1È GGHIUTA 'A MOSCA DINT' Ô VISCUVATO...
Letteralmente: È finita la mosca nella Cattedrale. È l'icastico commento profferito da chi si lamenta d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli à tolto la fame; in effetti un boccone nello stomaco, si sperde, quasi come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione è usata ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese...
2CU 'NU SÍ TE 'MPICCE E CU 'NU NO TE SPICCE.
Letteralmente: dicendo di sí ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre alle richieste ricevute, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti.
‘mpicce voce verbale 2ª p.sg. ind. pr. dell’infinito ‘mpiccià= impicciare, impedire, ostacolare (dal fr. empechier che è dal lat. impedicàre= inceppare denom. di pèdica = lacciuolo per i piedi).
• spicce voce verbale 2ª p.sg. ind. pr. dell’infinito spiccià=sbrigare, liberarsi, disfarsi.(da un tardo lat. volg. dis-pedicare→(di)sped(i)cíare→spedcíare→spicciare (con un infisso frequentativo di una í, assimilazione regressiva dc→cc.
3 TENÉ 'A SALUTE D' 'A CARRAFA D’'A ZECCA.
Letteralmente:avere la consistenza della caraffa della Zecca. Ossia essere gracilissimo e cagionevole di salute quasi come l'ampolla di un litro usata per le tarature, esistente presso la Zecca di Napoli che era di sottilissimo vetro e perciò fragilissima.
4.TENGO 'E LAPPESE A QUADRIGLIÈ, CA M'ABBALLANO PE CCAPA.
Letteralmente: Ò le matite a quadretti che mi ballano in testa. Presa alla lettera la locuzione non significherebbe niente. In realtà "lappese a quadrigliè" è la corruzione dell'espressione latina lapis quadratus poi nel parlato quadrellatus, seu opus reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre piccole piramidi di tufo o altra pietra, (unendole con la malta) facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l'esterno, ed il vertice verso l'interno, per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente. Questa costruzione richiedeva notevole precisione ed attenzione con conseguente applicazione mentale tale da procurare nervosismo, irritabilità et similia.
5. PARÉ 'A SPORTA D''O TARALLARO.
Sembrare la cesta del venditore dei taralli. La locuzione è usata innanzi tutto per indicare chi, per motivi di lavoro o di naturale instabilità, si sposta continuamente, come appunto il venditore di taralli che con la sua cesta, per smaltire tutta la merce fa continui lunghi giri. C'è poi un'altra valenza della locuzione. Poiché gli avventori di taralli son soliti servirsi con le proprie mani affondandole nella cesta colma di tartalli per scegliere, alla stessa maniera c'è chi consente agli altri di approfittare e servirsi delle sue cose, ma lo fa piú per indolenza che per magnanimità.
6.LASSEME STÀ CA STONGO'NQUARTATO!
Lasciami perdere perché sono irritato, scontroso, adirato. Per cui non rispondo delle mie reazioni... La locuzione prende il via dal linguaggio degli schermidori: stare inquartato, ossia in quarta posizione che è posizione di difesa, ma anche di prevedibile prossimo attacco il che presuppone uno stato di tensione massima da cui possono scaturire le piú varie reazioni.
7.SE FRUSCIA PINTAURO, D''E SFUGLIATELLE JUTE 'ACITO.
Si vanta PINTAURO delle sfogliatelle inacidite. Occorre sapere che Pintauro era un antico pasticciere napoletano che, normalmente, produceva delle ottime sfogliatelle dolce tipico inventato peraltro dalle suore del convento partenopeo detto Croce di Lucca. La locuzione è usata nei confronti di chi continua a pavoneggiarsi vantandosi di propri supposti meriti, anche quando invece i risultati delle sue azioni sono piuttosto deprecabili.
8.CARCERE, MALATIA E NECISSITÀ, SE SCANAGLIA 'O CORE 'E LL'AMICE.
Carcere, malattia e necessità fanno conoscere la vera indole, il vero animo, degli amici.
9.MURÍ CU 'E GUARNEMIENTE 'NCUOLLO.
Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i carretti e non i camioncini tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla fatica, con ancora i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere.... Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore che faccia per intero il suo dovere...
10.NISCIUNO TE DICE: LAVATE 'A FACCIA CA PARE CCHIÚ BBELLO 'E ME.
Nessuno ti dice: Lavati il volto cosí sarai piú bello di me. Ossia:non aspettarti consigli atti a migliorarti, in ispecie da quelli con cui devi confrontarti.
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lunedì 31 gennaio 2011
VARIE 1011
1.È 'NA BBELLA JURNATA E NISCIUNO SE 'MPENNE.
Ad litteram: È una bella giornata e nessuno viene impiccato.Con la frase in epigrafe, un tempo erano soliti lamentarsi i commercianti che aprivano bottega a Napoli nei pressi di piazza Mercato dove erano innalzate le forche per le esecuzioni capitali; i commercianti si dolevano che in presenza di una bella giornata non ci fossero esecuzioni cosa che, richiamando gran pubblico, poteva far aumentare il numero dei possibili clienti. Oggi la locuzione viene usata quando si voglia significare che ci si trova in una situazione a cui mancano purtroppo le necessarie premesse per il conseguimento di un risultato positivo.
2. 'E MEGLIO AFFARE SO' CCHILLE CA NUN SE FANNO.
Ad litteram: i migliori affari sono quelli che non vengono portati a compimento; siccome gli affari - in ispecie quelli grossi - comportano una aleatorietà, spesso pericolosa, è piú conveniente non principiarne o non portarne a compimento alcuno.
3. QUANNO 'E FIGLIE FÓTTONO, 'E PATE SO' FUTTUTE.
Ad litteram: quando i figli copulano, i padri restano buggerati Id est: quando i figli conducono una vita dissoluta e perciò dispendiosa, i padri ne sopportano le conseguenze o ne portano il peso; va da sé che con la parola fóttono (voce verbale 3° p. pl. ind. pres. dell’infinito fóttere dal lat. futúere)non si deve intendere il semplice, naturale, atto sessuale, ma piú chiaramente quello compiuto a pagamento per divertimento o vizio; il medesimo atto compiuto nell’àmbito del rapporto coniugale esula da quanto affermato in epigrafe.
4. PRIMMA T'AGGI''A 'MPARÀ E PPO T'AGGI''A PERDERE....
Ad litteram: prima devo insegnarti(il mestiere) e poi devo perderti. Cosí son soliti lamentarsi, dolendosene, gli artigiani partenopei davanti ad un fatto incontrovertibile: prima devono impegnarsi per insegnare il mestiere agli apprendisti, e poi devono sopportare il fatto che costoro, diventati provetti, lasciano la bottega dove ànno imparato il mestiere e si mettono in proprio, magari facendo concorrenza al vecchio maestro.
5.'NA MELA VERMENOSA NE 'NFRACETA 'NU MUNTONE
Basta una sola mela marcia per render marce tutte quelle con cui sia a contatto. Id est: in una cerchia di persone, basta che ve ne sia una sola cattiva, sleale, di indole malvagia o peggiore, per rovinare tutti gli altri.
6. CHELLA CA LL'AÍZA 'NA VOTA, LL'AÍZA SEMPE.
Ad litteram: quella che la solleva una volta, la solleverà sempre. Id est: una donna che, per darsi, tiri su le gonne una volta, le tirerà su sempre; piú estesamente: chi commette una cattiva azione, la ripeterà per sempre; non bisogna mai principiare a delinquere, o a comportarsi male altrimenti si corre il rischio di farlo sempre.
7. CHELLA CAMMISA CA NUN VO' STÀ CU TTE, PIGLIALA E STRÀCCIALA!
Ad litteram: quella camicia che non vuole star con te, strappala! Id est: allontana, anche violentemente, da te chi non accetta la tua amicizia o la tua vicinanza.
8. Â SERA SO' BASTIMIENTE, Â MATINA SO' VARCHETELLE.
Ad litteram: a sera sono grosse navi, di mattina piccole barche.Con il mutare delle ore del giorno, mutano le prospettive o le proporzioni delle cose; cosí quegli accadimenti che di sera sembrano insormontabili problemi, passata la notte, alla luce del giorno, si rivelano per piccoli insignificanti intoppi.
9. O CHESTO, O CHESTE!
Ad litteram: o questo, o queste.La locuzione viene profferita, a Napoli quando si voglia schernire qualcuno con riferimento alla sua ottima posizione economico-finanziaria; alle parole devono essere accompagnati però precisi gesti: e cioè: pronunciando la parola chesto bisogna far sfarfallare le dita tese delle mano destra con moto rotatorio principiando dal dito mignolo e terminando col pollice nel gesto significante il rubare; pronunciando la parola cheste bisogna agitare la mano destra atteggiandola a mo' di corna,(tenendo cioè tesi e distesi indice e mignolo e serrate contro il palmo le altre dita) per significare complessivamente che le fortune di chi è preso in giro sono state procurate o con il furto o con le disonorevoli azioni della di lui moglie, figlia, o sorella, inclini a farsi possedere per danaro.
10.CU 'O FURASTIERO, 'A FRUSTA E CU 'O PAISANO 'ARRUSTO.
Ad litteram: con il forestiero occorre usare la frusta (per scacciarlo)mentre con il compaesano bisogna servirlo di adeguato sostentamento, proverbio che viene di lontano ed è attualissimo, quantunque proverbio un po’ strano per la filosofia comportamentale del popolo napoletano,abituato da sempre ad accogliere chicchessia e per solito ligio ai precetti divini del soccorso e dell’aiuto fraterno anche verso gli stranieri.
Furastiero s.vo ed agg.vo m.le= che, chi proviene da un altro paese; voce che è dal fr. ant. forestier, deriv. del lat. foris 'fuori';
paisano s.vo ed agg.vo m.le =1 abitante di paese (talora con sfumatura spreg.)
2 e qui compaesano; voce derivata del sost. paese (che a sua volta è dal lat. *pagensis agg.vo, der. di pagus «villaggio») con l’aggiunta del suff. di appartenenza aneus→ano.
11. A LLUME 'E CANNELA SPEDOCCHIAME 'O PETTENALE.
Ad litteram: a lume di candela, spidocchiami il pettinale (id est: monte di Venere). Il proverbio è usato per prendersi giuoco o sarcasticamente redarguire chi, per ignavia, rimanda alle ore notturne ciò che potrebbe fare piú agevolmente e proficuamente alla luce diurna.
pettenale s.m. = monte di Venere, pube, pettignone dal lat. pectinale(m).
12.CHI TÈNE MALI CCEREVELLE, À DA TENÉ BBONI CCOSCE.
Ad litteram: chi à cattiva testa, deve avere buone gambe. Id est: chi è incline a delinquere, deve avere buone gambe per potersi sottrarre con la fuga al castigo che dovesse seguire al delitto.Inteso in senso meno grave il proverbio significa che chi dimentica di operare alcunché deve sopperirvi con buone gambe per recarsi a pigliare o a fare ciò che si è dimenticato di fare o prendere.
13.QUANNO 'E MULINARE FANNO A PPONIE, STRIGNE 'E SACCHE.
Ad litteram: quando litigano gli addetti al mulino, conviene stringere le bocche dei sacchi. Id est: non conviene lasciarsi coinvolgere nelle altrui lotte, altrimenti si finisce per rimetterci del proprio.
14.MEGLIO MAGNÀ POCO E SPISSO CA FÀ UNU MUORZO.
Ad litteram: meglio mangiar poco e spesso che consumar tutto in un solo boccone. Contrariamente a quel che si possa pensare, il proverbio non è una norma statuita da qualche scuola medica che consigli di alimentarsi parcamente senza dar fondo alle vettovaglie; è invece un consiglio epicureo che spinge a piluccare, (per estendere al massimo - nel tempo -il piacere della tavola), piuttosto che esaurirlo in pochissimo spazio di tempo.
15.TRE SONGO 'E CCOSE CA STRUDENO 'NA CASA: ZEPPOLE, PANE CAUDO E MACCARUNE.
Ad litteram:Tre sono le cose che mandano alla rovina una casa: focaccine dolci, pane caldo, maccheroni. Da sempre a Napoli, le spese per l'alimentazione ànno costituito un grosso problema; il proverbio in epigrafe elenca quali furono una volta gli alimenti molto cari, che producevano grossi problemi alle vuote tasche dei napoletani; essi alimenti erano: le focaccine dolci, molto appetite dai golosi, il pane caldo cioè fresco che veniva consumato in quantità maggiore di quello raffermo, ed i famosi maccheroni che all'epoca costavano molto piú della verdura; oggi tutto costa di piú, per cui è difficile fare un elenco delle cose che posson mandare in malora l'economia di una casa.
16.ADDÓ HÊ FATTO 'O PALUMMARO? DINTO Â VASCA D''E CAPITUNE?!
Ad litteram: dove ài imparato a fare il sommozzatore? Nella tinozza dei capitoni?!La frase è usata sarcasticamente quando ci si voglia prender giuoco di qualcuno che si atteggia a baldanzoso esperto di qualcosa di cui in realtà non à esperienza, come di un operaio subacqueo che, in luogo delle profondità marine, manichette o pompe idrovore abbia avuto rapporti con la sola acqua contenuta nelle tinozze dove vengono messi le anguille o i piú grossi capitoni.
Palummaro s.vo m.le = Chi fa il mestiere di scendere sott’acqua, completamente immerso, per compiere una determinata operazione; voce napoletana, voce poi pervenuta nell’italiano come palombaro, usata come ò detto per indicare chi esegue lavori sott'acqua (pesca, ricerche, ricuperi ecc.) munito di scafandro; è voce che deriva per metafora da un lat. tardo *palumbariu(m) 'sparviero', perché chi fa tale mestiere, immergendosi richiama l'immagine dello sparviero che cali sulla preda.
17. 'A VIPERA CA MUZZECAJE A CCHELLA MURETTE 'E TUOSSECO.
Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perí di veleno; per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto piú pericolosa di essa vipera.
18. E SSEMPE CARULINA, E SSEMPE CARULINA...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che - però, si dice - lo ripagava con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.
19.TRE COSE STANNO MALE A 'STU MUNNO: N'AUCIELLO 'MMANO A 'NU PICCERILLO, 'NU FIASCO 'MMANO A 'NU TERISCO, 'NA ZITA 'MMANO A 'NU VIECCHIO.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato,il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, per definizione lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
20.UOVO 'E N'ORA, PANE 'E 'NU JUORNO, VINO 'E N'ANNO E GUAGLIONA 'E VINT'ANNE.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare tutta l'umidità dovuta alla cottura, vino giovane che è il piú dolce e il meno alcoolico, ed una ragazza ancora nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancora intatte.
21.A CHI PIACE LU SPITO, NUN PIACE LA SPATA.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
22.ADDÓ NUN MIETTE LL'ACO, NCE MIETTE 'A CAPA.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato subito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
23.ZITTO CHI SAPE 'O JUOCO!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
24.VUÓ CAMPÀ LIBBERO E BBIATO? MEGLIO SULO CA MALE ACCUMPAGNATO.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato? Meglio solo che male accompagnato. Il proverbio in epigrafe, in fondo rende l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo!
25.QUANNO 'NA FEMMENA S'ACCONCIA 'O QUARTO 'E COPPA, VO' AFFITTÀ CHILLO 'E SOTTO.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di uno che le soddisfi le voglie sessuali.
