1 - QUANNO 'O MELLONE JESCE RUSSO, OGNEDUNO NE VO’ 'NA FELLA.
Letteralmente: Quando il cocomero al taglio si presenta ben colorito di rosso, ognuno ne vuole una fetta. Id est: Quando l'occasione è buona, ognuno cerca di ottenerne il massimo vantaggio. Per traslato, l'espressione si usa quando si voglia bollare il comportamento di chi (come l’italiano medio) è sempre pronto a saltare sul carro del vincitore...
quanno = quando, allor che, nel momento che, ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo): avv. di tempo dal lat. quando con assimilazione progressiva nd→nn;
mellone = anguria, cocomero; in napoletano ‘o mellone è sia la pianta erbacea con foglie lobate e fusto strisciante, originaria dell'Asia e dell'Africa tropicale, coltivata nelle regioni temperate per i frutti commestibili (fam. Cucurbitacee) | il frutto di tale pianta, sferico od ovoidale, con polpa biancastra, gialla o arancione, dolce e profumata(mellone ‘e pane) sia la pianta erbacea con fusto strisciante, coltivata per il grosso frutto tondeggiante dalla polpa dolce, rossa e acquosa; anguria, (mellone d'acqua) (fam. Cucurbitacee); l’etimo della voce mellone è dal lat. tardo melone(m), nom. mìlo, forma abbr. di melopepo -onis, che è dal gr. mìlopépon -onos, comp. di mêlon 'melo, frutto' e pépon 'popone; nella voce napoletana, al contrario della voce italiana melone che à mantenuto la scempia etimologica, si è avuto un tipico raddoppiamento popolare lella liquida l nella sillaba centrale;
jesce letteralmente esce e cioè si presenta, s’appalesa, si mostra voce verbale (3ª pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ascí= uscire, sortire, venir fuori con etimo dal lat. volg. ab-exire→a(be)xire→axire→*assire→ascire;
russo= rosso (da non confondere con ruosso che è grosso)di colore rosso derivato del latino volgare russu(m) per il class. ruber;
ògneduno = ognuno pronome indef. [solo sing.] dal lat. omne(m) et de unu(m)
vo’/vole= vuole voce verb. (3ª pers. sing. ind. pres.) dell’infinito vulé/volere dal lat. volg. *volíre, per il class. velle, ricostruito sul tema del pres. volo e del perfetto volui;
‘na= una art. indeterm. femm. ed agg. numerale femm. nella sua grafia completa una; ‘na infatti è dall’acc. latino una(m) aferizzato;
fella= fetta, porzione ricavata per affettamento, pezzo di cibo tagliato largo e sottile: ‘na fella ‘e pane = una fetta di pane,’na fella ‘e pizza =una fetta di di torta; taglià a ffelle= tagliare a fette; l’etimo probabile è dal lat. volg. *offella(m), dim. di offa 'focaccia';
2 - SI 'O SIGNORE ME PRUVVEDE, M'AGGI' 'A FÀ 'NU QUÀCCHERO LUONGO NFINO Ê PIERE.
Letteralmente: Se il Cielo mi dà provvidenza, debbo farmi un soprabito lungo fino ai piedi. Id est: se avrò fortuna e aiuto dal Cielo mi voglio ricoprire fino ai piedi, un po’ per sollevar l’invidia del prossimo e per modo che, ben coperto, non possa temere offese dall'esterno. .
Signore= signore, ma scritto con la maiuscola indica il Signore per antonomasia: il Padreterno, il Dio Padre; la voce a margine, che è presente anche nell’italiano è un derivato del Lat. seniore(m), compar. di senex senis , 'vecchio', ma è pervenuta nel napoletano probabilmente attraverso lo spagnolo señor o il franc. seigneur nel pari significato di piú vecchio, piú anziano;
pruvvede= dà provvidenza, dà assistenza ed aiuto voce verbale (3ª pers. sing. ind. pres.) dell’infinito pruvvedé =provvedere, disporre quanto è necessario affinché qualcosa non manchi o non subisca danni o avvenga felicemente; in partic., disporre il necessario per soddisfare un pubblico bisogno o per garantire una privata occorrenza; con etimo dal latino providíre, comp. di pro¯- a favore' e vidíre 'vedere'
m’ aggi’ ‘a fà = devo farmi; letteralmente: ò da fare per me ; locuzione verbale formata dalla 1ª pers. sing. ind. pres. dell’infinito avé=avere (dal latino habíre; in napoletano l’aspirata d’avvio, intesa inutile e pletorica è eliminata) seguito dalla preposizione ‘a(da) e dall’infinito fà/fare (dal lat. sincopato fa(ce)re) nel significato di dover fare, dire etc. qlc.; il me d’avvio della locuzione vale il mihi latino dativo di vantaggio;a margine rammento che locuzioni verbali simili vengono spesso usate al posto dell’indicativo futuro presente nella grammatica napoletana, ma poco usato preferendoglisi l’ind. pres. in funzione futura o locuzioni simili a quelle in esame.
quàcchero neologismo di inizio 20ª sec. sost. masch. intraducibile ad litteram, ma con attestato significato nel parlato di cappotto, lunga palandrana; la voce fu modellata sul termine quaccheri ( un movimento religioso appartenente al protestantesimo); il termine quàcchero proviene dall’inglese to quake che significa tremare, quindi significa "i tremolanti"; era l’appellativo con cui venivano indicati, in senso dispregiativo, gli appartenenti ad un movimento protestante, sorto nell’ambito della chiesa Anglicana in Inghilterra nel XVII secolo, perché nelle loro riunioni quando scendeva lo Spirito avevano alcune manifestazioni esteriori, fisiche, (tremori estatici), tra cui il tremare. Loro preferivano autodefinirsi: "Society of friends", ossia "Società degli amici" (di Gesù), e traevano questo nome dal Vangelo di Giovanni cap.15 ver.15, dove Gesù dice ai discepoli: "Io non vi chiamo piú servi; perché il servo non sa quel che fa il suo signore; ma voi vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio".
A Napoli, rammentando i lunghi, severi costumi indossati dagli aderenti al movimento suddetto fu assunto il sing. quàcchero come sinonimo di cappotto, palandrana;
luongo= lungo agg. qual. masch. dal lat. longu(m) con dittongazione popolare della sillaba d’avvio; la dittongazione manca nel femm. che è longa da longa(m);
nfino= fino, sino preposizione impropria ed altrove avv. dal lat. fine, abl. di finis 'limite', col significato preposizionale di 'fino a'; morfologicamente la n protetica di nfino non è l’aferesi di (i)n, ma una consonante eufonica, per cui non va scritta con il segno d’aferesi ‘n ma semplicemente legato a fino per ottenere nfino;
ê piere = ai piedi; cominciamo con il sottolinere che ê (ai) è preposizione articolata plurale masch (ai – a gli). e femminile(alle) secondo una grafia fusa alternativamente di a + ‘e (li) o di a+ ‘e (le) e pertanto non vaconfusa con ‘e(i/le) art.determ. plur. maschile o femm; piere= piedi sost. masch. plurale del sing. pede/pèro= piede con etimo dal lat. pede(m) con la tipica rotacizzazione osco – mediterranea d/r nella variante pèro.
3- LL'ABBATE TACCARELLA.
Letteralmente: l'abate Taccarella. Con questo soprannome viene bollato, a Napoli, la malalingua, lo sparlatore, colui che, metaforicamente, tagliuzzi gli abiti addosso ad una persona;
abbate= abate, il superiore di un'abbazia o di un monastero
nel sec. XVIII, chiunque godesse di un beneficio ecclesiastico, pur avendo ricevuto i soli ordini minori, la voce a margine ed in epigrafe è usata in senso ironico essendo lo sparlatore, la malalingua, il tagliuzzatore persona non meritevole di alcun rispetto e/o considerazione, proprio al contrario di un autentico superiore di un'abbazia o di un monastero; l’etimo di abbate è dal lat. eccl. abbate(m), che è dall'aram. ab `padre', attrav. il gr. abbâ
il soprannome giocoso Taccarella è chiaramente un deverbale desunto appunto dal verbo taccarijà che significa tagliuzzare, ridurre in minuti pezzetti, con derivazione dal sostantivo tacca= scheggia, pezzetto, a sua volta da un gotico taikn.
4 - T' HÊ PIGLIATO 'E CCIENT' OVE?
Letteralmente: ài preso le cento uova; ài bevuto cento uova? Id est: Sei diventato pazzo? La locuzione rammenta un antichissimo metodo di cura della pazzia in uso a Napoli nei sec. XV e XVI, al tempo di un famosissimo medico dei pazzi, quel tal Giorgio Cattaneo - dal cui nome derivò poi il termine mastuggiorgio che indica appunto il castigamatti - il quale medico pare inventasse la cura coercitiva per il folle di dover assumere ben cento uova di sèguito e poi, sotto la minaccia di una frusta, di girare la ruota di un pozzo.
hê pigliato = ài preso, ài assunto, ài ingurgitato voce verbale (2ª pers. sing. ind. pass. pross.) dell’infinito pigliare/piglià con etimo dal lat. volg. *piliare,per il class.pilare'rubare,saccheggiare';
ciento= cento agg. numerale dal lat. centu(m) con tipica dittongazione ie nella sillaba d’avvio intesa breve;
ove = uova sost. femm. plur. del masch. uovo, cellula germinativa o gamete femminile di forma per lo piú rotondeggiante o ellittica, di dimensioni variabili secondo la specie, con citoplasma piú o meno ricco di riserve nutritive; à origine nell'ovaio e da esso, all'interno o all'esterno del corpo materno, si forma l'embrione del futuro animale;
l'uovo degli animali ovipari, che viene espulso dal corpo materno prima che l'embrione si sviluppi; l’etimo è dal lat. volg. òvu(m), dal greco oòn.
5 - MONECA 'E CASA: DIAVULO ESCE E TTRASE, MONECA 'E CUNVENTO: DIAVULO OGNI MUMENTO.
Letteralmente: monaca di casa: diavolo entra ed esce, monaca di convento: diavolo ogni momento. La locuzione, con una punta di irriverenza, viene usata, quando si voglia eccepire qualcosa sul comportamento di chi, invece, istituzionalmente dovrebbe avere un comportamento irreprensibile. La monaca di casa era a Napoli una di quelle attempate signorine che, condannate a restar nubili, per non essere tacciate di zitellaggio, facevano le viste di dedicarsi alla cura di qualche parente anziano o prete. Va da sé che il diavolo della locuzione è usato eufemisticamente per indicare il medesimo diavolo di talune novelle del Boccaccio; e la locuzione sostiene che tali monache di casa non fossero cosí irreprensibili come lasciavano intendere ed al contrario si dessero, di nascosto, alla buona vita; ai medesimi piaceri del corpo si riteneva di dessero anche le monacate dei monasteri e per ciò che attiene al convento è facile pensare che la locuzione faccia riferimento a quel convento di sant'Arcangelo a Baiano in Napoli, finito nelle cronache dell'epoca (1550 e ss.) e delle successive per i comportamenti decisamente libertini tenuti da quasi tutte suore ivi ospitate.( cfr. Cronaca del convento di Sant'Arcangelo a Bajano attribuito a Stendhal);
moneca ‘e casa letteralmente monaca di casa nel senso già spiegato; moneca= monaca, suora , colei che à abbracciato il monachesimo; nel cattolicesimo, membro di un ordine monastico o religioso che à pronunciato i voti solenni di povertà, castità e obbedienza sost. femm. del masch. monaco che deriva dal lat. tardo monachu(m), che è dal gr. monachós 'unico', poi 'solitario' (e quindi 'monaco'), deriv. di mónos 'solo, unico';
casa = casa, dimora privata familiare con etimo dal lat. casa(m), propr. 'casa rustica'opposta alla domus, abitazione signorile del dominus;
diavulo= diavolo, nell'ebraismo e nel cristianesimo, potenza che guida le forze del male e si identifica con Lucifero, il capo degli angeli che si ribellarono a Dio, poi divenuto Satana, principe delle tenebre; per estens., ognuno degli altri angeli ribelli e la forza del male che essi incarnano | nella fantasia popolare è concepito per lo più come un mostro di forme umane con corna, ali, coda e altri attributi animaleschi, grande tentatore, amante di ogni disordine ed eccesso, con etimo dal lat. tardo diabolu(m), dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabàllein 'disunire, mettere male, calunniare', che nel gr. cristiano traduce l'ebr. satan 'contraddittore'; nella locuzione in epigrafe la voce a margine è usata – come ò già detto – in senso furbesco/osceno
jesce= esce, viene fuori voce verb. (3ª pers. sing. pres.ind.) dell’infinito ascire/ascí = uscire venire fuori da un luogo chiuso, circoscritto o idealmente delimitato con etimo dal lat. volg. ab-exire→*axire→assire→ascire ;
trase = entra, penetra voce verb. (3ª pers. sing. pres.ind.) dell’infinitotrasire/trasí = penetrare in un luogo, andar dentro, introdursi con etimo dal lat. volg. *trasire per il class. transíre;
cunvento =convento, edificio in cui vive una comunità di religiosi o religiose che ànno pronunciato voti solenni; nell'uso corrente, sin. di monastero sost. masch. con etimo, come per la corrispondente voce italiana, dal lat. conventu(m) 'adunanza, convegno', deriv. di convenire 'trovarsi insieme'; nella voce napoletana si è avuta la tipica chiusura o→u nella sillaba d’avvio intesa lunga;
mumento = momento, periodo di tempo di varia durata, considerato in relazione alle condizioni che in esso si determinano; circostanza, occasione, opportunità con etimo dal lat. momentu(m),sincope di *movimentum, deriv. di movíre 'muovere'; propr. 'impulso, moto', poi 'peso che fa muovere (la bilancia)' e anche 'brevissimo periodo di tempo' con la tipica chiusura o→u nella sillaba d’avvio intesa lunga;
6 - FRIJERE 'O PESCE CU LL' ACQUA.
Letteralmente: friggere il pesce con l'acqua. La locuzione stigmatizza il comportamento insulso o quanto meno eccessivamente parsimonioso di chi tenti di raggiungere un risultato apprezzabile senza averne i mezzi occorrenti e necessari in mancanza dei quali si va certamente incontro a risultati errati o di risibile efficacia, come sarebbe quello di una frittura, che d'altronde non si può acconciamente fare senza disporre di olio o di grasso;
frijere= friggere,cuocere nell'olio o in altro grasso bollente ed estensivamente rodersi, struggersi; fremerevoce verbale infinito dal verbo onomatopeico latino frígere con caduta della g sostituita dal suono di transizione intervocalico j;
pesce= pesce sost. masch. generico per indicare qualsiasi animale vertebrato acquatico di varia grandezza, per lo più fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne per nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo che quando il pesce sia stato cotto e spolpato viene detto lisca da un tardo lat. lisca(m), di origine germanica; l’etimo di pesce è dal lat. pisce(m);
acqua= acqua, composto di idrogeno e ossigeno, presente in natura allo stato liquido (in mari, fiumi, laghi, nel sottosuolo o in forma di goccioline nelle nubi), allo stato solido (ghiaccio e neve) e allo stato di vapore (nell'atmosfera); costituente fondamentale degli organismi, in condizioni ordinarie è un liquido trasparente, inodore, insapore ed incolore, azzurrognolo se in grandi masse; l’etimo è dal lat. aqua(m) con raddoppiamento popolare della consonante q→cq.
7 - MEGLIO 'NA MALA JURNATA, CA 'NA MALA VICINA.
Meglio una cattiva giornata che una cattiva vicina. Id est: meglio sopportare gli effetti negativi di una giornata improduttiva o fastidiosa, che la frequentazione quotidiana con pessimi vicini, colleghi di lavoro ed assimilati… Ed il perché è facile da comprendersi: una giornata cattiva, prima o poi passa e probabilmente, con essa, i suoi effetti negativi, ma dei cattivi vicini, dei pessimi colleghi di lavoro, perdurante la loro stabile vicinanza, di giornate cattive ne possono procurare parecchie...ed a maggior ragione quando i cattivi vicini, i pessimi colleghi di lavoro siano di sesso femminile.
meglio = meglio, avv. e agg.nel senso di migliore con valore neutro, nel significato di cosa migliore, preferibile, nell'uso pop. regionale, preceduto dall'art. determ. (‘o – il), à valore di superlativo relativo, equivalendo a il migliore (‘o meglio jucatore= il miglior giocatore, ‘o meglio attore= il migliore attore etc.);
con valore neutro, nel significato di cosa migliore, preferibile, preceduto dall’art. determ. ‘o che comporta la geminazione della consonante m e seguíto dallo specificativo partitivo de (‘e) es.: ‘o mmeglio d’’o mmagnà= la cosa migliore del pranzo etc. l’etimo è dal lat. melius, neutro di melior -oris 'migliore'
mala= cattiva, non buona , brutta, trista agg. qual. femm. con etimo dal lat. malu(m) reso femm. *mala(m);
jurnata = giornata, il periodo compreso tra la mattina e la sera in rapporto al tempo atmosferico o al lavoro, all'attività che vi si svolge, oppure (come nel caso che ci occupa) agli avvenimenti che vi accadono; l’etimo è dal francese journée da un antico jornée derivati di journ/jorn= giorno;
vicina= vicina sost. femm. (dall’agg. qualif. vicino/a = che, chi non è lontano o è poco lontano nello spazio o nel tempo, confinante, anche chi à rapporti di parentela o di amicizia:
con etimo dal lat. vicina(m), deriv. di vicus 'villaggio'; propr. 'che appartiene allo stesso villaggio'.
8 - FATTE 'NA BBONA ANNUMMENATA E VA' SCASSANNO CHIESIE.
Letteralmente: procura di farti una buona nomea e poi saccheggia pure le chiese.Amara, disincantata osservazione della realtà dalla quale si ricava che ciò che conta nella vita è l’apparenza, piuttosto che la sostanza; in virtú di ciò, basta godere di una buona opinione presso i terzi, poi si possono operare i peggiori misfatti, addirittura furti sacrileghi, nessuno mai sospetterà di uno che goda di buona nomea. La locuzione insomma affronta l'antico dilemma: essere o apparire e propende, stranamente per la cultura popolare, da sempre incline dalla parte della sostanza piuttosto che da quella della forma, per il secondo corno del dilemma.
fatte= fatti= fa’ per te voce verbale (da non confondere con l’omografo ed omofono sost. masch. plur. di fatto= accadimento) (2ª pers. sing. imperativo) dell’infinito fà/fare
(con etimo dal lat. sincopato fa(ce)re) addizionato in posizione enclitica del pronome te→tte con valore di dativo di vantaggio per te;
bbona =buona, conforme al bene; onesta, moralmente positiva agg. qual. con etimo dal lat. bona(m);
annummenata/’nnummenata = nomea, rinomanza, nome, reputazione, fama letteralmente aggettivo poi sostantivato ricavato dal part. pass. femm. del verbo annummenà/’nnumenà= nominare, dare fama, reputazione con etimo dal lat.ad+ nominare,forma intensiva(vedi ad) di nominare deriv. di nomen -minis 'nome';
va’= vai voce verbale (2ª pers. sing. imperativo) dell’infinito jí= andare ( con etimo dal lat. ire; ma per le forme che ànno per tema vad→vac derivano dal lat. vadere 'andare';
scassanno= rompendo,infrangendo ed estensivamente , come qui,rapinando, perpetrando furti voce verbale (gerundio)
dell’infinito scassare/scassà= rompere, infrangere etc. con etimo da un tardo latino s (intensiva)+ quassare frequentativo di quatere; ricorderò che in napoletano esiste una seconda voce scassà con etimo e significato diversi; questa seconda voce verbale sta per raschiare, cancellare e deriva da un tardo latino s (intensiva)+ cassare denominale di cassus=vano, vuoto;
chiesie/chiese= chiese, luoghi di culto, sost. femm. plur. di chiesia/chiesa= comunità di fedeli che professano una delle confessioni cristiane, ma piú spesso segnatamente il luogo, l’edificio dove si svolgono le riunioni e le cerimonie di culto delle confessioni cristiane (l’etimo è dal lat. ecclesia(m), derivato dal gr. ekklēsía 'assemblea', deriv. di ekkalêin 'chiamare'.
9 -AMMACCA E SSALA, AULIVE 'E GAETA.
Letteralmente: schiaccia e sala, olive di Gaeta! Di per sè è la voce - ossia la frase di richiamo – lanciata dai venditori girovaghi o da quelli usi ad affacciarsi sulla imboccatura della propria bottega (per attirare a viva voce l’attenzioni di probabili clienti) di olive e con essa voce si rammenta la tecnica della conservazione in salamoia delle olive che vengono stipate in botticelle e conservate in un bagno di acqua salata. Con la stessa locuzione si suole sarcasticamente commentare a mo' di riprovazione, il comportamento di coloro (lavoranti e/o figliuoli) che operano in maniera rapida e superficiale, senza porre attenzione ed applicazione a ciò che sono stati chiamati a fare.
ammacca= comprime, schiaccia, pigia voce verbale (3ª pers. sing. ind. presente o altrove 2ª pers. sing. imperativo) dell’infinito ammaccà = comprimere, schiacciare, pigiare (con etimo dal tardo latino ad+maccare forma intensiva (vedi ad) di maccare di pari significato; dal verbo maccare è derivata la voce maccarone (maccherone) = impasto schiacciato;
ssala= sala, cosparge di sale voce verbale (3ª pers. sing. ind. presente o altrove 2ª pers. sing. imperativo) dell’infinito salare/salà = c ondire un cibo col sale; e qui cospargere di sale un alimento per conservarlo ( denominale di sale ( lat. sale(m))
aulive = olive o ulive, s. f. plur. di auliva il frutto dell'olivo, costituito da una piccola drupa ovale, commestibile, ricca di olio commestibile: l’etimo della voce napoletana è dall’acc. lat. (il)la(m) uliva(m) con agglutinazione eufonica dell’ articolo ‘a da la;
Gaeta splendido comune laziale di 21mila abitanti circa, posizionato sul livello del mare nella parte bassa della Provincia di Latina, sede Arcivescovile, sede del Parco Regionale Riviera di Ulisse, dista circa 120 Km. da Roma e 80 Km. da Napoli. Le origini del nome di Gaeta sono tuttora avvolte nella leggenda:
Strabone indicò la sua provenienza dal termine Caiatasusato dai pescatori locali per indicare il sito, con chiaro riferimento all'ampia insenatura del suo golfo;
Diodoro Siculo collegò queste terre al mito degli argonauti facendo derivare il nome della città da Aietes, mitico padre di Medea (figlia di Circe), la maga innamorata di Giasone.
Virgilio, nell' "Eneide" (Eneide, VII, 1-4) trovò la sua origine nel nome della nutrice di Enea,Cajeta, sepolta dall'eroe troiano in quel sito durante il suo viaggio verso le coste laziali. Dante, quasi a significare la storicità dell'Eneide, confermò l'avvenimento (Inferno, XXVI, 92).
Salto a pie’ pari gli abbondanti riferimenti storici della città di Gaeta, rammentando solo che essa subí ben quattordici assedi che coincisero con importanti avvenimenti, a partire dalla sconfitta del ducato di Gaeta ( 1140 ca con annessione al Regno di Sicilia) fino all'ultimo assedio, quello tenuto dalle truppe del generale piemontese Cialdini nel 1861 (che sarà nominato duca di Gaeta) e che diede inizio all'unità d'Italia. In coda ricorderò che il 25 novembre 1848 il papa Pio IX si rifugiò a Gaeta, ospite dei Borbone, in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana ad opera di Giuseppe Mazzini, e vi rimase fino al 4 settembre 1849, periodo durante il quale Gaeta assunse la denominazione di "Secondo Stato della Chiesa". E fu proprio durante questo soggiorno che papa Pio IX venne illuminato dallo Spirito Santo durante le sue preghiere presso la Cappella d'Oro e proclamò il Dogma dell'Immacolata Concezione al suo ritorno a Roma.
Il 13 febbraio 1861 Francesco II di Borbone si arrese a Gaeta, ultimo baluardo del suo regno, capitolando all'assedio delle truppe del generale Enrico Cialdini (assedio di Gaeta (1860-1861)): determinando la fine del Reame delle Due Sicilie e iniziò l'unità d'Italia ad opera dei Savoia. Da questo momento in poi iniziò la lenta decadenza di Gaeta come importante centro politico, militare e amministrativo.
