzo di formaggio (in origine pecorino, oggi anche grana) grattugiato distribuito accuratamente per quanto è ampia la pizza.
C) Cosí condita la pizza è pronta per la cottura che va fatta in un forno con brace di legna, poggiandola su di un piano formato con mattoni refrattari ed una cupola anch'essa in materiale refrattario ad una temperatura di 460 - 490 gradi e va sollevata brevemente e di tanto in tanto ricevendo il calore in modo uniforme. A fine cottura il bordo esterno (cornicione) che sarà stato leggermente pizzicato prima che s’inforni la pizza risulterà regolare, gonfio, privo di bolle e bruciature, di colore dorato e dal profumo caratteristico del pane. La parte centrale sarà invece morbida.
3) pizza â marenara;
Si tratta quasi di una naturale evoluzione della pizza precedente della quale conserva la medesima procedura sub A) e C); cambia invece la parte sub B quella relativa al condimento che nella pizza â marenara (pizza alla maniera dei marinai) è costituito da sugo di pomidoro,olio d’oliva e.v., aglio vecchio mondato e tritato finemente, origano secco e sale. La pizza a marigine deve il suo nome al fatto che dismessa l’sanza di condire le pizze con sugna pomidoro e formaggio invalse quella (dapprima tra i marinai (donde il nome â marenenara) del mandracchio (vedi ultra) e poi tra altri artieri) di mangiare una pizza cotta al forno e condita con olio, pomidoro, aglio, sale ed origano; in sèguito essendo diventato questo, per ogni pizzaiolo il piú comune modo di condire la pizza, questo tipo di sugo usato per condire altri alimenti (pasta, carne e pesce fu detto alla pizzaiola ( cioè alla maniera dei pizzaioli), mentre per la pizza si mantenne il nome di â marenenara in quanto sarebbe stato del tutto tautologico parlare di una pizza alla pizzaiuola! Altra scuola di pensiero ritiene che il nome â marenenara derivi dal fatto deriva dal fatto che gli ingredienti, facilmente conservabili, potevano essere portati dai marinai per preparare pizze nel corso dei loro lunghi viaggi.La cosa però non è dimostrata, né probabilmente vera e/o accettabile in quanto tra il finire del ‘700 ed i principi dell’ ‘800 una delle malattie maggiormente diffuse tra i marinai fu proprio lo scorbuto malattia dovuta a carenza di vitamina C quella contenuta in parecchi vegetali, quasi mai presenti tra le scorte di cibo dei marinai (ed i pomidoro son dei vegetali!...) ,malattia che si manifesta con dimagramento, ulcerazioni ed emorragie delle gengive e degli organi interni. Son perciò convinto che il termine â marenenara sia da collegarsi a quei marinai adusi a frequentare le taverne e/o bettole nella zona del mandracchio taverne e/o bettole dove si facevano preparare delle pizze condite con olio, pomidoro, aglio, sale ed origano;Il mandracchio non è il nome di una tenuta, ma indica solo la zona a ridosso del porto(dallo spagnolo mandrache: darsena)frequentata da marinai, facchini e scaricatori che non usavano di certo buone maniere ed il cui linguaggio non era certo forbito o corretto.
Le successive classiche pizze napoletane son quasi tutte una evoluzione della pizza â marenenara.Abbiamo:
4) pizza cu ‘alice ;
5) pizza cu ‘e cicenielle
Si tratta per ambedue di due pizze che della pizza sub 1)(pizza ‘nzogna pummarola e furmaggio) conservano i punti A) e C) cambiano invece le parti sub B quelle relative al condimento che nella pizza cu ‘alice è costituito da sugo di pomidoro,olio d’oliva e.v., aglio vecchio mondato e tritato finemente, piccole alici fresche decapitate e diliscate, sale e pepe;il condimento della pizza cu ‘e cicenielle è costituito da sugo di pomidoro,olio d’oliva e.v., aglio vecchio mondato e tritato finemente, ed un paio di cucchiaiate di bianchetti freschissimi, sale e pepe.
6) pizza ‘e quatte manere
nota anche come pizza quattro stagioni ma si tratta di un’apposizione inesatta in quanto nel pretto napoletano con la voce staggiona/e si indica segnatamente l’estate e non ciascuno dei quattro periodi, di tre mesi ognuno, in cui i solstizi e gli equinozi suddividono l'anno solare (primavera, estate, autunno, inverno); nella fattispecie l’antica napoletanissima pizza ‘e quatte manere si è imbolsita nel nome ed oggi è détta sconciamente pizza quattro stagioni quasi che i componenti di cui è guarnita quali condimenti fossero reperibili ognuno in una determinata stagione, laddove invece sono sempre reperibili nel corso dell’anno; si tratta di una pizza pur’essa partita dalla pizza sub 1)(pizza ‘nzogna pummarola e furmaggio) di cui conserva i punti A) e C) cambia invece la parte sub B quella relativa al condimento; innanzi tutto è da ricordare che sull’originario disco di pasta della pizza cardine, vegono aggiunti due bastoncelli di pasta posti ortogonalmente a croce lungo i due diametri del disco fino a determinare quattro comparti che vengon conditi tutti con sugo di pomidoro,olio, sale, mentre poi ciascun comparto è guarnito in modo diverso con altri ingredienti : a)funghetti sott’olio, b) cubetti di salame, c) cubetti di mozzarella di bufola, formaggio e basilico, d)aglio vecchio tritato ed origano.
Non esistono altri tipi di pizza autenticamente napoletane; qualsiasi altro tipo di pizza che esuli le sei or ora esaminate (ad es. pizza capricciosa (con pomidoro, mozzarella, grana grattugiato, basilico, funghi, carciofini, prosciutto cotto, olive nere, olio, uova sode ed acciughe)oppure pizza quattro formaggi: pomidoro (facoltativo), mozzarella, altri formaggi a discrezione, basilico) oppure ancóra stranezze del tipo pizza bianca con panna, mozzarella, prosciutto e mais, da molti chiamata mimosa, o la pizza bianca con panna, mozzarella, prosciutto e funghi, detta anche dello chef. qualsiasi altro tipo di pizza che esuli le sei or ora esaminate, dicevo, usurpa il nome di pizza napoletana, come non esito ad affermare che anche la pizza margherita (non quella originaria, ma quella ideata dall’Esposito della pizzera Brandi…) usurpa il nome di pizza napoletana trattandosi di una focaccia, pur se nata a Napoli, dedicata ad una regina di casa Savoia quella casa che invase ed usurpò per il tramite del masnadiero Garibaldi Giuseppe,della Massoneria inglese e di una manica di generali traditori il libero, indipendente e sovrano Reame di Napoli!E trattandosi di una pizza dedicata alla rappresentante d’una famiglia usurpatrice,è da ritenersi – a mio parere e per la proprietà transitiva – essa stessa usurpatrice, come del resto ò già dimostrato quando ò illustrato la pizza, antecedente a quella del Brandi,originaria pizza che su di uno specchio di pomidoro aveva una guarnizione di mozzarella posta a mo’ dei petali di una margherita !