26.QUANNO QUACCHE AMICO TE VENE A TRUVÀ, QUACCHE CCAZZO LE MANCARRÀ.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te). Amaro, pessimistico proverbio con il quale si significa che, nella vita, non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o di affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono forse - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano soltanto per carpirti qualcosa.
27.LL'UOCCHIE SO' FFATTE PE GGUARDÀ, MA 'E MMANE PE TUCCÀ.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare palpeggiamenti delle rotondità femminili.
28. ZAPPA 'E FEMMENA E SURCO 'E VACCA, MALA CHELLA TERRA CA L'ANCAPPA.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
29.'AMICE E VINO ÀNNO 'A ESSERE VIECCHIE!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere veramente buoni) devono essere di antica data.
30.'A MEGLIA VITA È CCHELLA D''E VACCARE PECCHÉ, TUTTA 'A JURNATA, MANEJANO ZIZZE E DENARE.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
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Ad litteram: È una bella giornata e nessuno viene impiccato.Con la frase in epigrafe, un tempo erano soliti lamentarsi i commercianti che aprivano bottega a Napoli nei pressi di piazza Mercato dove erano innalzate le forche per le esecuzioni capitali; i commercianti si dolevano che in presenza di una bella giornata non ci fossero esecuzioni cosa che, richiamando gran pubblico, poteva far aumentare il numero dei possibili clienti. Oggi la locuzione viene usata quando si voglia significare che ci si trova in una situazione a cui mancano purtroppo le necessarie premesse per il conseguimento di un risultato positivo.
2. 'E MEGLIO AFFARE SO' CCHILLE CA NUN SE FANNO.
Ad litteram: i migliori affari sono quelli che non vengono portati a compimento; siccome gli affari - in ispecie quelli grossi - comportano una aleatorietà, spesso pericolosa, è piú conveniente non principiarne o non portarne a compimento alcuno.
3. QUANNO 'E FIGLIE FÓTTONO, 'E PATE SO' FUTTUTE.
Ad litteram: quando i figli copulano, i padri restano buggerati Id est: quando i figli conducono una vita dissoluta e perciò dispendiosa, i padri ne sopportano le conseguenze o ne portano il peso; va da sé che con la parola fóttono (voce verbale 3° p. pl. ind. pres. dell’infinito fóttere dal lat. futúere)non si deve intendere il semplice, naturale, atto sessuale, ma piú chiaramente quello compiuto a pagamento per divertimento o vizio; il medesimo atto compiuto nell’àmbito del rapporto coniugale esula da quanto affermato in epigrafe.
4. PRIMMA T'AGGI''A 'MPARÀ E PPO T'AGGI''A PERDERE....
Ad litteram: prima devo insegnarti(il mestiere) e poi devo perderti. Cosí son soliti lamentarsi, dolendosene, gli artigiani partenopei davanti ad un fatto incontrovertibile: prima devono impegnarsi per insegnare il mestiere agli apprendisti, e poi devono sopportare il fatto che costoro, diventati provetti, lasciano la bottega dove ànno imparato il mestiere e si mettono in proprio, magari facendo concorrenza al vecchio maestro.
5.'NA MELA VERMENOSA NE 'NFRACETA 'NU MUNTONE
Basta una sola mela marcia per render marce tutte quelle con cui sia a contatto. Id est: in una cerchia di persone, basta che ve ne sia una sola cattiva, sleale, di indole malvagia o peggiore, per rovinare tutti gli altri.
6. CHELLA CA LL'AÍZA 'NA VOTA, LL'AÍZA SEMPE.
Ad litteram: quella che la solleva una volta, la solleverà sempre. Id est: una donna che, per darsi, tiri su le gonne una volta, le tirerà su sempre; piú estesamente: chi commette una cattiva azione, la ripeterà per sempre; non bisogna mai principiare a delinquere, o a comportarsi male altrimenti si corre il rischio di farlo sempre.
7. CHELLA CAMMISA CA NUN VO' STÀ CU TTE, PIGLIALA E STRÀCCIALA!
Ad litteram: quella camicia che non vuole star con te, strappala! Id est: allontana, anche violentemente, da te chi non accetta la tua amicizia o la tua vicinanza.
8. Â SERA SO' BASTIMIENTE, Â MATINA SO' VARCHETELLE.
Ad litteram: a sera sono grosse navi, di mattina piccole barche.Con il mutare delle ore del giorno, mutano le prospettive o le proporzioni delle cose; cosí quegli accadimenti che di sera sembrano insormontabili problemi, passata la notte, alla luce del giorno, si rivelano per piccoli insignificanti intoppi.
9. O CHESTO, O CHESTE!
Ad litteram: o questo, o queste.La locuzione viene profferita, a Napoli quando si voglia schernire qualcuno con riferimento alla sua ottima posizione economico-finanziaria; alle parole devono essere accompagnati però precisi gesti: e cioè: pronunciando la parola chesto bisogna far sfarfallare le dita tese delle mano destra con moto rotatorio principiando dal dito mignolo e terminando col pollice nel gesto significante il rubare; pronunciando la parola cheste bisogna agitare la mano destra atteggiandola a mo' di corna,(tenendo cioè tesi e distesi indice e mignolo e serrate contro il palmo le altre dita) per significare complessivamente che le fortune di chi è preso in giro sono state procurate o con il furto o con le disonorevoli azioni della di lui moglie, figlia, o sorella, inclini a farsi possedere per danaro.
10.CU 'O FURASTIERO, 'A FRUSTA E CU 'O PAISANO 'ARRUSTO.
Ad litteram: con il forestiero occorre usare la frusta (per scacciarlo)mentre con il compaesano bisogna servirlo di adeguato sostentamento, proverbio che viene di lontano ed è attualissimo, quantunque proverbio un po’ strano per la filosofia comportamentale del popolo napoletano,abituato da sempre ad accogliere chicchessia e per solito ligio ai precetti divini del soccorso e dell’aiuto fraterno anche verso gli stranieri.
Furastiero s.vo ed agg.vo m.le= che, chi proviene da un altro paese; voce che è dal fr. ant. forestier, deriv. del lat. foris 'fuori';
paisano s.vo ed agg.vo m.le =1 abitante di paese (talora con sfumatura spreg.)
2 e qui compaesano; voce derivata del sost. paese (che a sua volta è dal lat. *pagensis agg.vo, der. di pagus «villaggio») con l’aggiunta del suff. di appartenenza aneus→ano.
11. A LLUME 'E CANNELA SPEDOCCHIAME 'O PETTENALE.
Ad litteram: a lume di candela, spidocchiami il pettinale (id est: monte di Venere). Il proverbio è usato per prendersi giuoco o sarcasticamente redarguire chi, per ignavia, rimanda alle ore notturne ciò che potrebbe fare piú agevolmente e proficuamente alla luce diurna.
pettenale s.m. = monte di Venere, pube, pettignone dal lat. pectinale(m).
12.CHI TÈNE MALI CCEREVELLE, À DA TENÉ BBONI CCOSCE.
Ad litteram: chi à cattiva testa, deve avere buone gambe. Id est: chi è incline a delinquere, deve avere buone gambe per potersi sottrarre con la fuga al castigo che dovesse seguire al delitto.Inteso in senso meno grave il proverbio significa che chi dimentica di operare alcunché deve sopperirvi con buone gambe per recarsi a pigliare o a fare ciò che si è dimenticato di fare o prendere.
13.QUANNO 'E MULINARE FANNO A PPONIE, STRIGNE 'E SACCHE.
Ad litteram: quando litigano gli addetti al mulino, conviene stringere le bocche dei sacchi. Id est: non conviene lasciarsi coinvolgere nelle altrui lotte, altrimenti si finisce per rimetterci del proprio.
14.MEGLIO MAGNÀ POCO E SPISSO CA FÀ UNU MUORZO.
Ad litteram: meglio mangiar poco e spesso che consumar tutto in un solo boccone. Contrariamente a quel che si possa pensare, il proverbio non è una norma statuita da qualche scuola medica che consigli di alimentarsi parcamente senza dar fondo alle vettovaglie; è invece un consiglio epicureo che spinge a piluccare, (per estendere al massimo - nel tempo -il piacere della tavola), piuttosto che esaurirlo in pochissimo spazio di tempo.
15.TRE SONGO 'E CCOSE CA STRUDENO 'NA CASA: ZEPPOLE, PANE CAUDO E MACCARUNE.
Ad litteram:Tre sono le cose che mandano alla rovina una casa: focaccine dolci, pane caldo, maccheroni. Da sempre a Napoli, le spese per l'alimentazione ànno costituito un grosso problema; il proverbio in epigrafe elenca quali furono una volta gli alimenti molto cari, che producevano grossi problemi alle vuote tasche dei napoletani; essi alimenti erano: le focaccine dolci, molto appetite dai golosi, il pane caldo cioè fresco che veniva consumato in quantità maggiore di quello raffermo, ed i famosi maccheroni che all'epoca costavano molto piú della verdura; oggi tutto costa di piú, per cui è difficile fare un elenco delle cose che posson mandare in malora l'economia di una casa.
16.ADDÓ HÊ FATTO 'O PALUMMARO? DINTO Â VASCA D''E CAPITUNE?!
Ad litteram: dove ài imparato a fare il sommozzatore? Nella tinozza dei capitoni?!La frase è usata sarcasticamente quando ci si voglia prender giuoco di qualcuno che si atteggia a baldanzoso esperto di qualcosa di cui in realtà non à esperienza, come di un operaio subacqueo che, in luogo delle profondità marine, manichette o pompe idrovore abbia avuto rapporti con la sola acqua contenuta nelle tinozze dove vengono messi le anguille o i piú grossi capitoni.
Palummaro s.vo m.le = Chi fa il mestiere di scendere sott’acqua, completamente immerso, per compiere una determinata operazione; voce napoletana, voce poi pervenuta nell’italiano come palombaro, usata come ò detto per indicare chi esegue lavori sott'acqua (pesca, ricerche, ricuperi ecc.) munito di scafandro; è voce che deriva per metafora da un lat. tardo *palumbariu(m) 'sparviero', perché chi fa tale mestiere, immergendosi richiama l'immagine dello sparviero che cali sulla preda.
17. 'A VIPERA CA MUZZECAJE A CCHELLA MURETTE 'E TUOSSECO.
Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perí di veleno; per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto piú pericolosa di essa vipera.
18. E SSEMPE CARULINA, E SSEMPE CARULINA...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che - però, si dice - lo ripagava con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.
19.TRE COSE STANNO MALE A 'STU MUNNO: N'AUCIELLO 'MMANO A 'NU PICCERILLO, 'NU FIASCO 'MMANO A 'NU TERISCO, 'NA ZITA 'MMANO A 'NU VIECCHIO.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato,il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, per definizione lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
20.UOVO 'E N'ORA, PANE 'E 'NU JUORNO, VINO 'E N'ANNO E GUAGLIONA 'E VINT'ANNE.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare tutta l'umidità dovuta alla cottura, vino giovane che è il piú dolce e il meno alcoolico, ed una ragazza ancora nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancora intatte.
21.A CHI PIACE LU SPITO, NUN PIACE LA SPATA.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
22.ADDÓ NUN MIETTE LL'ACO, NCE MIETTE 'A CAPA.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato subito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
23.ZITTO CHI SAPE 'O JUOCO!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
24.VUÓ CAMPÀ LIBBERO E BBIATO? MEGLIO SULO CA MALE ACCUMPAGNATO.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato? Meglio solo che male accompagnato. Il proverbio in epigrafe, in fondo rende l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo!
25.QUANNO 'NA FEMMENA S'ACCONCIA 'O QUARTO 'E COPPA, VO' AFFITTÀ CHILLO 'E SOTTO.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di uno che le soddisfi le voglie sessuali.
26.QUANNO QUACCHE AMICO TE VENE A TRUVÀ, QUACCHE CCAZZO LE MANCARRÀ.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te). Amaro, pessimistico proverbio con il quale si significa che, nella vita, non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o di affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono forse - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano soltanto per carpirti qualcosa.
27.LL'UOCCHIE SO' FFATTE PE GGUARDÀ, MA 'E MMANE PE TUCCÀ.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare palpeggiamenti delle rotondità femminili.
28. ZAPPA 'E FEMMENA E SURCO 'E VACCA, MALA CHELLA TERRA CA L'ANCAPPA.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
29.'AMICE E VINO ÀNNO 'A ESSERE VIECCHIE!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere veramente buoni) devono essere di antica data.
30.'A MEGLIA VITA È CCHELLA D''E VACCARE PECCHÉ, TUTTA 'A JURNATA, MANEJANO ZIZZE E DENARE.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
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VARIE 1010
1 CCA SSOTTO NUN CE CHIOVE
Ad litteram: Qui sotto non ci piove
L’espressione che viene pronunciata puntando il dito indice della mano destra ben teso contro il palmo rovesciato della mano sinistra, viene usata, a mo’ di risentito avvertimento , nei confronti di chi - dopo di aver promesso un aiuto o una liberalità - sia venuto meno clamorosamente a quanto promesso; e ciò nell’intento di fargli capire che non si è piú disposti a sopportare una simile mancanza di parola data e, per converso, si è pronti secondo un noto principio partenopeo che statuisce: fa’ comme t’è ffatto ca nun è peccato (comportati con gli altri come gli altri si sono comportati con te, ché non peccherai…) a restituire pan per focaccia;
2.CE MANCANO DICIANNOVE SORDE P’APPARÀ ‘A LIRA.
Ad litteram:ci mancano (ben) diciannove soldi per raggranellare una lira. Poiché la lira de quo contava venti soldi il fatto che, come affermato in epigrafe, mancassero diciannove soldi, significava genericamente che ci si trovava in gran carenza di mezzi, in conclamata imopia e la locuzione, riferita ad una azione principiata con tal carenza voleva significare che, con ogni probabilità, non si sarebbe riusciti a portare a compimento il principiato e che, forse, sarebbe stato piú opportuno il desistere.
3. CE MANCANO ‘E QUATTE LASTE E ‘O LAMPARULO.
Ad litteram: mancano i quattro vetri e il reggimoccolo Locuzione di portata simile alla precedente; in questa, in luogo della lira, il riferimento è fatto ad una ipotetica lanterna costruita in maniera raffazzonata di talché non sia adatta allo scopo per cui è stata costruita e non potrà produrre vantaggi a chi se ne dovesse servire, posto che essa lanterna manca dei quattro vetri che ne costituiscono le pareti e manca addirittura del reggimoccolo centrale: un simile oggetto non potrà mai servire ad illuminare.
4.CHESTA È ‘A RICETTA E CA DDIO T’’A MANNE BBONA!
Ad litteram: Questa è la ricetta e che Dio ti assista favorevolmente. Locuzione che viene usata ogni volta che si voglia avvertire qualcuno che, nei suoi confronti, si è fatto quanto era nelle nostre possibilità o capacità. A colui a cui viene rivolta la locuzione non resta che prender per buono quanto gli sia stato prescritto o suggerito e mettersi poi nelle mani di Dio, augurandosi che l’Onnipotente voglia tutelarlo ed adeguatamente soccorrerlo.