Storicamente parte dell'antica provincia di Terra di Lavoro in Campania, fu trasferita al Lazio nel periodo fascista, quando venne incorporata nella nascente Provincia di Littoria (Latina).
10 - CCA 'E PPEZZE E CCA 'O SAPONE.
Letteralmente: di qui le pezze e di qua il sapone. È il modo rapidamente incisivo per dire che non si fa credito di sorta. Chi usa detta locuzione intende comunicare che con lui non si fanno contratti se non a prestazione e controprestazione immediata, contratti dove il do e il dai devono verificarsi senza soluzione di continuità, quasi contemporaneamente.
Originariamente, la locuzione era usata dai robivecchi girovaghi detti sapunari appunto perché cedevano in cambio di abiti dismessi o stoviglie ed oggetti usati un tot di sapone quale merce di scambio.
cca = qua, in questo luogo, (indica il luogo dov'è chi parla o un luogo molto vicino a chi parla; è meno determinato di qui, non altrove avv. di luogo, talvolta usato impropriamente quale rafforzativo anche in locuzioni di tempo del tipo cca mmo mmo= immantinente, senza indugio; l’etimo è dal lat. ec)cu(m) hac, propr. 'ecco per di qua'; rammento che in napoletano esiste un altro monosillabo ca = che quasi omofono dell’avv. a margine, ma non si tratta di un avverbio, bensí di una cong. o pronome relativo; trattandosi di due monosillabi simili regola grammaticale vorrebbe che o l’uno o l’altro fosse corredato d’un segno diacritico (accento, apostrofo ); ò usato il condizionale in quanto si è trovata la strada piú immediata e comoda di usare sempre la geminazione della c iniziale, evitando erronei, pletorici ed inutili accenti per l’avverbio di luogo, per modo di avere non l’errato ccà (come talvolta mi è capitato di trovare negli scritti perfino di commediografi famosi) ma l’esatto cca= qua,mentre per la congiunzione/pronome ca si usa la c iniziale scempia ed in tal modo viene evitata la confusione tra ca e cca;
ppezze= pezze, stracci, ritagli di tessuti usati, cenci; altrove la voce a margine indicò pure delle grosse monete d’argento
sost. femm. plurale di pezza che è dal lat. pettia(m) forse dall’ant. tedesco pfetzen= brandello, pezzo, brano;
sapone= sapone, generico nome dei sali alcalini di acidi grassi, di consistenza pastosa o solida, usati come detergenti con etimo dal lat. sapone(m) affine a sapiu(m) ed all’ant. ted. sapp/sap= succo; propriamente il latino sapone(m), fu una 'miscela di cenere e sego per tingere i capelli', voce di orig. germ. (vedi sapp) e solo successivamente indicò le paste usate quali detergenti. In chiusura rammenterò che i saponi conferiti dai saponari nei loro scambi, non erano le saponette che conosciamo , ma un tipo di sapone molto morbido e di colore ambra (da usare per detergere abiti e biancheria non per la pulizia personale),di produzione artigianale, che veniva ceduto avvolto in fogli di carta oleata, affettato, staccandolo con una lama da un parallelepipedo compatto; tale sapone era comunemente detto sapone ‘e piazza= sapone di piazza, perché venduto non in negozio, ma esclusivamente per istrada /piazza da venditori girovaghi e/o rigattieri, robivecchi (saponari )che ne erano anche i produttori.
Raffaele Bracale
martedì 30 novembre 2010
VARIE 899
1. Jí truvanno Cristo ‘int’ ê lupine o meglio Jí truvanno Cristo dinto a la pina
ad litteram: Andar cercando Cristo fra i lupini o meglio Andar cercando Cristo nella pigna. Id est: mettersi alla ricerca di una cosa difficile da trovarsi o da conseguirsi; cosa pretestuosa e probabilmente inutile, per cui, il piú delle volte, non metterebbe conto il mettersene alla ricerca.
Come ò segnalato la prima locuzione è meno esatta della seconda che risulta essere quella originaria, mentre la prima ne è solo una frettolosa corruzione; ed in effetti se si analizza la seconda locuzione, quella consigliata, si può intendere a pieno la valenza delle espressioni, valenza che è difficile cogliere accettando la prima locuzione che fa riferimento ad incoferenti e pretestuosi lupini; quanto piú corretta la seconda, quella che fa riferimento alla pigna in quanto i pinoli in essa contenuti presentano un ciuffetto di cinque peli comunemente detto: manina di Cristo e la locuzione richiama la ricerca di detta manina, operazione lunga e che non sempre si conclude positavamente: infatti occorre innanzitutto procurarsi una pigna fresca, abbrustolirla al fuoco per poi spaccarla ed estrarne i contenitori dei pinoli, da cui trar fuori i suddetti ed alla fine andare alla ricerca della manina e cioè di Cristo; spesso capita però che i contenitori siano vuoti di pinoli e dunque tutta la fatica fatta va sprecata e si rivela inutile. Qualche altro scrittore di cose napoletane nel vano tentativo di fare accogliere la prima locuzione, fa riferimento ad una non meglio annotata o rammentata leggenda che vede stranamente la Vergine Maria non esser misericordiosa con la pianta di lupini; nelle mie ricerche tale leggenda è risultata pressocché sconosciuta, mentre non v’è anziano popolano che non sia a conoscenza della manina di Cristo.
2. Jí truvanno chi ll’accide nell’espressione: va truvanno chi ll’accide
Ad litteram: andare in cerca di chi l’uccide nell’espressione va in cerca di chi l’uccide
espressione usata per commentare le antipatiche azioni del provocatore, di chi stuzzichi il prossimo fino a destare, anche se figuratamente, nei meno pazienti, istinti omicidi.
3. Jí truvanno guaje cu ‘a lanternella
Ad litteram: andare in cerca di guai con un lanternino detto di chi per sua natura e non per sopraggiunte casualità, si va cacciando di proposito nei guai, quasi andandone alla ricerca con una lanterna per meglio trovarli.
4. Jí pe fiche e truvà cetróle
Ad litteram: andare in cerca di fichi e trovare cetrioli. Locuzione di portata simile a quella ricordata al num. 361 atteso che il cetriolo pure essendo un ortaggio buono ed edibile, non è certo saporito e gustoso come un fico.
5. Jí ô bbattesemo senza ‘o criaturo
Ad litteram: recarsi al fonte battesimale senza il bambino (da battezzare) locuzione usata per bollare situazioni macroscopicamenti carenti degli elementi essenziali alla loro esistenza, riferita spercialmente a tutti coloro che distratti per natura, o perché colpevolmente poco attenti si accingono ad operazioni destinate a fallire perché prive del necessario sostrato dimenticato per distrazione o non conferito per disattenzione.
6. Jí a ppuorto (o a Puortece) pe ‘na rapesta.
Ad litteram: recarsi al porto (oppure a Portici) per (acquistare) una rapa. Id est: impegnarsi eccessivamente, affaticarsi oltremodo per raggiungere un risultato modesto o meschino come sarebbe il recarsi al mercato ortofrutticolo all’ingrosso un tempo ubicato nei pressi del porto oppure recarsi addirittura a Portici, piccolo comune agricolo nei pressi di Napoli, per acquistare una sola, insignificante rapa.
7. Jí dint’ a ll’ossa.
Ad litteram: andare nelle ossa detto di tutto ciò che risulti ampiamente giovevole, utile e proficuo che faccia quasi assaporarne i benefici fin nelle ossa; la locuzione però non attiene esclusivamente al piano fisico , potendosi usare anche o spesso con riferimenti morali.
8. Jí ‘nfreva
Ad litteram: andare in febbre id est: adontarsi, lasciarsi cogliere da moti di rabbia innanzi a situazioni ritenute cosí ingiuste o prevaricanti da destare agitazione, foriera di febbre.
9. Jí mettenno ‘a fune ‘e notte
Ad litteram: Andar mettendo la fune di notte. Locuzione che si usa pronunciare risentitamente, in forma negativa ( nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte) (non vado tendendo la fune di notte)oppure sotto forma di domanda retorica:ma che ghiesse mettenno fune ‘e notte?(forse che vado tendendo funi di notte?)per protestare la propria onestà, davanti ad eccessive richieste di carattere economico; a mo’ d’esempio quando un figlio chiede troppo al proprio genitore, costui nel negargli il richiesto usa a mo’ di spiegazione la locuzione in epigrafe, volendo significare: essendo una persona onesta e non un masnadiero abituato a rapinare i viandanti tendendo una fune traverso la strada, per farli inciampare e crollare al suolo, non ho i mezzi economici che occorrerebbero per aderire alle tue richieste; perciò règolati e mòderale !
10. Jí truvanno ova ‘e lupo e piettene ‘e quinnece.
Ad litteram: andare in cerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose ma vane come sarebbe l’andare alla ricerca di uova di lupo che è un animale viviparo o cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i pettini da cardatura non ne contavano mai piú di tredici.
11. Jí truvanno scescé
Espressione intraducibile ad litteram con la quale si identifica chi, in ogni occasioni cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo dichiarato di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare) Probabilmente, durante la dominazione murattiana, se non in quella angioina, un milite francese si fermò a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usò una frase contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).
12. Ll’urdemu lampione ‘e Forerotta.
ad litteram:l’ ultimo lampione di Fuorigrotta id est: essere l’ultimo, inutile, insignificante individuo di un cossesso quale esso sia. La locuzione si riferisce al fatto che un tempo a Napoli i lampioni dell’illuminazione stradale erano numerati ed accesi a sera progressivamente secondo la loro numerazione cardinale. l’ultimo di essi lampioni contrassegnato con il num. 6666 era ubicato nella periferica zona occidentale della città nel quartiere detto di Fuorigrotta ed era l’ultimo ad essere acceso , quando già le prime luci del giorno ne sminuivano l’utilità;alla luce di quanto detto si comprende che è solo un divertente, ma incoferente esercizio mentale considerare che con la quadruplice sequenza del num. 6 che nella smorfia indica tra l’altro lo sciocco, il lampione contrassegnato 6666 possa indicare un gran babbeo.
13. Ll’ommo ‘ncopp’â salèra
Ad litteram: l’uomo sulla saliera. Cosí con l’espressione in epigrafe a Napoli si è soliti prendersi giuoco di uomini che siano piccoli e non fisicamente prestanti, assimilati a quella statuina posta come impugnatura alla sommità dei coperchi delle saliere di terracotta, statuina che riproduceva le sembianze di un tal Tom Pouce nanetto inglese che intorno al 1860 si esibí a Napoli in uno spettacolo di circo equestre.
14. Lloco te voglio, zuoppo, a ‘sta sagliuta
Ad litteram: Lí ti voglio (vedere), zoppo, innanzi a questa salita (vediamo cosa saprai fare...). Locuzione che ricorda quasi il dantesco: Qui si parrà la tua nobilitate e che viene usata nei confronti di tutti i saccenti, supponenti millantatori che certamente crolleranno innanzi alle prime autentiche difficoltà, quando non saranno sufficienti per raggiungere un risultato le parole di cui i millantatori sono ricchi e vacui dispensatori, ma occorreranno invece i fatti che i soliti millantatori sono incapaci di produrre.
15. Levammo ‘accasione
Ad litteram: Togliamo l’occasione id est: facciamo in modo da non lasciare ad altri il destro di inopportuni interventi, rinunciamo magari a qualche piccolo vantaggio pur di non favorire la maldestra commistione di terzi, in faccende che non dovrebbero riguardarli.
16. Levammo ‘a taverna ‘a nannte a Carnevale.
Ad litteram: Togliamo la taverna di davanti a Carnevale. Icastica locuzione di valenza simile alla precedente, ma con un piú marcato riferimento ad eventuali ipotetici eccessi alimentari che si potrebbero produrre se non si procedesse ad eliminare eventuali occasioni scatenanti detti eccessi. Un tempo la locuzione in epigrafe era usata in tutte le case dove, preparata una buona torta, si correva il rischio che i bambini ne mangiassero continuatamente fino, forse ad incorrere in fastidiose indigestioni; in tali occasioni un adulto, provvedendo a metter la torta fuori della portata dei ragazzi , si esprimeva con la locuzione in epigrafe.
17. Levàte ‘o bbrito.
Ad litteram: Togliete il vetro id est: Raccogliete, mettete via, lavate e riponete i bicchieri usati in quanto la giornata è finita e la mescita chiude.Secco comando che gli osti solevano dare ai garzoni nell’approssimarsi dell’ora di chiusura dell’osteria, affinché raccogliessero e lavassero i bicchieri usati dagli avventori, che - a quel comando dato dall’oste ai garzoni - capivano che dovevano abbandonare il locale; per traslato oggi la locuzione è usata ogni qualvolta si voglia fare intendere che si approssima la fine d’una qualunque operazione intrapresa e quindi occorre affrettarsi.
18. Levà ‘a frasca ‘a miezo
Ad litteram: togliere la frasca di mezzo; id est: cessare definitivamente un’ attività, togliersi di mezzo, sbaraccare; la locuzione richiama ciò che facevano gli antichi osti - con mescita specialmente in strade di campagna - i quali al momento della cessazione anche solo stagionale della propria attività solevano staccare dall’architrave della porta dell’osteria il telaio ligneo ricoperto di frasche che vi avevano apposto all’inizio della stagione per segnalare che in quella osteria era giunto il vino nuovo. A Napoli vi fu una strada un tempo periferica che proprio per la presenza di numerose osterie che inalberavano le frasche fu detta ‘a ‘Nfrascata; attualmente la strada è intitolata al poeta pittore Salvator Rosa ((Napoli, 21 o 22 luglio 1615 – † Roma, 15 dicembre 1673)
19. Lillo, Lélla ô pere ‘e sant’ Anna.
Ad litteram: Lillo, Lélla al piede di sant’Anna.id est: prostrati ai piedi di Sant’Anna. Cosí con l’espressione in epigrafe vengono indicate tutte le coppie di coniugi anziani in ispecie quelli che si recano insieme a quotidiane funzioni religiose o anche quelle coppie di anziani che non ricevono mai visite di parenti od amici e si devono contentare della reciproca compagnia; la locuzione rammenta una coppia di attempati coniugi realmente esistiti e dimoranti in quella strada detta ‘a ‘nfrascata, coniugi che non si volevano rassegnare alla mancanza di figli e solevano recarsi in una cappella privata della zona a prostarsi davanti all’effige di sant’Anna per impetrare la grazia di un erede,che ovviamente (data la tarda età) non ebbero e restarono ugualmente soli.
L’espressione in epigrafe nacque in origine come Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna con riferimento ad un’abitudine invalsa nel popolino di recarsi a venerare una presunta reliquia di Sant’ANNA (un piede!) conservato nella cappella della propria abitazione napoletana dal conte Giovan Battista di Tocco di Montemiletto abitazione ubicata appunto alla confluenza piú alta della strada detta ‘a ‘nfrascata, , discendente del capostipite Guglielmo di Tocco che s’ebbe il titolo di conte di Montemiletto (Av) al tempo degli Angioini sotto Carlo III Durazzo. L’incredibile reliquia (oggetto della venerazione di creduli fedeli) era esposta dal conte in occasione della ricorrenza di sant’Anna (26 luglio) sull’altarino della propria cappella, conservata in una preziosa teca di cristallo tempestata di gemme preziose, ma a mio avviso – probabilmente si trattava – come è lecito supporre! - solo di un reperto artistico ligneo e/o di cartapesta che in quell’ epoca (fine ‘500 principio ‘600) di smaccata credulità popolare era stata accreditata come autentica reliquia ; questo piede di sant’Anna faceva il paio con altra presunta reliquia (il bastone di san Giuseppe) protagonista d’un’altra espressione che suona Sfruculià 'a mazzarella 'e san Giuseppe
Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante.
La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi, come appartenuto al santo padre putativo di Gesú. Il settecentesco tenore espose nel suo palazzo il bastone e vi pose a guardia un suo servitore con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecole) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià.
Normalmente, a mo' di ammonimento, la locuzione è usata come imperativo preceduta da un corposo NON.
Torniamo alla locuzione di partenza per la quale si può ipotizzare che correttamente l’originario Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna (Lillo, Lélla e il piede di sant’ Anna) sia stato trasformato in e debba leggersi come Lillo, Lélla ô pere ‘e sant’ Anna. (Lillo, Lélla al piede di sant’ Anna id est: Lillo, Lélla(prostrati) ai piedi di sant’Anna) quando ci si rese conto che il piede oggetto di venerazione non era una reliquia del corpo di sant’Anna, ma solo un pregevole (?) manufatto.
20. Levarse ‘a miez’ê bbotte
Ad litteram: togliersi di mezzo ai botti. Defilarsi, sottrarsi da rischi e pericoli e farlo vilmente magari a danno altrui. Da notare che con la voce bbotte a margine non si intendono le percosse, ma i fuochi artificiali.
brak
ad litteram: Andar cercando Cristo fra i lupini o meglio Andar cercando Cristo nella pigna. Id est: mettersi alla ricerca di una cosa difficile da trovarsi o da conseguirsi; cosa pretestuosa e probabilmente inutile, per cui, il piú delle volte, non metterebbe conto il mettersene alla ricerca.
Come ò segnalato la prima locuzione è meno esatta della seconda che risulta essere quella originaria, mentre la prima ne è solo una frettolosa corruzione; ed in effetti se si analizza la seconda locuzione, quella consigliata, si può intendere a pieno la valenza delle espressioni, valenza che è difficile cogliere accettando la prima locuzione che fa riferimento ad incoferenti e pretestuosi lupini; quanto piú corretta la seconda, quella che fa riferimento alla pigna in quanto i pinoli in essa contenuti presentano un ciuffetto di cinque peli comunemente detto: manina di Cristo e la locuzione richiama la ricerca di detta manina, operazione lunga e che non sempre si conclude positavamente: infatti occorre innanzitutto procurarsi una pigna fresca, abbrustolirla al fuoco per poi spaccarla ed estrarne i contenitori dei pinoli, da cui trar fuori i suddetti ed alla fine andare alla ricerca della manina e cioè di Cristo; spesso capita però che i contenitori siano vuoti di pinoli e dunque tutta la fatica fatta va sprecata e si rivela inutile. Qualche altro scrittore di cose napoletane nel vano tentativo di fare accogliere la prima locuzione, fa riferimento ad una non meglio annotata o rammentata leggenda che vede stranamente la Vergine Maria non esser misericordiosa con la pianta di lupini; nelle mie ricerche tale leggenda è risultata pressocché sconosciuta, mentre non v’è anziano popolano che non sia a conoscenza della manina di Cristo.
2. Jí truvanno chi ll’accide nell’espressione: va truvanno chi ll’accide
Ad litteram: andare in cerca di chi l’uccide nell’espressione va in cerca di chi l’uccide
espressione usata per commentare le antipatiche azioni del provocatore, di chi stuzzichi il prossimo fino a destare, anche se figuratamente, nei meno pazienti, istinti omicidi.
3. Jí truvanno guaje cu ‘a lanternella
Ad litteram: andare in cerca di guai con un lanternino detto di chi per sua natura e non per sopraggiunte casualità, si va cacciando di proposito nei guai, quasi andandone alla ricerca con una lanterna per meglio trovarli.
4. Jí pe fiche e truvà cetróle
Ad litteram: andare in cerca di fichi e trovare cetrioli. Locuzione di portata simile a quella ricordata al num. 361 atteso che il cetriolo pure essendo un ortaggio buono ed edibile, non è certo saporito e gustoso come un fico.
5. Jí ô bbattesemo senza ‘o criaturo
Ad litteram: recarsi al fonte battesimale senza il bambino (da battezzare) locuzione usata per bollare situazioni macroscopicamenti carenti degli elementi essenziali alla loro esistenza, riferita spercialmente a tutti coloro che distratti per natura, o perché colpevolmente poco attenti si accingono ad operazioni destinate a fallire perché prive del necessario sostrato dimenticato per distrazione o non conferito per disattenzione.
6. Jí a ppuorto (o a Puortece) pe ‘na rapesta.
Ad litteram: recarsi al porto (oppure a Portici) per (acquistare) una rapa. Id est: impegnarsi eccessivamente, affaticarsi oltremodo per raggiungere un risultato modesto o meschino come sarebbe il recarsi al mercato ortofrutticolo all’ingrosso un tempo ubicato nei pressi del porto oppure recarsi addirittura a Portici, piccolo comune agricolo nei pressi di Napoli, per acquistare una sola, insignificante rapa.
7. Jí dint’ a ll’ossa.
Ad litteram: andare nelle ossa detto di tutto ciò che risulti ampiamente giovevole, utile e proficuo che faccia quasi assaporarne i benefici fin nelle ossa; la locuzione però non attiene esclusivamente al piano fisico , potendosi usare anche o spesso con riferimenti morali.
8. Jí ‘nfreva
Ad litteram: andare in febbre id est: adontarsi, lasciarsi cogliere da moti di rabbia innanzi a situazioni ritenute cosí ingiuste o prevaricanti da destare agitazione, foriera di febbre.
9. Jí mettenno ‘a fune ‘e notte
Ad litteram: Andar mettendo la fune di notte. Locuzione che si usa pronunciare risentitamente, in forma negativa ( nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte) (non vado tendendo la fune di notte)oppure sotto forma di domanda retorica:ma che ghiesse mettenno fune ‘e notte?(forse che vado tendendo funi di notte?)per protestare la propria onestà, davanti ad eccessive richieste di carattere economico; a mo’ d’esempio quando un figlio chiede troppo al proprio genitore, costui nel negargli il richiesto usa a mo’ di spiegazione la locuzione in epigrafe, volendo significare: essendo una persona onesta e non un masnadiero abituato a rapinare i viandanti tendendo una fune traverso la strada, per farli inciampare e crollare al suolo, non ho i mezzi economici che occorrerebbero per aderire alle tue richieste; perciò règolati e mòderale !
10. Jí truvanno ova ‘e lupo e piettene ‘e quinnece.
Ad litteram: andare in cerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose ma vane come sarebbe l’andare alla ricerca di uova di lupo che è un animale viviparo o cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i pettini da cardatura non ne contavano mai piú di tredici.
11. Jí truvanno scescé
Espressione intraducibile ad litteram con la quale si identifica chi, in ogni occasioni cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo dichiarato di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare) Probabilmente, durante la dominazione murattiana, se non in quella angioina, un milite francese si fermò a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usò una frase contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).
12. Ll’urdemu lampione ‘e Forerotta.
ad litteram:l’ ultimo lampione di Fuorigrotta id est: essere l’ultimo, inutile, insignificante individuo di un cossesso quale esso sia. La locuzione si riferisce al fatto che un tempo a Napoli i lampioni dell’illuminazione stradale erano numerati ed accesi a sera progressivamente secondo la loro numerazione cardinale. l’ultimo di essi lampioni contrassegnato con il num. 6666 era ubicato nella periferica zona occidentale della città nel quartiere detto di Fuorigrotta ed era l’ultimo ad essere acceso , quando già le prime luci del giorno ne sminuivano l’utilità;alla luce di quanto detto si comprende che è solo un divertente, ma incoferente esercizio mentale considerare che con la quadruplice sequenza del num. 6 che nella smorfia indica tra l’altro lo sciocco, il lampione contrassegnato 6666 possa indicare un gran babbeo.
13. Ll’ommo ‘ncopp’â salèra
Ad litteram: l’uomo sulla saliera. Cosí con l’espressione in epigrafe a Napoli si è soliti prendersi giuoco di uomini che siano piccoli e non fisicamente prestanti, assimilati a quella statuina posta come impugnatura alla sommità dei coperchi delle saliere di terracotta, statuina che riproduceva le sembianze di un tal Tom Pouce nanetto inglese che intorno al 1860 si esibí a Napoli in uno spettacolo di circo equestre.