Esistono infine tre tipi di pizze di cui le prime due autenticamente napoletane, mentre la terza è in uso in provincia: queste tre pizze di cui ora dico non derivano dalla pizza ‘nzogna pummarola e furmaggio; si tratta per le prime due di gustosi ripieni di cui uno, détto cazone (= calzone), è un ripieno farcito con ricotta di pecora,pomidoro, mozzarella, formaggio e pepe, ripieno cotto al forno come tutte le pizze fin qui viste, mentre il secondo ripieno è détto pizza cicule e ricotta essendo appunto un ripieno farcito con ricotta di pecora, mozzarella, formaggio pepe e ciccioli di maiale (quelli di salumeria e non quelli casarecci residui del grasso di maiale fuso per ottenerne sugna) e fritto in olio bollente e profondo;la pasta di partenza per il calzone è il consueto disco di cui sub A del n° 2 (pizza pomidoro, sugna e formaggio) su détto disco lungo l’ideale linea di un diametro vengono distributi a seguire la ricotta spalmata, i dadi di mozzarella, il sugo di pomidoro,il formaggio grattugiato ed il pepe, indi il calzone viene rinchiuso facendo combaciare i lembi del disco in modo che la farcitura resti serrata nella pasta; sul calzone cosí confezionato viene distribuita un'altra cucchiaiata di sugo di pomidoro ed infine si inforna alle consuete temperature e per i consueti tempi; diversa la procedura per la pizza cicule e ricotta che essendo un ripieno farcito appunto con ricotta di pecora, mozzarella, formaggio pepe e ciccioli di maiale da friggere in olio bollente e profondo, può ricavare la pasta da farcire non dal consueto disco di cui sub A del n° 2 (pizza pomidoro, sugna e formaggio), ma da un fazzoletto quadrato della medesima pasta (quantunque piú assottigliata( cm. 0,3 per tutta la sua ampiezza) quadrato di circa 10 -12 cm. di lato, quadrato che viene farcito nell’ordine con ricotta di pecora, mozzarella, formaggio pepe e ciccioli di maiale distribuiti lungo l’ideale diagonale del fazzoletto che viene chiuso e sigillato per pressione in forma di triangolo e quindi fritto per circa tre minuti in olio bollente e profondo.Il terzo ripieno di cui dicevo che è in uso non in Napoli città, ma nella sua provincia è un ripieno che prende il nome di caniscione/canniscione che è la corruzione popolaresca di un originale cannicchione = golosone (e per metonimia golosità); e di golosità si tratta in quanto il cannicchione/caniscione è un pletorico fazzoletto quadrato di pasta di pane (quantunque piú assottigliata( cm. 0,3 per tutta la sua ampiezza) di circa 13 -15 cm. di lato, quadrato che viene farcito nell’ordine con ricotta di pecora,provola affumicata, formaggio pecorino grattugiato, pepe, ciccioli di maiale, salame e spicchietti di uova sode, il tutto distribuito lungo l’ideale diagonale del fazzoletto che viene chiuso e sigillato per pressione in forma di triangolo e quindi fritto per circa tre minuti in olio bollente e profondo.
In coda a tutto quanto fin qui détto e prima di segnalare alcune tipiche espressioni partenopee che dalla pizza prendono il la, esamino alcune voci incontrate in questo excursus; di pizza, marenara e mandracchio ò già détto antea; andiamo oltre e troviamo
pummarola s.vo f.le = pomodoro 1 pianta erbacea annuale con foglie composte imparipennate, fiori gialli piccoli in grappoli e frutto a bacca (fam. Solanacee)
2 il frutto rosso, carnoso e commestibile di tale pianta, usato come vivanda e come condimento; la voce napoletana deriva da pomo d’oro con la variazione di po→pu in quanto vocale atona, raddoppiamento espressivo della emme intervocalica, alternanza osco-mediterranea d/r ed infine dissimilazione r – r →r-l e cambio di genere per cui si è avuto pomo d’oro→pummod’oro→pummororo→pummarola;
mozzarella s.f.
1 formaggio fresco di origine campana e bassolaziale, a pasta bianca e molle, in forme quasi sferiche, prodotto tassativamente con latte di bufala
2 (fig.) persona estremamente fiacca.
Ci troviamo a parlare di una voce nata in Campania e poi adottata nel basso Lazio ed infine trasmigrata nel lessico nazionale; per il vero la voce mozzarella dovrebbe essere d’uso esclusivo di Campania e basso Lazio in quanto è in tali regioni e non in altre che viene prodotta l’autentica, vera mozzarella formaggio fresco a pasta bianca e molle, in forme quasi sferiche, prodotto tassativamente con latte di bufala; formaggi simili prodotti in altre regioni con latte vaccino usurpano il nome di mozzarella di cui copiano i sistemi di lavorazione ,ma non l’ingrediente di base: il latte intero di bufala, di modo che tuttalpiú possono chiamarsi fiordilatte= (formaggio fresco di pasta filata, molle e cruda, prodotto con latte di vacca) ma non mozzarella che etimologicamente è un deverbale di mozzare = troncare in un sol colpo una parte da un tutto, come avviene nel caso appunto delle mozzarelle che in pezzi di circa 3 etti cadauno vengono troncati (un tempo a mano, oggi anche con l’ausilio di mezzi meccanici),mediante torsione e strappo (mozzatura) da un filone di pasta filata , filone ricavato dalla lavorazione artigianale, con procedure trasmesse di padre in figlio, del latte intero di bufala.
recotta s.vo f.le = ricotta latticino molle e bianco, che si ottiene facendo bollire il siero di latte rimasto dopo la lavorazione del formaggio | è un uomo di ricotta, (fig.) debole, senza carattere | aver le mani di ricotta, (fig.) lasciar cadere frequentemente le cose che si hanno in mano | avere le gambe di ricotta, (fig.) deboli, che non reggono. Voce deverbale di recocere (cuocere due volte) di cui è part. pass. f.le
‘nzogna s.vo f.le = sugna, struttopreciso súbito che la voce napoletana a margine che rende l’italiano sugna o strutto è voce che va scritta ‘nzogna con un congruo apice (‘) d’aferesi (e qui di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno d’aferesi, come purtroppo càpita di trovare scritto.
Ciò detto passiamo all’etimologia e sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, (non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns→nz, dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancóra ricca di grasso.
Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana ‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nsoinia→’nzogna.
bianchetti s.vo m.le = voce regionale plur. di bianchetto (da non confondere con l’omonima sostanza imbiancante, generalmente a base di biacca, che a seconda delle combinazioni può servire come cosmetico, per cancellare errori in testi scritti a macchina o a mano, come prodotto sbiancante per il bucato o per la pulitura di scarpe bianche ecc. ) ; avannotti di acciughe o sardine appena nati, quasi trasparenti, che assumono un colore bianchiccio anche dopo la cottura, l’etimo è dal ligure gianchetto diminutivo di gianco (bianco).
cicenielle = plur. di ciceniello voce regionale campana usata per indicare il medesimo novellame (bianchetti) quanto all’ etimo si tratta molto probabilmente di un diminutivo (niello/e) derivato dal lat. caecu(m) atteso che il novellame che è molto piccolo si presume cieco.
Staggiona/e s.vo f.le letteralmente in napoletano vale estate e non uno dei quattro periodi, di tre mesi ognuno, in cui i solstizi e gli equinozi suddividono l'anno solare (primavera, estate, autunno, inverno) A prima vista potrebbe sembrare strano il fatto che la parlata napoletana renda il toscano estate con il termine staggione anzi staggiona (correttamente scritto con la doppia G, come del resto tutte le parole del napoletano che terminano in zione,gione parole che invece il toscano rende con la consonante scempia) riferendo cioè alla sola estate il generico termine stagione usato in toscano per indicare uno qualsiasi dei quattro periodi di tempo in cui si è soliti suddivider l’anno e cioè ciascuno dei quattro periodi, di tre mesi ognuno, in cui i solstizi e gli equinozi suddividono l'anno solare; se si esamina però un po’ piú attentamente dal punto di vista etimologico, la parola stagione (staggiona/e in napoletano) ci si renderà conto che il fatto non è affatto strano, anzi il napoletano nel definire staggiona la sola estate, si dimostra alquanto piú preciso della lingua toscana; vediamo infatti che la parola stagione è dal lat. statione(m), propr. 'luogo e/o tempo di sosta', con riferimento alle apparenti soste del sole agli equinozi e ai solstizi; dalla medesima statione(m) latina il napoletano trae la sua staggiona intesa come tempo di sosta e riposo e quale periodo piú adatto dell’estate per prendersi una sosta o un riposo della fatica?
Di per sé infatti la parola estate dal lat. aestate(m), che in origine significava calore bruciante, come aestus da collegarsi al greco aíthos= calore, non richiama alla mente che il solo caldo fastidioso, non la piacevole sosta del napoletano staggiona. A margine rammenterò i nomi napoletani delle quattro stagioni che sono
vierno s.vo m.le la stagione piú fredda dell'anno; nell'emisfero boreale inizia intorno al 21 dicembre e termina intorno al 21 marzo; etimologicamente la voce napoletana è dal tardo lat. (hi)bernu(m) (tempus) 'stagione invernale', dall'agg. hibernus 'invernale';nel napoletano si è avuta la consueta dittongazione della ĕ con alternanza della b→v (cfr. barca→varca – bucca→vocca etc.);
primmavera s.vo f.le stagione intermedia fra l'inverno e l'estate; nell'emisfero boreale inizia intorno al 21 marzo e termina intorno al 21 giugno, nell'emisfero australe inizia il 23 settembre e termina intorno al 21 dicembre ' etimologicamente la voce napoletana è dal lat. volg. *primavera(m), per il class. primo víre 'sul principio del verdeggiare (riferito alla prima fioritura di alberi e fiori); tipico nel napoletano il raddoppiamento espressivo della labiale;
autunno s.vo m.le stagione dell'anno compresa fra l'estate e l'inverno; nell'emisfero boreale inizia il 23 settembre e termina intorno al 21 dicembre; nell'emisfero australe inizia intorno al 21 marzo e termina intorno al 21 giugno: etimologicamente la voce napoletana è dal lat. autumnu(m) con assimilazione regressiva n→m.
staggiona/e s.vo f.le = estate: la stagione piú calda dell'anno; nell'emisfero boreale ha inizio intorno al 21 giugno e termina il 23 settembre; nell'emisfero australe à inizio invece intorno al 21 dicembre e termina intorno al 21 marzo e ne ò già détto ad abundatiam.
Cazone s.vo m.le letteralmente sta per calzone s.m. voce maschilizzata ed accrescitiva (cfr. suff. one) di calza (dal lat. mediev. calcea(m), dal class. calceus 'scarpa, stivaletto'; 1 correttamente da usarsi al pl.per indicare l’indumento, in origine maschile ma oggi diffusissimo anche fra le donne, che copre il tronco dalla vita in giú e le gambe separatamente; pantalone: calzoni corti, lunghi, alla zuava | mettersi i calzoni lunghi;à messo i calzoni (fig.)detto di un ragazzo, diventare grande | farsela nei calzoni, (fig. fam.) avere una gran paura | è la moglie a portare i calzoni, (fig. fam.) a comandare in casa. DIM. calzoncini PEGG. calzonacci
2 ciascuna delle due parti dei calzoni che rivestono le gambe: calzone destro, calzonesinistro
3 (gastr.) ed è il caso che ci occupa: involucro di pasta di pane, in genere ripieno di mozzarella e prosciutto, che viene fritto o cotto in forno; è tipico di alcune cucine centromeridionali; è proprio in quest’ultima accezione che la voce nap. cazone→calzone è pervenuta nella lingua nazionale.
cicule s.vom.le pl. di ciculo =ciccioli di maiale, avanzi appunto dei pezzetti del grasso di majale, dopo cavatone lo strutto o sugna; dal latino:(ins)cic(i)olu(m) Va da sé che i ciculi piú gustosi siano quelli residui del napoletano lardiciello che è il grasso di gola del maiale (altrove détto anche guanciale) formato da due strati di grasso inframmezzato da uno strato di carne) e non della ‘nzogna ‘mpane(alto stato di solo grasso ricavato dalla pancia della bestia )Rammento qui che con la medesima voce: cicoli o ciccioli in salumeria o, ma meno spesso, in macelleria si vendono dei gustosissimi prodotti industriali che provengono non dai residui della liquefazione di cubi di sugna, ma dalla cottura a vapore di carni, grasso e cotenna provenienti in massima parte dal collo del maiale, opportunamente salati e pepati. Al termine della cottura a vapore il tutto viene opportunamente pressato in forme metalliche fino ad ottenere dei grossi pani cilindrici piú larghi ( circa 50 cm.) che alti(circa 15 cm) , che raffreddati vengono venduti a taglio ed a peso nelle salumerie al banco dei salumi cui sono, sia pure impropriamente apparentati; la sugna che comunque si ricava da questa spremitura di carni, grasso e cotenne viene venduta ugualmente come condimento sia pure di seconda scelta. Ancóra in tema di sugna ricorderò che un tempo chi non provvedesse a prepararla in casa liquefacendo i pannicoli di ‘nzogna ‘mpane e/o lardiciello poteva acquistarla dal proprio macellaio di fiducia che sostituendosi alla massaia provvedeva alla bisogna e metteva in vendita la sugna approntata in consistenza di pomata conservata non in vasetto, ma nelle vesciche di maiale: ‘a vessica (dal lat. vesica(m)) ‘e ‘nzogna.che poteva essere acquistata per intera o piú spesso a peso.E qui giunti posso rammentare alcune espressioni tipiche che prendono il via dalla pizza in epigrafe:
- Fà a uno ‘nzogna e pummarola.