5.CHI À AVUTO, À AVUTO E CHI À DATO, À DATO
Locuzione che non à bisogno di traduzione, essendo di facile intellezione e che viene usata tutte le volte che, intendendo por fine a piccole querelle o questioncelle, ci si accontenta di fare piccole reciproche concessioni, pur di pacificarsi e di non procrastinare oltre il diverbio, accontendandosi saggiamente dell’avuto e del dato, senza stare a rifare lunghi e pretestuosi calcoli.
6.CARO TE/ME COSTA!
Ad litteram:ti/mi costerà caro; id est: il prezzo o lo scotto che dovrai/dovrò sborsare, per ciò che vuoi/voglio o per quel che stai/sto facendo, sarà molto rilevante; è meglio che ti/mi assuefaccia all’idea di dovere incorrere in simili gravose spese. La locuzione, per traslato, nella morfologia Caro te costa! è usata a mo’ di avvertimento o minaccia per chiunque si imbarchi in un’impresa a cuor leggero Da notare che la locuzione in epigrafe che usa l’indicativo presente, è stata da me tradotta con il futuro, perché nella parlata napoletana che pure possiede (nella sua grammatica) il tempo futuro, esso non viene usato e l’idea della cosa di là da venire è resa spesso con l’indicativo o con costruzioni verbali particolari del tipo: devo fare, in luogo di farò: es.: domani taglierò i capelli viene reso con dimane me taglio ‘e capille o piú spesso con dimane m’aggi’’a taglià ‘e capille.
7.CASALE SACCHIATO specie nell’espressione fà ‘nu casale sacchiato
Ad litteram: casale saccheggiato specie nell’espressione fare un casale saccheggiato; letteralmente l’espressione si riferirebbe ad un villaggio messo a ferro e fuoco, ma con la locuzione in epigrafe si suole indicare qualsiasi ambiente in cui contrariamente a quanto ci si attenda, regni il massimo disordine e la confusione piú grande e dalle mamme napoletane la locuzione viene usata nei confronti dei propri figli accusati normalmente di fare delle stanze loro assegnate luoghi cosí disordinati e pieni di confusione al punto di apparire come villaggi appena saccheggiati.
8.CHESTA È ‘A ZITA E SE CHIAMMA SABBELLA
Ad litteram: Questa è la ragazza e si chiama Isabella. Id est: Questi sono e cosí vanno i fatti; non puoi pretenderli di mutare o aggiustarli a tuo piacimento; ti devi accontentare ed accettare il mondo per quel che è; qualsiasi cosa tu faccia non potrai o potresti né mutarlo, né migliorarlo. La locuzione riporta la risposta risentita data da una vecchia mezzana ad un giovanotto che faceva le viste di non gradire appieno la ragazza che la mezzana gli stava proponendo in isposa.
Per traslato la locuzione è usata in ogni affare da colui che si vede costretto a contrattare con un eterno scontento che voglia condurre in altro modo le trattative che invece non sono suscettbili di mutamento.
9.CHE CE AZZECCA?!
Ad litteram: che ci lega? Locuzione che spesso in maniera risentita viene usata in una discussione da chi voglia far capire al proprio interlocutore che le ragioni addotte, i discorsi tenuti ed i ragionamenti fatti non ànno niente a che vedere con l’assunto da cui si è partiti e che pertanto vanno cambiati in quanto, per comune logica, non legano con quanto si è detto fino a quel momento ed il mantenerli peggiorerebbe solo la discussione
azzecca voce verbale (3ª p. sg. ind. pres. dell’infinito azzeccà=colpire nel segno, indovinare, legare,attaccare,appiccicare, collegare; voce dall’alto tedesco med. ad+zechen ).
10. CHIJARSELA A LIBBRETTO
Ad litteram: piegarsela a mo’ di libriccino id est:accettare, sia pure obtorto collo, che le cose vadano in un certo modo ed uniformarvisi atteso che non ci sia altro da fare per migliorare la situazione. La locuzione in origine si riferisce al modo piú opportuno di consumare una pizza allorché non ci si possa accomodare ad un tavolo e servirsi di adeguate posate; in tal caso la pizza viene consumata addentandola stando all’impiedi o addirittura passeggiando e la maniera piú acconcia di tenere fra le mani la pietanza è quella di piegare la pizza in quattro parti fino a farle assumere quasi la foggia di un piccolo libro di quattro fogli, affinché, cosí piegata trattenga e non lasci cadere i condimenti di cui è coperta , che se cadessero imbratterebbero gli abiti di colui che mangia la suddetta pizza da asporto.
11. CHESTO PASSA ‘O CUNVENTO oppure ‘O GUVERNO
Letteralmente: questo elargisce il convento oppure il governo id est: questo ci viene dato e di questo occorre contentarsi; bisogna far buon viso a cattivo gioco essendo inutile ribellarsi o adontarsi, tanto la situazione non potrebbe migliorare, né migliorerà!
12. CHI VA PE CCHISTI MARE, CHISTI PISCE PIGLIA
ad litteram: chi va per questi mari, questo pesce pesca; id est: chi si imbarca in certe avventure, non può che conseguire questo tipo di scadenti risultati e se ne deve contentare, specie se si è imbarcato volontariamente e non spinto da necessità.
13. CHI M’À CECATO!?
Ad litteram: chi mi à accecato!? Id est: chi mi à indotto a regolarmi nella maniera in cui mi sono regolato, accecandomi quasi al punto di non farmi rendere conto o del pericolo a cui andavo incontro o degli errori che mi accingevo a compiere. Va da sé che la locuzione non è una vera e propria domanda, quanto una sorta di pubblica confessione del proprio errore a causa del quale ci si trova in situazioni fastidiose; ci si chiede cioé da chi/cosa dipenda ciò che capiti o ci sia capitato, ma lo si fa quasi surrettiziamente, ben sapendo, ma tacendolo di essere i soli responsabili degli accadimenti cui ci si riferisce.
14. COMME ‘AVUOTE E CCOMME ‘O GGIRE, SEMPE SISSANTANOVE È.
Ad litteram: come lo volti o come lo giri sempre sessantanove è Detto di cose o avvenimenti che non prestano il fianco ad interpretazioni non univoche essendo, per loro natura o apparire di semplice e diretta intellizione di talchè è inutile arzigogolare intorno alla loro essenza o sostanza.
La locuzione nasce dall’osservazione dei piccoli cilindretti di legno su cui sono incisi i novanta numeri del giuoco della tombola; orbene, detti numeri una volta estratti dal bussolotto che li contiene sono tutti facilmente riconoscibili ed individuabili o perché scritti in maniera tale da non ingenerare confusione (come ad es. il caso del numero 1 che sia che venga guardato e letto da ds. o da sn. , dal basso in alto o viceversa rimane sempre 1 e non può esser confuso con altro numero) o perché si è ricorsi allo strataggemma di segnalare con un piccolo tratto la base del numero che se letto in maniera capovolta potrebbe risultare un numero diverso ( ad es. il numero sei è vergato 6 con una congrua sottolineatura, che se mancasse, potrebbe far leggere il sei - visto in maniera capovolta - come nove). Il numero 69 invece non à bisogno di sottolineatura, perché da qualsiasi parte lo si guardi permane 69, atteso che il numero 96 nella tombola non esiste.
15. COMME CUCOZZA ‘NTRONA, PASCA NUN VENE PE MMO.
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono e da questo stabilire la congruità delle offerte raccolte, avvertí che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scoprí il ladruncolo.
16. COMME PAGAZIO, ACCUSSÍ PITTAZIO
Ad litteram: Come sarò pagato, cosí dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata su di un’antica albarella detta di san Brunone. da F.sco Antonio Saverio Grue (Castelli (Teramo).1686 -†1746), famosissimo artista noto per i suoi vasi di maiolica (usati quali contenitori nelle antiche farmacie conventuali) artista che seppe dare nuovi colori alle decorazioni delle sue ceramiche con storie sacre e profane derivate da modelli dell'arte bolognese e della scuola napoletana contemporanea.
17. CAPURÀ È MUORTO ‘ALIFANTE!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance , torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli si vuol significare che non è piú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chi, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi che non era piú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era piú il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino boriosi e supponenti.
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Ad litteram: Qui sotto non ci piove
L’espressione che viene pronunciata puntando il dito indice della mano destra ben teso contro il palmo rovesciato della mano sinistra, viene usata, a mo’ di risentito avvertimento , nei confronti di chi - dopo di aver promesso un aiuto o una liberalità - sia venuto meno clamorosamente a quanto promesso; e ciò nell’intento di fargli capire che non si è piú disposti a sopportare una simile mancanza di parola data e, per converso, si è pronti secondo un noto principio partenopeo che statuisce: fa’ comme t’è ffatto ca nun è peccato (comportati con gli altri come gli altri si sono comportati con te, ché non peccherai…) a restituire pan per focaccia;
2.CE MANCANO DICIANNOVE SORDE P’APPARÀ ‘A LIRA.
Ad litteram:ci mancano (ben) diciannove soldi per raggranellare una lira. Poiché la lira de quo contava venti soldi il fatto che, come affermato in epigrafe, mancassero diciannove soldi, significava genericamente che ci si trovava in gran carenza di mezzi, in conclamata imopia e la locuzione, riferita ad una azione principiata con tal carenza voleva significare che, con ogni probabilità, non si sarebbe riusciti a portare a compimento il principiato e che, forse, sarebbe stato piú opportuno il desistere.
3. CE MANCANO ‘E QUATTE LASTE E ‘O LAMPARULO.
Ad litteram: mancano i quattro vetri e il reggimoccolo Locuzione di portata simile alla precedente; in questa, in luogo della lira, il riferimento è fatto ad una ipotetica lanterna costruita in maniera raffazzonata di talché non sia adatta allo scopo per cui è stata costruita e non potrà produrre vantaggi a chi se ne dovesse servire, posto che essa lanterna manca dei quattro vetri che ne costituiscono le pareti e manca addirittura del reggimoccolo centrale: un simile oggetto non potrà mai servire ad illuminare.
4.CHESTA È ‘A RICETTA E CA DDIO T’’A MANNE BBONA!
Ad litteram: Questa è la ricetta e che Dio ti assista favorevolmente. Locuzione che viene usata ogni volta che si voglia avvertire qualcuno che, nei suoi confronti, si è fatto quanto era nelle nostre possibilità o capacità. A colui a cui viene rivolta la locuzione non resta che prender per buono quanto gli sia stato prescritto o suggerito e mettersi poi nelle mani di Dio, augurandosi che l’Onnipotente voglia tutelarlo ed adeguatamente soccorrerlo.
5.CHI À AVUTO, À AVUTO E CHI À DATO, À DATO
Locuzione che non à bisogno di traduzione, essendo di facile intellezione e che viene usata tutte le volte che, intendendo por fine a piccole querelle o questioncelle, ci si accontenta di fare piccole reciproche concessioni, pur di pacificarsi e di non procrastinare oltre il diverbio, accontendandosi saggiamente dell’avuto e del dato, senza stare a rifare lunghi e pretestuosi calcoli.
6.CARO TE/ME COSTA!
Ad litteram:ti/mi costerà caro; id est: il prezzo o lo scotto che dovrai/dovrò sborsare, per ciò che vuoi/voglio o per quel che stai/sto facendo, sarà molto rilevante; è meglio che ti/mi assuefaccia all’idea di dovere incorrere in simili gravose spese. La locuzione, per traslato, nella morfologia Caro te costa! è usata a mo’ di avvertimento o minaccia per chiunque si imbarchi in un’impresa a cuor leggero Da notare che la locuzione in epigrafe che usa l’indicativo presente, è stata da me tradotta con il futuro, perché nella parlata napoletana che pure possiede (nella sua grammatica) il tempo futuro, esso non viene usato e l’idea della cosa di là da venire è resa spesso con l’indicativo o con costruzioni verbali particolari del tipo: devo fare, in luogo di farò: es.: domani taglierò i capelli viene reso con dimane me taglio ‘e capille o piú spesso con dimane m’aggi’’a taglià ‘e capille.
7.CASALE SACCHIATO specie nell’espressione fà ‘nu casale sacchiato
Ad litteram: casale saccheggiato specie nell’espressione fare un casale saccheggiato; letteralmente l’espressione si riferirebbe ad un villaggio messo a ferro e fuoco, ma con la locuzione in epigrafe si suole indicare qualsiasi ambiente in cui contrariamente a quanto ci si attenda, regni il massimo disordine e la confusione piú grande e dalle mamme napoletane la locuzione viene usata nei confronti dei propri figli accusati normalmente di fare delle stanze loro assegnate luoghi cosí disordinati e pieni di confusione al punto di apparire come villaggi appena saccheggiati.
8.CHESTA È ‘A ZITA E SE CHIAMMA SABBELLA
Ad litteram: Questa è la ragazza e si chiama Isabella. Id est: Questi sono e cosí vanno i fatti; non puoi pretenderli di mutare o aggiustarli a tuo piacimento; ti devi accontentare ed accettare il mondo per quel che è; qualsiasi cosa tu faccia non potrai o potresti né mutarlo, né migliorarlo. La locuzione riporta la risposta risentita data da una vecchia mezzana ad un giovanotto che faceva le viste di non gradire appieno la ragazza che la mezzana gli stava proponendo in isposa.
Per traslato la locuzione è usata in ogni affare da colui che si vede costretto a contrattare con un eterno scontento che voglia condurre in altro modo le trattative che invece non sono suscettbili di mutamento.
9.CHE CE AZZECCA?!
Ad litteram: che ci lega? Locuzione che spesso in maniera risentita viene usata in una discussione da chi voglia far capire al proprio interlocutore che le ragioni addotte, i discorsi tenuti ed i ragionamenti fatti non ànno niente a che vedere con l’assunto da cui si è partiti e che pertanto vanno cambiati in quanto, per comune logica, non legano con quanto si è detto fino a quel momento ed il mantenerli peggiorerebbe solo la discussione
azzecca voce verbale (3ª p. sg. ind. pres. dell’infinito azzeccà=colpire nel segno, indovinare, legare,attaccare,appiccicare, collegare; voce dall’alto tedesco med. ad+zechen ).
10. CHIJARSELA A LIBBRETTO
Ad litteram: piegarsela a mo’ di libriccino id est:accettare, sia pure obtorto collo, che le cose vadano in un certo modo ed uniformarvisi atteso che non ci sia altro da fare per migliorare la situazione. La locuzione in origine si riferisce al modo piú opportuno di consumare una pizza allorché non ci si possa accomodare ad un tavolo e servirsi di adeguate posate; in tal caso la pizza viene consumata addentandola stando all’impiedi o addirittura passeggiando e la maniera piú acconcia di tenere fra le mani la pietanza è quella di piegare la pizza in quattro parti fino a farle assumere quasi la foggia di un piccolo libro di quattro fogli, affinché, cosí piegata trattenga e non lasci cadere i condimenti di cui è coperta , che se cadessero imbratterebbero gli abiti di colui che mangia la suddetta pizza da asporto.
11. CHESTO PASSA ‘O CUNVENTO oppure ‘O GUVERNO
Letteralmente: questo elargisce il convento oppure il governo id est: questo ci viene dato e di questo occorre contentarsi; bisogna far buon viso a cattivo gioco essendo inutile ribellarsi o adontarsi, tanto la situazione non potrebbe migliorare, né migliorerà!