14. Lloco te voglio, zuoppo, a ‘sta sagliuta
Ad litteram: Lí ti voglio (vedere), zoppo, innanzi a questa salita (vediamo cosa saprai fare...). Locuzione che ricorda quasi il dantesco: Qui si parrà la tua nobilitate e che viene usata nei confronti di tutti i saccenti, supponenti millantatori che certamente crolleranno innanzi alle prime autentiche difficoltà, quando non saranno sufficienti per raggiungere un risultato le parole di cui i millantatori sono ricchi e vacui dispensatori, ma occorreranno invece i fatti che i soliti millantatori sono incapaci di produrre.
15. Levammo ‘accasione
Ad litteram: Togliamo l’occasione id est: facciamo in modo da non lasciare ad altri il destro di inopportuni interventi, rinunciamo magari a qualche piccolo vantaggio pur di non favorire la maldestra commistione di terzi, in faccende che non dovrebbero riguardarli.
16. Levammo ‘a taverna ‘a nannte a Carnevale.
Ad litteram: Togliamo la taverna di davanti a Carnevale. Icastica locuzione di valenza simile alla precedente, ma con un piú marcato riferimento ad eventuali ipotetici eccessi alimentari che si potrebbero produrre se non si procedesse ad eliminare eventuali occasioni scatenanti detti eccessi. Un tempo la locuzione in epigrafe era usata in tutte le case dove, preparata una buona torta, si correva il rischio che i bambini ne mangiassero continuatamente fino, forse ad incorrere in fastidiose indigestioni; in tali occasioni un adulto, provvedendo a metter la torta fuori della portata dei ragazzi , si esprimeva con la locuzione in epigrafe.
17. Levàte ‘o bbrito.
Ad litteram: Togliete il vetro id est: Raccogliete, mettete via, lavate e riponete i bicchieri usati in quanto la giornata è finita e la mescita chiude.Secco comando che gli osti solevano dare ai garzoni nell’approssimarsi dell’ora di chiusura dell’osteria, affinché raccogliessero e lavassero i bicchieri usati dagli avventori, che - a quel comando dato dall’oste ai garzoni - capivano che dovevano abbandonare il locale; per traslato oggi la locuzione è usata ogni qualvolta si voglia fare intendere che si approssima la fine d’una qualunque operazione intrapresa e quindi occorre affrettarsi.
18. Levà ‘a frasca ‘a miezo
Ad litteram: togliere la frasca di mezzo; id est: cessare definitivamente un’ attività, togliersi di mezzo, sbaraccare; la locuzione richiama ciò che facevano gli antichi osti - con mescita specialmente in strade di campagna - i quali al momento della cessazione anche solo stagionale della propria attività solevano staccare dall’architrave della porta dell’osteria il telaio ligneo ricoperto di frasche che vi avevano apposto all’inizio della stagione per segnalare che in quella osteria era giunto il vino nuovo. A Napoli vi fu una strada un tempo periferica che proprio per la presenza di numerose osterie che inalberavano le frasche fu detta ‘a ‘Nfrascata; attualmente la strada è intitolata al poeta pittore Salvator Rosa ((Napoli, 21 o 22 luglio 1615 – † Roma, 15 dicembre 1673)
19. Lillo, Lélla ô pere ‘e sant’ Anna.
Ad litteram: Lillo, Lélla al piede di sant’Anna.id est: prostrati ai piedi di Sant’Anna. Cosí con l’espressione in epigrafe vengono indicate tutte le coppie di coniugi anziani in ispecie quelli che si recano insieme a quotidiane funzioni religiose o anche quelle coppie di anziani che non ricevono mai visite di parenti od amici e si devono contentare della reciproca compagnia; la locuzione rammenta una coppia di attempati coniugi realmente esistiti e dimoranti in quella strada detta ‘a ‘nfrascata, coniugi che non si volevano rassegnare alla mancanza di figli e solevano recarsi in una cappella privata della zona a prostarsi davanti all’effige di sant’Anna per impetrare la grazia di un erede,che ovviamente (data la tarda età) non ebbero e restarono ugualmente soli.
L’espressione in epigrafe nacque in origine come Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna con riferimento ad un’abitudine invalsa nel popolino di recarsi a venerare una presunta reliquia di Sant’ANNA (un piede!) conservato nella cappella della propria abitazione napoletana dal conte Giovan Battista di Tocco di Montemiletto abitazione ubicata appunto alla confluenza piú alta della strada detta ‘a ‘nfrascata, , discendente del capostipite Guglielmo di Tocco che s’ebbe il titolo di conte di Montemiletto (Av) al tempo degli Angioini sotto Carlo III Durazzo. L’incredibile reliquia (oggetto della venerazione di creduli fedeli) era esposta dal conte in occasione della ricorrenza di sant’Anna (26 luglio) sull’altarino della propria cappella, conservata in una preziosa teca di cristallo tempestata di gemme preziose, ma a mio avviso – probabilmente si trattava – come è lecito supporre! - solo di un reperto artistico ligneo e/o di cartapesta che in quell’ epoca (fine ‘500 principio ‘600) di smaccata credulità popolare era stata accreditata come autentica reliquia ; questo piede di sant’Anna faceva il paio con altra presunta reliquia (il bastone di san Giuseppe) protagonista d’un’altra espressione che suona Sfruculià 'a mazzarella 'e san Giuseppe
Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante.
La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi, come appartenuto al santo padre putativo di Gesú. Il settecentesco tenore espose nel suo palazzo il bastone e vi pose a guardia un suo servitore con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecole) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià.
Normalmente, a mo' di ammonimento, la locuzione è usata come imperativo preceduta da un corposo NON.
Torniamo alla locuzione di partenza per la quale si può ipotizzare che correttamente l’originario Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna (Lillo, Lélla e il piede di sant’ Anna) sia stato trasformato in e debba leggersi come Lillo, Lélla ô pere ‘e sant’ Anna. (Lillo, Lélla al piede di sant’ Anna id est: Lillo, Lélla(prostrati) ai piedi di sant’Anna) quando ci si rese conto che il piede oggetto di venerazione non era una reliquia del corpo di sant’Anna, ma solo un pregevole (?) manufatto.
20. Levarse ‘a miez’ê bbotte
Ad litteram: togliersi di mezzo ai botti. Defilarsi, sottrarsi da rischi e pericoli e farlo vilmente magari a danno altrui. Da notare che con la voce bbotte a margine non si intendono le percosse, ma i fuochi artificiali.
brak
VARIE 898
1 -ROMPERE 'O CHITARRINO
Ad litteram: rompere la piccola chitarra id est: infastidire, tediare, annoiare e molestare al punto di procurare sia pure figuratamente la rottura del sedere che, nella locuzione è detto, con riferimento alla sua piú o meno involontaria sonorità, chitarrino usando uno degli oltri venti sinonimi con cui nel napoletano, si indica il culo.
2 -ROMPERE 'O NCIARMO
Ad litteram: rompere l'incantesimo Locuzione dalla doppia valenza. in primis, tenuto presente che la parola nciarmo non deriva dal lat. in→’n+ carmen ma da un francese n(eufonica) + charme nel significato di malía, incanto, la si usa per significare: scongiurare un malocchio, scoprire un inganno.
In una differente valenza la locuzione la si usa per indicare che ci si è decisi finalmente a principiare con decisione alcunché, abbandonando una incantata posizione di stallo e quiete accidiosa.
3 -ROMPERE LL'OVA DINT’Ô PANARO
Ad litteram: rompere le uova nel paniere id est: infastidire qualcuno oltremodo mettendogli dispettosamente e per mera cattiveria i bastoni tra le ruote fino al punto di pregiudicargli e far fallire quanto da lui intrapreso, come chi si divertisse, senza un reale tornaconto o beneficio, ma solo per nuocere l’altra, a frantumare le uova che una contadina avesse pazientemente raccolte in un cestino.
4-ROMPERSE 'E GAMME
Ad litteram: rompersi le gambe Locuzione usata soprattutta in forma di imperativo: rúmpete 'e gamme o rumpíteve 'e gamme (rómpiti le gambe o rompétevi le gambe) Id est: sii o siate solleciti nel fare quanto vi è stato detto di fare; precipitatevi all'azione con tanta rapida foga al punto che, iperbolicamente, ve ne derivi la rottura delle gambe.
5-RUTTO PE RUTTO
Ad litteram: rotto per rotto id est:Locuzione usata per significare: giacché si è giunti alla rottura di un rapporto, di un'amicizia o di quant'altro si voglia, è inutile stare a recriminare o a baloccarsi con i relativi cocci, tanto vale dare un definitivo taglio netto e pervenire alla totale eliminazione di ogni tipo di frequentazioni.ovvero: giacché siamo a questo punto, perveniamo pure alle estreme conseguenze! Rammento – per i piú pignoli – che il rutto (=rotto) dell’espressione è il part. pass. del verbo rompere che è dal lat. rumpere e non è il s.vo rutto (eruttazione) che è dal lat. ructu(m).
6 - SAPÉ 'A LECCA E 'A MECCA
Ad litteram:sapere la lecca e la mecca Id est: essere a conoscenza di un po' tutto quel che c'è da sapere e anche addirittura di quel che è inopportuno conoscere.
Locuzione usata a stupíto commento delle meraviglie narrate da coloro che avendo girato il mondo usano riferirle ad attoniti ascoltatori ; con altra valenza è usata per indicare che ci si fa meraviglie di quante cose siano a conoscenza di taluni giovani che, data la loro tenera età, non si presupporrebbe potessero conoscere tante cose.
Intorno alla locuzione in epigrafe ed alla sua genesi svariate sono le ipotesi. Io stesso nei lontani anni '70 del 1900 proposi sulle colonne del quotidiano napoletano ROMA, nella rubrica Mosconi tenuta dalla prof.ssa Settimia Cicinnati un'opinione che poi - pare - abbia trovato parecchi proseliti tra i cultori di cose napoletane. Orbene posto che la locuzione nasce storicamente in Sicilia e lí recita: firriari lecca e Mecca ovvero: girare tra Lecca e Mecca, reputo che la Mecca della locuzione non possa esser altro che la città sacra dei mussulmani e atteso che i siciliani dell'anno 1000, di quei loro invasori che vedevano firriari a dritta e mancina sulla terra siciliana a stento conoscevano il nome de La Mecca a loro si vollero riferire coniando la locuzione dove è chiaro che il termine Lecca non corrisponde a niente di concreto e reale, ma sia stato coniato per bisticcio ed allitterazione con il seguente Mecca
Successivamente la locuzione trasmigrò dalla Sicilia alla Campania, mantenendo la duplice valenza cui accennavo , anzi aggiungo che i napoletani piú anziani e dunque i piú facili a scandalizzarsi davanti ad irriverenti conoscenze dei giovani solevano completare la locuzione in epigrafe aggiungendovi un: e 'a via smaldetta (e la via maledetta)dicendo di un giovane che si mostrasse troppo addentrato nelle segrete cose che egli sapeva 'a lecca, 'a Mecca e 'a via smaldetta id est: conosce la lecca la Mecca e la via maledetta ossiaquella della perdizione.
brak
Ad litteram: rompere la piccola chitarra id est: infastidire, tediare, annoiare e molestare al punto di procurare sia pure figuratamente la rottura del sedere che, nella locuzione è detto, con riferimento alla sua piú o meno involontaria sonorità, chitarrino usando uno degli oltri venti sinonimi con cui nel napoletano, si indica il culo.
2 -ROMPERE 'O NCIARMO
Ad litteram: rompere l'incantesimo Locuzione dalla doppia valenza. in primis, tenuto presente che la parola nciarmo non deriva dal lat. in→’n+ carmen ma da un francese n(eufonica) + charme nel significato di malía, incanto, la si usa per significare: scongiurare un malocchio, scoprire un inganno.
In una differente valenza la locuzione la si usa per indicare che ci si è decisi finalmente a principiare con decisione alcunché, abbandonando una incantata posizione di stallo e quiete accidiosa.
3 -ROMPERE LL'OVA DINT’Ô PANARO
Ad litteram: rompere le uova nel paniere id est: infastidire qualcuno oltremodo mettendogli dispettosamente e per mera cattiveria i bastoni tra le ruote fino al punto di pregiudicargli e far fallire quanto da lui intrapreso, come chi si divertisse, senza un reale tornaconto o beneficio, ma solo per nuocere l’altra, a frantumare le uova che una contadina avesse pazientemente raccolte in un cestino.
4-ROMPERSE 'E GAMME
Ad litteram: rompersi le gambe Locuzione usata soprattutta in forma di imperativo: rúmpete 'e gamme o rumpíteve 'e gamme (rómpiti le gambe o rompétevi le gambe) Id est: sii o siate solleciti nel fare quanto vi è stato detto di fare; precipitatevi all'azione con tanta rapida foga al punto che, iperbolicamente, ve ne derivi la rottura delle gambe.
5-RUTTO PE RUTTO
Ad litteram: rotto per rotto id est:Locuzione usata per significare: giacché si è giunti alla rottura di un rapporto, di un'amicizia o di quant'altro si voglia, è inutile stare a recriminare o a baloccarsi con i relativi cocci, tanto vale dare un definitivo taglio netto e pervenire alla totale eliminazione di ogni tipo di frequentazioni.ovvero: giacché siamo a questo punto, perveniamo pure alle estreme conseguenze! Rammento – per i piú pignoli – che il rutto (=rotto) dell’espressione è il part. pass. del verbo rompere che è dal lat. rumpere e non è il s.vo rutto (eruttazione) che è dal lat. ructu(m).
6 - SAPÉ 'A LECCA E 'A MECCA
Ad litteram:sapere la lecca e la mecca Id est: essere a conoscenza di un po' tutto quel che c'è da sapere e anche addirittura di quel che è inopportuno conoscere.
Locuzione usata a stupíto commento delle meraviglie narrate da coloro che avendo girato il mondo usano riferirle ad attoniti ascoltatori ; con altra valenza è usata per indicare che ci si fa meraviglie di quante cose siano a conoscenza di taluni giovani che, data la loro tenera età, non si presupporrebbe potessero conoscere tante cose.
Intorno alla locuzione in epigrafe ed alla sua genesi svariate sono le ipotesi. Io stesso nei lontani anni '70 del 1900 proposi sulle colonne del quotidiano napoletano ROMA, nella rubrica Mosconi tenuta dalla prof.ssa Settimia Cicinnati un'opinione che poi - pare - abbia trovato parecchi proseliti tra i cultori di cose napoletane. Orbene posto che la locuzione nasce storicamente in Sicilia e lí recita: firriari lecca e Mecca ovvero: girare tra Lecca e Mecca, reputo che la Mecca della locuzione non possa esser altro che la città sacra dei mussulmani e atteso che i siciliani dell'anno 1000, di quei loro invasori che vedevano firriari a dritta e mancina sulla terra siciliana a stento conoscevano il nome de La Mecca a loro si vollero riferire coniando la locuzione dove è chiaro che il termine Lecca non corrisponde a niente di concreto e reale, ma sia stato coniato per bisticcio ed allitterazione con il seguente Mecca
Successivamente la locuzione trasmigrò dalla Sicilia alla Campania, mantenendo la duplice valenza cui accennavo , anzi aggiungo che i napoletani piú anziani e dunque i piú facili a scandalizzarsi davanti ad irriverenti conoscenze dei giovani solevano completare la locuzione in epigrafe aggiungendovi un: e 'a via smaldetta (e la via maledetta)dicendo di un giovane che si mostrasse troppo addentrato nelle segrete cose che egli sapeva 'a lecca, 'a Mecca e 'a via smaldetta id est: conosce la lecca la Mecca e la via maledetta ossiaquella della perdizione.
brak
VARIE 897
1È GGHIUTA 'A MOSCA DINT' Ô VISCUVATO...
Letteralmente: È finita la mosca nella Cattedrale. È l'icastico commento profferito da chi si lamenta d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli à tolto la fame; in effetti un boccone nello stomaco, si sperde, quasi come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione è usata ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese...
2CU 'NU SÍ TE 'MPICCE E CU 'NU NO TE SPICCE.
Letteralmente: dicendo di sí ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre alle richieste ricevute, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti.
‘mpicce voce verbale 2ª p.sg. ind. pr. dell’infinito ‘mpiccià= impicciare, impedire, ostacolare (dal fr. empechier che è dal lat. impedicàre= inceppare denom. di pèdica = lacciuolo per i piedi).
• spicce voce verbale 2ª p.sg. ind. pr. dell’infinito spiccià=sbrigare, liberarsi, disfarsi.(da un tardo lat. volg. dis-pedicare→(di)sped(i)cíare→spedcíare→spicciare (con un infisso frequentativo di una í, assimilazione regressiva dc→cc.
3 TENÉ 'A SALUTE D' 'A CARRAFA D’'A ZECCA.
Letteralmente:avere la consistenza della caraffa della Zecca. Ossia essere gracilissimo e cagionevole di salute quasi come l'ampolla di un litro usata per le tarature, esistente presso la Zecca di Napoli che era di sottilissimo vetro e perciò fragilissima.
4.TENGO 'E LAPPESE A QUADRIGLIÈ, CA M'ABBALLANO PE CCAPA.
Letteralmente: Ò le matite a quadretti che mi ballano in testa. Presa alla lettera la locuzione non significherebbe niente. In realtà "lappese a quadrigliè" è la corruzione dell'espressione latina lapis quadratus poi nel parlato quadrellatus, seu opus reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre piccole piramidi di tufo o altra pietra, (unendole con la malta) facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l'esterno, ed il vertice verso l'interno, per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente. Questa costruzione richiedeva notevole precisione ed attenzione con conseguente applicazione mentale tale da procurare nervosismo, irritabilità et similia.
5. PARÉ 'A SPORTA D''O TARALLARO.
Sembrare la cesta del venditore dei taralli. La locuzione è usata innanzi tutto per indicare chi, per motivi di lavoro o di naturale instabilità, si sposta continuamente, come appunto il venditore di taralli che con la sua cesta, per smaltire tutta la merce fa continui lunghi giri. C'è poi un'altra valenza della locuzione. Poiché gli avventori di taralli son soliti servirsi con le proprie mani affondandole nella cesta colma di tartalli per scegliere, alla stessa maniera c'è chi consente agli altri di approfittare e servirsi delle sue cose, ma lo fa piú per indolenza che per magnanimità.
6.LASSEME STÀ CA STONGO'NQUARTATO!
Lasciami perdere perché sono irritato, scontroso, adirato. Per cui non rispondo delle mie reazioni... La locuzione prende il via dal linguaggio degli schermidori: stare inquartato, ossia in quarta posizione che è posizione di difesa, ma anche di prevedibile prossimo attacco il che presuppone uno stato di tensione massima da cui possono scaturire le piú varie reazioni.
7.SE FRUSCIA PINTAURO, D''E SFUGLIATELLE JUTE 'ACITO.
Si vanta PINTAURO delle sfogliatelle inacidite. Occorre sapere che Pintauro era un antico pasticciere napoletano che, normalmente, produceva delle ottime sfogliatelle dolce tipico inventato peraltro dalle suore del convento partenopeo detto Croce di Lucca. La locuzione è usata nei confronti di chi continua a pavoneggiarsi vantandosi di propri supposti meriti, anche quando invece i risultati delle sue azioni sono piuttosto deprecabili.
8.CARCERE, MALATIA E NECISSITÀ, SE SCANAGLIA 'O CORE 'E LL'AMICE.
Carcere, malattia e necessità fanno conoscere la vera indole, il vero animo, degli amici.
9.MURÍ CU 'E GUARNEMIENTE 'NCUOLLO.
Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i carretti e non i camioncini tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla fatica, con ancora i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere.... Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore che faccia per intero il suo dovere...
10.NISCIUNO TE DICE: LAVATE 'A FACCIA CA PARE CCHIÚ BBELLO 'E ME.
Nessuno ti dice: Lavati il volto cosí sarai piú bello di me. Ossia:non aspettarti consigli atti a migliorarti, in ispecie da quelli con cui devi confrontarti.
brak
Letteralmente: È finita la mosca nella Cattedrale. È l'icastico commento profferito da chi si lamenta d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli à tolto la fame; in effetti un boccone nello stomaco, si sperde, quasi come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione è usata ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese...
2CU 'NU SÍ TE 'MPICCE E CU 'NU NO TE SPICCE.
Letteralmente: dicendo di sí ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre alle richieste ricevute, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti.
‘mpicce voce verbale 2ª p.sg. ind. pr. dell’infinito ‘mpiccià= impicciare, impedire, ostacolare (dal fr. empechier che è dal lat. impedicàre= inceppare denom. di pèdica = lacciuolo per i piedi).
• spicce voce verbale 2ª p.sg. ind. pr. dell’infinito spiccià=sbrigare, liberarsi, disfarsi.(da un tardo lat. volg. dis-pedicare→(di)sped(i)cíare→spedcíare→spicciare (con un infisso frequentativo di una í, assimilazione regressiva dc→cc.
3 TENÉ 'A SALUTE D' 'A CARRAFA D’'A ZECCA.
Letteralmente:avere la consistenza della caraffa della Zecca. Ossia essere gracilissimo e cagionevole di salute quasi come l'ampolla di un litro usata per le tarature, esistente presso la Zecca di Napoli che era di sottilissimo vetro e perciò fragilissima.
4.TENGO 'E LAPPESE A QUADRIGLIÈ, CA M'ABBALLANO PE CCAPA.
Letteralmente: Ò le matite a quadretti che mi ballano in testa. Presa alla lettera la locuzione non significherebbe niente. In realtà "lappese a quadrigliè" è la corruzione dell'espressione latina lapis quadratus poi nel parlato quadrellatus, seu opus reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre piccole piramidi di tufo o altra pietra, (unendole con la malta) facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l'esterno, ed il vertice verso l'interno, per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente. Questa costruzione richiedeva notevole precisione ed attenzione con conseguente applicazione mentale tale da procurare nervosismo, irritabilità et similia.
5. PARÉ 'A SPORTA D''O TARALLARO.
Sembrare la cesta del venditore dei taralli. La locuzione è usata innanzi tutto per indicare chi, per motivi di lavoro o di naturale instabilità, si sposta continuamente, come appunto il venditore di taralli che con la sua cesta, per smaltire tutta la merce fa continui lunghi giri. C'è poi un'altra valenza della locuzione. Poiché gli avventori di taralli son soliti servirsi con le proprie mani affondandole nella cesta colma di tartalli per scegliere, alla stessa maniera c'è chi consente agli altri di approfittare e servirsi delle sue cose, ma lo fa piú per indolenza che per magnanimità.
6.LASSEME STÀ CA STONGO'NQUARTATO!
Lasciami perdere perché sono irritato, scontroso, adirato. Per cui non rispondo delle mie reazioni... La locuzione prende il via dal linguaggio degli schermidori: stare inquartato, ossia in quarta posizione che è posizione di difesa, ma anche di prevedibile prossimo attacco il che presuppone uno stato di tensione massima da cui possono scaturire le piú varie reazioni.
7.SE FRUSCIA PINTAURO, D''E SFUGLIATELLE JUTE 'ACITO.
Si vanta PINTAURO delle sfogliatelle inacidite. Occorre sapere che Pintauro era un antico pasticciere napoletano che, normalmente, produceva delle ottime sfogliatelle dolce tipico inventato peraltro dalle suore del convento partenopeo detto Croce di Lucca. La locuzione è usata nei confronti di chi continua a pavoneggiarsi vantandosi di propri supposti meriti, anche quando invece i risultati delle sue azioni sono piuttosto deprecabili.
8.CARCERE, MALATIA E NECISSITÀ, SE SCANAGLIA 'O CORE 'E LL'AMICE.
Carcere, malattia e necessità fanno conoscere la vera indole, il vero animo, degli amici.
9.MURÍ CU 'E GUARNEMIENTE 'NCUOLLO.
Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i carretti e non i camioncini tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla fatica, con ancora i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere.... Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore che faccia per intero il suo dovere...
10.NISCIUNO TE DICE: LAVATE 'A FACCIA CA PARE CCHIÚ BBELLO 'E ME.