Ad litteram: fare (cucinare) uno con sugna e pomodoro Icastica espressione usata per indicare che si intende maltrattare qualcuno, violentemente percuoterlo, ridurlo a cattivo stato fino ad iperbolicamente cucinarlo in forno dopo averlo schiacciato a dovere come si farebbe con una pizza condita, a maggior disdoro, non con il tenue olio d’oliva, ma con la greve sugna e la classica salsa di pomodoro.
‘a pizza ‘nzogna e pummarola fu, come ò ricordato, anticamente uno dei piú classici modi di approntare la pizza napoletana che veniva appunto condita con sugna, pomidoro ed abbondante pecorino prima d’esser cotta in forno; successivamente, e mi ripeto il condimento per questa pizza napoletana mutò e venne usato olio d’oliva, pomidoro aglio ed origano e la pizza cosí condita non ebbe piú il nome di napoletana, ma divenne â marenara.
- Chijarsela a libbretta.
- Letteralmente:piegarsela a mo’ di libretto.
È il modo piú comodo per consumare una pizza, quando non si possa farlo comodamente seduti al tavolo e si sia costretti a farlo in piedi.In tal caso si procede alla piegatura in quattro parti della pizza ed il disco prima piegato in due e poi ancóra ripiegato nel verso opposto assume quasi la forma di un piccolo libro di alcuni (quattro) fogli e si può mangiarla riducendo al minimo il pericolo di imbrattarsi di condimento che trattenuto nella ripiegatura, difficilmente deborda . Id est: obtorto collo,far di necessità virtú, sopportare, far buon viso a cattivo gioco.
E giunto qui faccio punto, scusandomi con qualcuno che si fosse sentito offeso dalle mie esternazioni anti-risorgimentali: ma al cuore non si comanda ed il mio pulsa per i Borbone e la sola vista d’un Savoia(ramo Carignano)mi mette l’orticaria addosso!
Raffaele Bracale
Questa volta – a rischio d’esser considerato un iconoclasta ed un incompetente – parlerò dell’argomento in epigrafe affermando (senza tema di smentita!) innanzitutto che è una bestemmia ritenere la cosiddetta pizza margherita ( copiata, ma non ideata nel 1889 da un pizzaiolo napoletano (ma, a mio avviso, indegno d’esser considerato partenopeo) tale Raffaele Esposito, attivo presso la pizzeria Brandi (alla salita Sant’Anna di Palazzo) che la dedicò alla regina Margherita di Savoia dandole il nome di "pizza Margherita" pizza che, nell’intento del malnato pizzaiolo tradendo il vecchio vessillo napoletano borbonico bianco con i gigli di Francia avrebbe dovuto rappresentare la nuova bandiera tricolore con il bianco della mozzarella, il rosso del pomidoro ed il verde del basilico.L’incolto Esposito, probabilmente a digiuno di storia patria, con l’omaggio fatto ai sovrani discendenti dell’usurpatore Vittorio Emanuele IISavoia-Carignano,fece sí una splendida operazione commerciale (la pizza margherita sarebbe diventata famosissima nel mondo), ma (oltre che macchiarsi di tradimento nei confronti dei vecchi regnanti Borbone), fece un’offesa gravissima nei confronti della tradizione partenopea, tradizione che voleva quali autentiche pizze napoletane le seguenti:
pizza marinara, pizza ‘nzogna e pummarole, pizza cu ‘cicenielle,pizza alla mastunnicola e, cazone ‘mbuttunato.
E l’Esposito non fu neppure originalissimo (perciò ò parlato di copia…);infatti già nel 1830, un non meglio identificato Riccio (di lui mancano precise notizie biografiche) nel libro Napoli, contorni e dintorni, aveva scritto di una pizza (quantunque poco usata) con pomodoro, mozzarella disposta, (su un disco di pasta già condita con il pomodoro), in maniera sagomata tale da da formare i varî petali quasi ovali di una margherita nonché il suo bottone centrale) e con del basilico disposto a mo’ da scimmiottare stelo e foglie della margherita; si trattava dunque di una pizza che comunque esulava da riferimenti storici e/o politici e la margherita non era dunque il nome della consorte del re savoiardo, quanto semplicemente quello del nome del fiore (di cui la mozzarella sagomata a mo’ di ovali, copiava la disposizione dei petali posti com’erano questi ovali a raggiera circolare intorno ad una sorta di bottone tondo che ripeteva il bottone centrale del fiore) ;della medesima pizza agghindata con una sorta di di margherita di mozzarella e basilico,già esistente nel 1849 scrisse anche Francesco De Bouchard nel 1866; dunque l’ Esposito fece una indegna, biasimevole furbata appropriandosi, a scopo ruffianesco, di qualcosa di dominio comune…
Giunti a questo punto facciamo un passo indietro e soffermiamoci ad illustrare i varii tipi delle autentiche pizze napoletane.
Cominciamo a soffermarci sul sostantivo pizza;
Pizza s.vo f.le
1 (gastr.) focaccia di pasta lievitata, dolce o salata: pizza rustica; pizza pasquale | per antonomasia, focaccia di forma molto schiacciata condita con olio, pomodoro e altri ingredienti; è una specialità in origine tipicamente napoletana, ma oggi diffusa ovunque: pizza margherita, marinara, quattro stagioni.
2 nel linguaggio cinematografico, la scatola piatta e circolare in cui si custodisce un rotolo di pellicola; per estens., la pellicola stessa
3 (fam. fig.) persona o cosa estremamente noiosa.