12. CHI VA PE CCHISTI MARE, CHISTI PISCE PIGLIA
ad litteram: chi va per questi mari, questo pesce pesca; id est: chi si imbarca in certe avventure, non può che conseguire questo tipo di scadenti risultati e se ne deve contentare, specie se si è imbarcato volontariamente e non spinto da necessità.
13. CHI M’À CECATO!?
Ad litteram: chi mi à accecato!? Id est: chi mi à indotto a regolarmi nella maniera in cui mi sono regolato, accecandomi quasi al punto di non farmi rendere conto o del pericolo a cui andavo incontro o degli errori che mi accingevo a compiere. Va da sé che la locuzione non è una vera e propria domanda, quanto una sorta di pubblica confessione del proprio errore a causa del quale ci si trova in situazioni fastidiose; ci si chiede cioé da chi/cosa dipenda ciò che capiti o ci sia capitato, ma lo si fa quasi surrettiziamente, ben sapendo, ma tacendolo di essere i soli responsabili degli accadimenti cui ci si riferisce.
14. COMME ‘AVUOTE E CCOMME ‘O GGIRE, SEMPE SISSANTANOVE È.
Ad litteram: come lo volti o come lo giri sempre sessantanove è Detto di cose o avvenimenti che non prestano il fianco ad interpretazioni non univoche essendo, per loro natura o apparire di semplice e diretta intellizione di talchè è inutile arzigogolare intorno alla loro essenza o sostanza.
La locuzione nasce dall’osservazione dei piccoli cilindretti di legno su cui sono incisi i novanta numeri del giuoco della tombola; orbene, detti numeri una volta estratti dal bussolotto che li contiene sono tutti facilmente riconoscibili ed individuabili o perché scritti in maniera tale da non ingenerare confusione (come ad es. il caso del numero 1 che sia che venga guardato e letto da ds. o da sn. , dal basso in alto o viceversa rimane sempre 1 e non può esser confuso con altro numero) o perché si è ricorsi allo strataggemma di segnalare con un piccolo tratto la base del numero che se letto in maniera capovolta potrebbe risultare un numero diverso ( ad es. il numero sei è vergato 6 con una congrua sottolineatura, che se mancasse, potrebbe far leggere il sei - visto in maniera capovolta - come nove). Il numero 69 invece non à bisogno di sottolineatura, perché da qualsiasi parte lo si guardi permane 69, atteso che il numero 96 nella tombola non esiste.
15. COMME CUCOZZA ‘NTRONA, PASCA NUN VENE PE MMO.
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono e da questo stabilire la congruità delle offerte raccolte, avvertí che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scoprí il ladruncolo.
16. COMME PAGAZIO, ACCUSSÍ PITTAZIO
Ad litteram: Come sarò pagato, cosí dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata su di un’antica albarella detta di san Brunone. da F.sco Antonio Saverio Grue (Castelli (Teramo).1686 -†1746), famosissimo artista noto per i suoi vasi di maiolica (usati quali contenitori nelle antiche farmacie conventuali) artista che seppe dare nuovi colori alle decorazioni delle sue ceramiche con storie sacre e profane derivate da modelli dell'arte bolognese e della scuola napoletana contemporanea.
17. CAPURÀ È MUORTO ‘ALIFANTE!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance , torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli si vuol significare che non è piú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chi, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi che non era piú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era piú il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino boriosi e supponenti.
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VARIE 1009
1 ACCUSSÍ VA ‘O MUNNO
Ad litteram: cosí va il mondo: espressione analoga a quella che recita accussí à dda jí (cosí deve andare!) , ma con un piú marcato senso di impotenza davanti alla ineluttabilità di taluni avvenimenti.
2 AVIMMO PERDUTO 'APARATURA E 'E CENTRELLE.
Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini. Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali addobbi erano chiamati aparature o apparature (etimologicamente deverbale d’un basso latino ad+ parare =addobbare; accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto mal tempo, il vento e la pioggia scompigliassero, fino a distruggerli gli addobbi ed a svellere drappi e chiodini o bullette(in napoletano centrelle dal greco kéntron= chiodo) usati per sostenerli; la locuzione attualmente viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano distrutti o vanificati tuttti gli sforzi operati per raggiungere un alcunché.
3. AVIMMO PERDUTO A FELIPPO E ‘O PANARO
Ad litteram: abbiamo perduto Filippo e la cesta. Id est: ci abbiamo rimesso tutto: il capitale e gli interessi. Locuzione di portata simile alla precedente, che a differenza di altre, usate solo dalle persone anziane (cfr. aizarse ‘nu cummò), ancóra perdura nel parlato comune rammenta una non meglio identificata farsa pulcinellesca di Antonio Petito nella quale un tal Pancrazio aveva affidato al suo servo Filippo una cesta di cibarie , perché la portasse a casa, ma il malfido servo, riuniti altri suoi pari, si diede a gozzovigliare facendo man bassa delle cibarie contenute nella cesta, e temendo poi le reazioni del padrone, evitò di tornare a casa lasciando il povero Pancrazio a dolersi del fatto con la frase in epigrafe.
Nota linguistica
Nell’espressione in epigrafe il verbo avimmo perduto regge due complenti oggetto ( il nome proprio Filippo ed il nome comune panaro), ma mentre Filippo è introdotto dalla preposizione a, ciò non avviene per il s.vo panaro che non viene introdotto da ô (scrittura contratta di a +’o(lo/il)), ma viene introdotto dal semplice art. determ. m. ‘o (lo/il); ciò avviene perché in napoletano la preposizione A è usata talvolta per introdurre, quasi in maniera indiretta, un complemento oggetto quando però tale complemento sia una persona o essere animato, mai un oggetto (es.: aggiu visto a pàteto= ò visto tuo padre; aggiu ‘ntiso ô cane ca alluccava = ò sentito il cane che latrava ( dove ô = a + ‘o= a + il/lo); ma aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere, aggiu ‘ntisa ‘a campana = ò sentito la campana.) La ragione di questa particolare a segnacaso del complemento oggetto non è da ricercarsi come sostiene qualcuno nel fatto che venuto meno il latino con le declinazioni comportanti esatte desinenze distinte per il nominativo e l’accusativo in un corrotto latino regionale volgare privo di desinenze distinte si sarebbe ingenerata un’ipotetica confusione in una frase del tipo: Petrus vidit Paulus non potendosi stabilire se il soggetto di vidit fosse Petrus o Paulus. Ciò è inesatto in quanto, se è vero che, ad un dipresso, il latino classico, almeno fino a quello ciceroniano, mantenne il soggetto anteposto al verbo reggente, per il latino della decadenza volgarizzatosi con l’entrata in contatto con le parlate locali, proprio per non ingenerare confusioni, soprattutto nella lingua parlata si preferí porre il soggetto sempre prima del verbo reggente. Reputo dunque molto piú verosimile l’idea che tale particolare a segnacaso del complemento oggetto sia un residuo plebeo di un latino volgare parlato, quello che produsse anche lo spagnolo, il portoghese ed il rumeno, lingue in cui perdura l’uso dell’a come segnacaso del complemento oggetto.
4 Addó vede e addó ceca.
Ad litteram: dove vede e dove non vede(mostrandosi quasi cieco)
Espressione che, per solito viene riferita a caustico commento delle azioni di taluni individui proclivi ai facili entusiasmi e ad immotivate antipatie in forza dei quali esprimono giudizi e/o sentenze tali da o elevar agli onori degli altari i giudicati o, viceversa ridurli nella polvere. Il piú famoso a Napoli esponente storico di questa categoria di persone fu il filosofo don Benedetto Croce di cui ancóra oggi si dice che dove vedeva e dove cecava e che, a mo’ d’esempio, se da un lato, elevò alla gloria Salvatore Di Giacomo, facendone, a suo dire, il massimo poeta partenopeo, d’altro canto, immotivatamente stroncò Ferdinando Russo, né mai rivide il suo pensiero malato di malevola partigianeria, che tanto piú è deleteria, quanto piú è altisonante il nome del soggetto da cui promana.
5 Abbuffarse ‘e zifere ‘e viento
Ad litteram: gonfiarsi di soffi di vento Detto di chi, borioso e supponente si dia le arie del superuomo, ma - in realtà - risulta essere un vacuo pallone gonfiato dal soffio del vento e pertanto destinato a sgonfiarsi in breve tempo.
6 Avenno, putenno, pavanno
Ad litteram: avendo, potendo, pagando.L’ espressione, che tradotta pedissequamente nella sua forma comportante tre gerundi consecutivi, non à un comprensibile significato, lo acquista se si considera il terzo gerundio pavanno (pagando) come se fosse un tempo finito reggente la frase e la si traduce: pagherò, se avrò e se potrò, viene usata da chi, invitato a prendere l’ impegno di ottemperare ad un debito contratto, intende procrastinarne sine die la soluzione e vi pone delle condizioni che in realtà non sono effettive, ma dipendono esclusivamente dalla propria volontà, per modo che la locuzione potrebbe rendersi con un:”pagherò, se vorrò”.
7 Addurà ‘o fieto ‘o miccio
Ad litteram: annusare il puzzo del lucignolo o meglio annusare il puzzo della miccia
Con la parola miccio, in napoletano si indica sia il lucignolo della candela che la miccia di un ordigno e nella fattispecie è questa seconda valenza che bisogna considerare giacché l’espressione nel suo significato nascosto sta per: fiutare un pericolo, accorgersi dell’approssimarsi di un danno; orbene il lucignolo della candela puzza quando da acceso diventi spento, ma allora non è foriero di alcun pericolo, mentre la miccia di un ordigno quando è accesa e sprigiona un suo greve olezzo, allora prospetta un prossimo, pericoloso scoppio.
8 Aizà ‘a mano
Ad litteram: sollevare la mano; id est: perdonare, assolvere
L’ espressione che viene usata quando si voglia fare intendere che si è proclivi al perdono soprattutto di piccole mende, ricorda il gesto del sacerdote che al momento di assolvere i peccati , alza la mano per benedire e mandar perdonato il penitente.
9 Ô tiempo ‘e Pappacone.
Ad litteram: Al tempo di Pappacoda Espressione usata a Napoli per dire che ciò di cui si sta parlando risale ad un tempo antichissimo, di cui si è quasi perso memoria e - tutto sommato - non vale la pena ricordarsene in quanto si tratterebbe di cose impossibili da riprodurre o riproporre; La parola Pappacone è - come già ricordato - corruzione del termine Pappacoda, antichissima e nobile famiglia napoletana che à lasciato sue numerose ed artistiche vestigia in parecchie strade di Napoli.
10 Ô tiempo d’’e cazune a teròcciole.
Ad litteram: Al tempo dei calzoni con le carrucole. Espressione analoga alla precedente , espressione con la quale si vuol significare che si sta richiamando alla memoria tempi lontani, anzi remoti quali quelli in cui le braghe erano sorrette da grosse bretelle di cuoio, regolate da piccole carrucole metalliche.
11 Aumme aumme
Ad litteram: celatamente oppure alla chetichella; modo di dire di sapore vagamente onomatopeico riproducente il gesto della masticazione beneducata fatta cioé a bocca chiusa, per modo che solo chi già sia al corrente, capisca di che si tratta : infatti le azioni fatte nel modo riportato in epigrafe comportano una qualche segretezza e silenziosità di modi.
12 Avutà fuoglio
Ad litteram: girare il foglio ovverossia: mutare argomento, cambiare discorso, soprattutto quando lo si faccia repentinamente acclarata la impossibilità di sostenere piú oltre proprie argomentazioni chiaramente prive di forza e vuote di corposo sostrato dialettico.
13 ‘A Madonna v’accumpagna
Ad litteram: La Madonna vi accompagni Locuzione augurale che si suole rivolgere a chi, dopo d’averci fatto visita, ci stia lasciando per fare ritorno al proprio domicilio , perché nell’affrontare la strada non incorra in pericoli inattesi, ma sia protetto nel suo andare dalla vigile compagnia della Vergine.Talvolta però quando la compagnia del visitatore sia stata noiosa ed importuna e la visita si sia protratta eccessivamente è facile che colui che congeda il visitatore all’accomiato augurale riportato in epigrafe aggiunga tra i denti un molto meno augurale: e ‘o diavulo ve porta (e il diavoli vi porti via).
14 A mmorte ‘e súbbeto
Ad litteram: subitaneamente, repentinamente Locuzione avverbiale che viene usata soprattuto quando si voglia significare ad un proprio sottoposto che l’ordine ricevuto deve esser eseguito in maniera subitanea, repentina, senza por tempo in mezzo tra l’ordine e la sua esecuzione che deve avvenire con la stessa celerità con cui avviene una morte repentina.
15 Appujà ‘a libbarda
Ad litteram: appoggiare l’alabarda id est: scroccare, profittare a spese altrui. Locuzione antichissima risalente al periodo viceregnale, ma che viene tuttora usata quando si voglia commentare il violento atteggiamento di chi vuole scroccare qualcosa o, piú genericamente, intende profittare di una situazione per conseguire risultati favorevoli, ma non espressamente previsti per lui. Temporibus illis i soldati spagnoli erano usi aggirarsi all’ora dei pasti per le strade della città di Napoli e fermandosi presso gli usci là dove annusavano odore di cibarie approntate, lí poggiavano la propria alabarda volendo significare con detto gesto di aver conquistato la posizione; entravano allora nelle case e si accomodavano a tavola per consumare a scrocco i pasti.
brak
Ad litteram: cosí va il mondo: espressione analoga a quella che recita accussí à dda jí (cosí deve andare!) , ma con un piú marcato senso di impotenza davanti alla ineluttabilità di taluni avvenimenti.
2 AVIMMO PERDUTO 'APARATURA E 'E CENTRELLE.
Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini. Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali addobbi erano chiamati aparature o apparature (etimologicamente deverbale d’un basso latino ad+ parare =addobbare; accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto mal tempo, il vento e la pioggia scompigliassero, fino a distruggerli gli addobbi ed a svellere drappi e chiodini o bullette(in napoletano centrelle dal greco kéntron= chiodo) usati per sostenerli; la locuzione attualmente viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano distrutti o vanificati tuttti gli sforzi operati per raggiungere un alcunché.
3. AVIMMO PERDUTO A FELIPPO E ‘O PANARO
Ad litteram: abbiamo perduto Filippo e la cesta. Id est: ci abbiamo rimesso tutto: il capitale e gli interessi. Locuzione di portata simile alla precedente, che a differenza di altre, usate solo dalle persone anziane (cfr. aizarse ‘nu cummò), ancóra perdura nel parlato comune rammenta una non meglio identificata farsa pulcinellesca di Antonio Petito nella quale un tal Pancrazio aveva affidato al suo servo Filippo una cesta di cibarie , perché la portasse a casa, ma il malfido servo, riuniti altri suoi pari, si diede a gozzovigliare facendo man bassa delle cibarie contenute nella cesta, e temendo poi le reazioni del padrone, evitò di tornare a casa lasciando il povero Pancrazio a dolersi del fatto con la frase in epigrafe.