Nessuno ti dice: Lavati il volto cosí sarai piú bello di me. Ossia:non aspettarti consigli atti a migliorarti, in ispecie da quelli con cui devi confrontarti.
brak
VARIE 896
1. Barba, capille e ppalluccella ‘mmocca specialmente nell’espressione serví ‘e barba etc.
Ad litteram: barba, capelli e pallina in bocca specialmente nell’espressione servir di barba etc. Cosí, un tempo, veniva indicato il “servizio” completo offerto dai barbitonsori girovaghi, che per pochi soldi servivano il cliente di rasatura di barba e taglio di capelli, offrendo per sopramercato al cliente una piccola sfera che inserita in bocca e trattenuta tra denti e guancia, consentiva a questa di tendersi in maniera da favorire la rasatura; la sfera offerta, naturalmente monouso, era costituita o da una piccolissima mela che, terminata la rasatura veniva mangiata, o da un congruo confetto (pralina), (ricoperto da una friabilissima glassa zuccherina),prodotto in quel di Sulmona, confetto che, assolta la sua funzione, veniva mangiato.
Oggi l’espressione in epigrafe è usata da chi voglia significare che il suo comportamento, nei riguardi del destinario della locuzione, non è suscettibile di miglioramento in quanto è un comportamento pieno e completo in ogni sua parte o manifestazione.
2. Buono pe scerià ‘a ramma
Ad litteram: buono per soffregare le stoviglie di rame
Un tempo, quando la chimica non aveva ancóra prodotto tutti i detergenti o detersivi che, aiutando la massaia, inquinano il mondo, e quando l’acciaio 18/10
non era entrato ancóra in cucina sotto forma di stoviglie, queste erano di lucente rame opportunamente, per le parti che venivano a contatto con il cibo, ricoperte di stagno .Per procedere alla pulizia delle stoviglie di rame si usavano due ingredienti naturali: sabbia ‘e vitrera (sabbia da vetrai, ricca di silice) e limoni ; orbene quegli agrumi non edibili perché o di sapore eccessivamente aspro o perché carenti di succo, erano destinati allo scopo di pulire e rendere luccicanti le stoviglie; per cui di essi frutti si diceva che erano bbuone pe scerià ‘a ramma. Per traslato, oggi di chi, uomo o cosa, manchi alla sua primaria destinazione, si dice ironicamente che è buono etc. il verbo
scerià id est: soffregare, nettare, lucidare viene da un tardo latino: flicare da cui felericare e poi flericare, donde scericare e infine scerià tutti con il significato di soffregare.
3. Accunciarse quatt' ove dinto a 'nu piatto.
Ad litteram:Sistemarsi quattro uova in un piatto - cioè:assicurarsi una comoda rendita di posizione, magari a danno di altra persona (per solito la porzione canonica di uova è in numero di due...tutte quelle in eccedenza probabilmente sono state sottratte ad altri).
4. Bbuono p’aparà ‘o mastrillo
Ad litteram: buono per armare la trappolina id est: appena sufficiente a predisporre l’esca di una trappolina. La locuzione si usa nei confronti di qualcosa, soprattutto edibile, che sia cosí parva res da non poter soddisfare un sia pur modesto appetito, ma appena appena sufficiente a far da esca; per traslato la locuzione è usata nei confronti di tutto ciò che sia palesemente piccolo e/o modesto.
5. Bene in salute e scarzo a denare
Ad litteram:Bene in salute, ma poco provvisto di danaro.
Spesso alla semplice, spontanea domanda : “Come state?” fatta da un conoscente incontrato per caso, a Napoli si suole rispondere con la locuzione in epigrafe con la quale ci si vuol mettere al riparo da eventuali sorprese, volendo quasi dire: “Se la tua domanda è stata fatta con la semplice intenzione di informarti sul mio stato di salute, sappi che sto bene; ma se la domanda era propedeutica ad una richiesta di prestito, sappi allora che le mie condizioni economiche attuali, non mi permettono di fare prestiti o elargizioni; evita perciò di farmene richiesta!”La locuzione è divenuta col tempo, quasi una frase idiomatica e viene usata sempre in risposta alla domanda de quo, indipendentemente se esistano o meno condizioni economiche precarie.
6. Caccià ‘e ccarte
Ad litteram: tirar fuori le carte Non si tratta però, chiaramente di tra fuori da un cassetto le 40 carte di cui è formato il mazzo napoletano di carte da giuoco per principiare una partita.
Si tratta, invece, di procurarsi le necessarie documentazioni burocratiche per avviare una certa pratica o per portarla a compimento.In particolare la locuzione in epigrafe è usata dai promessi sposi che, intendendo contrarre il loro matrimonio, devono sobbarcarsi all’impresa di procurarsi presso uffici pubblici e/o luoghi di culto le prescritte documentazioni, dette in maniera onnicomprensiva: carte, senza le quali, non è possibile pervenire alla celebrazione delle nozze. Va da sè che quasi tutti i negozi giuridici necessitano di ineludibili carte da procacciare e ciò à dato modo a taluni napoletani, disperatamente senza lavoro, di inventarsi un mestiere: quello di procacciatore di carte; questo utilissimo individuo, per poche lire si accolla l’onere di fare lunghissime file davanti agli sportelli degli uffici dell’anagrafe pubblica, o si accolla la fatica di raggiungere posti lontani e impervi da raggiungere per procurare al richiedente le carte necessarie.
brak
Ad litteram: barba, capelli e pallina in bocca specialmente nell’espressione servir di barba etc. Cosí, un tempo, veniva indicato il “servizio” completo offerto dai barbitonsori girovaghi, che per pochi soldi servivano il cliente di rasatura di barba e taglio di capelli, offrendo per sopramercato al cliente una piccola sfera che inserita in bocca e trattenuta tra denti e guancia, consentiva a questa di tendersi in maniera da favorire la rasatura; la sfera offerta, naturalmente monouso, era costituita o da una piccolissima mela che, terminata la rasatura veniva mangiata, o da un congruo confetto (pralina), (ricoperto da una friabilissima glassa zuccherina),prodotto in quel di Sulmona, confetto che, assolta la sua funzione, veniva mangiato.
Oggi l’espressione in epigrafe è usata da chi voglia significare che il suo comportamento, nei riguardi del destinario della locuzione, non è suscettibile di miglioramento in quanto è un comportamento pieno e completo in ogni sua parte o manifestazione.
2. Buono pe scerià ‘a ramma
Ad litteram: buono per soffregare le stoviglie di rame
Un tempo, quando la chimica non aveva ancóra prodotto tutti i detergenti o detersivi che, aiutando la massaia, inquinano il mondo, e quando l’acciaio 18/10
non era entrato ancóra in cucina sotto forma di stoviglie, queste erano di lucente rame opportunamente, per le parti che venivano a contatto con il cibo, ricoperte di stagno .Per procedere alla pulizia delle stoviglie di rame si usavano due ingredienti naturali: sabbia ‘e vitrera (sabbia da vetrai, ricca di silice) e limoni ; orbene quegli agrumi non edibili perché o di sapore eccessivamente aspro o perché carenti di succo, erano destinati allo scopo di pulire e rendere luccicanti le stoviglie; per cui di essi frutti si diceva che erano bbuone pe scerià ‘a ramma. Per traslato, oggi di chi, uomo o cosa, manchi alla sua primaria destinazione, si dice ironicamente che è buono etc. il verbo
scerià id est: soffregare, nettare, lucidare viene da un tardo latino: flicare da cui felericare e poi flericare, donde scericare e infine scerià tutti con il significato di soffregare.
3. Accunciarse quatt' ove dinto a 'nu piatto.
Ad litteram:Sistemarsi quattro uova in un piatto - cioè:assicurarsi una comoda rendita di posizione, magari a danno di altra persona (per solito la porzione canonica di uova è in numero di due...tutte quelle in eccedenza probabilmente sono state sottratte ad altri).
4. Bbuono p’aparà ‘o mastrillo
Ad litteram: buono per armare la trappolina id est: appena sufficiente a predisporre l’esca di una trappolina. La locuzione si usa nei confronti di qualcosa, soprattutto edibile, che sia cosí parva res da non poter soddisfare un sia pur modesto appetito, ma appena appena sufficiente a far da esca; per traslato la locuzione è usata nei confronti di tutto ciò che sia palesemente piccolo e/o modesto.
5. Bene in salute e scarzo a denare
Ad litteram:Bene in salute, ma poco provvisto di danaro.
Spesso alla semplice, spontanea domanda : “Come state?” fatta da un conoscente incontrato per caso, a Napoli si suole rispondere con la locuzione in epigrafe con la quale ci si vuol mettere al riparo da eventuali sorprese, volendo quasi dire: “Se la tua domanda è stata fatta con la semplice intenzione di informarti sul mio stato di salute, sappi che sto bene; ma se la domanda era propedeutica ad una richiesta di prestito, sappi allora che le mie condizioni economiche attuali, non mi permettono di fare prestiti o elargizioni; evita perciò di farmene richiesta!”La locuzione è divenuta col tempo, quasi una frase idiomatica e viene usata sempre in risposta alla domanda de quo, indipendentemente se esistano o meno condizioni economiche precarie.
6. Caccià ‘e ccarte
Ad litteram: tirar fuori le carte Non si tratta però, chiaramente di tra fuori da un cassetto le 40 carte di cui è formato il mazzo napoletano di carte da giuoco per principiare una partita.
Si tratta, invece, di procurarsi le necessarie documentazioni burocratiche per avviare una certa pratica o per portarla a compimento.In particolare la locuzione in epigrafe è usata dai promessi sposi che, intendendo contrarre il loro matrimonio, devono sobbarcarsi all’impresa di procurarsi presso uffici pubblici e/o luoghi di culto le prescritte documentazioni, dette in maniera onnicomprensiva: carte, senza le quali, non è possibile pervenire alla celebrazione delle nozze. Va da sè che quasi tutti i negozi giuridici necessitano di ineludibili carte da procacciare e ciò à dato modo a taluni napoletani, disperatamente senza lavoro, di inventarsi un mestiere: quello di procacciatore di carte; questo utilissimo individuo, per poche lire si accolla l’onere di fare lunghissime file davanti agli sportelli degli uffici dell’anagrafe pubblica, o si accolla la fatica di raggiungere posti lontani e impervi da raggiungere per procurare al richiedente le carte necessarie.
brak
lunedì 29 novembre 2010
VARIE 895
1.Fà tre fiche nove rotele.
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli. Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare i comportamenti o - meglio - il vaniloquio di chi esagera con le parole e si ammanta di meriti che non possiede, né può possedere. Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle Due Sicilie e corrispondeva in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario,ad 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, è in uso ancora oggi a Malta che, prima di divenire colonia inglese, apparteneva al Regno delle Due Sicilie. Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba RATE,trasformazione a sua volta della parola greca LITRA, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la LITRA divenne poi in epoca romana LIBRA (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
2.'A disgrazzia d''o 'mbrello è quanno chiove fino fino.
Letteralmente: la malasorte dell'ombrello è quando pioviggina lentamente. Va da sè che l'ombrello corre i maggiori rischi di rompersi allorché debba essere aperto e chiuso continuamente, non quando debba sopportare un unico, sia pure violento, scroscio temporalesco; cosí l'uomo(che nel proverbio è adombrato sotto il termine di 'mbrello) soffre di piú nel sopportare continuate piccole prove che non un solo , anche se pesante danno.
3.Avimmo fatto: cupinte, cupinte: 'e cavére 'a fora e 'e fridde 'a dinto.
Letteralmente: abbiamo fatto cúpidi, cúpidi: i caldi (son restati) di fuori ed i freddi(sono entrati) dentro. Icastica espressione napoletana che fotografa una realtà nella quale stravolgendo la logica e l'attesa, si è dato via libera a chi non è all'altezza della situazione e si è lasciato a bocca asciutta chi meriterebbe la priorità nel godimento di un quid (che - nella fattispecie - sono i favori di una donna).
4.'A pecora s'à dda tusà, nun s'à dda scurtecà
Letteralmente: la pecora va tosata, ma non scorticata. Id est: est modus in rebus: non bisogna mai esagerare; nel caso : è giusto che una pecora venga tosata, non è corretto però scarnificarla; come è giusto pagare i tributi, ma questi non devono essere esosi.
5.- Si' pre' 'o cappiello va stuorto... - Accussí à dda jí!
- Signor prete, il cappello va storto - Cosí deve andare. Simpatico duettare tra un gruppetto di monelli che - pensando di porre in ridicolo un prete - gli significavano che egli aveva indossato il suo cappello di sgimbescio, e si sentirono rispondere che quella era l'esatta maniera di portare il suddetto copricapo. La locuzione viene usata quando si voglia fare intendere che non si accettano consigli non richiesti soprattutto quando chi dovrebbe riceverli à - per sua autorità - sufficiente autonomia di giudizio.
6.Dicette Nunziata: Ce ponno cchiú ll'uocchie ca 'e scuppettate!
Letteralmente: Disse Nunziata: Ànno piú potenza gli occhi (il malocchio) che le schioppettate.Il napoletano teme piú il danno che gli possa derivare dagli sguardi malevoli di taluno, che il danno che possono arrecargli colpi di fucile: dalle ferite da arma da fuoco si può guarire, piú difficile sfuggire alla iettatura.
7. nnotte se 'nzuraje Catiello.
Letteralmente: Catello (inguaribile scapolo) prese moglie di notte. La locuzione fotografa una situazione che in italiano è resa con: meglio tardi che mai; il Catello, infatti procrastinò tanto il suo matrimonio che quando fu celebrato era oramai notte. Nella locuzione partenopea si tenga presente la geminazione iniziale della lettera N nella parola notte che lascia capire che la A iniziale non è l'articolo femminile ('A) ma una preposizione articolata (â = a+ ‘a= alla) che introduce un concetto temporale reso con la doppia N di notte; se la A fosse stato un articolo la successiva parola notte sarebbe stata scritta in maniera scempia con una sola N.
8.'E maccarune se magnano teniénte, teniénte.
Letteralmente: i maccheroni vanno mangiati molto al dente. La locuzione a Napoli oltre a compendiare un consiglio gastronomico ineludibile, viene usata anche per significare che gli affari devono esser conclusi sollecitamente, senza por troppe remore in mezzo.
Teniente è il participio presente aggettivato del verbo tené (che è dal lat. teníre); nella fattispecie il verbo sta per mantenere (la cottura() e poi che il participio è reiteranto vale quase superlativo come quasi sempre nel napoletano, significa molto al dente; altrove l’espressione è riportata come 'E maccarune se magnano vierde vierde dove l’aggettivo reiterato vierde vierde = verdi verdi à la medesima valenza del teniente teniente: molto al dente.
9. Quanno siente 'o llatino da 'e fesse, è signo 'e mal' annata.
Letteralmente: quando senti che gli sciocchi parlano latino, è segno di un cattivo periodo.Id est: l'ostentazione di cultura da parte degli stupidi ed ignoranti, prelude a tempi brutti, per cui son da temere gli sciocchi che si paludano da sapienti...
10.Paré 'o sorice 'nfuso 'a ll'uoglio.
Letteralmente: sembrare un topolino bagnato da l'olio. La locuzione viene usata a Napoli nei confronti di taluni bellimbusti che vanno in giro tirati a lucido ed impomatati che in napoletantano suona: alliffati (dal greco aleipàr=olio); tali soggetti vengon paragonati ad un topolino che per ventura sia cascato nell'orcio dell'olio e ne sia riemerso completamente unto e luccicante.
11. A carne se jetta e 'e cane s'arraggiano.
Letteralmente: la carne si butta ed i cani s'arrabbiano. Id est: c'è abbondanza di carne, ma mancanza di danaro per acquistarla e ciò determina profonda rabbia in chi, non avendo pecunia, non può approfittare dell'abbondanza delle merci. Per traslato, il proverbio è usato in tutte le situazioni in cui una qualsiasi forma di indigenza è ostativa al raggiungimento di un fine che parrebbe invece a portata di mano; ciò vale anche nei rapporti tra i due sessi: per es. allorchè la donna si offra apertamente e l'uomo non abbia il coraggio di cogliere l'occasione; un terzo - spettatore, magari concupiscente, commenta la situazione con le parole in epigrafe.
12.'A vecchia a 'e trenta 'austo, mettette 'o trapanaturo a 'o ffuoco.
Letteralmente: la vecchia ai trenta d'agosto (per riscaldarsi) mise nel fuoco l'aspo. Il proverbio viene usato a mo' di avvertenza, soprattutto nei confronti dei giovani o di chi si atteggi a giovane, che si lasciano cogliere impreparati alle prime avvisaglie dei freddi autunnali che già si avvertano sul finire del mese di agosto, freddi che - come dice l'esperienza - possono essere perniciosi al punto da indurre i piú esperti (la vecchia) ad usare come combustibile persino un utile oggetto come un aspo, l'arnese usato per ammatassare la lana filata. Per estensione, il proverbio si usa con lo stesso fine di ammonimento, nei confronti di chiunque si lasci cogliere impreparato non temendo un possibile inatteso rivolgimento di fortuna - quale è il freddo in un mese ritenuto caldo.
Trapanaturo s.m.le = aspo, strumento girevole d’uso domestico che serve per avvolgere in matassa un filato (derivato del greco trypanon, deverbale . di trypân 'girare' )
13.Jí zumpanno asteche e lavatore.
Letteralmente: andar saltando per terrazzi e lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in alto (asteche=lastrici solai,terrazzi dal greco óstrakon 'conchiglia, coccio',perché anticamente i lastrici solari erano pavimentati con cocci e lapilli opportunamente battuti e compattati. ) ed in basso ( lavatore = lavatoi (dal lat. tardo lavatoriu(m), deriv. di lavare 'lavare') erano olim ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare.
14. Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.
Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso, giacché tu non ài nè la forza, nè la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle. La frase viene usata a commento delle azioni iniziate da chi sia ritenuto inetto al punto da non poter portare al termine ciò che intraprende.
'O cucchiere 'e piazza: te piglia cu 'o 'ccellenza e te lassa cu 'o chi t'è mmuorto.
Letteralmente: il vetturino da nolo: ti accoglie con l'eccellenza e ti congeda bestemmiandoti i morti.Il motto compendia una situazione nella quale chi vuole ottenere qualcosa, in principio si profonde in ossequi e salamelecchi esagerati ed alla fine sfoga il proprio livore represso, come i vetturini di nolo adusi a mille querimonie per attirare i clienti, ma poi - a fine corsa - pronti a riversare sul medesimo cliente immani contumelie, in ispecie allorché il cliente nello smontare dalla carrozza questioni sul prezzo della corsa, o - peggio ancora - non lasci al vetturino una congrua mancia.
15.Jí cascia e turnà bauglio oppure Jí stocco e turnà baccalà.
Letteralmente: andar cassa e tornare baúle oppure andare stoccafisso e tornare baccalà. Id est: non trarre profitto alcuno o dallo studio intrapreso o dall'apprendimento di un mestiere, come chi inizi l'apprendimento essendo una cassa e lo termini da baúle ossia non muti la sua intima essenza di vacuo contenitore, o - per fare altro esempio - come chi inizi uno studio essendo dello stoccafisso e lo termini diventando baccalà, diverso in forma, ma sostanzialmente restando un immutato merluzzo. Con il proverbio in epigrafe, a Napoli, si è soliti commentare le maldestre applicazioni di chi non trae profitto da ciò che tenta di fare, perchè vi si applica maldestramente o con cattiva volontà.
brak
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli. Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare i comportamenti o - meglio - il vaniloquio di chi esagera con le parole e si ammanta di meriti che non possiede, né può possedere. Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle Due Sicilie e corrispondeva in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario,ad 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, è in uso ancora oggi a Malta che, prima di divenire colonia inglese, apparteneva al Regno delle Due Sicilie. Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba RATE,trasformazione a sua volta della parola greca LITRA, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la LITRA divenne poi in epoca romana LIBRA (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
2.'A disgrazzia d''o 'mbrello è quanno chiove fino fino.
Letteralmente: la malasorte dell'ombrello è quando pioviggina lentamente. Va da sè che l'ombrello corre i maggiori rischi di rompersi allorché debba essere aperto e chiuso continuamente, non quando debba sopportare un unico, sia pure violento, scroscio temporalesco; cosí l'uomo(che nel proverbio è adombrato sotto il termine di 'mbrello) soffre di piú nel sopportare continuate piccole prove che non un solo , anche se pesante danno.
3.Avimmo fatto: cupinte, cupinte: 'e cavére 'a fora e 'e fridde 'a dinto.
Letteralmente: abbiamo fatto cúpidi, cúpidi: i caldi (son restati) di fuori ed i freddi(sono entrati) dentro. Icastica espressione napoletana che fotografa una realtà nella quale stravolgendo la logica e l'attesa, si è dato via libera a chi non è all'altezza della situazione e si è lasciato a bocca asciutta chi meriterebbe la priorità nel godimento di un quid (che - nella fattispecie - sono i favori di una donna).
4.'A pecora s'à dda tusà, nun s'à dda scurtecà
Letteralmente: la pecora va tosata, ma non scorticata. Id est: est modus in rebus: non bisogna mai esagerare; nel caso : è giusto che una pecora venga tosata, non è corretto però scarnificarla; come è giusto pagare i tributi, ma questi non devono essere esosi.
5.- Si' pre' 'o cappiello va stuorto... - Accussí à dda jí!
- Signor prete, il cappello va storto - Cosí deve andare. Simpatico duettare tra un gruppetto di monelli che - pensando di porre in ridicolo un prete - gli significavano che egli aveva indossato il suo cappello di sgimbescio, e si sentirono rispondere che quella era l'esatta maniera di portare il suddetto copricapo. La locuzione viene usata quando si voglia fare intendere che non si accettano consigli non richiesti soprattutto quando chi dovrebbe riceverli à - per sua autorità - sufficiente autonomia di giudizio.
6.Dicette Nunziata: Ce ponno cchiú ll'uocchie ca 'e scuppettate!
Letteralmente: Disse Nunziata: Ànno piú potenza gli occhi (il malocchio) che le schioppettate.Il napoletano teme piú il danno che gli possa derivare dagli sguardi malevoli di taluno, che il danno che possono arrecargli colpi di fucile: dalle ferite da arma da fuoco si può guarire, piú difficile sfuggire alla iettatura.
7. nnotte se 'nzuraje Catiello.
Letteralmente: Catello (inguaribile scapolo) prese moglie di notte. La locuzione fotografa una situazione che in italiano è resa con: meglio tardi che mai; il Catello, infatti procrastinò tanto il suo matrimonio che quando fu celebrato era oramai notte. Nella locuzione partenopea si tenga presente la geminazione iniziale della lettera N nella parola notte che lascia capire che la A iniziale non è l'articolo femminile ('A) ma una preposizione articolata (â = a+ ‘a= alla) che introduce un concetto temporale reso con la doppia N di notte; se la A fosse stato un articolo la successiva parola notte sarebbe stata scritta in maniera scempia con una sola N.
8.'E maccarune se magnano teniénte, teniénte.
Letteralmente: i maccheroni vanno mangiati molto al dente. La locuzione a Napoli oltre a compendiare un consiglio gastronomico ineludibile, viene usata anche per significare che gli affari devono esser conclusi sollecitamente, senza por troppe remore in mezzo.
Teniente è il participio presente aggettivato del verbo tené (che è dal lat. teníre); nella fattispecie il verbo sta per mantenere (la cottura() e poi che il participio è reiteranto vale quase superlativo come quasi sempre nel napoletano, significa molto al dente; altrove l’espressione è riportata come 'E maccarune se magnano vierde vierde dove l’aggettivo reiterato vierde vierde = verdi verdi à la medesima valenza del teniente teniente: molto al dente.
9. Quanno siente 'o llatino da 'e fesse, è signo 'e mal' annata.
Letteralmente: quando senti che gli sciocchi parlano latino, è segno di un cattivo periodo.Id est: l'ostentazione di cultura da parte degli stupidi ed ignoranti, prelude a tempi brutti, per cui son da temere gli sciocchi che si paludano da sapienti...
10.Paré 'o sorice 'nfuso 'a ll'uoglio.
Letteralmente: sembrare un topolino bagnato da l'olio. La locuzione viene usata a Napoli nei confronti di taluni bellimbusti che vanno in giro tirati a lucido ed impomatati che in napoletantano suona: alliffati (dal greco aleipàr=olio); tali soggetti vengon paragonati ad un topolino che per ventura sia cascato nell'orcio dell'olio e ne sia riemerso completamente unto e luccicante.