Quanto all’etimo della voce pizza qualcuno ipotizza ch’esso sia da collegarsi alla voce pita voce mediterranea e balcanica, di origine greca; secondo questa ipotesi la parola deriverebbe dall'ebraico פִּתָּה o פיתה, dall'arabo كماج o dal greco πίτα, da cui anche pita che appartiene alla stessa categoria di pane o focacce; qualche altro ipotizza una derivazione dal longob. bizzo 'morso, focaccia', ma io reputo piú esatta e logica una derivazione dal latino pinsam (placentam)→pizza (placentam)=focaccia schiacciata dal verbo pinsere=pigiare, schiacciare con ns→nz→zz per assimilazione regressiva)
A margine rammento che della pizza napoletana (sia pure in senso generico, come il piú usuale cibo popolare partenopeo) le prime notizie vengono fatte risalire al periodo che va dal 1715 al 1725 ad opera di un tal Vincenzo Corrado (Oria, 29 marzo 1738 – Napoli, 4 novembre 1836)celebre cuoco e letterato italiano. che alla metà del '700 scrisse un pregevole trattato sulle abitudini alimentari della città di Napoli,trattato in cui osservò come fosse costume del popolo condire la pizza ed i maccheroni con del pomodoro. In un certo senso quelle osservazioni del Corrado costituiscon quasi la data di nascita della pizza napoletana, un sottile disco di pasta condito dapprima con strutto pomodoro e formaggio e successivamente con altri ingredienti tra i quali l’olio d’oliva che sostituí lo strutto. Le prime pizzerie comparvero a Napoli nel corso del XIX secolo e fino alla metà del XX secolo esse furono un fenomeno esclusivo della città partenopea. A partire dalla seconda metà del '900 le pizzerie si sono diffuse ovunque nel mondo, quasi sempre all’insegna di PIZZA NAPOLETANA,termine spesso palesemente usurpato in quanto il piú delle volte chi conduceva quelle pizzerie non era napoletano né approntava autentiche pizze napoletane, ma le piú svariate schiacciate o focacce condite alla bell’ e meglio con i piú svariati ingredienti, anche i meno idonei! Rammenterò che la pizza, quale uno dei consueti nutrimenti popolari si conquistò un posto persino nella smorfia (cfr. alibi), dove è considerato sotto il numero 24 ed anche con moltissimi altri numeri, secondo come sia variamente condita, per cui avremo: p. napoletana – 2,p.dolce -36, p. rustica – 37, p. con sugna e formaggio – 61, p. con alici fresche – 62, p. pomidoro e mozzarella – 53.
Torniamo ad illustrare i varii tipi di autentiche pizze napoletane:
1) pizza alla mastunnicola (pizza alla mastro Nicola) è questa la originaria prima pizza napoletana,ideata da un non meglio identificato mastro Nicola che conduceva ( 1490 ca) una piccola taverna con cucina casareccia nei dintorni della centrale Rua Catalana dove aprivono bottega numerosissimi artieri ed artigiani che si rifocillavano quotidianamente in quella piccola taverna; tale originaria prima pizza napoletana con la variazione successiva (cfr. n° 2) diede il la a tutte le altre;si tratta di una semplicissima pizza per la cui pasta vedi al successivo n° 2 sub A, condita con dello strutto di maiale, con abbondante formaggio pecorino, guarnita con del basilico e cotta in forno.
2) pizza pomidoro, sugna e formaggio;
si tratta della variazione apportata alla originaria prima pizza napoletana, variazione che diede il la a tutte le altre ( la variazione fu forse apportata dalla stesso mastro Nicola (1501 ca)per contentare i marinai che avevano cominciato a far conoscere in giro nelle taverne napoletane come pianta edibile quel pomodoro importato con le loro navi mercantali dal Perú, pomodoro che alibi (Francia) era usato quale pianta ornamentale ritenuta velenosa;
A) l’autentica ricetta originaria prevede che per ogni litro di acqua necessitino 50 grammi di sale, 5 grammi di lievito e 1,8 kg di farina. È codificato altresí che la farina debba essere aggiunta gradualmente e lentamente (non meno di dieci minuti) e che l'impasto vada lavorato per venti minuti fino a che non raggiunga il cosiddetto punto di pasta, cioè fino a quando l’impasto non risulti gonfio e liscio, molto estensibile e poco elastico.Ancóra è codificato che lo impasto vada lasciato a riposare su di un piano di marmo o in una madia di legno per quattro ore coperto da un panno inumidito per evitare che la superficie indurisca. Trascorse le quattro ore l’impasto va poi suddiviso in pezzi (palle) sferici di circa 180-200 gr.cadauno. Da ogni singola sfera si ricaverà una pizza che si deve stendere, senza l’ausilio di matterello, soltano con abili movimenti delle mani, pigliandola e stendendola su un piano di marmo coperto di fior di farina fino a che lo spessore diventa pari a circa 0,3 cm nella parte centrale e pari ad 1 cm per il bordo (cornicione).
B)A questo punto si può procedere ad aggiungere i condimenti sui dischi (di circa 15 – 20 cm. di diametro cadauno) di pasta approntati l’uno accanto all’altro sul piano di marmo; i condimenti per la pizza a margine sono pochi e semplici; su ogni pizza viene distribuito, per tutta la superficie (con movimento a spirale partendo dal centro della pizza) un cucchiaio e mezzo di sugna; indi con uguale procedimento si aggiungono due cucchiai di pomidoro passato, infine si sala ad libitum e si aggiunge un cucchiaio e mezzo di formaggio (in origine pecorino, oggi anche grana) grattugiato distribuito accuratamente per quanto è ampia la pizza.
C) Cosí condita la pizza è pronta per la cottura che va fatta in un forno con brace di legna, poggiandola su di un piano formato con mattoni refrattari ed una cupola anch'essa in materiale refrattario ad una temperatura di 460 - 490 gradi e va sollevata brevemente e di tanto in tanto ricevendo il calore in modo uniforme. A fine cottura il bordo esterno (cornicione) che sarà stato leggermente pizzicato prima che s’inforni la pizza risulterà regolare, gonfio, privo di bolle e bruciature, di colore dorato e dal profumo caratteristico del pane. La parte centrale sarà invece morbida.
3) pizza â marenara;
Si tratta quasi di una naturale evoluzione della pizza precedente della quale conserva la medesima procedura sub A) e C); cambia invece la parte sub B quella relativa al condimento che nella pizza â marenara (pizza alla maniera dei marinai) è costituito da sugo di pomidoro,olio d’oliva e.v., aglio vecchio mondato e tritato finemente, origano secco e sale. La pizza a marigine deve il suo nome al fatto che dismessa l’sanza di condire le pizze con sugna pomidoro e formaggio invalse quella (dapprima tra i marinai (donde il nome â marenenara) del mandracchio (vedi ultra) e poi tra altri artieri) di mangiare una pizza cotta al forno e condita con olio, pomidoro, aglio, sale ed origano; in sèguito essendo diventato questo, per ogni pizzaiolo il piú comune modo di condire la pizza, questo tipo di sugo usato per condire altri alimenti (pasta, carne e pesce fu detto alla pizzaiola ( cioè alla maniera dei pizzaioli), mentre per la pizza si mantenne il nome di â marenenara in quanto sarebbe stato del tutto tautologico parlare di una pizza alla pizzaiuola! Altra scuola di pensiero ritiene che il nome â marenenara derivi dal fatto deriva dal fatto che gli ingredienti, facilmente conservabili, potevano essere portati dai marinai per preparare pizze nel corso dei loro lunghi viaggi.La cosa però non è dimostrata, né probabilmente vera e/o accettabile in quanto tra il finire del ‘700 ed i principi dell’ ‘800 una delle malattie maggiormente diffuse tra i marinai fu proprio lo scorbuto malattia dovuta a carenza di vitamina C quella contenuta in parecchi vegetali, quasi mai presenti tra le scorte di cibo dei marinai (ed i pomidoro son dei vegetali!...) ,malattia che si manifesta con dimagramento, ulcerazioni ed emorragie delle gengive e degli organi interni. Son perciò convinto che il termine â marenenara sia da collegarsi a quei marinai adusi a frequentare le taverne e/o bettole nella zona del mandracchio taverne e/o bettole dove si facevano preparare delle pizze condite con olio, pomidoro, aglio, sale ed origano;Il mandracchio non è il nome di una tenuta, ma indica solo la zona a ridosso del porto(dallo spagnolo mandrache: darsena)frequentata da marinai, facchini e scaricatori che non usavano di certo buone maniere ed il cui linguaggio non era certo forbito o corretto.