Nota linguistica
Nell’espressione in epigrafe il verbo avimmo perduto regge due complenti oggetto ( il nome proprio Filippo ed il nome comune panaro), ma mentre Filippo è introdotto dalla preposizione a, ciò non avviene per il s.vo panaro che non viene introdotto da ô (scrittura contratta di a +’o(lo/il)), ma viene introdotto dal semplice art. determ. m. ‘o (lo/il); ciò avviene perché in napoletano la preposizione A è usata talvolta per introdurre, quasi in maniera indiretta, un complemento oggetto quando però tale complemento sia una persona o essere animato, mai un oggetto (es.: aggiu visto a pàteto= ò visto tuo padre; aggiu ‘ntiso ô cane ca alluccava = ò sentito il cane che latrava ( dove ô = a + ‘o= a + il/lo); ma aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere, aggiu ‘ntisa ‘a campana = ò sentito la campana.) La ragione di questa particolare a segnacaso del complemento oggetto non è da ricercarsi come sostiene qualcuno nel fatto che venuto meno il latino con le declinazioni comportanti esatte desinenze distinte per il nominativo e l’accusativo in un corrotto latino regionale volgare privo di desinenze distinte si sarebbe ingenerata un’ipotetica confusione in una frase del tipo: Petrus vidit Paulus non potendosi stabilire se il soggetto di vidit fosse Petrus o Paulus. Ciò è inesatto in quanto, se è vero che, ad un dipresso, il latino classico, almeno fino a quello ciceroniano, mantenne il soggetto anteposto al verbo reggente, per il latino della decadenza volgarizzatosi con l’entrata in contatto con le parlate locali, proprio per non ingenerare confusioni, soprattutto nella lingua parlata si preferí porre il soggetto sempre prima del verbo reggente. Reputo dunque molto piú verosimile l’idea che tale particolare a segnacaso del complemento oggetto sia un residuo plebeo di un latino volgare parlato, quello che produsse anche lo spagnolo, il portoghese ed il rumeno, lingue in cui perdura l’uso dell’a come segnacaso del complemento oggetto.
4 Addó vede e addó ceca.
Ad litteram: dove vede e dove non vede(mostrandosi quasi cieco)
Espressione che, per solito viene riferita a caustico commento delle azioni di taluni individui proclivi ai facili entusiasmi e ad immotivate antipatie in forza dei quali esprimono giudizi e/o sentenze tali da o elevar agli onori degli altari i giudicati o, viceversa ridurli nella polvere. Il piú famoso a Napoli esponente storico di questa categoria di persone fu il filosofo don Benedetto Croce di cui ancóra oggi si dice che dove vedeva e dove cecava e che, a mo’ d’esempio, se da un lato, elevò alla gloria Salvatore Di Giacomo, facendone, a suo dire, il massimo poeta partenopeo, d’altro canto, immotivatamente stroncò Ferdinando Russo, né mai rivide il suo pensiero malato di malevola partigianeria, che tanto piú è deleteria, quanto piú è altisonante il nome del soggetto da cui promana.
5 Abbuffarse ‘e zifere ‘e viento
Ad litteram: gonfiarsi di soffi di vento Detto di chi, borioso e supponente si dia le arie del superuomo, ma - in realtà - risulta essere un vacuo pallone gonfiato dal soffio del vento e pertanto destinato a sgonfiarsi in breve tempo.
6 Avenno, putenno, pavanno
Ad litteram: avendo, potendo, pagando.L’ espressione, che tradotta pedissequamente nella sua forma comportante tre gerundi consecutivi, non à un comprensibile significato, lo acquista se si considera il terzo gerundio pavanno (pagando) come se fosse un tempo finito reggente la frase e la si traduce: pagherò, se avrò e se potrò, viene usata da chi, invitato a prendere l’ impegno di ottemperare ad un debito contratto, intende procrastinarne sine die la soluzione e vi pone delle condizioni che in realtà non sono effettive, ma dipendono esclusivamente dalla propria volontà, per modo che la locuzione potrebbe rendersi con un:”pagherò, se vorrò”.
7 Addurà ‘o fieto ‘o miccio
Ad litteram: annusare il puzzo del lucignolo o meglio annusare il puzzo della miccia
Con la parola miccio, in napoletano si indica sia il lucignolo della candela che la miccia di un ordigno e nella fattispecie è questa seconda valenza che bisogna considerare giacché l’espressione nel suo significato nascosto sta per: fiutare un pericolo, accorgersi dell’approssimarsi di un danno; orbene il lucignolo della candela puzza quando da acceso diventi spento, ma allora non è foriero di alcun pericolo, mentre la miccia di un ordigno quando è accesa e sprigiona un suo greve olezzo, allora prospetta un prossimo, pericoloso scoppio.
8 Aizà ‘a mano
Ad litteram: sollevare la mano; id est: perdonare, assolvere
L’ espressione che viene usata quando si voglia fare intendere che si è proclivi al perdono soprattutto di piccole mende, ricorda il gesto del sacerdote che al momento di assolvere i peccati , alza la mano per benedire e mandar perdonato il penitente.
9 Ô tiempo ‘e Pappacone.
Ad litteram: Al tempo di Pappacoda Espressione usata a Napoli per dire che ciò di cui si sta parlando risale ad un tempo antichissimo, di cui si è quasi perso memoria e - tutto sommato - non vale la pena ricordarsene in quanto si tratterebbe di cose impossibili da riprodurre o riproporre; La parola Pappacone è - come già ricordato - corruzione del termine Pappacoda, antichissima e nobile famiglia napoletana che à lasciato sue numerose ed artistiche vestigia in parecchie strade di Napoli.
10 Ô tiempo d’’e cazune a teròcciole.
Ad litteram: Al tempo dei calzoni con le carrucole. Espressione analoga alla precedente , espressione con la quale si vuol significare che si sta richiamando alla memoria tempi lontani, anzi remoti quali quelli in cui le braghe erano sorrette da grosse bretelle di cuoio, regolate da piccole carrucole metalliche.
11 Aumme aumme
Ad litteram: celatamente oppure alla chetichella; modo di dire di sapore vagamente onomatopeico riproducente il gesto della masticazione beneducata fatta cioé a bocca chiusa, per modo che solo chi già sia al corrente, capisca di che si tratta : infatti le azioni fatte nel modo riportato in epigrafe comportano una qualche segretezza e silenziosità di modi.
12 Avutà fuoglio
Ad litteram: girare il foglio ovverossia: mutare argomento, cambiare discorso, soprattutto quando lo si faccia repentinamente acclarata la impossibilità di sostenere piú oltre proprie argomentazioni chiaramente prive di forza e vuote di corposo sostrato dialettico.
13 ‘A Madonna v’accumpagna
Ad litteram: La Madonna vi accompagni Locuzione augurale che si suole rivolgere a chi, dopo d’averci fatto visita, ci stia lasciando per fare ritorno al proprio domicilio , perché nell’affrontare la strada non incorra in pericoli inattesi, ma sia protetto nel suo andare dalla vigile compagnia della Vergine.Talvolta però quando la compagnia del visitatore sia stata noiosa ed importuna e la visita si sia protratta eccessivamente è facile che colui che congeda il visitatore all’accomiato augurale riportato in epigrafe aggiunga tra i denti un molto meno augurale: e ‘o diavulo ve porta (e il diavoli vi porti via).
14 A mmorte ‘e súbbeto
Ad litteram: subitaneamente, repentinamente Locuzione avverbiale che viene usata soprattuto quando si voglia significare ad un proprio sottoposto che l’ordine ricevuto deve esser eseguito in maniera subitanea, repentina, senza por tempo in mezzo tra l’ordine e la sua esecuzione che deve avvenire con la stessa celerità con cui avviene una morte repentina.
15 Appujà ‘a libbarda
Ad litteram: appoggiare l’alabarda id est: scroccare, profittare a spese altrui. Locuzione antichissima risalente al periodo viceregnale, ma che viene tuttora usata quando si voglia commentare il violento atteggiamento di chi vuole scroccare qualcosa o, piú genericamente, intende profittare di una situazione per conseguire risultati favorevoli, ma non espressamente previsti per lui. Temporibus illis i soldati spagnoli erano usi aggirarsi all’ora dei pasti per le strade della città di Napoli e fermandosi presso gli usci là dove annusavano odore di cibarie approntate, lí poggiavano la propria alabarda volendo significare con detto gesto di aver conquistato la posizione; entravano allora nelle case e si accomodavano a tavola per consumare a scrocco i pasti.
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NAPOLI-SAMPDORIA 30.01.2011 – 4 A 0 LL’AGGIU VISTA ACCUSSÍ
NAPOLI-SAMPDORIA 30.01.2011 – 4 A 0
LL’AGGIU VISTA ACCUSSÍ
Che bbella jurnata guagliú chella d’ajere:Milanno e Lazzio ll’autriere avevano chiammato,e ajere ‘o Napule rispunnette comme meglio nun se puteva alluccanno cu ‘nu quatto a zzero da alliccarse ‘e mustacce dimustranno a tutte quante ca ‘a squatra ce sta e nun le mettono paura ‘e troppi staglie (impegni). ‘A pòvera marcapitata Sampdoria d’ajere nun ce poteva fà assaje, ma p’ ‘a verità manco tentaje ‘e fà coccosa. Nfra ‘e duriani sí e nno se salvajeno appena appena Mannini e Palombo,ma niente a ccunfronto d’ ‘o trebbeto d'attacco napulitano ca fuje fantastico pe nun esaggerà! Cavani,cu n’ati ttre purpette doppo chelle servute â juventussa se jette a piazzà ‘ncimma â classifica d’ ‘e cannuniere d’ ‘o campiunato.E mmo nun mettimmo lemmete â Pruvverenza! Cu ‘stu Napule cca ‘ncantevulo,fascinuso,ca fuje salutato dâ 'sciarpata' ‘e ‘nu San Paolo cu ‘o core dint’ ô zzuccaro, cu ‘nu Napule accussí tutto è ppussibbile; ce putimmo aspettà qualunqua cosa! Passammo ê ppaggelle:
DE SANCTIS 6 - Maje seriamente chiammato ‘ncausa,firmaje ‘o cartellino ‘e presenza cu ‘na bbona parata ‘ncopp’ a ‘nu tiro ‘ncunsistente ‘e Macheda!
SANTACROCE 7 - Cuncentrato e priciso dinte a ll’anticipe, parette ‘o Santacroce d’ ‘e tiempe bbelle. Assemplare,cuncreto , cu ‘e contrasciocche cassaje dô campo a Maccarone, ‘o spauracchio, senza farcela vedé praticamente maje!
CANNAVARO 6+ - Dint’â festa ggenerale pure culo’echiummo facette avvedé ca se sta ‘mparanno a essere asciutto e assenziale, cose ca ati vvote ll’erano difettato; mettette ‘a musarola a Macheda e facette caputià (ripartire) ll’azzione senza perdere tiempo e facennose sèntere.
(dô 24° s.t. CRIBARI 6 Dètte ‘o cagno a culo’echiummo e s’ ‘a spicciaje a dduvere sotto a ll’uocchie ‘e Ruizzo ca steva ‘ntribbuna! )
CAMPAGNARO 7 - Contro a ll’ecchesa squatra soja nun êtt’ ‘a faticà esaggeratamente pe ffà bbella fijura. Se cuncedette cchiú ‘e ‘na smestuta d’ ‘e ssoje:’na roccia, sdradecaje ‘o pallone dê piede ‘e chiunque lle capitaje a ttiro e ripartette cu straurdinaria scetatezza (energia) e fforza.
ZUNIGA 6- – Smestaje (spinse) custantemente ‘ncopp’â curzia ‘e dritta, ma cu pocu zuco....
YEBDA 7 – ‘Stu marcantonio algerino nun perdette ‘nu pallone manco a pavarlo e se prupunette spisso annante p’accumpagnà ‘a manovra. Furnito ‘e granna acutezza tattica e de presenza ‘a cummannaje isso ‘mmiez’ ô campo.S’ à dda tené cchiù ‘ncusiderazzione: ‘o vulesse vedé ‘ncocchia cu Pazienza ô posto ‘e Gargano.
GARGANO 5,5 ‘O solito casinista ‘e sempe, sbagliaje ‘nu tummolo ‘e passagge e cchiú ‘e ‘nu stoppo... Corre, corre e ccorre, ma aíza póvera!
DOSSENA 5,5 – Quaccosa facette, ma poco; stammo ancóra aspettanno ‘o vero Dossena. Sempe ca esiste!
HAMSIK 7,5 - Aiutato dê (dalle) praterie scunfinate ca lle s’arapevano annante purtaje a cciammiello (finalizzò alla perfezione) n’ assisto ‘e Lavezzi e ppo apparicchiaje a ppe isso ‘o terzo gollo ‘e Cavani. Unico, prezziuso(insostituibile) pe ‘sta squatra; cumminfatte se sente e ccomme ca ce manca coccosa quann’isso nun ce sta...). Facette tanta fatica senza palla danno qualità â manovra e realizzaje ‘nu granne gollo.
(dô 13° s.t. SOSA 6 – Saranno state ‘e spazzie larghe cuncesse dê duriane, ma ajere me parette assaje cchiú ’mpalla d’ ‘o ssolito. Se prupunette ‘nu paro ‘e vote a dduvere e, sentite, sentite, assummaje ‘nu pare ‘e cuntraste ‘mpurtante!)
LAVEZZI 8 – Accuminciaje a gghiucà doppo bbuoni vinte minute, e â fine però lle mancaje sulo ‘o gollo; ma ‘a cumbattività (generosità) e ‘a qualità ca ce mettette ajere fujeno straordinarie.’E cuntinue scatte suĵe e ‘e dribblinghe giurgiante (ubriacanti) mannajeno ô manicomio ‘e pòvere difenzure duriane e facettero addecrià ‘e tifuse napulitane; v miraculuso cu ‘a palla azzeccata ô pede, servette dduje assiste magnifiche doppo ddoje smestute (scorribande) ‘ncopp’â dritta ca ‘nzallanettero cumpletamente mandano al manicomio ô scajenzato (malcapitato) Zauri. Po continuaje a cercà ‘o gollo ‘nzistentemente macenanno chilometri e chilometri. E menu male ca teneva ‘o ppoco d'infruenza...A ‘nu certo punto (‘a chillu granne figlio ‘e ‘ndrocchia ca è) se jette a cercà ll’ammunizzione p’essere squalificato cu ‘o Chievo o cu ‘o Cesena e nno p’ ‘a partita cu ‘a Roma... E i’ crero ca ‘a penzata fuje ‘e Mazzarri!
CAVANI 9 - Nun ce stanno cchiú aggettivi pe cummentà a mmestiere ‘ e ffatiche (le prestazioni) ‘e ‘stu zengariello nuosto. ‘O primmo gollo fuje tutto d’ ‘o suĵo, risultato ‘e ‘nu muvimento ‘e centrattacco ‘e sfunnamento, â faccia ‘e chi nun penzava ca fosse ‘nu centrattacco overo! Me piacette ‘a fermezza dimustrata quanno afferraje ‘o pallone, senza darlo a Marekiaro, pe trasfurmà ‘o ricore ca isso stesso s’era procurato. E ppe ‘nchiudere mettette ‘a terza purpetta ‘mporta cuncludenno a mmestiere proprio n’azzione ‘e Marekiaro e se purtaje â casa n’atu pallone; si jammo ‘e chisti passe De La s’ à dda fà ‘nteresse ‘na cifra p’accattà pallune. Signaje tre golle, e che ato vulite ‘a n’attaccante? Ch’ ato lle se po’ dimannà? Eppure, se dannaje pure pe correre arreto a ll’avverzario e ppe gghí a difennere: attaccante muderno, quase ‘e scola ulandese,utile, energico e viguroso pe cquant’ è luongo e llargo ‘o campo!