11. A carne se jetta e 'e cane s'arraggiano.
Letteralmente: la carne si butta ed i cani s'arrabbiano. Id est: c'è abbondanza di carne, ma mancanza di danaro per acquistarla e ciò determina profonda rabbia in chi, non avendo pecunia, non può approfittare dell'abbondanza delle merci. Per traslato, il proverbio è usato in tutte le situazioni in cui una qualsiasi forma di indigenza è ostativa al raggiungimento di un fine che parrebbe invece a portata di mano; ciò vale anche nei rapporti tra i due sessi: per es. allorchè la donna si offra apertamente e l'uomo non abbia il coraggio di cogliere l'occasione; un terzo - spettatore, magari concupiscente, commenta la situazione con le parole in epigrafe.
12.'A vecchia a 'e trenta 'austo, mettette 'o trapanaturo a 'o ffuoco.
Letteralmente: la vecchia ai trenta d'agosto (per riscaldarsi) mise nel fuoco l'aspo. Il proverbio viene usato a mo' di avvertenza, soprattutto nei confronti dei giovani o di chi si atteggi a giovane, che si lasciano cogliere impreparati alle prime avvisaglie dei freddi autunnali che già si avvertano sul finire del mese di agosto, freddi che - come dice l'esperienza - possono essere perniciosi al punto da indurre i piú esperti (la vecchia) ad usare come combustibile persino un utile oggetto come un aspo, l'arnese usato per ammatassare la lana filata. Per estensione, il proverbio si usa con lo stesso fine di ammonimento, nei confronti di chiunque si lasci cogliere impreparato non temendo un possibile inatteso rivolgimento di fortuna - quale è il freddo in un mese ritenuto caldo.
Trapanaturo s.m.le = aspo, strumento girevole d’uso domestico che serve per avvolgere in matassa un filato (derivato del greco trypanon, deverbale . di trypân 'girare' )
13.Jí zumpanno asteche e lavatore.
Letteralmente: andar saltando per terrazzi e lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in alto (asteche=lastrici solai,terrazzi dal greco óstrakon 'conchiglia, coccio',perché anticamente i lastrici solari erano pavimentati con cocci e lapilli opportunamente battuti e compattati. ) ed in basso ( lavatore = lavatoi (dal lat. tardo lavatoriu(m), deriv. di lavare 'lavare') erano olim ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare.
14. Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.
Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso, giacché tu non ài nè la forza, nè la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle. La frase viene usata a commento delle azioni iniziate da chi sia ritenuto inetto al punto da non poter portare al termine ciò che intraprende.
'O cucchiere 'e piazza: te piglia cu 'o 'ccellenza e te lassa cu 'o chi t'è mmuorto.
Letteralmente: il vetturino da nolo: ti accoglie con l'eccellenza e ti congeda bestemmiandoti i morti.Il motto compendia una situazione nella quale chi vuole ottenere qualcosa, in principio si profonde in ossequi e salamelecchi esagerati ed alla fine sfoga il proprio livore represso, come i vetturini di nolo adusi a mille querimonie per attirare i clienti, ma poi - a fine corsa - pronti a riversare sul medesimo cliente immani contumelie, in ispecie allorché il cliente nello smontare dalla carrozza questioni sul prezzo della corsa, o - peggio ancora - non lasci al vetturino una congrua mancia.
15.Jí cascia e turnà bauglio oppure Jí stocco e turnà baccalà.
Letteralmente: andar cassa e tornare baúle oppure andare stoccafisso e tornare baccalà. Id est: non trarre profitto alcuno o dallo studio intrapreso o dall'apprendimento di un mestiere, come chi inizi l'apprendimento essendo una cassa e lo termini da baúle ossia non muti la sua intima essenza di vacuo contenitore, o - per fare altro esempio - come chi inizi uno studio essendo dello stoccafisso e lo termini diventando baccalà, diverso in forma, ma sostanzialmente restando un immutato merluzzo. Con il proverbio in epigrafe, a Napoli, si è soliti commentare le maldestre applicazioni di chi non trae profitto da ciò che tenta di fare, perchè vi si applica maldestramente o con cattiva volontà.
brak
BARIE 894
1.Azzupparse 'o ppane.
Letteralmente: inzuppare il pane. Id est: provare gusto e compiacimento alle disavventure altrui di qualsiasi natura siano, commentandole con irritanti sottolineature, per modo che chi è in situazioni di disagio, avverta maggiormente quel disagio e se ne dolga invece di esser sollevato. A Napoli se ad azzupparse 'o ppane è una donna, costei viene definita femmena 'e niente, se lo fa un uomo, è definito senza mezzi termini: ommo 'e mmerda.
2.Essere 'o si' nisciuno.
Letteralmente: essere il signor nessuno. Id est: essere del tutto sconosciuto, non valere niente, non contare un accidenti nella scala sociale, insomma un vero e proprio signor nessuno. Si noti che in napoletano il si’ non è l'apocope di zio, come spesso i male informati intendono,pronunciando erroneamente zi’. ma l'apocope di signor
3.Prumettere 'e certo, e vení meno 'e sicuro.
Letteralmente: promettere con certezza e con medesima certezza disattendere al promesso. Lo si dice di chi fa le viste di promettere mari e monti e poi in pratica non tiene fede a nulla di quanto promesso. Tipico comportamento dei politici in campagna elettorale e dei ragazzi in prossimità delle festività.
4.Pigliarse 'nu passaggio.
Letteralmente: prendersi un passaggio. Id est: protendere furtivamente le mani fino a sfiorare con le dita procaci e prominenti rotondità femminili, magari soffermandosi a palpeggiare le suddette rotondità.
5.Avàsciame 'o "ddonne" e aízame 'a mesata.
Letteralmente: Diminuiscimi il "don" ed elevami la mercede. Id est: badiamo piú alla sostanza che alla forma. Cosí si esprime chi si veda malamente retribuito per le sue opere e in luogo di sonante danaro venga invece riempito di vuoti salamelecchi.
6.Chi te sape, t'arape.
Chi ti conosce, ti può rapinare. Se subisci un furto i primi di cui sospettare son quelli che ti frequentano, giacché son loro che conoscono le tue abitudini e ciò che possiedi.
7.Trova cchiú ampressa 'a femmena 'na scusa, ca 'o sorice 'o purtuso.
Letteralmente: Trova piú presto una donna una scusa, che un topo un buco (in cui infilarsi). Id est: la donna è grandemente menzognera per cui facilmente trova da scusarsi delle sue malefatte e lo fa in maniera cosí rapida da battere in velocità persino un topo che - si sa -è rapidissimo.
8.Grannezza 'e Ddio: era monaco e pure pisciava.
Letteralmente: grandezza di Dio: era monaco eppure mingeva. La locuzione è usata per bollare chi fa le viste di meravigliarsi delle cose piú ovvie e naturali come qualcuno che si stupisse nel vedere un frate portare a compimento una sua funzione fisiologica.
9.'A soccia mano sta appesa dint' ê guantare.
Letteralmente: la medesima mano sta appesa nei guantai. La locuzione viene usata per connotare chiunque sia avaro o eccessivamente parsimonioso al punto da non elargire mai un'elemosina o ,peggio ancora, al punto da non concorrere mai fattivamente, con elargizione di danaro, ad un'opera comunitaria. La mano della locuzione ricorda quellain origine enorme, poi a furia di stare esposta alle intemperie ratrappita, ed immobile che, a fini di pubblicità, era esposta a Napoli nel quartiere dei Guantai dove aprivano bottega numerosi fabbricanti di guanti.
10.'Stu ventariello ca tte t'arrecrea, a mme me va 'nculo!
Letteralmente: quel venticello che ti soddisfa, frega me. Non sempre da un'identica situazione scaturisce un medesimo effetto per chiunque. Nella fattispecie, un soffio di vento che magari è piacevole per uno, può essere deleterio per un altro, che per esempio è cagionevole di salute.
11.Ll'aurienza ca dette 'o papa a 'e curnute.
Letteralmente: l'udienza che il papa dette ai mariti traditi. Cosí viene definita un'istanza che venga disattesa completamente da parte del suo destinatario; ciò che venne allorché una accolita di mariti traditi si rivolse al pontefice affinchè autorizzasse lo scioglimento del loro matrimonio, ma il papa, opponendo la indissolubilità del vincolo matrimoniale quale sacramento della Chiesa, disattese completamente l'istanza. La locuzione è usata per sottolineare una situazione nella quale ci sia qualcuno che faccia orecchi da mercante...
12.'O perucchio è caduto dint' â farina.
Letteralmente: il pidocchio è caduto nella farina. La locuzione viene usata per indicare coloro che a seguito di una calamità, o una guerra, si sono arricchiti e àn preso dimora nei luoghi piú chic della città e si danno l'aria di gran signori quasi fossero discendenti di antica, provata nobiltà, come un pidocchio che, caduto nella farina, si imbianca solo esteriormente pur restando, in sostanza, un vile insetto.
13.Paré 'o marchese d''o Mandracchio.
Letteralmente: sembrare il marchese del Mandracchio. Id est: Tentare di darsi le arie di persona dabbene ed essere in realtà di tutt'altra pasta. La locuzione, che viene usata per bollare un personaggio volgare ed ignorante che si dia delle arie, millantando un migliore ascendente sociale di nascita, si incentra sul termine Mandracchio che non è il nome di una tenuta, ma indica solo la zona a ridosso del porto(dallo spagnolo mandrache: darsena)frequentata da marinai, facchini e scaricatori che non usavano di certo buone maniere ed il cui linguaggio non era certo forbito o corretto.
14.Ogni ccapa è 'nu tribbunale.
Letteralmente: ogni testa è un tribunale. Id est: ognuno decide secondo il proprio metro di giudizio, ognuno è pronto ad emanar sentenze.
15.Ncarisce, fierro, ca tengo n'aco 'a vennere!
Letteralmente: oh ferro, rincara ché ò un ago da vendere. È l'augurio che si autorivolge colui che à parva materia da offrire alla vendita e si augura che possa riceverne il maggior utile possibile. La locuzione è usata nei confronti di chi si lascia desiderare pur sapendo bene di non aver grosse capacità da conferire in qualsivoglia contrattazione.
16.Chianu chiano 'e ccoglio e senza pressa, 'e vvengo.
Letteralmente: piano piano li raccolgo e senza affrettarmi li vendo. La locuzione sottolinea l'indolenza operativa di certuni, che non si affrettano mai nè nel loro incedere né nel portare a compimento alcunché.
17.Fà comme ê funare.
Agire come i fabbricanti di corde. Id est: non fare alcun progresso né nello studio, né nell'apprendimento di un mestiere. Quando ancora non v'erano le macchine ed i robot che fanno di tutto, c'erano taluni mestieri che venivano fatti da operai ed esclusivamente a mano. Nella fattispecie i cordari solevano fissare con i chiodi ad un asse di legno i capi delle corde da produrre e poi procedendo come i gamberi le intrecciavano ad arte. La locuzione prende in considerazione non i risultati raggiunti ma solo il modo di procedere tenuto dai cordari
18. Dà zizza pe gghionta.
Letteralmente: dar carne di mammella per aggiunta di derrata, un di piú generosamente concesso, ma trattandosi di vile mammella la concessione non è poi veramente positiva e tutta l'espressione è da intendere in senso ironico ed antifrastico equivalente ad accrescere un danno, conciar male qualcuno, cagionandogli ulteriori danni.
19.Ma addò t'abbíe senza 'mbrello?
Letteralmente: Ma dove ti dirigi senza ombrello (se già piove?)? La domanda traduce sarcasticamente l'avvertimento di non affrontare qualsivoglia situazione se non si è preparati e pronti, armati cioè oltre che della buona volontà, degli strumenti atti alla bisogna e a farti da scudo ove ne occorra il caso.
20.Meglio essere cap' 'alice ca coda 'e cefaro.
Letteralmente: meglio (esser) testa di alice che coda di cefalo. Id est: meglio comandare, esser primo sia pure in un ristretto consesso, che ultimo in un'imponente accolta.
21.Se pigliano cchiú mosche cu 'na goccia 'e mèle, ca cu 'na votta 'acito.
Letteralmente: si catturano piú mosche con una goccia di miele che con una botte di aceto. Id est: i migliori risultati, i piú sostanziosi si ottengono con le manieri dolci, anziché con quelle aspre.
22.A pavà e a murí, quanno cchiú tarde se po’.
A pagare e a morire quando piú tardi sia possibile. Trattandosi di due faccende dolorose, la filosofia popolare le à accomunate, consigliando di procrastinarle ambedue sine die.
23.Si 'o ciuccio nun vo’ vevere aje voglia d''o siscà.
Letteralmente: se l'asino non vuol bere, puoi fischiare quanto vuoi per invitarlo a bere, non otterrai nulla. La locuzione viene usata quando si voglia sottolineare la testarda mancanza di volontà di qualcuno, stante la quale tutte le esortazioni sono vane...
24.Aria scura e fète 'e caso!
Letteralmente: Aria torbida che puzza di formaggio. Lo si dice a salace commento di errate affermazioni di qualcuno che abbia confuso situazioni diverse tra di loro e le abbia messe in relazione incorrendo in certo errore come accadde a Pulcinella che, confondendo la porta della dispensa con la finestra, si espresse con la frase in epigrafe...
25.Chi tène cchiú ssante va 'mparaviso.
Letteralmente: Chi à piú santi va in Paradiso; ma è chiaro che la locuzione non si riferisce al premio eterno, ma molto piú prosaicamente ai beni terreni,a prebende e posti di comando e ben remunerati; e i santi - manco a dirlo - non sono quelli che ànno praticato in maniera eroica le virtú cristiane, ma molto piú semplicemente coloro che son capaci di dare una spinta, di raccomandare o - come eufemisticamente si dice oggi, di segnalare qualcuno a chi gli possa giovare nel senso suaccennato.
26.I' te cunosco piro a ll' uorto mio.
Letteralmente: Io ti conosco pero nel mio orto. Id est: Io conosco bene le tue origini e ciò che sei in grado di produrre; non mi inganni: perciò è inutile che tenti di far credere di esser capace di mirabolanti o produttive imprese... La cultura popolare attribuisce le parole in epigrafe ad un contadino che si era imbattuto in una statua di un Cristo circondata di fiori e ceri. Il popolino aveva attribuito alla statua poteri taumaturgici, ma il contadino che sapeva che la statua era stata ricavata da un suo albero di pero, tagliato perché improduttivo, apostrofò la statua con le parole in epigrafe, volendo far intendere che non si sarebbe fatto trasportare dalla credenza popolare e conoscendo le origini del Cristo effiggiato, non gli avrebbe tributato onori di sorta.
27.Essere fetente dint' a ll' ossa.
Letteralmente: essere fetente fin dentro le ossa. Id est: appalesarsi perfido, spregevole, di animo cattivo, ma non solo esteriormente quanto fin dentro la quintessenza dell'essere.
28.'O Pataterno dà 'o ppane a chi nun tène 'e diente e 'e viscuotte a chi nun s''e ppo’ rusecà...
Letteralmente: Il Signore concede il pane a chi non tiene i denti e i biscotti a chi non può sgranocchiarli... Id est: Spesso nella vita accade di esser premiati oltre i propri meriti o di venire in possesso di fortune che si è incapaci di gestire.
29.'Acarcioffola s'ammonna a 'na fronna a' vota.
Letteralmente: il carciofo va mondato brattea a brattea. Id est: le cose vanno fatte con calma e pazienza, se si vogliono ottenere risultati certi bisogna procedere lentamente e con giudizio.
30.Acqua santa e Terra santa, pure lota fanno.
Letteralmente: acqua santa e terra santa pure fango fanno. Id est: l'unione di due cose di per sè buone, non è detto che non possano produrre effetti spiacevoli. Lo si dice con riferimento alla società di due individui che, presi singolarmente, mai farebbero sospettare esser capaci di produrre danno e che invece, uniti producono grave nocumento ai terzi.
31.Chi se mette paura, nun se cocca cu 'e ffemmene bbelle.
Letteralmente: chi à paura, non va a letto con le donne belle. E' l'icastica trasposizione dell'algido toscano: chi non risica, non rosica. Nel napoletano è messo in relazione il comportamento coraggioso, con la possibilità di attingere la bellezza muliebre, che è un gran bello rosicchiare.
32.Essere 'o rre cummanna a scoppole.
Letteralmente. essere il re comanda a scappellotti. Cosí è detto chi voglia comandare o decretare maniere comportamentali altrui senza averne né l'autorità certificata, né il carisma derivante da doti morali o conclamate esperienze, un essere insomma che potrebbe comandare giusto ai ragazzini, magari assestando loro qualche scappellotto, per essre ubbidito.
33.Cca sotto nun ce chiove!
Letteralmente: Qui sotto non ci piove. L'espressione, tassativamente accompagnata dal gesto dell' indice destro puntato contro il palmo rovesciato della mano sinistra, sta a significare che oramai la misura è colma e non si è piú disoposti a sopportare certe prese di posizioni o certi comportamenti soprattutto di certuni che sono adusi a voler comandare, impartire ordini et similia, non avendone né l'autorità, né il carisma; la locuzione è anche usata col significato di: son pronto a render pane per focaccia , nei confronti di chi à negato un favore, avendolo invece reiteratamente promesso.
cca avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che nella parlata napoletana (cosí come avviene in italiano per il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto sempre senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; nel napoletano, come alibi abbiamo visto , esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = che, congiunzione e pronome che però si rendono ambedue con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita perciò accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti, , ma pure affermati scrittori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’con un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico (‘). Come per il sí ed il no anche questo avverbio a margine nell’eloquio familiare soprattutto delle parlate provinciali dei paesi rivieraschi e/o dell’entroterra (dove – mi ripeto! - il napoletano viene usato con un colpevole imbarbarimento locale) diventa bisillabo per la paragoge di un ne con valore rafforzativo, paragoge che trasforma il cca in uno strano ccane ed addirittura nel napoletano d’uso corrente in àmbito cittadino talvolta il monosillabo cca si trasforma in un rafforzato bissillabo ccanno nelle tipiche espressioni ‘a ‘í ccanno= vedila qua, proprio qua -, ‘o ‘í ccanno= vedilo qua, proprio qua - ‘e vví ccanno= vedili qua, proprio qua;
34.'A cera se struje e 'a prucessiona nun cammina.
Letteralmente: le candele si consumano, e la processione non cammina. La locuzione viene usata quando si voglia con dispetto sottolineare una situazione nella quale, invece di affrontare concretamente i problemi, ci si impelaga in discussioni oziose, vani cavilli e dispersive chiacchiere che non portano a nulla di concreto.
35. Tutto Po’ essere, fora ca ll'ommo priéno.
Tutto può essere, fuorchè l'uomo incinto. La cosa è ancora vera anche se l'alchimie della moderna scienza non ci permette di essere sicuri... La locuzione viene usata per sottolineare che non ci si deve meravigliare di nulla, essendo, nella visione popolare della vita, una sola cosa impossibile.
brak
Letteralmente: inzuppare il pane. Id est: provare gusto e compiacimento alle disavventure altrui di qualsiasi natura siano, commentandole con irritanti sottolineature, per modo che chi è in situazioni di disagio, avverta maggiormente quel disagio e se ne dolga invece di esser sollevato. A Napoli se ad azzupparse 'o ppane è una donna, costei viene definita femmena 'e niente, se lo fa un uomo, è definito senza mezzi termini: ommo 'e mmerda.
2.Essere 'o si' nisciuno.
Letteralmente: essere il signor nessuno. Id est: essere del tutto sconosciuto, non valere niente, non contare un accidenti nella scala sociale, insomma un vero e proprio signor nessuno. Si noti che in napoletano il si’ non è l'apocope di zio, come spesso i male informati intendono,pronunciando erroneamente zi’. ma l'apocope di signor
3.Prumettere 'e certo, e vení meno 'e sicuro.
Letteralmente: promettere con certezza e con medesima certezza disattendere al promesso. Lo si dice di chi fa le viste di promettere mari e monti e poi in pratica non tiene fede a nulla di quanto promesso. Tipico comportamento dei politici in campagna elettorale e dei ragazzi in prossimità delle festività.
4.Pigliarse 'nu passaggio.
Letteralmente: prendersi un passaggio. Id est: protendere furtivamente le mani fino a sfiorare con le dita procaci e prominenti rotondità femminili, magari soffermandosi a palpeggiare le suddette rotondità.
5.Avàsciame 'o "ddonne" e aízame 'a mesata.
Letteralmente: Diminuiscimi il "don" ed elevami la mercede. Id est: badiamo piú alla sostanza che alla forma. Cosí si esprime chi si veda malamente retribuito per le sue opere e in luogo di sonante danaro venga invece riempito di vuoti salamelecchi.
6.Chi te sape, t'arape.
Chi ti conosce, ti può rapinare. Se subisci un furto i primi di cui sospettare son quelli che ti frequentano, giacché son loro che conoscono le tue abitudini e ciò che possiedi.
7.Trova cchiú ampressa 'a femmena 'na scusa, ca 'o sorice 'o purtuso.
Letteralmente: Trova piú presto una donna una scusa, che un topo un buco (in cui infilarsi). Id est: la donna è grandemente menzognera per cui facilmente trova da scusarsi delle sue malefatte e lo fa in maniera cosí rapida da battere in velocità persino un topo che - si sa -è rapidissimo.
8.Grannezza 'e Ddio: era monaco e pure pisciava.
Letteralmente: grandezza di Dio: era monaco eppure mingeva. La locuzione è usata per bollare chi fa le viste di meravigliarsi delle cose piú ovvie e naturali come qualcuno che si stupisse nel vedere un frate portare a compimento una sua funzione fisiologica.
9.'A soccia mano sta appesa dint' ê guantare.
Letteralmente: la medesima mano sta appesa nei guantai. La locuzione viene usata per connotare chiunque sia avaro o eccessivamente parsimonioso al punto da non elargire mai un'elemosina o ,peggio ancora, al punto da non concorrere mai fattivamente, con elargizione di danaro, ad un'opera comunitaria. La mano della locuzione ricorda quellain origine enorme, poi a furia di stare esposta alle intemperie ratrappita, ed immobile che, a fini di pubblicità, era esposta a Napoli nel quartiere dei Guantai dove aprivano bottega numerosi fabbricanti di guanti.
10.'Stu ventariello ca tte t'arrecrea, a mme me va 'nculo!
Letteralmente: quel venticello che ti soddisfa, frega me. Non sempre da un'identica situazione scaturisce un medesimo effetto per chiunque. Nella fattispecie, un soffio di vento che magari è piacevole per uno, può essere deleterio per un altro, che per esempio è cagionevole di salute.
11.Ll'aurienza ca dette 'o papa a 'e curnute.
Letteralmente: l'udienza che il papa dette ai mariti traditi. Cosí viene definita un'istanza che venga disattesa completamente da parte del suo destinatario; ciò che venne allorché una accolita di mariti traditi si rivolse al pontefice affinchè autorizzasse lo scioglimento del loro matrimonio, ma il papa, opponendo la indissolubilità del vincolo matrimoniale quale sacramento della Chiesa, disattese completamente l'istanza. La locuzione è usata per sottolineare una situazione nella quale ci sia qualcuno che faccia orecchi da mercante...
12.'O perucchio è caduto dint' â farina.
Letteralmente: il pidocchio è caduto nella farina. La locuzione viene usata per indicare coloro che a seguito di una calamità, o una guerra, si sono arricchiti e àn preso dimora nei luoghi piú chic della città e si danno l'aria di gran signori quasi fossero discendenti di antica, provata nobiltà, come un pidocchio che, caduto nella farina, si imbianca solo esteriormente pur restando, in sostanza, un vile insetto.
13.Paré 'o marchese d''o Mandracchio.
Letteralmente: sembrare il marchese del Mandracchio. Id est: Tentare di darsi le arie di persona dabbene ed essere in realtà di tutt'altra pasta. La locuzione, che viene usata per bollare un personaggio volgare ed ignorante che si dia delle arie, millantando un migliore ascendente sociale di nascita, si incentra sul termine Mandracchio che non è il nome di una tenuta, ma indica solo la zona a ridosso del porto(dallo spagnolo mandrache: darsena)frequentata da marinai, facchini e scaricatori che non usavano di certo buone maniere ed il cui linguaggio non era certo forbito o corretto.