Le successive classiche pizze napoletane son quasi tutte una evoluzione della pizza â marenenara.Abbiamo:
4) pizza cu ‘alice ;
5) pizza cu ‘e cicenielle
Si tratta per ambedue di due pizze che della pizza sub 1)(pizza ‘nzogna pummarola e furmaggio) conservano i punti A) e C) cambiano invece le parti sub B quelle relative al condimento che nella pizza cu ‘alice è costituito da sugo di pomidoro,olio d’oliva e.v., aglio vecchio mondato e tritato finemente, piccole alici fresche decapitate e diliscate, sale e pepe;il condimento della pizza cu ‘e cicenielle è costituito da sugo di pomidoro,olio d’oliva e.v., aglio vecchio mondato e tritato finemente, ed un paio di cucchiaiate di bianchetti freschissimi, sale e pepe.
6) pizza ‘e quatte manere
nota anche come pizza quattro stagioni ma si tratta di un’apposizione inesatta in quanto nel pretto napoletano con la voce staggiona/e si indica segnatamente l’estate e non ciascuno dei quattro periodi, di tre mesi ognuno, in cui i solstizi e gli equinozi suddividono l'anno solare (primavera, estate, autunno, inverno); nella fattispecie l’antica napoletanissima pizza ‘e quatte manere si è imbolsita nel nome ed oggi è détta sconciamente pizza quattro stagioni quasi che i componenti di cui è guarnita quali condimenti fossero reperibili ognuno in una determinata stagione, laddove invece sono sempre reperibili nel corso dell’anno; si tratta di una pizza pur’essa partita dalla pizza sub 1)(pizza ‘nzogna pummarola e furmaggio) di cui conserva i punti A) e C) cambia invece la parte sub B quella relativa al condimento; innanzi tutto è da ricordare che sull’originario disco di pasta della pizza cardine, vegono aggiunti due bastoncelli di pasta posti ortogonalmente a croce lungo i due diametri del disco fino a determinare quattro comparti che vengon conditi tutti con sugo di pomidoro,olio, sale, mentre poi ciascun comparto è guarnito in modo diverso con altri ingredienti : a)funghetti sott’olio, b) cubetti di salame, c) cubetti di mozzarella di bufola, formaggio e basilico, d)aglio vecchio tritato ed origano.
Non esistono altri tipi di pizza autenticamente napoletane; qualsiasi altro tipo di pizza che esuli le sei or ora esaminate (ad es. pizza capricciosa (con pomidoro, mozzarella, grana grattugiato, basilico, funghi, carciofini, prosciutto cotto, olive nere, olio, uova sode ed acciughe)oppure pizza quattro formaggi: pomidoro (facoltativo), mozzarella, altri formaggi a discrezione, basilico) oppure ancóra stranezze del tipo pizza bianca con panna, mozzarella, prosciutto e mais, da molti chiamata mimosa, o la pizza bianca con panna, mozzarella, prosciutto e funghi, detta anche dello chef. qualsiasi altro tipo di pizza che esuli le sei or ora esaminate, dicevo, usurpa il nome di pizza napoletana, come non esito ad affermare che anche la pizza margherita (non quella originaria, ma quella ideata dall’Esposito della pizzera Brandi…) usurpa il nome di pizza napoletana trattandosi di una focaccia, pur se nata a Napoli, dedicata ad una regina di casa Savoia quella casa che invase ed usurpò per il tramite del masnadiero Garibaldi Giuseppe,della Massoneria inglese e di una manica di generali traditori il libero, indipendente e sovrano Reame di Napoli!E trattandosi di una pizza dedicata alla rappresentante d’una famiglia usurpatrice,è da ritenersi – a mio parere e per la proprietà transitiva – essa stessa usurpatrice, come del resto ò già dimostrato quando ò illustrato la pizza, antecedente a quella del Brandi,originaria pizza che su di uno specchio di pomidoro aveva una guarnizione di mozzarella posta a mo’ dei petali di una margherita !
Esistono infine tre tipi di pizze di cui le prime due autenticamente napoletane, mentre la terza è in uso in provincia: queste tre pizze di cui ora dico non derivano dalla pizza ‘nzogna pummarola e furmaggio; si tratta per le prime due di gustosi ripieni di cui uno, détto cazone (= calzone), è un ripieno farcito con ricotta di pecora,pomidoro, mozzarella, formaggio e pepe, ripieno cotto al forno come tutte le pizze fin qui viste, mentre il secondo ripieno è détto pizza cicule e ricotta essendo appunto un ripieno farcito con ricotta di pecora, mozzarella, formaggio pepe e ciccioli di maiale (quelli di salumeria e non quelli casarecci residui del grasso di maiale fuso per ottenerne sugna) e fritto in olio bollente e profondo;la pasta di partenza per il calzone è il consueto disco di cui sub A del n° 2 (pizza pomidoro, sugna e formaggio) su détto disco lungo l’ideale linea di un diametro vengono distributi a seguire la ricotta spalmata, i dadi di mozzarella, il sugo di pomidoro,il formaggio grattugiato ed il pepe, indi il calzone viene rinchiuso facendo combaciare i lembi del disco in modo che la farcitura resti serrata nella pasta; sul calzone cosí confezionato viene distribuita un'altra cucchiaiata di sugo di pomidoro ed infine si inforna alle consuete temperature e per i consueti tempi; diversa la procedura per la pizza cicule e ricotta che essendo un ripieno farcito appunto con ricotta di pecora, mozzarella, formaggio pepe e ciccioli di maiale da friggere in olio bollente e profondo, può ricavare la pasta da farcire non dal consueto disco di cui sub A del n° 2 (pizza pomidoro, sugna e formaggio), ma da un fazzoletto quadrato della medesima pasta (quantunque piú assottigliata( cm. 0,3 per tutta la sua ampiezza) quadrato di circa 10 -12 cm. di lato, quadrato che viene farcito nell’ordine con ricotta di pecora, mozzarella, formaggio pepe e ciccioli di maiale distribuiti lungo l’ideale diagonale del fazzoletto che viene chiuso e sigillato per pressione in forma di triangolo e quindi fritto per circa tre minuti in olio bollente e profondo.Il terzo ripieno di cui dicevo che è in uso non in Napoli città, ma nella sua provincia è un ripieno che prende il nome di caniscione/canniscione che è la corruzione popolaresca di un originale cannicchione = golosone (e per metonimia golosità); e di golosità si tratta in quanto il cannicchione/caniscione è un pletorico fazzoletto quadrato di pasta di pane (quantunque piú assottigliata( cm. 0,3 per tutta la sua ampiezza) di circa 13 -15 cm. di lato, quadrato che viene farcito nell’ordine con ricotta di pecora,provola affumicata, formaggio pecorino grattugiato, pepe, ciccioli di maiale, salame e spicchietti di uova sode, il tutto distribuito lungo l’ideale diagonale del fazzoletto che viene chiuso e sigillato per pressione in forma di triangolo e quindi fritto per circa tre minuti in olio bollente e profondo.