(dô 18° s.t. LUCARELLI 6 – Me parette ‘nu poco ‘nchiattuto ma comunque se muvette abbastanza,pe ccuje s’ammereta ‘o seje ‘e ‘ncuraggiamento ca ll’aggiu miso. Sta tornanno e certamente se sta appruntanno pe ddà ‘na mana!
All. MAZZARRI 8 - Nun è ‘na scuperta d’ajere, ma ‘o livurnese è riuscito a custruí piezzo pe piezzo e cuoncio pe ccuoncio ‘na squatra quadrata ca però sta dint’ ô ssuĵo quanno tène spazzie larghe, squatra quadrata ca mo, comme à dimustrato ajere, à truvato ll’assennatezza (maturità) nicessaria p’ arrivà ê piane àvete.
arbitro ROCCHI 6 – ‘Sta vota niente ‘a dicere:’sta meza cazetta ati vvote mannato a spezzà ‘e passe napulitane (pure senza riuscirce), ajere facette tutt’ ‘o duvere suĵo.
Ajere ‘a jurnata nun puteva ferní meglio ca vedenno ‘a faccia ‘e cestunia ‘e Del Neri ca teneva ‘o veleno ‘mpont’ô musso doppo ca ll’Udinese êva dato dduje panesiglie â juventussa... E ffósse sempe accussí! Si ‘o Signore ce ‘o fa vedé ce sentimmo ggiovedí ca vène!
Bbona salute!
R.Bracale Brak
LL’AGGIU VISTA ACCUSSÍ
Che bbella jurnata guagliú chella d’ajere:Milanno e Lazzio ll’autriere avevano chiammato,e ajere ‘o Napule rispunnette comme meglio nun se puteva alluccanno cu ‘nu quatto a zzero da alliccarse ‘e mustacce dimustranno a tutte quante ca ‘a squatra ce sta e nun le mettono paura ‘e troppi staglie (impegni). ‘A pòvera marcapitata Sampdoria d’ajere nun ce poteva fà assaje, ma p’ ‘a verità manco tentaje ‘e fà coccosa. Nfra ‘e duriani sí e nno se salvajeno appena appena Mannini e Palombo,ma niente a ccunfronto d’ ‘o trebbeto d'attacco napulitano ca fuje fantastico pe nun esaggerà! Cavani,cu n’ati ttre purpette doppo chelle servute â juventussa se jette a piazzà ‘ncimma â classifica d’ ‘e cannuniere d’ ‘o campiunato.E mmo nun mettimmo lemmete â Pruvverenza! Cu ‘stu Napule cca ‘ncantevulo,fascinuso,ca fuje salutato dâ 'sciarpata' ‘e ‘nu San Paolo cu ‘o core dint’ ô zzuccaro, cu ‘nu Napule accussí tutto è ppussibbile; ce putimmo aspettà qualunqua cosa! Passammo ê ppaggelle:
DE SANCTIS 6 - Maje seriamente chiammato ‘ncausa,firmaje ‘o cartellino ‘e presenza cu ‘na bbona parata ‘ncopp’ a ‘nu tiro ‘ncunsistente ‘e Macheda!
SANTACROCE 7 - Cuncentrato e priciso dinte a ll’anticipe, parette ‘o Santacroce d’ ‘e tiempe bbelle. Assemplare,cuncreto , cu ‘e contrasciocche cassaje dô campo a Maccarone, ‘o spauracchio, senza farcela vedé praticamente maje!
CANNAVARO 6+ - Dint’â festa ggenerale pure culo’echiummo facette avvedé ca se sta ‘mparanno a essere asciutto e assenziale, cose ca ati vvote ll’erano difettato; mettette ‘a musarola a Macheda e facette caputià (ripartire) ll’azzione senza perdere tiempo e facennose sèntere.
(dô 24° s.t. CRIBARI 6 Dètte ‘o cagno a culo’echiummo e s’ ‘a spicciaje a dduvere sotto a ll’uocchie ‘e Ruizzo ca steva ‘ntribbuna! )
CAMPAGNARO 7 - Contro a ll’ecchesa squatra soja nun êtt’ ‘a faticà esaggeratamente pe ffà bbella fijura. Se cuncedette cchiú ‘e ‘na smestuta d’ ‘e ssoje:’na roccia, sdradecaje ‘o pallone dê piede ‘e chiunque lle capitaje a ttiro e ripartette cu straurdinaria scetatezza (energia) e fforza.
ZUNIGA 6- – Smestaje (spinse) custantemente ‘ncopp’â curzia ‘e dritta, ma cu pocu zuco....
YEBDA 7 – ‘Stu marcantonio algerino nun perdette ‘nu pallone manco a pavarlo e se prupunette spisso annante p’accumpagnà ‘a manovra. Furnito ‘e granna acutezza tattica e de presenza ‘a cummannaje isso ‘mmiez’ ô campo.S’ à dda tené cchiù ‘ncusiderazzione: ‘o vulesse vedé ‘ncocchia cu Pazienza ô posto ‘e Gargano.
GARGANO 5,5 ‘O solito casinista ‘e sempe, sbagliaje ‘nu tummolo ‘e passagge e cchiú ‘e ‘nu stoppo... Corre, corre e ccorre, ma aíza póvera!
DOSSENA 5,5 – Quaccosa facette, ma poco; stammo ancóra aspettanno ‘o vero Dossena. Sempe ca esiste!
HAMSIK 7,5 - Aiutato dê (dalle) praterie scunfinate ca lle s’arapevano annante purtaje a cciammiello (finalizzò alla perfezione) n’ assisto ‘e Lavezzi e ppo apparicchiaje a ppe isso ‘o terzo gollo ‘e Cavani. Unico, prezziuso(insostituibile) pe ‘sta squatra; cumminfatte se sente e ccomme ca ce manca coccosa quann’isso nun ce sta...). Facette tanta fatica senza palla danno qualità â manovra e realizzaje ‘nu granne gollo.
(dô 13° s.t. SOSA 6 – Saranno state ‘e spazzie larghe cuncesse dê duriane, ma ajere me parette assaje cchiú ’mpalla d’ ‘o ssolito. Se prupunette ‘nu paro ‘e vote a dduvere e, sentite, sentite, assummaje ‘nu pare ‘e cuntraste ‘mpurtante!)
LAVEZZI 8 – Accuminciaje a gghiucà doppo bbuoni vinte minute, e â fine però lle mancaje sulo ‘o gollo; ma ‘a cumbattività (generosità) e ‘a qualità ca ce mettette ajere fujeno straordinarie.’E cuntinue scatte suĵe e ‘e dribblinghe giurgiante (ubriacanti) mannajeno ô manicomio ‘e pòvere difenzure duriane e facettero addecrià ‘e tifuse napulitane; v miraculuso cu ‘a palla azzeccata ô pede, servette dduje assiste magnifiche doppo ddoje smestute (scorribande) ‘ncopp’â dritta ca ‘nzallanettero cumpletamente mandano al manicomio ô scajenzato (malcapitato) Zauri. Po continuaje a cercà ‘o gollo ‘nzistentemente macenanno chilometri e chilometri. E menu male ca teneva ‘o ppoco d'infruenza...A ‘nu certo punto (‘a chillu granne figlio ‘e ‘ndrocchia ca è) se jette a cercà ll’ammunizzione p’essere squalificato cu ‘o Chievo o cu ‘o Cesena e nno p’ ‘a partita cu ‘a Roma... E i’ crero ca ‘a penzata fuje ‘e Mazzarri!
CAVANI 9 - Nun ce stanno cchiú aggettivi pe cummentà a mmestiere ‘ e ffatiche (le prestazioni) ‘e ‘stu zengariello nuosto. ‘O primmo gollo fuje tutto d’ ‘o suĵo, risultato ‘e ‘nu muvimento ‘e centrattacco ‘e sfunnamento, â faccia ‘e chi nun penzava ca fosse ‘nu centrattacco overo! Me piacette ‘a fermezza dimustrata quanno afferraje ‘o pallone, senza darlo a Marekiaro, pe trasfurmà ‘o ricore ca isso stesso s’era procurato. E ppe ‘nchiudere mettette ‘a terza purpetta ‘mporta cuncludenno a mmestiere proprio n’azzione ‘e Marekiaro e se purtaje â casa n’atu pallone; si jammo ‘e chisti passe De La s’ à dda fà ‘nteresse ‘na cifra p’accattà pallune. Signaje tre golle, e che ato vulite ‘a n’attaccante? Ch’ ato lle se po’ dimannà? Eppure, se dannaje pure pe correre arreto a ll’avverzario e ppe gghí a difennere: attaccante muderno, quase ‘e scola ulandese,utile, energico e viguroso pe cquant’ è luongo e llargo ‘o campo!
(dô 18° s.t. LUCARELLI 6 – Me parette ‘nu poco ‘nchiattuto ma comunque se muvette abbastanza,pe ccuje s’ammereta ‘o seje ‘e ‘ncuraggiamento ca ll’aggiu miso. Sta tornanno e certamente se sta appruntanno pe ddà ‘na mana!
All. MAZZARRI 8 - Nun è ‘na scuperta d’ajere, ma ‘o livurnese è riuscito a custruí piezzo pe piezzo e cuoncio pe ccuoncio ‘na squatra quadrata ca però sta dint’ ô ssuĵo quanno tène spazzie larghe, squatra quadrata ca mo, comme à dimustrato ajere, à truvato ll’assennatezza (maturità) nicessaria p’ arrivà ê piane àvete.
arbitro ROCCHI 6 – ‘Sta vota niente ‘a dicere:’sta meza cazetta ati vvote mannato a spezzà ‘e passe napulitane (pure senza riuscirce), ajere facette tutt’ ‘o duvere suĵo.
Ajere ‘a jurnata nun puteva ferní meglio ca vedenno ‘a faccia ‘e cestunia ‘e Del Neri ca teneva ‘o veleno ‘mpont’ô musso doppo ca ll’Udinese êva dato dduje panesiglie â juventussa... E ffósse sempe accussí! Si ‘o Signore ce ‘o fa vedé ce sentimmo ggiovedí ca vène!
Bbona salute!
R.Bracale Brak
domenica 30 gennaio 2011
PASTA E CUCUZZIELLE
PASTA E CUCUZZIELLE
(minestra di pasta e zucchine come la faceva mia nonna.)
La ricetta che propongo ripete quella che preparava mia nonna che aveva rivisitato la classica minestra di pasta e zucchine eliminandone un sughetto leggero di pomidorini d’ ‘o piennolo ed arricchendo la minestra con delle uova.
con la voce napoletana cucuzzielle si rendono quelle che in italiano sono zucchine/zucchini (1 dim. di zucca
2 varietà di zucca con foglie pelose e fiori gialli, che produce frutti allungati, teneri, dal sapore delicato (fam. Cucurbitacee) | il frutto di questa pianta: zucchine fritte, lesse, ripiene; frittata con zucchine.);
la parola napoletana è attroverso il doppio suffisso diminutivo i-ello/i-elle un diretto derivato del s.vo Cucozza sv.vo f.le = zucca,pianta erbacea annua con larghe foglie pelose, fiori campanulati gialli, frutti commestibili di forma e dimensioni diverse secondo le varietà (fam. Cucurbitacee) | zucca barucca, varietà di zucca bitorzoluta che si cuoce al forno e si mangia a fette | semi di zucca, brustolini | fiori di zucca, vivanda costituita dai fiori della zucca,meglio della zucchina, fritti dopo essere stati immersi in una pastella di uova e farina. DIM. zucchina, zucchino (m.), zucchetto (m.), zucchettino (m.)
2 (estens.) il frutto commestibile della zucca: zucca fritta; minestrone con la zucca
3 (fig. scherz.) la testa: ( etimologicamentela voce napoletana cucozza nonché il suo diminutivo cucuzziello/pl. cucuzzielle è una diretta derivazione dall’acc. tardo latino cucutia(m), mentre la voce italiana zucca è derivata dal medesimo tardo lat. cucutia(m), con metatesi e aferesi della sillaba iniziale; con raddoppiamento espressivo della c cucutia(m)→(cu)cutiaca(m)→ziacca→zucca.
Ingredienti per 6 persone:
6 etti di vermicelli divisi in pezzi da 4 cm.,
1/2 kg. di zucchine piccole verdi scure e sode,
3 uova,
1 cipolla dorata mondata ed affettata,
1 spicchio d'aglio mondato e schiacciato,
1 bicchiere d’olio d'oliva e.v. p. s. a f.,
un ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente
sale fino e pepe decorticato macinato a fresco q.s.
1 etto di pecorino grattugiato,
1 pugno di sale doppio.
Preparazione:
Lavare ed asciugare le zucchine, affettarle in rondelle di 1/2 cm. di spessore, sciacquarle ed asciugarle.
In un'ampia padella versare l'olio ed aggiungere la cipolla affettata e l'aglio in camicia schiacciato sotto la lama d'un coltello; far appassire la cipolla ed imbiondire l'aglio che poi va tolto appena sia dorato.
Mettere le zucchine a friggere nel fondo preparato; badare che la cottura sia fatta a fiamma bassa; dopo 15 minuti di cottura salare a piacere e pepare.
Nel frattempo spezzettare i vermicelli in pezzetti di circa 4 cm. di altezza e lessarli in molta acqua opportunamente salata. A cottura ultimata prelevare la pasta con una schiumarola e versarla súbito nella padella con le zucchine fritte; rimestare e tenere in caldo; sbattere le uova rapidamente con l’aggiunta del trito di prezzemolo e tre cucchiai di pecorino ed una macinata di pepe decorticato; versare le uova sui vermicelli conditi, alzare la fiamma e far rapprendere le uova; servire la pasta ben calda cosparsa del pecorino residuo e del pepe macinato a fresco.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
(minestra di pasta e zucchine come la faceva mia nonna.)
La ricetta che propongo ripete quella che preparava mia nonna che aveva rivisitato la classica minestra di pasta e zucchine eliminandone un sughetto leggero di pomidorini d’ ‘o piennolo ed arricchendo la minestra con delle uova.
con la voce napoletana cucuzzielle si rendono quelle che in italiano sono zucchine/zucchini (1 dim. di zucca
2 varietà di zucca con foglie pelose e fiori gialli, che produce frutti allungati, teneri, dal sapore delicato (fam. Cucurbitacee) | il frutto di questa pianta: zucchine fritte, lesse, ripiene; frittata con zucchine.);
la parola napoletana è attroverso il doppio suffisso diminutivo i-ello/i-elle un diretto derivato del s.vo Cucozza sv.vo f.le = zucca,pianta erbacea annua con larghe foglie pelose, fiori campanulati gialli, frutti commestibili di forma e dimensioni diverse secondo le varietà (fam. Cucurbitacee) | zucca barucca, varietà di zucca bitorzoluta che si cuoce al forno e si mangia a fette | semi di zucca, brustolini | fiori di zucca, vivanda costituita dai fiori della zucca,meglio della zucchina, fritti dopo essere stati immersi in una pastella di uova e farina. DIM. zucchina, zucchino (m.), zucchetto (m.), zucchettino (m.)