14.Ogni ccapa è 'nu tribbunale.
Letteralmente: ogni testa è un tribunale. Id est: ognuno decide secondo il proprio metro di giudizio, ognuno è pronto ad emanar sentenze.
15.Ncarisce, fierro, ca tengo n'aco 'a vennere!
Letteralmente: oh ferro, rincara ché ò un ago da vendere. È l'augurio che si autorivolge colui che à parva materia da offrire alla vendita e si augura che possa riceverne il maggior utile possibile. La locuzione è usata nei confronti di chi si lascia desiderare pur sapendo bene di non aver grosse capacità da conferire in qualsivoglia contrattazione.
16.Chianu chiano 'e ccoglio e senza pressa, 'e vvengo.
Letteralmente: piano piano li raccolgo e senza affrettarmi li vendo. La locuzione sottolinea l'indolenza operativa di certuni, che non si affrettano mai nè nel loro incedere né nel portare a compimento alcunché.
17.Fà comme ê funare.
Agire come i fabbricanti di corde. Id est: non fare alcun progresso né nello studio, né nell'apprendimento di un mestiere. Quando ancora non v'erano le macchine ed i robot che fanno di tutto, c'erano taluni mestieri che venivano fatti da operai ed esclusivamente a mano. Nella fattispecie i cordari solevano fissare con i chiodi ad un asse di legno i capi delle corde da produrre e poi procedendo come i gamberi le intrecciavano ad arte. La locuzione prende in considerazione non i risultati raggiunti ma solo il modo di procedere tenuto dai cordari
18. Dà zizza pe gghionta.
Letteralmente: dar carne di mammella per aggiunta di derrata, un di piú generosamente concesso, ma trattandosi di vile mammella la concessione non è poi veramente positiva e tutta l'espressione è da intendere in senso ironico ed antifrastico equivalente ad accrescere un danno, conciar male qualcuno, cagionandogli ulteriori danni.
19.Ma addò t'abbíe senza 'mbrello?
Letteralmente: Ma dove ti dirigi senza ombrello (se già piove?)? La domanda traduce sarcasticamente l'avvertimento di non affrontare qualsivoglia situazione se non si è preparati e pronti, armati cioè oltre che della buona volontà, degli strumenti atti alla bisogna e a farti da scudo ove ne occorra il caso.
20.Meglio essere cap' 'alice ca coda 'e cefaro.
Letteralmente: meglio (esser) testa di alice che coda di cefalo. Id est: meglio comandare, esser primo sia pure in un ristretto consesso, che ultimo in un'imponente accolta.
21.Se pigliano cchiú mosche cu 'na goccia 'e mèle, ca cu 'na votta 'acito.
Letteralmente: si catturano piú mosche con una goccia di miele che con una botte di aceto. Id est: i migliori risultati, i piú sostanziosi si ottengono con le manieri dolci, anziché con quelle aspre.
22.A pavà e a murí, quanno cchiú tarde se po’.
A pagare e a morire quando piú tardi sia possibile. Trattandosi di due faccende dolorose, la filosofia popolare le à accomunate, consigliando di procrastinarle ambedue sine die.
23.Si 'o ciuccio nun vo’ vevere aje voglia d''o siscà.
Letteralmente: se l'asino non vuol bere, puoi fischiare quanto vuoi per invitarlo a bere, non otterrai nulla. La locuzione viene usata quando si voglia sottolineare la testarda mancanza di volontà di qualcuno, stante la quale tutte le esortazioni sono vane...
24.Aria scura e fète 'e caso!
Letteralmente: Aria torbida che puzza di formaggio. Lo si dice a salace commento di errate affermazioni di qualcuno che abbia confuso situazioni diverse tra di loro e le abbia messe in relazione incorrendo in certo errore come accadde a Pulcinella che, confondendo la porta della dispensa con la finestra, si espresse con la frase in epigrafe...
25.Chi tène cchiú ssante va 'mparaviso.
Letteralmente: Chi à piú santi va in Paradiso; ma è chiaro che la locuzione non si riferisce al premio eterno, ma molto piú prosaicamente ai beni terreni,a prebende e posti di comando e ben remunerati; e i santi - manco a dirlo - non sono quelli che ànno praticato in maniera eroica le virtú cristiane, ma molto piú semplicemente coloro che son capaci di dare una spinta, di raccomandare o - come eufemisticamente si dice oggi, di segnalare qualcuno a chi gli possa giovare nel senso suaccennato.
26.I' te cunosco piro a ll' uorto mio.
Letteralmente: Io ti conosco pero nel mio orto. Id est: Io conosco bene le tue origini e ciò che sei in grado di produrre; non mi inganni: perciò è inutile che tenti di far credere di esser capace di mirabolanti o produttive imprese... La cultura popolare attribuisce le parole in epigrafe ad un contadino che si era imbattuto in una statua di un Cristo circondata di fiori e ceri. Il popolino aveva attribuito alla statua poteri taumaturgici, ma il contadino che sapeva che la statua era stata ricavata da un suo albero di pero, tagliato perché improduttivo, apostrofò la statua con le parole in epigrafe, volendo far intendere che non si sarebbe fatto trasportare dalla credenza popolare e conoscendo le origini del Cristo effiggiato, non gli avrebbe tributato onori di sorta.
27.Essere fetente dint' a ll' ossa.
Letteralmente: essere fetente fin dentro le ossa. Id est: appalesarsi perfido, spregevole, di animo cattivo, ma non solo esteriormente quanto fin dentro la quintessenza dell'essere.
28.'O Pataterno dà 'o ppane a chi nun tène 'e diente e 'e viscuotte a chi nun s''e ppo’ rusecà...
Letteralmente: Il Signore concede il pane a chi non tiene i denti e i biscotti a chi non può sgranocchiarli... Id est: Spesso nella vita accade di esser premiati oltre i propri meriti o di venire in possesso di fortune che si è incapaci di gestire.
29.'Acarcioffola s'ammonna a 'na fronna a' vota.
Letteralmente: il carciofo va mondato brattea a brattea. Id est: le cose vanno fatte con calma e pazienza, se si vogliono ottenere risultati certi bisogna procedere lentamente e con giudizio.
30.Acqua santa e Terra santa, pure lota fanno.
Letteralmente: acqua santa e terra santa pure fango fanno. Id est: l'unione di due cose di per sè buone, non è detto che non possano produrre effetti spiacevoli. Lo si dice con riferimento alla società di due individui che, presi singolarmente, mai farebbero sospettare esser capaci di produrre danno e che invece, uniti producono grave nocumento ai terzi.
31.Chi se mette paura, nun se cocca cu 'e ffemmene bbelle.
Letteralmente: chi à paura, non va a letto con le donne belle. E' l'icastica trasposizione dell'algido toscano: chi non risica, non rosica. Nel napoletano è messo in relazione il comportamento coraggioso, con la possibilità di attingere la bellezza muliebre, che è un gran bello rosicchiare.
32.Essere 'o rre cummanna a scoppole.
Letteralmente. essere il re comanda a scappellotti. Cosí è detto chi voglia comandare o decretare maniere comportamentali altrui senza averne né l'autorità certificata, né il carisma derivante da doti morali o conclamate esperienze, un essere insomma che potrebbe comandare giusto ai ragazzini, magari assestando loro qualche scappellotto, per essre ubbidito.
33.Cca sotto nun ce chiove!
Letteralmente: Qui sotto non ci piove. L'espressione, tassativamente accompagnata dal gesto dell' indice destro puntato contro il palmo rovesciato della mano sinistra, sta a significare che oramai la misura è colma e non si è piú disoposti a sopportare certe prese di posizioni o certi comportamenti soprattutto di certuni che sono adusi a voler comandare, impartire ordini et similia, non avendone né l'autorità, né il carisma; la locuzione è anche usata col significato di: son pronto a render pane per focaccia , nei confronti di chi à negato un favore, avendolo invece reiteratamente promesso.
cca avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che nella parlata napoletana (cosí come avviene in italiano per il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto sempre senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; nel napoletano, come alibi abbiamo visto , esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = che, congiunzione e pronome che però si rendono ambedue con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita perciò accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti, , ma pure affermati scrittori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’con un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico (‘). Come per il sí ed il no anche questo avverbio a margine nell’eloquio familiare soprattutto delle parlate provinciali dei paesi rivieraschi e/o dell’entroterra (dove – mi ripeto! - il napoletano viene usato con un colpevole imbarbarimento locale) diventa bisillabo per la paragoge di un ne con valore rafforzativo, paragoge che trasforma il cca in uno strano ccane ed addirittura nel napoletano d’uso corrente in àmbito cittadino talvolta il monosillabo cca si trasforma in un rafforzato bissillabo ccanno nelle tipiche espressioni ‘a ‘í ccanno= vedila qua, proprio qua -, ‘o ‘í ccanno= vedilo qua, proprio qua - ‘e vví ccanno= vedili qua, proprio qua;
34.'A cera se struje e 'a prucessiona nun cammina.
Letteralmente: le candele si consumano, e la processione non cammina. La locuzione viene usata quando si voglia con dispetto sottolineare una situazione nella quale, invece di affrontare concretamente i problemi, ci si impelaga in discussioni oziose, vani cavilli e dispersive chiacchiere che non portano a nulla di concreto.
35. Tutto Po’ essere, fora ca ll'ommo priéno.
Tutto può essere, fuorchè l'uomo incinto. La cosa è ancora vera anche se l'alchimie della moderna scienza non ci permette di essere sicuri... La locuzione viene usata per sottolineare che non ci si deve meravigliare di nulla, essendo, nella visione popolare della vita, una sola cosa impossibile.
brak
VARIE 893
1.Accunciarse quatt' ove dinto a 'nu piatto.
Sistemarsi quattro uova in un piatto - cioè:assicurarsi una comoda rendita di posizione, magari a danno di altra persona ( infatti, per solito , la porzione canonica di uova è in numero di due...).
2.Farse 'nu purpetiello.
Bagnarsi fino alle ossa come un piccolo polpo tirato su grondante d'acqua.
3.Jí a ppère 'e chiummo.
Andare con i piedi di piombo - Cioè: con la stessa attenzione e cautela dei palombari che nelle loro discese submarine usano calzare scarpe con fondo di piombo.
4. Tené'a sciorta 'e Maria Vrenna.
Avere la sorte di Maria Di Brienne; id est: ridursi alla miseria totale e cioèperder tutti propri beni ed autorità come accadde a Maria di Brienne sfortunata consorte di Ladislao di Durazzo, ridotta alla miseria alla morte di quest’ ultimo (1414) dalla di lui sorella Giovanna II succedutagli sul trono.
5.Jí ô battesimo, senza criatura.
Recarsi a battezzare un bimbo senza portarlo... - Cioè comportarsi, per insipienza o colpevole ignavia, in maniera decisamente errata, mettendosi nella situazione massimamente avversa all'opera che si vorrebbe intraprendere.
6.Pare ca s''o zucano 'e scarrafune...
Sembra che se lo succhino gli scarafaggi.- È detto di persona cosí smunta e rinsecchita da sembrar che abbia perduto la propria linfa vitale preda degli scarafaggi, notoriamente avidi di liquidi.
7.Abbruscià 'o paglione...
Incendiare il pagliericcio - Cioè darsi alla fuga, alla latitanza, lasciando dietro di sé terra bruciata, come facevano le truppe sconfitte che incendiavano i propri accampamenti, dandosi alla fuga.(procurare un danno definitivo)
8.Ogne scarrafone è bbello a mmamma soja...
Ogni blatta(per schifosa che sia)è bella per la sua genitrice - Ossia: per ogni autore la sua opera è bella e meritevole di considerazione.
9.Chi saglie ‘ncopp’ê ccorna ‘e chillo, po’ ddà ‘a mano ô Pataterno.
Chi si inerpica sulle corna di quello lí, può stringer la mano al Padreterno -(atteso che quelle corne sono alte e resistenti...)- Iperbole usata sarcasticamente per indicare un uomo molto tradito dalla consorte.
10. Quanno 'o diavulo tujo jeva â scola, 'o mio era maestro.
Quando il tuo diavolo era scolaro, il mio era maestro - Cioè: non credere di essermi superiore in intelligenza, perspicacia e sapere anche indirizzato al male!; son pane per i tuoi denti, son molto piú esperto di te e ti potrei esser maestro anche nel male!
11.'O cane mozzeca ô stracciato.
Il cane assale chi si presenta in veste dimessa - Cioè: il destino si accanisce contro il diseredato.
12. Tre songo 'e putiente:'o papa, 'o rre e chi nun tène niente...
Tre sono i potenti della terra:il papa, il re e chi non possiede nulla; Il papa è l’indiscussa massima autorità in materia di fede, il re lo è come capo di una nazione e l’indigente, non possedendo nulla,è altrettanto potente perché non corre il rischio di esser derubato, né quello di sentirsi chiedere prestiti!
13. È gghiuta ‘a fessa 'mmano ê criature, 'a carta 'e musica 'mmano ê barbiere, 'a lanterna 'mmano ê cecate...
La vulva è finita nelle mani dei bambini, lo spartito musicale in mano ai barbieri, la lanterna nelle mani dei ciechi.Id est: si son verificati tre accadimenti inopportuni prodromici di cattivi sviluppi; l'espressione viene usata con senso di disappunto, quando qualcosa di importante finisce in mani inesperte o inadeguate che pertanto non possono apprezzare ed usare al meglio, come accadrebbe nel caso del sesso finito nelle mani dei fanciulli o ancora come nel caso dell'incolto barbiere alle prese con uno spartito musicale o infine nel deprecato caso di un cieco cui fosse affidata una lanterna che di per sè dovrebbe rischiarare l'oscurità; in tutti e tre i casi gli sviluppi delle situazioni esemplificate,si appaleserebbero errati ed inconferenti!
14. S' a' dda jí add' 'o patuto, no add' 'o miedeco.
Bisogna recarsi a chiedere consiglio da chi à patito una malattia, non dal medico - Cioè:la pratica val piú della grammatica.
15.Aúrio senza canisto, fa' vedé ca nun l'hê visto.
Augurio senza dono, mostra di non averlo ricevuto - Cioè: alle parole occorre sempre accompagnare i fatti .
16.Ô pirchio pare ca 'o culo ll'arrobba 'a pettula...
All'avaro sembra che il sedere gli rubi la pettola della camicia - Cioè: chi è avaro vive sempre nel timore d'esser derubato.
17. Chi fatica'na saràca, chi nun fatica, 'na saràca e mmeza.
Chi lavora guadagna una salacca, chi non lavora, una salacca mezza - Cioè: spesso nella vita si è premiati oltre i propri meriti.
brak
Sistemarsi quattro uova in un piatto - cioè:assicurarsi una comoda rendita di posizione, magari a danno di altra persona ( infatti, per solito , la porzione canonica di uova è in numero di due...).
2.Farse 'nu purpetiello.
Bagnarsi fino alle ossa come un piccolo polpo tirato su grondante d'acqua.
3.Jí a ppère 'e chiummo.
Andare con i piedi di piombo - Cioè: con la stessa attenzione e cautela dei palombari che nelle loro discese submarine usano calzare scarpe con fondo di piombo.
4. Tené'a sciorta 'e Maria Vrenna.
Avere la sorte di Maria Di Brienne; id est: ridursi alla miseria totale e cioèperder tutti propri beni ed autorità come accadde a Maria di Brienne sfortunata consorte di Ladislao di Durazzo, ridotta alla miseria alla morte di quest’ ultimo (1414) dalla di lui sorella Giovanna II succedutagli sul trono.
5.Jí ô battesimo, senza criatura.
Recarsi a battezzare un bimbo senza portarlo... - Cioè comportarsi, per insipienza o colpevole ignavia, in maniera decisamente errata, mettendosi nella situazione massimamente avversa all'opera che si vorrebbe intraprendere.
6.Pare ca s''o zucano 'e scarrafune...
Sembra che se lo succhino gli scarafaggi.- È detto di persona cosí smunta e rinsecchita da sembrar che abbia perduto la propria linfa vitale preda degli scarafaggi, notoriamente avidi di liquidi.
7.Abbruscià 'o paglione...
Incendiare il pagliericcio - Cioè darsi alla fuga, alla latitanza, lasciando dietro di sé terra bruciata, come facevano le truppe sconfitte che incendiavano i propri accampamenti, dandosi alla fuga.(procurare un danno definitivo)
8.Ogne scarrafone è bbello a mmamma soja...
Ogni blatta(per schifosa che sia)è bella per la sua genitrice - Ossia: per ogni autore la sua opera è bella e meritevole di considerazione.
9.Chi saglie ‘ncopp’ê ccorna ‘e chillo, po’ ddà ‘a mano ô Pataterno.
Chi si inerpica sulle corna di quello lí, può stringer la mano al Padreterno -(atteso che quelle corne sono alte e resistenti...)- Iperbole usata sarcasticamente per indicare un uomo molto tradito dalla consorte.
10. Quanno 'o diavulo tujo jeva â scola, 'o mio era maestro.
Quando il tuo diavolo era scolaro, il mio era maestro - Cioè: non credere di essermi superiore in intelligenza, perspicacia e sapere anche indirizzato al male!; son pane per i tuoi denti, son molto piú esperto di te e ti potrei esser maestro anche nel male!
11.'O cane mozzeca ô stracciato.
Il cane assale chi si presenta in veste dimessa - Cioè: il destino si accanisce contro il diseredato.
12. Tre songo 'e putiente:'o papa, 'o rre e chi nun tène niente...
Tre sono i potenti della terra:il papa, il re e chi non possiede nulla; Il papa è l’indiscussa massima autorità in materia di fede, il re lo è come capo di una nazione e l’indigente, non possedendo nulla,è altrettanto potente perché non corre il rischio di esser derubato, né quello di sentirsi chiedere prestiti!
13. È gghiuta ‘a fessa 'mmano ê criature, 'a carta 'e musica 'mmano ê barbiere, 'a lanterna 'mmano ê cecate...
La vulva è finita nelle mani dei bambini, lo spartito musicale in mano ai barbieri, la lanterna nelle mani dei ciechi.Id est: si son verificati tre accadimenti inopportuni prodromici di cattivi sviluppi; l'espressione viene usata con senso di disappunto, quando qualcosa di importante finisce in mani inesperte o inadeguate che pertanto non possono apprezzare ed usare al meglio, come accadrebbe nel caso del sesso finito nelle mani dei fanciulli o ancora come nel caso dell'incolto barbiere alle prese con uno spartito musicale o infine nel deprecato caso di un cieco cui fosse affidata una lanterna che di per sè dovrebbe rischiarare l'oscurità; in tutti e tre i casi gli sviluppi delle situazioni esemplificate,si appaleserebbero errati ed inconferenti!
14. S' a' dda jí add' 'o patuto, no add' 'o miedeco.
Bisogna recarsi a chiedere consiglio da chi à patito una malattia, non dal medico - Cioè:la pratica val piú della grammatica.
15.Aúrio senza canisto, fa' vedé ca nun l'hê visto.
Augurio senza dono, mostra di non averlo ricevuto - Cioè: alle parole occorre sempre accompagnare i fatti .
16.Ô pirchio pare ca 'o culo ll'arrobba 'a pettula...
All'avaro sembra che il sedere gli rubi la pettola della camicia - Cioè: chi è avaro vive sempre nel timore d'esser derubato.
17. Chi fatica'na saràca, chi nun fatica, 'na saràca e mmeza.
Chi lavora guadagna una salacca, chi non lavora, una salacca mezza - Cioè: spesso nella vita si è premiati oltre i propri meriti.
brak
VARIE 892
1.Parono 'o serveziale e 'o pignatiello.
Sembrano il clistere e il pentolino. La locuzione viene usata per indicare due persone che difficilmente si separano, come accadeva un tempo quando i barbieri che erano un po' anche cerusici,chiamati per praticare un clistere si presentavano recando in mano l'ampolla di vetro atta alla bisogna ed un pentolino per riscaldarvi l'acqua occorrente...
2.Quanno chiovono passe e ficusecche.
Letteralmente: quando piovono uva passita e fichi secchi - Id est: mai. La locuzione viene usata quando si voglia sottolineare l'impossibilità di un accadimento che si pensa possa avverarsi solo quando dal cielo piovano leccornie, cosa che avvenne una sola volta quando il popolo ebraico ricevette il dono celeste della manna...
3.Chi ato nun tène, se cocca cu 'a mugliera...
Chi non à altre occasioni, si accontenta di sua moglie, id est:far di necessità virtú.
4.Nun sputà 'ncielo ca 'nfaccia te torna!
Non sputare verso il cielo, perché ti ricadrebbe in volto! Id est: le azioni malevole fatte contro la divinità, ti si ritorcono contro.
5.Chijarsela a libbretta.
Letteralmente:piegarsela a libretto. È il modo piú comodo per consumare una pizza, quando non si possa farlo comodamente seduti al tavolo e si sia costretti a farlo in piedi; si procede alla piegatura in quattro parti della pietanza circolare che assume quasi la forma di un piccolo libro (libbretta) e si può mangiarla riducendo al minimo il pericolo di imbrattarsi di condimento.Per estensione, locuzione usata per significare che si sta accettando una situazione contraria malvolentieri e per puro bisogno. Id est: obtorto collo, per necessità far buon viso a cattivo gioco.
6.Vennere 'a scafarea pe sicchietiello.
Letteralmente:Vendere una grossa insalatiera presentandola come un secchiello.Figuratamente,la locuzione la si adopera sarcasticamente nei confronti di chi decanti la nettezza dei costumi di una donna, che invece notoriamente è stata conosciuta biblicamente da parecchi.
7.S'è arreccuto Cristo cu 'nu paternostro. o anche S'è arrennuto Cristo cu 'stu paternostro
Letteralmente: Si è arricchito Cristo con un padre nostro o anche Si è arreso Cristo con questo padre nostro! Ironiche locuzioni da ripetersi a commento dell’illusoria azione di chi speri di cavarsela con poca fatica e piccolo impegno, come chi volesse appunto ingraziarsi Iddio e trarlo dalla propria parte con la semplice recita di un solo pater.
8. 'E sàbbato, 'e súbbeto e senza prevete!
Di sabato, di colpo e senza prete! È il grave, malevolo augurio che si lancia all'indirizzo di qualcuno cui si augura di morire in un giorno prefestivo, cosa che impedisce la sepoltura il giorno successivo, di morire di colpo senza poter porvi riparo e di non poter godere nemmeno del conforto religioso
9. A pesielle ne parlammo.
Letteralmente: Parliamone al tempo dei piselli -(quando cioè avremo incassato i proventi della raccolta e potremo permetterci nuove spese...) Id est: Rimandiamo tutto a tempi migliori.
10. Jí cercanno ova 'e lupo e piettene 'e quinnice.
Letteralmente:Andare alla ricerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti). Id est: andare alla ricerca di cose introvabili o impossibili; nulla quaestio per le uova di lupo che è un mammifero per ciò che concerne i pettini bisogna sapere che un tempo i piú conosciuti nel popolo erano i pettini dei cardalana e tali attrezzi non contavano mai piú di tredici denti...
brak
Sembrano il clistere e il pentolino. La locuzione viene usata per indicare due persone che difficilmente si separano, come accadeva un tempo quando i barbieri che erano un po' anche cerusici,chiamati per praticare un clistere si presentavano recando in mano l'ampolla di vetro atta alla bisogna ed un pentolino per riscaldarvi l'acqua occorrente...
2.Quanno chiovono passe e ficusecche.
Letteralmente: quando piovono uva passita e fichi secchi - Id est: mai. La locuzione viene usata quando si voglia sottolineare l'impossibilità di un accadimento che si pensa possa avverarsi solo quando dal cielo piovano leccornie, cosa che avvenne una sola volta quando il popolo ebraico ricevette il dono celeste della manna...
3.Chi ato nun tène, se cocca cu 'a mugliera...
Chi non à altre occasioni, si accontenta di sua moglie, id est:far di necessità virtú.
4.Nun sputà 'ncielo ca 'nfaccia te torna!
Non sputare verso il cielo, perché ti ricadrebbe in volto! Id est: le azioni malevole fatte contro la divinità, ti si ritorcono contro.