In coda a tutto quanto fin qui détto e prima di segnalare alcune tipiche espressioni partenopee che dalla pizza prendono il la, esamino alcune voci incontrate in questo excursus; di pizza, marenara e mandracchio ò già détto antea; andiamo oltre e troviamo
pummarola s.vo f.le = pomodoro 1 pianta erbacea annuale con foglie composte imparipennate, fiori gialli piccoli in grappoli e frutto a bacca (fam. Solanacee)
2 il frutto rosso, carnoso e commestibile di tale pianta, usato come vivanda e come condimento; la voce napoletana deriva da pomo d’oro con la variazione di po→pu in quanto vocale atona, raddoppiamento espressivo della emme intervocalica, alternanza osco-mediterranea d/r ed infine dissimilazione r – r →r-l e cambio di genere per cui si è avuto pomo d’oro→pummod’oro→pummororo→pummarola;
mozzarella s.f.
1 formaggio fresco di origine campana e bassolaziale, a pasta bianca e molle, in forme quasi sferiche, prodotto tassativamente con latte di bufala
2 (fig.) persona estremamente fiacca.
Ci troviamo a parlare di una voce nata in Campania e poi adottata nel basso Lazio ed infine trasmigrata nel lessico nazionale; per il vero la voce mozzarella dovrebbe essere d’uso esclusivo di Campania e basso Lazio in quanto è in tali regioni e non in altre che viene prodotta l’autentica, vera mozzarella formaggio fresco a pasta bianca e molle, in forme quasi sferiche, prodotto tassativamente con latte di bufala; formaggi simili prodotti in altre regioni con latte vaccino usurpano il nome di mozzarella di cui copiano i sistemi di lavorazione ,ma non l’ingrediente di base: il latte intero di bufala, di modo che tuttalpiú possono chiamarsi fiordilatte= (formaggio fresco di pasta filata, molle e cruda, prodotto con latte di vacca) ma non mozzarella che etimologicamente è un deverbale di mozzare = troncare in un sol colpo una parte da un tutto, come avviene nel caso appunto delle mozzarelle che in pezzi di circa 3 etti cadauno vengono troncati (un tempo a mano, oggi anche con l’ausilio di mezzi meccanici),mediante torsione e strappo (mozzatura) da un filone di pasta filata , filone ricavato dalla lavorazione artigianale, con procedure trasmesse di padre in figlio, del latte intero di bufala.
recotta s.vo f.le = ricotta latticino molle e bianco, che si ottiene facendo bollire il siero di latte rimasto dopo la lavorazione del formaggio | è un uomo di ricotta, (fig.) debole, senza carattere | aver le mani di ricotta, (fig.) lasciar cadere frequentemente le cose che si hanno in mano | avere le gambe di ricotta, (fig.) deboli, che non reggono. Voce deverbale di recocere (cuocere due volte) di cui è part. pass. f.le
‘nzogna s.vo f.le = sugna, struttopreciso súbito che la voce napoletana a margine che rende l’italiano sugna o strutto è voce che va scritta ‘nzogna con un congruo apice (‘) d’aferesi (e qui di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno d’aferesi, come purtroppo càpita di trovare scritto.
Ciò detto passiamo all’etimologia e sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, (non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns→nz, dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancóra ricca di grasso.
Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana ‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nsoinia→’nzogna.
bianchetti s.vo m.le = voce regionale plur. di bianchetto (da non confondere con l’omonima sostanza imbiancante, generalmente a base di biacca, che a seconda delle combinazioni può servire come cosmetico, per cancellare errori in testi scritti a macchina o a mano, come prodotto sbiancante per il bucato o per la pulitura di scarpe bianche ecc. ) ; avannotti di acciughe o sardine appena nati, quasi trasparenti, che assumono un colore bianchiccio anche dopo la cottura, l’etimo è dal ligure gianchetto diminutivo di gianco (bianco).
cicenielle = plur. di ciceniello voce regionale campana usata per indicare il medesimo novellame (bianchetti) quanto all’ etimo si tratta molto probabilmente di un diminutivo (niello/e) derivato dal lat. caecu(m) atteso che il novellame che è molto piccolo si presume cieco.
Staggiona/e s.vo f.le letteralmente in napoletano vale estate e non uno dei quattro periodi, di tre mesi ognuno, in cui i solstizi e gli equinozi suddividono l'anno solare (primavera, estate, autunno, inverno) A prima vista potrebbe sembrare strano il fatto che la parlata napoletana renda il toscano estate con il termine staggione anzi staggiona (correttamente scritto con la doppia G, come del resto tutte le parole del napoletano che terminano in zione,gione parole che invece il toscano rende con la consonante scempia) riferendo cioè alla sola estate il generico termine stagione usato in toscano per indicare uno qualsiasi dei quattro periodi di tempo in cui si è soliti suddivider l’anno e cioè ciascuno dei quattro periodi, di tre mesi ognuno, in cui i solstizi e gli equinozi suddividono l'anno solare; se si esamina però un po’ piú attentamente dal punto di vista etimologico, la parola stagione (staggiona/e in napoletano) ci si renderà conto che il fatto non è affatto strano, anzi il napoletano nel definire staggiona la sola estate, si dimostra alquanto piú preciso della lingua toscana; vediamo infatti che la parola stagione è dal lat. statione(m), propr. 'luogo e/o tempo di sosta', con riferimento alle apparenti soste del sole agli equinozi e ai solstizi; dalla medesima statione(m) latina il napoletano trae la sua staggiona intesa come tempo di sosta e riposo e quale periodo piú adatto dell’estate per prendersi una sosta o un riposo della fatica?