2 (estens.) il frutto commestibile della zucca: zucca fritta; minestrone con la zucca
3 (fig. scherz.) la testa: ( etimologicamentela voce napoletana cucozza nonché il suo diminutivo cucuzziello/pl. cucuzzielle è una diretta derivazione dall’acc. tardo latino cucutia(m), mentre la voce italiana zucca è derivata dal medesimo tardo lat. cucutia(m), con metatesi e aferesi della sillaba iniziale; con raddoppiamento espressivo della c cucutia(m)→(cu)cutiaca(m)→ziacca→zucca.
Ingredienti per 6 persone:
6 etti di vermicelli divisi in pezzi da 4 cm.,
1/2 kg. di zucchine piccole verdi scure e sode,
3 uova,
1 cipolla dorata mondata ed affettata,
1 spicchio d'aglio mondato e schiacciato,
1 bicchiere d’olio d'oliva e.v. p. s. a f.,
un ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente
sale fino e pepe decorticato macinato a fresco q.s.
1 etto di pecorino grattugiato,
1 pugno di sale doppio.
Preparazione:
Lavare ed asciugare le zucchine, affettarle in rondelle di 1/2 cm. di spessore, sciacquarle ed asciugarle.
In un'ampia padella versare l'olio ed aggiungere la cipolla affettata e l'aglio in camicia schiacciato sotto la lama d'un coltello; far appassire la cipolla ed imbiondire l'aglio che poi va tolto appena sia dorato.
Mettere le zucchine a friggere nel fondo preparato; badare che la cottura sia fatta a fiamma bassa; dopo 15 minuti di cottura salare a piacere e pepare.
Nel frattempo spezzettare i vermicelli in pezzetti di circa 4 cm. di altezza e lessarli in molta acqua opportunamente salata. A cottura ultimata prelevare la pasta con una schiumarola e versarla súbito nella padella con le zucchine fritte; rimestare e tenere in caldo; sbattere le uova rapidamente con l’aggiunta del trito di prezzemolo e tre cucchiai di pecorino ed una macinata di pepe decorticato; versare le uova sui vermicelli conditi, alzare la fiamma e far rapprendere le uova; servire la pasta ben calda cosparsa del pecorino residuo e del pepe macinato a fresco.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
RIGATONI DORATI CON CAVOLO ED ACCIUGHE
RIGATONI DORATI CON CAVOLO ED ACCIUGHE
ingredienti e dosi per 6 persone
6 etti di rigatoni,
1 etto di filetti d’acciughe dissalate e diliscate o pari peso di acciughe sott’olio,
3 etti di cimette di cavolfiore bianco napoletano,
1 cucchiaio abbondante di semi di finocchio,
1 bicchiere di olio d'oliva e.v.p.s. a f.,
1 cipolla dorata tritata grossolanamente,
1 spicchio d’aglio tritato finemente,
½ etto . di pinoli tostati in forno,
½ etto di uvetta sultanina ammollata e strizzata,
2 bustine di zafferano,
1 peperoncino piccante privato del picciolo, lavato asciugato ed inciso longitudinalmente,
1 gran ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
sale fino e pepe nero q.s.
sale grosso un pugno e mezzo.
procedimento
Sbollentare per soli quattro minuti dal bollore le cimette di cavolviore in molta acqua salata (mezzo pugno di sale grosso), scolarle e metterle ad asciugare su di un canevaccio di bucato. A seguire versare in un’ampia padella antiaderente tutto l’olio ed a fuoco vivo dorare la cipolla e l’aglio tritati; abbassare i fuochi ed unire poi i filetti d'acciuga, farli sciogliere a fuoco moderato ed aggiungere il cucchiaio di semi di finocchio, i pinoli tostati, l'uvetta ammollata fatta rinvenire in acqua calda; aggiungere le cimette sbollentate, lo zafferano disciolto con una tazza d'acqua tiepida, il peperoncino, e fare amalgamare i sapori a mezza fiamma e protrarre la cottura per quindici minuti ed infine aggiustare di sale fino e di pepe. Lessare i rigatoni al dente(pugno di sale grosso), scolarli e versarli nella padella con la salsetta approntata; rimestare velocemente,cospargendo – a fuochi spenti - con il trito di prezzemolo; impiattare, cospargere di pepe nero macinato a fresco e mandare in tavola caldi di fornello. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute e scialàteve!
raffaele bracale
ingredienti e dosi per 6 persone
6 etti di rigatoni,
1 etto di filetti d’acciughe dissalate e diliscate o pari peso di acciughe sott’olio,
3 etti di cimette di cavolfiore bianco napoletano,
1 cucchiaio abbondante di semi di finocchio,
1 bicchiere di olio d'oliva e.v.p.s. a f.,
1 cipolla dorata tritata grossolanamente,
1 spicchio d’aglio tritato finemente,
½ etto . di pinoli tostati in forno,
½ etto di uvetta sultanina ammollata e strizzata,
2 bustine di zafferano,
1 peperoncino piccante privato del picciolo, lavato asciugato ed inciso longitudinalmente,
1 gran ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
sale fino e pepe nero q.s.
sale grosso un pugno e mezzo.
procedimento
Sbollentare per soli quattro minuti dal bollore le cimette di cavolviore in molta acqua salata (mezzo pugno di sale grosso), scolarle e metterle ad asciugare su di un canevaccio di bucato. A seguire versare in un’ampia padella antiaderente tutto l’olio ed a fuoco vivo dorare la cipolla e l’aglio tritati; abbassare i fuochi ed unire poi i filetti d'acciuga, farli sciogliere a fuoco moderato ed aggiungere il cucchiaio di semi di finocchio, i pinoli tostati, l'uvetta ammollata fatta rinvenire in acqua calda; aggiungere le cimette sbollentate, lo zafferano disciolto con una tazza d'acqua tiepida, il peperoncino, e fare amalgamare i sapori a mezza fiamma e protrarre la cottura per quindici minuti ed infine aggiustare di sale fino e di pepe. Lessare i rigatoni al dente(pugno di sale grosso), scolarli e versarli nella padella con la salsetta approntata; rimestare velocemente,cospargendo – a fuochi spenti - con il trito di prezzemolo; impiattare, cospargere di pepe nero macinato a fresco e mandare in tavola caldi di fornello. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute e scialàteve!
raffaele bracale
FETTUCCELLE D’ATUNNO
FETTUCCELLE D’ATUNNO
Ingredienti e dosi per 6 persone:
6 etti di fettuccelle all’uovo fresche o secche,
4 etti di castagne private della scorza,
3 grossi funghi porcini freschi o surgelati (se di ottima qualità),
1 etto di pancetta tesa a dadini di ½ cm. di spigolo,
1 cipolla dorata mondata e tritata, ½ litro di brodo da dado vegetale,
1 spicchio d’aglio mondato e schiacciato,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
un gran ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
sale grosso un pugno,
6 cucchiai di pinoli tostati in forno (220°),
sale fino e pepe decorticato macinato a fresco q.s.
Preparazione: Pulire bene i funghi freschi nettandoli con uno straccetto umido e con un coltellino affilatissimo, e tagliarli in pezzi abbastanza grossi; raccomando di operare il taglio alla francese, sfettando i funghi in diagonale, appoggiando la lama lungo l’asse maggiore dei funghi, con un’inclinazione di 45°.Nel caso che si tratti di funghi surgelati, occorre lasciarli scongelare lentamente a temperatura ambiente,asciugarli con carta paglia o assorbente e nettarli con il coltellino affilatissimo procedendo poi c.s. al taglio alla francese.
A seguire lessare le castagne per 20 minuti, poi pelarle. Fare imbiondire a fuoco vivo in un’ampia padella l’aglio e la cipolla nell'olio; eleminare l’aglio ed unire i dadi di pancetta e le castagne lesse schiacciandole con i rebbi d’ una forchetta e far rosolare per quattro minuti; bagnare con il brodo e lasciar cuocere per 15 minuti. Aggiungere i funghi puliti e sfettati a pezzetti, abbassare i fuochi e far cuocere per altri 15 minuti ed aggiustare di sale; nel frattempo lessere al dente (per 5 minuti se fresche o 10 minuti, se secche) le fettuccelle in abbondante acqua salata( un pugno di sale grosso), scolarle decisamente e versarle nella padella con il sugo e rimestarle a fiamma viva; a fuochi spenti aggiungere il prezzemolo fresco tagliato finemente. Impiattare cospargendo ogni porzione di pepe decorticato macinato a fresco ed un cucchiaio di pinoli tostati. Servire calde di fornello queste ricche gustosissime fettuccelle autunnali.
Vini: secchi e profumati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
Ingredienti e dosi per 6 persone:
6 etti di fettuccelle all’uovo fresche o secche,
4 etti di castagne private della scorza,
3 grossi funghi porcini freschi o surgelati (se di ottima qualità),
1 etto di pancetta tesa a dadini di ½ cm. di spigolo,
1 cipolla dorata mondata e tritata, ½ litro di brodo da dado vegetale,
1 spicchio d’aglio mondato e schiacciato,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
un gran ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
sale grosso un pugno,
6 cucchiai di pinoli tostati in forno (220°),
sale fino e pepe decorticato macinato a fresco q.s.
Preparazione: Pulire bene i funghi freschi nettandoli con uno straccetto umido e con un coltellino affilatissimo, e tagliarli in pezzi abbastanza grossi; raccomando di operare il taglio alla francese, sfettando i funghi in diagonale, appoggiando la lama lungo l’asse maggiore dei funghi, con un’inclinazione di 45°.Nel caso che si tratti di funghi surgelati, occorre lasciarli scongelare lentamente a temperatura ambiente,asciugarli con carta paglia o assorbente e nettarli con il coltellino affilatissimo procedendo poi c.s. al taglio alla francese.
A seguire lessare le castagne per 20 minuti, poi pelarle. Fare imbiondire a fuoco vivo in un’ampia padella l’aglio e la cipolla nell'olio; eleminare l’aglio ed unire i dadi di pancetta e le castagne lesse schiacciandole con i rebbi d’ una forchetta e far rosolare per quattro minuti; bagnare con il brodo e lasciar cuocere per 15 minuti. Aggiungere i funghi puliti e sfettati a pezzetti, abbassare i fuochi e far cuocere per altri 15 minuti ed aggiustare di sale; nel frattempo lessere al dente (per 5 minuti se fresche o 10 minuti, se secche) le fettuccelle in abbondante acqua salata( un pugno di sale grosso), scolarle decisamente e versarle nella padella con il sugo e rimestarle a fiamma viva; a fuochi spenti aggiungere il prezzemolo fresco tagliato finemente. Impiattare cospargendo ogni porzione di pepe decorticato macinato a fresco ed un cucchiaio di pinoli tostati. Servire calde di fornello queste ricche gustosissime fettuccelle autunnali.
Vini: secchi e profumati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
RIGATONI INCACIATI CON CREMA PICCANTE DI PIPERI
RIGATONI INCACIATI CON CREMA PICCANTE DI PIPERI
Nota
Per la preparazione di questa gustosissima ricetta ci serviremo di una crema piccante attenuta con dei particolari peperoni détti pipere.
Con la voce *pipere plurale di pipero nella parlata napoletana si identifica un tipo particolare di gustoso peperone,di vario colore (rosso, giallo, verde chiaro), non quadrilobato, ma di pizzuta forma conica allungata e di sapore piuttosto forte come dal nome che con derivazione dall’ acc.vo neutro tardo latino piper indica appunto un peperone dal sapore intenso, quasi pepato.
Ingredienti e dosi per 6 persone
per i rigatoni incaciati
6 etti di rigatoni,
3 etti di pecorino (laticauda) grattugiato finemente,
abbondante pepe decorticato macinato a fresco,
2 etti di prosciutto cotto in bastoncini di cm. 5x 2x 1,
2 bicchieri di olio d’oliva e.v.p. s. a f. ,
una tazzina di cognac,
4 etti di gherigli di noci tritati.
sale doppio mezzo pugno.
per la crema piccante
8 peperoni conici (pípere) di varî colori,
1 spicchio d’aglio mondato e schiacciato,
1 bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f. ,
3 peperoncini rossi piccanti,
un ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato grossolanamente,
sale fino e pepe bianco decorticato q.s.
procedimento
Si comincia approntando la crema piccante nel modo che segue:
Lavare ed asciugare i peperoni (pipere), scapitozzarli del picciolo, aprirli longitudinalmente per eliminare i semi ed eventuali costoline interne e tagliarli i piccoli pezzi quadrati di circa 2 cm. di lato; versare la metà dell’olio in una padella di ferro nero, portarlo a temperatura, dorarvi l’aglio schiacciato assieme ai tre peperoncini piccanti, lavati asciugati, privati di picciolo e corona ed aperti longitudinalmente; eliminare l’aglio dorato e friggervi i pezzetti di peperone bagnandoli con mezza ramaiolata d’acqua bollente, salarli parsimoniosamente, pepare ad libitum e trasferirli con il fondo di cottura in un mixer con lame da umido dove vanno frullati aggiungendo l’olio residuo fino ad ottenere una crema morbida e spumosa, da rimettere in padella per mantenerla al caldo sino al suo utilizzo per condire la pasta; prima dell’utilizzo aggiungere il prezzemolo tritato.
A seguire si versa un bicchiere d’olio in una padella ed a fuoco sostenuto si fanno dorare i bastoncini di prosciutto cotto bagnandoli con il cognac; tenere in caldo. A questo punto occorre mettere a lessare la pasta in abbondante acqua leggermente (mezzo pugno di sale doppio) salata.Nel frattempo mandare a temperatura un bicchiere d'olio in un tegame unendovi una generosa quantità di pepe decorticato macinato a fresco; a seguire porre in
un’ insalatiera 3 etti di pecorino laticauda grattugiato finemente ed un po' d' acqua di cottura della pasta; amalgamare il tutto con un cucchiaio di legno fino ad ottenere una crema liscia. Si scolano i rigatoni lessati al dente, trasferendoli nell’insalatiera con il formaggio; si aggiunge la metà della crema di pipere e si rimestano accuratamente.Si aggiunge infine il prosciutto dorato ed, a seguire, si spalmano a specchio sul fondo di sei fondine calde alcune cucchiaiate della residua crema di pipere e vi si porzionano i rigatoni; si completano i piatti distribuendo su ogni porzione abbondanti gherigli di noce tritati.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
Nota
Per la preparazione di questa gustosissima ricetta ci serviremo di una crema piccante attenuta con dei particolari peperoni détti pipere.
Con la voce *pipere plurale di pipero nella parlata napoletana si identifica un tipo particolare di gustoso peperone,di vario colore (rosso, giallo, verde chiaro), non quadrilobato, ma di pizzuta forma conica allungata e di sapore piuttosto forte come dal nome che con derivazione dall’ acc.vo neutro tardo latino piper indica appunto un peperone dal sapore intenso, quasi pepato.