5.Chijarsela a libbretta.
Letteralmente:piegarsela a libretto. È il modo piú comodo per consumare una pizza, quando non si possa farlo comodamente seduti al tavolo e si sia costretti a farlo in piedi; si procede alla piegatura in quattro parti della pietanza circolare che assume quasi la forma di un piccolo libro (libbretta) e si può mangiarla riducendo al minimo il pericolo di imbrattarsi di condimento.Per estensione, locuzione usata per significare che si sta accettando una situazione contraria malvolentieri e per puro bisogno. Id est: obtorto collo, per necessità far buon viso a cattivo gioco.
6.Vennere 'a scafarea pe sicchietiello.
Letteralmente:Vendere una grossa insalatiera presentandola come un secchiello.Figuratamente,la locuzione la si adopera sarcasticamente nei confronti di chi decanti la nettezza dei costumi di una donna, che invece notoriamente è stata conosciuta biblicamente da parecchi.
7.S'è arreccuto Cristo cu 'nu paternostro. o anche S'è arrennuto Cristo cu 'stu paternostro
Letteralmente: Si è arricchito Cristo con un padre nostro o anche Si è arreso Cristo con questo padre nostro! Ironiche locuzioni da ripetersi a commento dell’illusoria azione di chi speri di cavarsela con poca fatica e piccolo impegno, come chi volesse appunto ingraziarsi Iddio e trarlo dalla propria parte con la semplice recita di un solo pater.
8. 'E sàbbato, 'e súbbeto e senza prevete!
Di sabato, di colpo e senza prete! È il grave, malevolo augurio che si lancia all'indirizzo di qualcuno cui si augura di morire in un giorno prefestivo, cosa che impedisce la sepoltura il giorno successivo, di morire di colpo senza poter porvi riparo e di non poter godere nemmeno del conforto religioso
9. A pesielle ne parlammo.
Letteralmente: Parliamone al tempo dei piselli -(quando cioè avremo incassato i proventi della raccolta e potremo permetterci nuove spese...) Id est: Rimandiamo tutto a tempi migliori.
10. Jí cercanno ova 'e lupo e piettene 'e quinnice.
Letteralmente:Andare alla ricerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti). Id est: andare alla ricerca di cose introvabili o impossibili; nulla quaestio per le uova di lupo che è un mammifero per ciò che concerne i pettini bisogna sapere che un tempo i piú conosciuti nel popolo erano i pettini dei cardalana e tali attrezzi non contavano mai piú di tredici denti...
brak
UDINESE-NAPOLI 28/11/10 3 A 1 LL’AGGIU VISTA ACCUSSÍ
UDINESE-NAPOLI 28/11/10 3 A 1
LL’AGGIU VISTA ACCUSSÍ
Che ghiurnata nera, guagliú chella d’ajere!
Nun sapimmo maje apprufittà d’ ‘e guaje ‘e ll’ate! Ajere
‘o Milanno frenaje, ‘a Lazio, idem cu patane frenaje, ‘a juventussa frenaje.....e ‘o Napoli che facette?..Perdette!
Non riuscimmo proprio a ffarlo ‘nu zumpo ‘e qualità! Po ce se mettette ‘na jurnata nata storta ( e ppo ve dico dint’ ê ppaggelle....) e â fine jette a fferní, mannaggia ô demmonio scartellato!, ca ‘a juventussa primma ce apparaje e ppo ce zumpaje ‘a coppa (p’ ‘a differenza d’ ‘e golle)! Tiràmmoce ‘a mola e ppassammo subbeto ê ppaggelle:
DE SANCTIS 4,5:Nun ce simmo, nun ce simmo, nun ce simmo! Parette ca ajere steva ascenno ‘a sott’ô mantesino: se sapeva ca Sancezzo è ‘nu figlio ‘e zoccola e ca â primma occasione se fosse menato ‘nterra; e isso ll’uccasione ce ‘a dètte: bastava ca avesse spustato ‘a mana a gghí arreto e pure ‘nu cecato comme ll’arbitro Romeo se ne fosse accorto ca Sancezzo se steva menanno ‘nterra pe ccacchie d’ ‘e suoje! ‘Ncopp’ô siconno gollo ‘e Di Natale, po steva fora pusizzione e cu ttutto ca ‘o tiro nun fuje forte se facette surpassà dô pallone! Cchiú ‘ngenerale nun sempe fuje all’altezza d’ ‘a situazzione!
CAMPAGNARO 5,5: ‘O meno pejo d’ ‘e tre lla ddereto, ma nun po’ ccantà e ppurtà ‘a croce!
CANNAVARO 4: Partita custantemente affannosa.N’avesse fatto una bbona:nun radduppiaje maje,e nun sapette fà nè ‘e ddiagunale, nè ‘o franchebbollo né cu Di Natale nè cu Sancezzo, anze ‘na bbrutta smarrunata proprio ‘ncuollo a Sancezzo puteva custarle cchiú cara d’ ‘o cartellino jalizzo (giallo). I’ avesse visto meglio a Cribari ô posto ‘e chist’inutile culo’echiummo...
SANTACROCE 5: Nun era ‘a partita pe isso e cumminfatte nun se cuntajeno ‘e puttanate ca facette! Nun riuscette maje a mantènerse ‘nlinia cu ‘e cumpagne ‘e reparto. I’ avesse visto meglio a Grava sciuoveto ‘ncuollo a Di Natale!
(Dô 28°st DUMITRU sv)
DOSSENA 4,5: Fúceto (molle e spento) e ssempe attrassato (in ritardo). Se vedette poco e pe cchellu ppoco sbagliaje overo assaje!
(Dô 7°’st VITALE 6: Sicuramente meglio ‘e Dossena.Fuje ll’unico ca riuscette a ddà ‘na sterzata pusitiva â manovra àpula e vísceta (molle e fiacca) d’ ‘e napulitane. GARGANO 5: ‘Mpreciso e apprussimativo quanno se trattaje ‘e custruí in fase, scarzo e mancante quanno êtte ‘a fà muro... . Puntualmente campijato (sovrastato) ‘a ‘nu pappagnaccuso (mostruoso) Inlerro: quanto me piacesse vederlo dint’ô Napule!
PAZIENZA 5: Stanco. Stranamente suffrette ‘o centrocampo avverzario e ô Napule venettero a mmancà ‘e giumetrie ca Michelino sape disignà.
(Dô 20° st Maiello 6: Tutto summato, n’apparizziona pusitiva. Cercaje ‘e dà ardetezza (vivacità) e gulío (voglia) ô smignato (apatico)centrocampo napulitano.Ma servette a ppoco..)
MAGGIO 5: Preoccupato, nun ce stette cu ‘a capa (...vuó vedé ca ‘a mugliera era rummasa Nnapule... senza cuntrollo!) cert’è ca ‘a bbona prova d’ ‘a semmana passata fuje sott’ ô colpo cancellata dâ (dalla) partita d’ajere!
HAMSIK 4.5: ‘O gollo nun basta a salvarlo ‘a ‘na prova ’nchiaccata (macchiata) ‘a troppi puttanate: ‘mprimmese se magnaje ‘nu gollo sott’â porta, po rialaje ‘o terzo gollo a Di Natale, e ppe ferní sbagliaje ‘o ricore ca avesse pututo riattezzà (riaprire) definitivamente ‘a partita. Pure pe Marekiaro ‘a prova cu ‘o Bologna risultaje ‘nu luntano ricordo.È cumunque troppo acievero: visto ca steva frasturnato p’ ‘e fessarie fatte, nun avesse avuto tirarlo isso ‘o ricore, ma ll’êsse avuto farlo tirà a Cavani! (...Vuó vedé ca s’êsse arrepusà ‘nu poco?...).
LAVEZZI 5: ‘Ncunsistente: troppo fummo e nniente arrusto... Pe gghionta ‘e ruotolo tène assaje respunzabbilità pecché, ‘ncopp’ ô primmo gollo, s’azzardaje a ffà ‘nu dribblingo inutile e periculoso rialanno palla p’ ‘o contropiede ca facette nascere ‘o ricore ‘e Sancezzo.
CAVANI 5: Muvimento e ggenio ‘e fà fujeno cancellate dâ mancanza ‘e freddezza sotto porta.
All. Mazzarri 4,5: Chillo d’ajere fuje troppo brutto p’essere ‘o Napule overo.E Mazzarri tenette tanti respunzabbilità! ‘A difesa a ttre (meglio a uno – Campagnaro - cchiú dduje) suffrette straveriamente (eccessivamente) ‘e ripartenze ‘e ll’ Udinese, a centrocampo nun ce fuje partita e ‘o trebbeto (tridente) d’attacco fuje troppo ‘mpriciso. Ajere Mazzarri perdette cumpletamente ‘a sfita tattica. Eppure ô juorno primma Mazzarri aveva ditto: (riferisco parola pe parola in italiano comme aveva parlato ‘o livurnese)
“Dobbiamo mantenere un rendimento costante: è questo il salto di qualità fondamentale. Ad Udine, per questo, dobbiamo dimostrare maturità. Ripeto: la ritengo una tappa importantissima. Voglio una risposta da grande squadra, voglio undici leoni».
Chisto era stato ‘o cunto a gghí, a vvení ‘mmece ‘e truvarse a essere ‘nu dumatore ‘e liune, s’è truvato a ffà ‘o pecuraro ‘e paricchi ppecure!
D’accordo,se jette a Udine cu troppi ‘nfurtunate (ma è pure colpa soja ca à assuttugliato troppo ‘a rosa...), ‘e jucature se dimustrajeno cchiú pecure ca liune, ma isso ce mettette ‘a terza sbaglianno furmazzione: Dossena, Santacroce e Marekiaro, pe comme stanno, ô mmassimo êvano ‘a jí ‘mpanchina e dô primmo minuto s’êvano ‘a fà jucà Vitale, Maiello e soprattutto Grava ca avesse pututo mettere ‘a musarola a Di Natale..., pe nun dicere po d’ ‘o solito prubblema ‘e culo’echiummo-cannavaro, ca nun se capisce pecché Mazzarri se nfessisce a farlo jucà quanno tene a Cribari ca vale seje culo’echiummo-cannavaro!
l’arbitro ROMEO 3,5 Indecente Uno d’’e cchiú ppeje sischette ‘ncruciate dô Napule. Mannato dô palazzo ( ma se po’ léggere juventussa) a ffermà e ccercà d’ arruvinà ‘o clubbo napulitano, facette tutto... ‘o duvere suĵo, cosa ca ggià ll’anno passato aveva tentato ‘e fà o aveva fatto: â quinnicesima d’annata (Napoli vs. Bari 3-2) e a ll’ottava ‘e ritorno (Bologna vs Napoli2 -1), ma ajere se superaje danno ‘o ricore a Sancezzo ca è ‘nu figlio ‘e zoccola e ca â primma uccasione se menaje ‘nterra e a isso nun lle parette overo ‘e crederce; pe nun fà a vvedé siscaje po ‘nu ricore a ffavore d’ ‘o Napule, ma quanno Marekiaro ‘o sbagliaje … nun tenette ‘o stommaco ‘e farlo ripetere, visto ca Handanoviccio s’era menato mez’ora primma. Dint’â media d’ ‘a mmunnezza arbitrale taliana: atleticamente ‘mpriparato, muscio e lloffio, siscaje sempe ‘a luntano; fuje assaje listo (molto fiscale) danno ‘a ‘mpressione ‘e vulé fà ‘o priciso, ma – a ccunte fatte - si limitaje a ruvinà ‘o Napule ca pure pe bbia soja se ritruvarrà forze cu paricchi squalificati doppo d’avé perduta ‘na partita ‘mpurtante.
Me dimanno e ddico: ma quanno, quanno De Laurentis & socie accuminciarranno a farsi sèntere addó se cumanna ‘a briscula e se decideranno a rifiutà chisti arbitri ‘ndecente?
Raffaele Bracale
LL’AGGIU VISTA ACCUSSÍ
Che ghiurnata nera, guagliú chella d’ajere!
Nun sapimmo maje apprufittà d’ ‘e guaje ‘e ll’ate! Ajere
‘o Milanno frenaje, ‘a Lazio, idem cu patane frenaje, ‘a juventussa frenaje.....e ‘o Napoli che facette?..Perdette!
Non riuscimmo proprio a ffarlo ‘nu zumpo ‘e qualità! Po ce se mettette ‘na jurnata nata storta ( e ppo ve dico dint’ ê ppaggelle....) e â fine jette a fferní, mannaggia ô demmonio scartellato!, ca ‘a juventussa primma ce apparaje e ppo ce zumpaje ‘a coppa (p’ ‘a differenza d’ ‘e golle)! Tiràmmoce ‘a mola e ppassammo subbeto ê ppaggelle:
DE SANCTIS 4,5:Nun ce simmo, nun ce simmo, nun ce simmo! Parette ca ajere steva ascenno ‘a sott’ô mantesino: se sapeva ca Sancezzo è ‘nu figlio ‘e zoccola e ca â primma occasione se fosse menato ‘nterra; e isso ll’uccasione ce ‘a dètte: bastava ca avesse spustato ‘a mana a gghí arreto e pure ‘nu cecato comme ll’arbitro Romeo se ne fosse accorto ca Sancezzo se steva menanno ‘nterra pe ccacchie d’ ‘e suoje! ‘Ncopp’ô siconno gollo ‘e Di Natale, po steva fora pusizzione e cu ttutto ca ‘o tiro nun fuje forte se facette surpassà dô pallone! Cchiú ‘ngenerale nun sempe fuje all’altezza d’ ‘a situazzione!
CAMPAGNARO 5,5: ‘O meno pejo d’ ‘e tre lla ddereto, ma nun po’ ccantà e ppurtà ‘a croce!
CANNAVARO 4: Partita custantemente affannosa.N’avesse fatto una bbona:nun radduppiaje maje,e nun sapette fà nè ‘e ddiagunale, nè ‘o franchebbollo né cu Di Natale nè cu Sancezzo, anze ‘na bbrutta smarrunata proprio ‘ncuollo a Sancezzo puteva custarle cchiú cara d’ ‘o cartellino jalizzo (giallo). I’ avesse visto meglio a Cribari ô posto ‘e chist’inutile culo’echiummo...
SANTACROCE 5: Nun era ‘a partita pe isso e cumminfatte nun se cuntajeno ‘e puttanate ca facette! Nun riuscette maje a mantènerse ‘nlinia cu ‘e cumpagne ‘e reparto. I’ avesse visto meglio a Grava sciuoveto ‘ncuollo a Di Natale!
(Dô 28°st DUMITRU sv)
DOSSENA 4,5: Fúceto (molle e spento) e ssempe attrassato (in ritardo). Se vedette poco e pe cchellu ppoco sbagliaje overo assaje!
(Dô 7°’st VITALE 6: Sicuramente meglio ‘e Dossena.Fuje ll’unico ca riuscette a ddà ‘na sterzata pusitiva â manovra àpula e vísceta (molle e fiacca) d’ ‘e napulitane. GARGANO 5: ‘Mpreciso e apprussimativo quanno se trattaje ‘e custruí in fase, scarzo e mancante quanno êtte ‘a fà muro... . Puntualmente campijato (sovrastato) ‘a ‘nu pappagnaccuso (mostruoso) Inlerro: quanto me piacesse vederlo dint’ô Napule!
PAZIENZA 5: Stanco. Stranamente suffrette ‘o centrocampo avverzario e ô Napule venettero a mmancà ‘e giumetrie ca Michelino sape disignà.
(Dô 20° st Maiello 6: Tutto summato, n’apparizziona pusitiva. Cercaje ‘e dà ardetezza (vivacità) e gulío (voglia) ô smignato (apatico)centrocampo napulitano.Ma servette a ppoco..)
MAGGIO 5: Preoccupato, nun ce stette cu ‘a capa (...vuó vedé ca ‘a mugliera era rummasa Nnapule... senza cuntrollo!) cert’è ca ‘a bbona prova d’ ‘a semmana passata fuje sott’ ô colpo cancellata dâ (dalla) partita d’ajere!
HAMSIK 4.5: ‘O gollo nun basta a salvarlo ‘a ‘na prova ’nchiaccata (macchiata) ‘a troppi puttanate: ‘mprimmese se magnaje ‘nu gollo sott’â porta, po rialaje ‘o terzo gollo a Di Natale, e ppe ferní sbagliaje ‘o ricore ca avesse pututo riattezzà (riaprire) definitivamente ‘a partita. Pure pe Marekiaro ‘a prova cu ‘o Bologna risultaje ‘nu luntano ricordo.È cumunque troppo acievero: visto ca steva frasturnato p’ ‘e fessarie fatte, nun avesse avuto tirarlo isso ‘o ricore, ma ll’êsse avuto farlo tirà a Cavani! (...Vuó vedé ca s’êsse arrepusà ‘nu poco?...).
LAVEZZI 5: ‘Ncunsistente: troppo fummo e nniente arrusto... Pe gghionta ‘e ruotolo tène assaje respunzabbilità pecché, ‘ncopp’ ô primmo gollo, s’azzardaje a ffà ‘nu dribblingo inutile e periculoso rialanno palla p’ ‘o contropiede ca facette nascere ‘o ricore ‘e Sancezzo.
CAVANI 5: Muvimento e ggenio ‘e fà fujeno cancellate dâ mancanza ‘e freddezza sotto porta.
All. Mazzarri 4,5: Chillo d’ajere fuje troppo brutto p’essere ‘o Napule overo.E Mazzarri tenette tanti respunzabbilità! ‘A difesa a ttre (meglio a uno – Campagnaro - cchiú dduje) suffrette straveriamente (eccessivamente) ‘e ripartenze ‘e ll’ Udinese, a centrocampo nun ce fuje partita e ‘o trebbeto (tridente) d’attacco fuje troppo ‘mpriciso. Ajere Mazzarri perdette cumpletamente ‘a sfita tattica. Eppure ô juorno primma Mazzarri aveva ditto: (riferisco parola pe parola in italiano comme aveva parlato ‘o livurnese)
“Dobbiamo mantenere un rendimento costante: è questo il salto di qualità fondamentale. Ad Udine, per questo, dobbiamo dimostrare maturità. Ripeto: la ritengo una tappa importantissima. Voglio una risposta da grande squadra, voglio undici leoni».
Chisto era stato ‘o cunto a gghí, a vvení ‘mmece ‘e truvarse a essere ‘nu dumatore ‘e liune, s’è truvato a ffà ‘o pecuraro ‘e paricchi ppecure!
D’accordo,se jette a Udine cu troppi ‘nfurtunate (ma è pure colpa soja ca à assuttugliato troppo ‘a rosa...), ‘e jucature se dimustrajeno cchiú pecure ca liune, ma isso ce mettette ‘a terza sbaglianno furmazzione: Dossena, Santacroce e Marekiaro, pe comme stanno, ô mmassimo êvano ‘a jí ‘mpanchina e dô primmo minuto s’êvano ‘a fà jucà Vitale, Maiello e soprattutto Grava ca avesse pututo mettere ‘a musarola a Di Natale..., pe nun dicere po d’ ‘o solito prubblema ‘e culo’echiummo-cannavaro, ca nun se capisce pecché Mazzarri se nfessisce a farlo jucà quanno tene a Cribari ca vale seje culo’echiummo-cannavaro!
l’arbitro ROMEO 3,5 Indecente Uno d’’e cchiú ppeje sischette ‘ncruciate dô Napule. Mannato dô palazzo ( ma se po’ léggere juventussa) a ffermà e ccercà d’ arruvinà ‘o clubbo napulitano, facette tutto... ‘o duvere suĵo, cosa ca ggià ll’anno passato aveva tentato ‘e fà o aveva fatto: â quinnicesima d’annata (Napoli vs. Bari 3-2) e a ll’ottava ‘e ritorno (Bologna vs Napoli2 -1), ma ajere se superaje danno ‘o ricore a Sancezzo ca è ‘nu figlio ‘e zoccola e ca â primma uccasione se menaje ‘nterra e a isso nun lle parette overo ‘e crederce; pe nun fà a vvedé siscaje po ‘nu ricore a ffavore d’ ‘o Napule, ma quanno Marekiaro ‘o sbagliaje … nun tenette ‘o stommaco ‘e farlo ripetere, visto ca Handanoviccio s’era menato mez’ora primma. Dint’â media d’ ‘a mmunnezza arbitrale taliana: atleticamente ‘mpriparato, muscio e lloffio, siscaje sempe ‘a luntano; fuje assaje listo (molto fiscale) danno ‘a ‘mpressione ‘e vulé fà ‘o priciso, ma – a ccunte fatte - si limitaje a ruvinà ‘o Napule ca pure pe bbia soja se ritruvarrà forze cu paricchi squalificati doppo d’avé perduta ‘na partita ‘mpurtante.
Me dimanno e ddico: ma quanno, quanno De Laurentis & socie accuminciarranno a farsi sèntere addó se cumanna ‘a briscula e se decideranno a rifiutà chisti arbitri ‘ndecente?
Raffaele Bracale
domenica 28 novembre 2010
VARIE 891
1.DOPPO MAGNATO E VÍPPETO, " Â SALUTE VOSTA!".
Letteralmente: Dopo d'aver mangiato e bevuto:"alla vostra salute". L'espressione in epigrafe si usa a Napoli, per commentare sarcasticamente il comportamento di chi approfitta di una situazione proficua e posticipa gli atteggiamenti augurali, dopo di aver goduto di benefici per i quali la buona norma vorrebbe che gli auguri venissero fatti antecedentemente prima cioè di godere dei frutti di azioni comuni; a mo' d'es.: un brindisi va fatto prima, non dopo una bevuta corale;
vippeto = bevuto part. pass. collaterale di vevuto dell’infinito vevere← lat. bibere che diede direttamente vevere con consueta alternanza partenopea di b/v (cfr.barca →varca, botte →vótta, basiu(m)→vaso” ecc.), ma forní anche come deverbale il s.vo f.le veppeta= bevuta attraverso un acc.vo tardo latino bíbita(m)→*bíbbita→bippta→vippta→veppeta; è ipotizzabile che da questo s.vo si sia ricato il p.pass. víppeto collaterale di vevuto.
Tuttavia si può comodamente ipotizzare anche una diretta provenienza da "bíbere (→ vévere)", il cui regolare participio passato *bíbitum →*bíbb(i)tum (col normale raddoppiamento dialettale di "-b- " intervocalica) → *vipptum (con "pt" per omorganizzazione e poi con l'inserimento della vocale evanescente d'appoggio nel nesso consonantico per ovvia facilitazione della pronunzia)...A meno che un "bíbitu(m)→*vipeto di partenza non abbia subíto raddoppiamento nella consonante della penultima sillaba "-p-" come avviene nelle parole sdrucciole di sviluppo popolare nell’idioma napoletano e nel dialetto fiorentino-italiano: cfr. "fémina(m) → fémmena/femmina, pàrochu(m)→parroco/parrucchiano, hòmines→*hòmini→ uómmene, públicu(m)→pubblico" ecc. (senza dimenticare che nel Medioevo anche la grafia di "Africa" sia risultata il petrarchesco "Affrica").
2. METTERSE 'E CASA E PPUTECA.
Letteralmente: porsi di casa e bottega. Id est:accingersi ad un lavoro con massima attenzione ed attaccamento puntiglioso come chi dura la propria vita in quella che sia contemporaneamente casa e sede del proprio operare cui potersi dedicare senza soluzione di continuità e senza perdite di tempo che invece ci sarebbero qualora ci si dovesse spostare dalla bottega alla casa e viceversa.
3. FÀ 'O SCRUPOLO D''O RICUTTARO.
Letteralmente: fare lo scrupolo del magnaccia. Id est: scandalizzarsi grandemente al cospetto di altrui veniali mancanze, alla stregua di un lenone che abituato a compiere gravi mancanze si scandalizzasse di piccoli reati compiuti da altre persone.La locuzione è usata a Napoli appunto per bollare il comportamento chiaramente falso di chi abitualmente incline a delinquere mostra di scandalizzarsi davanti a piccole mancanze...
ricuttaro.