Di per sé infatti la parola estate dal lat. aestate(m), che in origine significava calore bruciante, come aestus da collegarsi al greco aíthos= calore, non richiama alla mente che il solo caldo fastidioso, non la piacevole sosta del napoletano staggiona. A margine rammenterò i nomi napoletani delle quattro stagioni che sono
vierno s.vo m.le la stagione piú fredda dell'anno; nell'emisfero boreale inizia intorno al 21 dicembre e termina intorno al 21 marzo; etimologicamente la voce napoletana è dal tardo lat. (hi)bernu(m) (tempus) 'stagione invernale', dall'agg. hibernus 'invernale';nel napoletano si è avuta la consueta dittongazione della ĕ con alternanza della b→v (cfr. barca→varca – bucca→vocca etc.);
primmavera s.vo f.le stagione intermedia fra l'inverno e l'estate; nell'emisfero boreale inizia intorno al 21 marzo e termina intorno al 21 giugno, nell'emisfero australe inizia il 23 settembre e termina intorno al 21 dicembre ' etimologicamente la voce napoletana è dal lat. volg. *primavera(m), per il class. primo víre 'sul principio del verdeggiare (riferito alla prima fioritura di alberi e fiori); tipico nel napoletano il raddoppiamento espressivo della labiale;
autunno s.vo m.le stagione dell'anno compresa fra l'estate e l'inverno; nell'emisfero boreale inizia il 23 settembre e termina intorno al 21 dicembre; nell'emisfero australe inizia intorno al 21 marzo e termina intorno al 21 giugno: etimologicamente la voce napoletana è dal lat. autumnu(m) con assimilazione regressiva n→m.
staggiona/e s.vo f.le = estate: la stagione piú calda dell'anno; nell'emisfero boreale ha inizio intorno al 21 giugno e termina il 23 settembre; nell'emisfero australe à inizio invece intorno al 21 dicembre e termina intorno al 21 marzo e ne ò già détto ad abundatiam.
Cazone s.vo m.le letteralmente sta per calzone s.m. voce maschilizzata ed accrescitiva (cfr. suff. one) di calza (dal lat. mediev. calcea(m), dal class. calceus 'scarpa, stivaletto'; 1 correttamente da usarsi al pl.per indicare l’indumento, in origine maschile ma oggi diffusissimo anche fra le donne, che copre il tronco dalla vita in giú e le gambe separatamente; pantalone: calzoni corti, lunghi, alla zuava | mettersi i calzoni lunghi;à messo i calzoni (fig.)detto di un ragazzo, diventare grande | farsela nei calzoni, (fig. fam.) avere una gran paura | è la moglie a portare i calzoni, (fig. fam.) a comandare in casa. DIM. calzoncini PEGG. calzonacci
2 ciascuna delle due parti dei calzoni che rivestono le gambe: calzone destro, calzonesinistro
3 (gastr.) ed è il caso che ci occupa: involucro di pasta di pane, in genere ripieno di mozzarella e prosciutto, che viene fritto o cotto in forno; è tipico di alcune cucine centromeridionali; è proprio in quest’ultima accezione che la voce nap. cazone→calzone è pervenuta nella lingua nazionale.
cicule s.vom.le pl. di ciculo =ciccioli di maiale, avanzi appunto dei pezzetti del grasso di majale, dopo cavatone lo strutto o sugna; dal latino:(ins)cic(i)olu(m) Va da sé che i ciculi piú gustosi siano quelli residui del napoletano lardiciello che è il grasso di gola del maiale (altrove détto anche guanciale) formato da due strati di grasso inframmezzato da uno strato di carne) e non della ‘nzogna ‘mpane(alto stato di solo grasso ricavato dalla pancia della bestia )Rammento qui che con la medesima voce: cicoli o ciccioli in salumeria o, ma meno spesso, in macelleria si vendono dei gustosissimi prodotti industriali che provengono non dai residui della liquefazione di cubi di sugna, ma dalla cottura a vapore di carni, grasso e cotenna provenienti in massima parte dal collo del maiale, opportunamente salati e pepati. Al termine della cottura a vapore il tutto viene opportunamente pressato in forme metalliche fino ad ottenere dei grossi pani cilindrici piú larghi ( circa 50 cm.) che alti(circa 15 cm) , che raffreddati vengono venduti a taglio ed a peso nelle salumerie al banco dei salumi cui sono, sia pure impropriamente apparentati; la sugna che comunque si ricava da questa spremitura di carni, grasso e cotenne viene venduta ugualmente come condimento sia pure di seconda scelta. Ancóra in tema di sugna ricorderò che un tempo chi non provvedesse a prepararla in casa liquefacendo i pannicoli di ‘nzogna ‘mpane e/o lardiciello poteva acquistarla dal proprio macellaio di fiducia che sostituendosi alla massaia provvedeva alla bisogna e metteva in vendita la sugna approntata in consistenza di pomata conservata non in vasetto, ma nelle vesciche di maiale: ‘a vessica (dal lat. vesica(m)) ‘e ‘nzogna.che poteva essere acquistata per intera o piú spesso a peso.E qui giunti posso rammentare alcune espressioni tipiche che prendono il via dalla pizza in epigrafe:
- Fà a uno ‘nzogna e pummarola.
Ad litteram: fare (cucinare) uno con sugna e pomodoro Icastica espressione usata per indicare che si intende maltrattare qualcuno, violentemente percuoterlo, ridurlo a cattivo stato fino ad iperbolicamente cucinarlo in forno dopo averlo schiacciato a dovere come si farebbe con una pizza condita, a maggior disdoro, non con il tenue olio d’oliva, ma con la greve sugna e la classica salsa di pomodoro.
‘a pizza ‘nzogna e pummarola fu, come ò ricordato, anticamente uno dei piú classici modi di approntare la pizza napoletana che veniva appunto condita con sugna, pomidoro ed abbondante pecorino prima d’esser cotta in forno; successivamente, e mi ripeto il condimento per questa pizza napoletana mutò e venne usato olio d’oliva, pomidoro aglio ed origano e la pizza cosí condita non ebbe piú il nome di napoletana, ma divenne â marenara.
- Chijarsela a libbretta.
- Letteralmente:piegarsela a mo’ di libretto.
È il modo piú comodo per consumare una pizza, quando non si possa farlo comodamente seduti al tavolo e si sia costretti a farlo in piedi.In tal caso si procede alla piegatura in quattro parti della pizza ed il disco prima piegato in due e poi ancóra ripiegato nel verso opposto assume quasi la forma di un piccolo libro di alcuni (quattro) fogli e si può mangiarla riducendo al minimo il pericolo di imbrattarsi di condimento che trattenuto nella ripiegatura, difficilmente deborda . Id est: obtorto collo,far di necessità virtú, sopportare, far buon viso a cattivo gioco.
E giunto qui faccio punto, scusandomi con qualcuno che si fosse sentito offeso dalle mie esternazioni anti-risorgimentali: ma al cuore non si comanda ed il mio pulsa per i Borbone e la sola vista d’un Savoia(ramo Carignano)mi mette l’orticaria addosso!
Raffaele Bracale