Da sempre il lenocinio è praticato da piccoli furfantelli e camorristi. Temporibus illis,cioè a fine '800 i piccoli furfanti ed i camorristi venivano arrestati e finivano sotto processo durante il quale dovevano esser difesi da avvocati che,qualora non fossero affiliati alla camorra, volevano esser pagati. A mettere insieme i fondi necessarî provvedevano i compagni dei detenuti che procedevano ad una questua piú o meno vessatoria tra piccoli commercianti e bottegai sia adiacenti al Tribunale, sia operanti nel rione d’origine del/dei furfante/i sotto processo. Tale questua finalizzata era detta 'a recoveta (la raccolta) da recoveta a recotta il passo è breve e da recotta a ricuttaro è ancora piú breve;successivamente con il termine ricuttare si indicarono non soltanto i questuanti suddetti, ma piú segnatamente i lenoni,i ruffiani,i protettori,i prosseneti etc. che spessissimo traevano origine dalle schiere di quei camorristi questuanti.
4. PURTÀ P''E VICHE.
Letteralmente: menare per i vicoli. Id est: comportarsi truffaldinamente nei confronti di qualcuno, imbrogliandolo, confondendolo, rimandando sine die il compimento di promesse formulategli, conducendolo per tortuosi e dispersivi vicoli in luogo della retta e piú breve via maestra. L'espressione è normalmente intesa in senso figurato, ma potrebbe esserlo anche in senso concreto nel deprecato caso del furbo tassista che,invece di andare diritto alla meta, porti il povero passeggero in giro per la città prima di depositarlo a destinazione.
5. 'A RAGGIONE S''A PIGLIANO 'E FESSE.
Letteralmente: la ragione se la prendono gli sciocchi. La locuzione con aria risentita viene profferita da chi si vede tacitato con vuote chiacchiere, in luogo delle attese concrete opere.
6. SE SO' STUTATE 'E LLAMPIUNCELLE.
Letteralmente: si sono spente le luminarie. Id est: siamo alla fine, non c'è piú rimedio, non c'è piú tempo per porre rimedio ad alcunché, la festa è finita.
7.TRÒVATE CHIUSO E PIÉRDETE CHISTO ACCUNTO.
Letteralmente: Trovati chiuso e perditi questo cliente.La divertita locuzione viene usata in senso ironico a commento della situazione antipatica in cui qualcuno abbia a che fare con persona pronta ad infastidire o a richiedere i maggior vantaggi da un quid senza voler conferire il giusto corrispettivo, come nel caso ad es. di un cliente che pretenda di accaparrarsi la miglior merce, ma sia restio a pagare il giusto prezzo dovuto.
La voce accunto deriva dal latino: adcognitus→accognitus= conosciuto, ben noto poi che chi è cliente per ovvi motivi di frequentazione quotidiana è ben noto al bottegaio.
8. FÀ TRE FICHE NOVE RÒTELE.
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli. Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare i comportamenti o - meglio - il vaniloquio di chi esagera con le parole e si ammanta di meriti che non possiede, né può possedere. Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle Due Sicilie e corrispondeva in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario,ad 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, è in uso ancora oggi a Malta che, prima di divenire colonia inglese, apparteneva al Regno delle Due Sicilie. Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba RATE,trasformazione a sua volta della parola greca LITRA, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la LITRA divenne poi in epoca romana LIBRA (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
9. 'A DISGRAZZIA D''O 'MBRELLO È QUANNO CHIOVE FINO FINO.
Letteralmente: la malasorte dell'ombrello è quando pioviggina lentamente. Va da sè che l'ombrello corre i maggiori rischi di rompersi allorché debba essere aperto e chiuso continuamente, non quando debba sopportare un unico, sia pure violento, scroscio temporalesco; cosí l'uomo(che nel proverbio è adombrato sotto il termine di 'mbrello) soffre di piú nel sopportare continuate piccole prove che non un solo , anche se pesante danno.
10. AVIMMO FATTO: CUPINTE, CUPINTE: 'E CAVÉRE 'A FORA E 'E FRIDDE 'A DINTO.
Letteralmente: abbiamo fatto cúpidi, cúpidi: i caldi (son restati) di fuori ed i freddi(sono entrati) dentro. Icastica espressione napoletana che fotografa una realtà nella quale stravolgendo la logica e l'attesa, si dia via libera a chi non è all'altezza della situazione e si lascia a bocca asciutta chi meriterebbe la priorità nel godimento di un quid (che - nella fattispecie - sono i favori di una donna).Tuttavia preciso che è inutile come che non significante la traduzione letterale; in senso ampio, come ò détto, la locuzione è usata per indicare l’incongruente azione di chi premi qualcuno oltre i propri meriti e al contrario lesini il plauso o il premio a chi invece spetterebbero; in senso piú strettamente letterale la locuzione si attaglia a quelle occasioni allorché spinti dalla cupidigia si siano concessi i favori di una donna a coloro che (freddi) non mostravano i necessarii requisiti fisici, e si siano erroneamente negati ai piú meritevoli caldi tenuti ingiustamente fuori sebbene mostrassero di essere adeguatamente... armati.
Letteralmente, di solito, in napoletano la parola cupínto sta per Cupído, miticologico nume dell’amore; ma penso che riferirsi a lui per la locuzione in esame sarebbe errato, non esistendo un nesso tra il benevolo nume suddetto e l’errato, inesatto comportamento ricordato nella seconda parte della locuzione; ò reputato piú giusto pensare, nella fattispecie della locuzione, che il termine cupinte (pl. di cupinto), oltre a fornire una adeguata rima con il termine dinto, sia stato usato come corruzione del termine cúpido: bramoso, agognante, desideroso, quella brama o desiderio che può spingere all’errore.
11. 'A PECORA S'À DDA TUSÀ, NUN S'À DDA SCURTECÀ!
Letteralmente: la pecora va tosata, ma non scorticata!
Id est: est modus in rebus: non bisogna mai esagerare; nel caso : è giusto che una pecora venga tosata, non è corretto però scarnificarla; come è giusto pagare i tributi, ma questi non devono essere esosi.
12. - SI' PRE' 'O CAPPIELLO VA STUORTO... - ACCUSSÍ À DDA JÍ!
- Signor prete, il cappello va storto - Cosí deve andare. Simpatico duettare tra un gruppetto di monelli che - pensando di porre in ridicolo un prete - gli significavano che egli aveva indossato il suo cappello di sgimbescio, e si sentirono rispondere che quella era l'esatta maniera di portare il suddetto copricapo. La locuzione viene usata quando si voglia fare intendere che non si accettano consigli non richiesti soprattutto quando chi dovrebbe riceverli à - per sua autorità - sufficiente autonomia di giudizio.Rammento che nel parlato comune dei meno consci o attenti della/alla parlata napoletana, l’espressione viene riportata erroneamente come: Zi' pre' 'o cappiello va stuorto... - accussí à dda jí! con un’evidente colpevole confusione tra il si’ e zi’ che comporta la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé l’apocope di si- gnore ) con lo scorretto zi’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) per cui si ottiene lo scorretto zi’ prevete in luogo del corretto si’ prevete dove il si’ (ò detto) è l’apocope di si-gnore (che etimologicamente è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano mentre alibi per indicare la voce signora si usa un sié che è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur → sie-gneuse.
Rammenterò a margine di tutto ciò un’altra tipica espressione partenopea che è ‘o si’ nisciuno usata per dileggio nei confronti di chi sia uomo di nessuna valenza teorica e/opratica; a tale insignificante individuo s’usa dire: sî ‘o si’ nisciuno(sei il signor nessuno, non vali o conti nulla!); l’espressione ‘o si’ nisciuno, spessissimo scorrettamente suole rendersi con‘o zi’ nisciuno incorrendo maldestramente nell’equivoco di cui ò già detto; in tale equivoco incorse inopinatamente anche il famosissimo scrittore partenopeo don Peppino Marotta (Napoli, 5 aprile 1902 -† Napoli, 10 ottobre 1963), che tradusse in un suo scritto l’espressione‘o si’ nisciuno con un inconferente lo zio Nessuno invece dell’atteso il signor Nessuno… Ma Marotta fu cosí grande scrittore e napoletano da pietra di paragone, che gli perdono e gli dobbiamo perdonare tutto!
13.DICETTE NUNZIATA: NCE PONNO CCHIÚ LL'UOCCHIE CA 'E SCUPPETTATE!
Letteralmente: Disse Nunziata: Ànno piú potenza gli occhi (il malocchio) che le schioppettate.Il napoletano teme piú il danno che gli possa derivare dagli sguardi malevoli di taluno, che il danno che possono arrecargli colpi di fucile: dalle ferite da arma da fuoco si può guarire, piú difficile sfuggire alla jettatura.
14. Â NNOTTE SE 'NZURAJE CATIELLO.
Letteralmente: Catello (inguaribile scapolo) prese moglie di notte. La locuzione fotografa una situazione che in italiano è resa con: meglio tardi che mai; il Catello, infatti procrastinò tanto il suo matrimonio che quando fu celebrato era oramai notte. Nella locuzione partenopea si tenga presente la geminazione iniziale della lettera N nella parola notte che lascia capire che la A iniziale non è l'articolo femminile ('A) ma una preposizione articolata: â = crasi di a+ ‘a= alla che introduce un concetto temporale reso con la doppia N di notte; se la A fosse stato un articolo la successiva parola notte sarebbe stata scritta in maniera scempia con una sola N.Si sarebbe potuto pure usare la preposizione semplice A che comunque avrebbe comportato la geminazione della N di notte, ed avrebbe introdotto un concetto temporale; ò preferito l’uso della preposizione articolata: Â= alla per riportare correttamente il pensiero napoletano che non articola mentalmente a notte, ma alla notte per cui è giocoforza scrivere â nnotte e non a nnotte.
15.'E MACCARUNE SE MAGNANO TENIÉNTE, TENIÉNTE.
Letteralmente: i maccheroni vanno mangiati molto al dente. La locuzione a Napoli oltre a compendiare un consiglio gastronomico ineludibile, viene usata anche per significare che gli affari devono esser conclusi sollecitamente, senza por troppe remore in mezzo.
teniente o tenente ag.vo m.le = tenente, che mantiene (la cottura); non si tratta ovviamente del s.vo m.le usato per indicare quel militare che nell'esercito, nell'aeronautica, nell'arma dei carabinieri e nella guardia di finanza è un ufficiale di grado superiore a sottotenente e inferiore a capitano; si tratta di un agg.vo m.le che nell’ espressione e nell’iterazionesuperlativa vale molto pronto, quasi duretto come cosa che abbia tenuto la cottura evitando di ammollarsi eccessivamente; letteralmente le voci a margine sono il participio presente del verbo tené (tenere) che è dal latino teníre, corradicale di tendere 'tendere'.
Brak
Letteralmente: Dopo d'aver mangiato e bevuto:"alla vostra salute". L'espressione in epigrafe si usa a Napoli, per commentare sarcasticamente il comportamento di chi approfitta di una situazione proficua e posticipa gli atteggiamenti augurali, dopo di aver goduto di benefici per i quali la buona norma vorrebbe che gli auguri venissero fatti antecedentemente prima cioè di godere dei frutti di azioni comuni; a mo' d'es.: un brindisi va fatto prima, non dopo una bevuta corale;
vippeto = bevuto part. pass. collaterale di vevuto dell’infinito vevere← lat. bibere che diede direttamente vevere con consueta alternanza partenopea di b/v (cfr.barca →varca, botte →vótta, basiu(m)→vaso” ecc.), ma forní anche come deverbale il s.vo f.le veppeta= bevuta attraverso un acc.vo tardo latino bíbita(m)→*bíbbita→bippta→vippta→veppeta; è ipotizzabile che da questo s.vo si sia ricato il p.pass. víppeto collaterale di vevuto.
Tuttavia si può comodamente ipotizzare anche una diretta provenienza da "bíbere (→ vévere)", il cui regolare participio passato *bíbitum →*bíbb(i)tum (col normale raddoppiamento dialettale di "-b- " intervocalica) → *vipptum (con "pt" per omorganizzazione e poi con l'inserimento della vocale evanescente d'appoggio nel nesso consonantico per ovvia facilitazione della pronunzia)...A meno che un "bíbitu(m)→*vipeto di partenza non abbia subíto raddoppiamento nella consonante della penultima sillaba "-p-" come avviene nelle parole sdrucciole di sviluppo popolare nell’idioma napoletano e nel dialetto fiorentino-italiano: cfr. "fémina(m) → fémmena/femmina, pàrochu(m)→parroco/parrucchiano, hòmines→*hòmini→ uómmene, públicu(m)→pubblico" ecc. (senza dimenticare che nel Medioevo anche la grafia di "Africa" sia risultata il petrarchesco "Affrica").
2. METTERSE 'E CASA E PPUTECA.
Letteralmente: porsi di casa e bottega. Id est:accingersi ad un lavoro con massima attenzione ed attaccamento puntiglioso come chi dura la propria vita in quella che sia contemporaneamente casa e sede del proprio operare cui potersi dedicare senza soluzione di continuità e senza perdite di tempo che invece ci sarebbero qualora ci si dovesse spostare dalla bottega alla casa e viceversa.
3. FÀ 'O SCRUPOLO D''O RICUTTARO.
Letteralmente: fare lo scrupolo del magnaccia. Id est: scandalizzarsi grandemente al cospetto di altrui veniali mancanze, alla stregua di un lenone che abituato a compiere gravi mancanze si scandalizzasse di piccoli reati compiuti da altre persone.La locuzione è usata a Napoli appunto per bollare il comportamento chiaramente falso di chi abitualmente incline a delinquere mostra di scandalizzarsi davanti a piccole mancanze...
ricuttaro.
Da sempre il lenocinio è praticato da piccoli furfantelli e camorristi. Temporibus illis,cioè a fine '800 i piccoli furfanti ed i camorristi venivano arrestati e finivano sotto processo durante il quale dovevano esser difesi da avvocati che,qualora non fossero affiliati alla camorra, volevano esser pagati. A mettere insieme i fondi necessarî provvedevano i compagni dei detenuti che procedevano ad una questua piú o meno vessatoria tra piccoli commercianti e bottegai sia adiacenti al Tribunale, sia operanti nel rione d’origine del/dei furfante/i sotto processo. Tale questua finalizzata era detta 'a recoveta (la raccolta) da recoveta a recotta il passo è breve e da recotta a ricuttaro è ancora piú breve;successivamente con il termine ricuttare si indicarono non soltanto i questuanti suddetti, ma piú segnatamente i lenoni,i ruffiani,i protettori,i prosseneti etc. che spessissimo traevano origine dalle schiere di quei camorristi questuanti.
4. PURTÀ P''E VICHE.
Letteralmente: menare per i vicoli. Id est: comportarsi truffaldinamente nei confronti di qualcuno, imbrogliandolo, confondendolo, rimandando sine die il compimento di promesse formulategli, conducendolo per tortuosi e dispersivi vicoli in luogo della retta e piú breve via maestra. L'espressione è normalmente intesa in senso figurato, ma potrebbe esserlo anche in senso concreto nel deprecato caso del furbo tassista che,invece di andare diritto alla meta, porti il povero passeggero in giro per la città prima di depositarlo a destinazione.
5. 'A RAGGIONE S''A PIGLIANO 'E FESSE.
Letteralmente: la ragione se la prendono gli sciocchi. La locuzione con aria risentita viene profferita da chi si vede tacitato con vuote chiacchiere, in luogo delle attese concrete opere.
6. SE SO' STUTATE 'E LLAMPIUNCELLE.
Letteralmente: si sono spente le luminarie. Id est: siamo alla fine, non c'è piú rimedio, non c'è piú tempo per porre rimedio ad alcunché, la festa è finita.
7.TRÒVATE CHIUSO E PIÉRDETE CHISTO ACCUNTO.
Letteralmente: Trovati chiuso e perditi questo cliente.La divertita locuzione viene usata in senso ironico a commento della situazione antipatica in cui qualcuno abbia a che fare con persona pronta ad infastidire o a richiedere i maggior vantaggi da un quid senza voler conferire il giusto corrispettivo, come nel caso ad es. di un cliente che pretenda di accaparrarsi la miglior merce, ma sia restio a pagare il giusto prezzo dovuto.
La voce accunto deriva dal latino: adcognitus→accognitus= conosciuto, ben noto poi che chi è cliente per ovvi motivi di frequentazione quotidiana è ben noto al bottegaio.
8. FÀ TRE FICHE NOVE RÒTELE.
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli. Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare i comportamenti o - meglio - il vaniloquio di chi esagera con le parole e si ammanta di meriti che non possiede, né può possedere. Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle Due Sicilie e corrispondeva in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario,ad 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, è in uso ancora oggi a Malta che, prima di divenire colonia inglese, apparteneva al Regno delle Due Sicilie. Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba RATE,trasformazione a sua volta della parola greca LITRA, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la LITRA divenne poi in epoca romana LIBRA (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
9. 'A DISGRAZZIA D''O 'MBRELLO È QUANNO CHIOVE FINO FINO.
Letteralmente: la malasorte dell'ombrello è quando pioviggina lentamente. Va da sè che l'ombrello corre i maggiori rischi di rompersi allorché debba essere aperto e chiuso continuamente, non quando debba sopportare un unico, sia pure violento, scroscio temporalesco; cosí l'uomo(che nel proverbio è adombrato sotto il termine di 'mbrello) soffre di piú nel sopportare continuate piccole prove che non un solo , anche se pesante danno.
10. AVIMMO FATTO: CUPINTE, CUPINTE: 'E CAVÉRE 'A FORA E 'E FRIDDE 'A DINTO.
Letteralmente: abbiamo fatto cúpidi, cúpidi: i caldi (son restati) di fuori ed i freddi(sono entrati) dentro. Icastica espressione napoletana che fotografa una realtà nella quale stravolgendo la logica e l'attesa, si dia via libera a chi non è all'altezza della situazione e si lascia a bocca asciutta chi meriterebbe la priorità nel godimento di un quid (che - nella fattispecie - sono i favori di una donna).Tuttavia preciso che è inutile come che non significante la traduzione letterale; in senso ampio, come ò détto, la locuzione è usata per indicare l’incongruente azione di chi premi qualcuno oltre i propri meriti e al contrario lesini il plauso o il premio a chi invece spetterebbero; in senso piú strettamente letterale la locuzione si attaglia a quelle occasioni allorché spinti dalla cupidigia si siano concessi i favori di una donna a coloro che (freddi) non mostravano i necessarii requisiti fisici, e si siano erroneamente negati ai piú meritevoli caldi tenuti ingiustamente fuori sebbene mostrassero di essere adeguatamente... armati.
Letteralmente, di solito, in napoletano la parola cupínto sta per Cupído, miticologico nume dell’amore; ma penso che riferirsi a lui per la locuzione in esame sarebbe errato, non esistendo un nesso tra il benevolo nume suddetto e l’errato, inesatto comportamento ricordato nella seconda parte della locuzione; ò reputato piú giusto pensare, nella fattispecie della locuzione, che il termine cupinte (pl. di cupinto), oltre a fornire una adeguata rima con il termine dinto, sia stato usato come corruzione del termine cúpido: bramoso, agognante, desideroso, quella brama o desiderio che può spingere all’errore.
11. 'A PECORA S'À DDA TUSÀ, NUN S'À DDA SCURTECÀ!
Letteralmente: la pecora va tosata, ma non scorticata!
Id est: est modus in rebus: non bisogna mai esagerare; nel caso : è giusto che una pecora venga tosata, non è corretto però scarnificarla; come è giusto pagare i tributi, ma questi non devono essere esosi.
12. - SI' PRE' 'O CAPPIELLO VA STUORTO... - ACCUSSÍ À DDA JÍ!
- Signor prete, il cappello va storto - Cosí deve andare. Simpatico duettare tra un gruppetto di monelli che - pensando di porre in ridicolo un prete - gli significavano che egli aveva indossato il suo cappello di sgimbescio, e si sentirono rispondere che quella era l'esatta maniera di portare il suddetto copricapo. La locuzione viene usata quando si voglia fare intendere che non si accettano consigli non richiesti soprattutto quando chi dovrebbe riceverli à - per sua autorità - sufficiente autonomia di giudizio.Rammento che nel parlato comune dei meno consci o attenti della/alla parlata napoletana, l’espressione viene riportata erroneamente come: Zi' pre' 'o cappiello va stuorto... - accussí à dda jí! con un’evidente colpevole confusione tra il si’ e zi’ che comporta la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé l’apocope di si- gnore ) con lo scorretto zi’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) per cui si ottiene lo scorretto zi’ prevete in luogo del corretto si’ prevete dove il si’ (ò detto) è l’apocope di si-gnore (che etimologicamente è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano mentre alibi per indicare la voce signora si usa un sié che è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur → sie-gneuse.
Rammenterò a margine di tutto ciò un’altra tipica espressione partenopea che è ‘o si’ nisciuno usata per dileggio nei confronti di chi sia uomo di nessuna valenza teorica e/opratica; a tale insignificante individuo s’usa dire: sî ‘o si’ nisciuno(sei il signor nessuno, non vali o conti nulla!); l’espressione ‘o si’ nisciuno, spessissimo scorrettamente suole rendersi con‘o zi’ nisciuno incorrendo maldestramente nell’equivoco di cui ò già detto; in tale equivoco incorse inopinatamente anche il famosissimo scrittore partenopeo don Peppino Marotta (Napoli, 5 aprile 1902 -† Napoli, 10 ottobre 1963), che tradusse in un suo scritto l’espressione‘o si’ nisciuno con un inconferente lo zio Nessuno invece dell’atteso il signor Nessuno… Ma Marotta fu cosí grande scrittore e napoletano da pietra di paragone, che gli perdono e gli dobbiamo perdonare tutto!
13.DICETTE NUNZIATA: NCE PONNO CCHIÚ LL'UOCCHIE CA 'E SCUPPETTATE!
Letteralmente: Disse Nunziata: Ànno piú potenza gli occhi (il malocchio) che le schioppettate.Il napoletano teme piú il danno che gli possa derivare dagli sguardi malevoli di taluno, che il danno che possono arrecargli colpi di fucile: dalle ferite da arma da fuoco si può guarire, piú difficile sfuggire alla jettatura.
14. Â NNOTTE SE 'NZURAJE CATIELLO.
Letteralmente: Catello (inguaribile scapolo) prese moglie di notte. La locuzione fotografa una situazione che in italiano è resa con: meglio tardi che mai; il Catello, infatti procrastinò tanto il suo matrimonio che quando fu celebrato era oramai notte. Nella locuzione partenopea si tenga presente la geminazione iniziale della lettera N nella parola notte che lascia capire che la A iniziale non è l'articolo femminile ('A) ma una preposizione articolata: â = crasi di a+ ‘a= alla che introduce un concetto temporale reso con la doppia N di notte; se la A fosse stato un articolo la successiva parola notte sarebbe stata scritta in maniera scempia con una sola N.Si sarebbe potuto pure usare la preposizione semplice A che comunque avrebbe comportato la geminazione della N di notte, ed avrebbe introdotto un concetto temporale; ò preferito l’uso della preposizione articolata: Â= alla per riportare correttamente il pensiero napoletano che non articola mentalmente a notte, ma alla notte per cui è giocoforza scrivere â nnotte e non a nnotte.
15.'E MACCARUNE SE MAGNANO TENIÉNTE, TENIÉNTE.
Letteralmente: i maccheroni vanno mangiati molto al dente. La locuzione a Napoli oltre a compendiare un consiglio gastronomico ineludibile, viene usata anche per significare che gli affari devono esser conclusi sollecitamente, senza por troppe remore in mezzo.
teniente o tenente ag.vo m.le = tenente, che mantiene (la cottura); non si tratta ovviamente del s.vo m.le usato per indicare quel militare che nell'esercito, nell'aeronautica, nell'arma dei carabinieri e nella guardia di finanza è un ufficiale di grado superiore a sottotenente e inferiore a capitano; si tratta di un agg.vo m.le che nell’ espressione e nell’iterazionesuperlativa vale molto pronto, quasi duretto come cosa che abbia tenuto la cottura evitando di ammollarsi eccessivamente; letteralmente le voci a margine sono il participio presente del verbo tené (tenere) che è dal latino teníre, corradicale di tendere 'tendere'.
Brak