Ingredienti e dosi per 6 persone
per i rigatoni incaciati
6 etti di rigatoni,
3 etti di pecorino (laticauda) grattugiato finemente,
abbondante pepe decorticato macinato a fresco,
2 etti di prosciutto cotto in bastoncini di cm. 5x 2x 1,
2 bicchieri di olio d’oliva e.v.p. s. a f. ,
una tazzina di cognac,
4 etti di gherigli di noci tritati.
sale doppio mezzo pugno.
per la crema piccante
8 peperoni conici (pípere) di varî colori,
1 spicchio d’aglio mondato e schiacciato,
1 bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f. ,
3 peperoncini rossi piccanti,
un ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato grossolanamente,
sale fino e pepe bianco decorticato q.s.
procedimento
Si comincia approntando la crema piccante nel modo che segue:
Lavare ed asciugare i peperoni (pipere), scapitozzarli del picciolo, aprirli longitudinalmente per eliminare i semi ed eventuali costoline interne e tagliarli i piccoli pezzi quadrati di circa 2 cm. di lato; versare la metà dell’olio in una padella di ferro nero, portarlo a temperatura, dorarvi l’aglio schiacciato assieme ai tre peperoncini piccanti, lavati asciugati, privati di picciolo e corona ed aperti longitudinalmente; eliminare l’aglio dorato e friggervi i pezzetti di peperone bagnandoli con mezza ramaiolata d’acqua bollente, salarli parsimoniosamente, pepare ad libitum e trasferirli con il fondo di cottura in un mixer con lame da umido dove vanno frullati aggiungendo l’olio residuo fino ad ottenere una crema morbida e spumosa, da rimettere in padella per mantenerla al caldo sino al suo utilizzo per condire la pasta; prima dell’utilizzo aggiungere il prezzemolo tritato.
A seguire si versa un bicchiere d’olio in una padella ed a fuoco sostenuto si fanno dorare i bastoncini di prosciutto cotto bagnandoli con il cognac; tenere in caldo. A questo punto occorre mettere a lessare la pasta in abbondante acqua leggermente (mezzo pugno di sale doppio) salata.Nel frattempo mandare a temperatura un bicchiere d'olio in un tegame unendovi una generosa quantità di pepe decorticato macinato a fresco; a seguire porre in
un’ insalatiera 3 etti di pecorino laticauda grattugiato finemente ed un po' d' acqua di cottura della pasta; amalgamare il tutto con un cucchiaio di legno fino ad ottenere una crema liscia. Si scolano i rigatoni lessati al dente, trasferendoli nell’insalatiera con il formaggio; si aggiunge la metà della crema di pipere e si rimestano accuratamente.Si aggiunge infine il prosciutto dorato ed, a seguire, si spalmano a specchio sul fondo di sei fondine calde alcune cucchiaiate della residua crema di pipere e vi si porzionano i rigatoni; si completano i piatti distribuendo su ogni porzione abbondanti gherigli di noce tritati.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
RRAù ALLA GENOVESE
RRAù ALLA GENOVESE
Chello ca ce vo’ pe sseje perzone
(dosi e procedimento per 6 persone)
Dduje kilò ‘e cepolle vecchie(‘ndurate e nno janche!),
‘Nu kilò ‘e spezzato ‘e carna vaccina (panza o curazza o spalla) o pure, e mmeglio ancòra ‘nu kilò ‘e locena vaccina o ‘e puorco tagliata a ffelle pe farne seje grosse brasciole ‘mbuttunate cu ciento gramme ‘e furmaggio pecurino a quadrucce, sale fino, pepe niro, uva passa ammullata, ddoje ove sbattute, pignuole e aglio e prutusino ntretate, e ppo attaccate cu ‘nu capo ‘e spavo janco p’ ‘a cucina,
‘na pastenaca ggialla grossa rattata e tagliata pe lluongo a quatto o cchiú piezze,
‘na còstola d’accio rattata e tagliata a ppezzulle,
dduje bbicchiere ‘e vino janco asciutto,
‘nu bbicchiere d’uoglio ‘aulive e.v.p.s. a f.,
‘nu cucchiaro abbunnante ‘e ‘nzogna,
‘na pummarola pelata ( si ve piace)
sale fino e ppepe niro quanto avasta
600 gr. ‘e zetune spezzate a mmano oppure rigatune o pacchere ‘e Gragnano,
Ciento gramme ‘e furmaggio pecurino rattato fino,
sale duppio ‘nu punio.
Prucedimento
Affettate ‘e ccepolle suttile, suttile, ( pe ’nu poco se chiagne, ma pacienza; doppo ne rummanite cuntente! ), mettítele dinto a ‘na tiana cu ‘a carne, ll’uoglio,’a ‘nzogna, ‘a pastenaca e ll’accio tagliate a pezzulle, mettítece pure, tagliata a piezze, ‘a pummarola (sempe ca ve piace);’ncupirchiate , e facite cocere pe quase n’ora a ffuoco forte: ‘e cipolle ànn’ ‘a addiventà trasparente e à dda svapurà tutto ‘o zuco; sulo quanno ‘e cepolle sarranno bastantamente asciutte mettite ‘o primmo bicchiere ‘e vino janco,avascianno assaje ‘o ffuoco, e facite cocere pe ati quaranta minuti.
Menate chill’atu bbicchiere ‘e vino, ‘o ssale ‘o ppepe, e ripetite ll’uperazzione ‘e primma stànnove attiente a non fà azzeccà ‘o zuco ‘nfacci’ â tiana.
Cu chistu zuco connítece ‘e zitune o ‘e rigatune o ‘e pacchere cuotte vierde vierde e mettitece ‘a coppa tantu pecorino e ppepe niro.
‘A carne ‘a passate comme siconno piatto accumpagnata ‘a ‘na’nzalata ‘ncappucciata cunnita cu ll’aglio, ll’uoglio, ‘o ssale ‘o ppepe e ‘o zuco ‘e limone o ll’acito!
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!Scialàteve e facíteve ‘a scarpetta!
raffaele bracale
Chello ca ce vo’ pe sseje perzone
(dosi e procedimento per 6 persone)
Dduje kilò ‘e cepolle vecchie(‘ndurate e nno janche!),
‘Nu kilò ‘e spezzato ‘e carna vaccina (panza o curazza o spalla) o pure, e mmeglio ancòra ‘nu kilò ‘e locena vaccina o ‘e puorco tagliata a ffelle pe farne seje grosse brasciole ‘mbuttunate cu ciento gramme ‘e furmaggio pecurino a quadrucce, sale fino, pepe niro, uva passa ammullata, ddoje ove sbattute, pignuole e aglio e prutusino ntretate, e ppo attaccate cu ‘nu capo ‘e spavo janco p’ ‘a cucina,
‘na pastenaca ggialla grossa rattata e tagliata pe lluongo a quatto o cchiú piezze,
‘na còstola d’accio rattata e tagliata a ppezzulle,
dduje bbicchiere ‘e vino janco asciutto,
‘nu bbicchiere d’uoglio ‘aulive e.v.p.s. a f.,
‘nu cucchiaro abbunnante ‘e ‘nzogna,
‘na pummarola pelata ( si ve piace)
sale fino e ppepe niro quanto avasta
600 gr. ‘e zetune spezzate a mmano oppure rigatune o pacchere ‘e Gragnano,
Ciento gramme ‘e furmaggio pecurino rattato fino,
sale duppio ‘nu punio.
Prucedimento
Affettate ‘e ccepolle suttile, suttile, ( pe ’nu poco se chiagne, ma pacienza; doppo ne rummanite cuntente! ), mettítele dinto a ‘na tiana cu ‘a carne, ll’uoglio,’a ‘nzogna, ‘a pastenaca e ll’accio tagliate a pezzulle, mettítece pure, tagliata a piezze, ‘a pummarola (sempe ca ve piace);’ncupirchiate , e facite cocere pe quase n’ora a ffuoco forte: ‘e cipolle ànn’ ‘a addiventà trasparente e à dda svapurà tutto ‘o zuco; sulo quanno ‘e cepolle sarranno bastantamente asciutte mettite ‘o primmo bicchiere ‘e vino janco,avascianno assaje ‘o ffuoco, e facite cocere pe ati quaranta minuti.
Menate chill’atu bbicchiere ‘e vino, ‘o ssale ‘o ppepe, e ripetite ll’uperazzione ‘e primma stànnove attiente a non fà azzeccà ‘o zuco ‘nfacci’ â tiana.
Cu chistu zuco connítece ‘e zitune o ‘e rigatune o ‘e pacchere cuotte vierde vierde e mettitece ‘a coppa tantu pecorino e ppepe niro.
‘A carne ‘a passate comme siconno piatto accumpagnata ‘a ‘na’nzalata ‘ncappucciata cunnita cu ll’aglio, ll’uoglio, ‘o ssale ‘o ppepe e ‘o zuco ‘e limone o ll’acito!
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!Scialàteve e facíteve ‘a scarpetta!
raffaele bracale
sabato 29 gennaio 2011
ME FA SPECIE CA – ME FA SPIECE ‘E
ME FA SPECIE CA – ME FA SPIECE ‘E
Questa volta su suggerimento/richiesta dell’amico S. C. amico di cui al solito (per questione di riservatezza) mi limito ad indicare le iniziali di nome e cognome, prendo in esame l’espressione napoletana in epigrafe che sospettavo fosse d’uso solo napoletano e/o genericamente meridionale ed ò invece scoperto essere entrata a far parte, senza alterazione o cambio di significato, anche dell’idioma italiano E la cosa mi à fatto un gran piacere atteso che ò sempre sostenuto e dimostrato (cfr. alibi sub Meridionalismi) che è l’idioma napoletano ad aver prestato o ceduto parole e/o espressioni all’ idioma italiano e non il contrario e tanto è avvenuto con l’espressione in epigrafe che partita dal linguaggio napoletano e siciliano si è attestata anche in quello italiano per merito di Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – †Roma, 10 dicembre 1936) che ve la fece pervenire usandola spesso nelle sue opere; tuttavia precedentemente l’espressione mi fa specie era stata usata saltuariamente anche dal Goldoni e dal Manzoni.
Ordunque le espressioni in epigrafe che in italiano son da rendere con mi fa specie che/ mi fa specie ché oppure mi fa specie di valgono rispettavamente: mi sorprende che/mi sorprende perché oppure mi meraviglio di
e vengono usate le prime in relazione ad un avvenimento, la seconda ad un individuo il cui comportamento lasci sorpresi, interdetti atteso che mai ne à tenuto di simile.
Per comprendere appieno le locuzioni nella loro morfologia bisogna rendersi conto che il s.vo f.le specie (con etimo dal lat. specie(m), propr. 'aspetto esteriore', deriv. di specere 'guardare, osservare') indica nell’ordine
1 insieme di individui con caratteri simili che li distinguono dagli altri individui dello stesso genere; in biologia, raggruppamento di organismi simili che, incrociandosi fra loro, generano una discendenza feconda: una specie di animali, di piante | l'umana specie, gli uomini nel loro insieme;
2 (estens.come nel caso che ci occupa) sorta, qualità, tipo: gente di ogni specie, di tutte le specie; che specie di libro vuoi?
3 forma esteriore, apparenza: l'eucaristia contiene il corpo e la divinità di Cristo sotto le specie del pane e del vino | sotto specie di, sotto forma, in aspetto di; con il pretesto di ' una specie di, si dice di cosa che nell'aspetto ne ricorda vagamente un'altra analoga: indossava una specie di cappa; m’aggiu magnato ‘na specie ‘e brioscia veramente ‘na fetenzia (ò mangiato una specie di dolce veramente cattivo).
Se ne deduce, tenendo presente l’accezione sub 2, che le locuzioni in esame debbano intendersi
a) l’avvenimento (cui si assiste) esula cosí tanto dalla normalità, da costituire per il sottoscritto una nuova sorta, una diversa qualità, o nuovo tipo;
b) il comportamento che sta tenendo quella tale persona di cui si parla esula cosí tanto dal suo normale modo di comportarsi , da costituire per chi ne parla una nuova sorta, qualità, o nuovo tipo. In coda rammento a mo’ d’esempio l’uso che ne fece Pirandello nel suo Il fu Mattia Pascal: “Mi fa specie - diceva - perché di solito questo poveretto non si cura di nulla. Ma si vede che queste nostre sedute misteriose gli han destato una certa ...”
R.Bracale
Questa volta su suggerimento/richiesta dell’amico S. C. amico di cui al solito (per questione di riservatezza) mi limito ad indicare le iniziali di nome e cognome, prendo in esame l’espressione napoletana in epigrafe che sospettavo fosse d’uso solo napoletano e/o genericamente meridionale ed ò invece scoperto essere entrata a far parte, senza alterazione o cambio di significato, anche dell’idioma italiano E la cosa mi à fatto un gran piacere atteso che ò sempre sostenuto e dimostrato (cfr. alibi sub Meridionalismi) che è l’idioma napoletano ad aver prestato o ceduto parole e/o espressioni all’ idioma italiano e non il contrario e tanto è avvenuto con l’espressione in epigrafe che partita dal linguaggio napoletano e siciliano si è attestata anche in quello italiano per merito di Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – †Roma, 10 dicembre 1936) che ve la fece pervenire usandola spesso nelle sue opere; tuttavia precedentemente l’espressione mi fa specie era stata usata saltuariamente anche dal Goldoni e dal Manzoni.
Ordunque le espressioni in epigrafe che in italiano son da rendere con mi fa specie che/ mi fa specie ché oppure mi fa specie di valgono rispettavamente: mi sorprende che/mi sorprende perché oppure mi meraviglio di
e vengono usate le prime in relazione ad un avvenimento, la seconda ad un individuo il cui comportamento lasci sorpresi, interdetti atteso che mai ne à tenuto di simile.
Per comprendere appieno le locuzioni nella loro morfologia bisogna rendersi conto che il s.vo f.le specie (con etimo dal lat. specie(m), propr. 'aspetto esteriore', deriv. di specere 'guardare, osservare') indica nell’ordine
1 insieme di individui con caratteri simili che li distinguono dagli altri individui dello stesso genere; in biologia, raggruppamento di organismi simili che, incrociandosi fra loro, generano una discendenza feconda: una specie di animali, di piante | l'umana specie, gli uomini nel loro insieme;
2 (estens.come nel caso che ci occupa) sorta, qualità, tipo: gente di ogni specie, di tutte le specie; che specie di libro vuoi?
3 forma esteriore, apparenza: l'eucaristia contiene il corpo e la divinità di Cristo sotto le specie del pane e del vino | sotto specie di, sotto forma, in aspetto di; con il pretesto di ' una specie di, si dice di cosa che nell'aspetto ne ricorda vagamente un'altra analoga: indossava una specie di cappa; m’aggiu magnato ‘na specie ‘e brioscia veramente ‘na fetenzia (ò mangiato una specie di dolce veramente cattivo).
Se ne deduce, tenendo presente l’accezione sub 2, che le locuzioni in esame debbano intendersi
a) l’avvenimento (cui si assiste) esula cosí tanto dalla normalità, da costituire per il sottoscritto una nuova sorta, una diversa qualità, o nuovo tipo;
b) il comportamento che sta tenendo quella tale persona di cui si parla esula cosí tanto dal suo normale modo di comportarsi , da costituire per chi ne parla una nuova sorta, qualità, o nuovo tipo. In coda rammento a mo’ d’esempio l’uso che ne fece Pirandello nel suo Il fu Mattia Pascal: “Mi fa specie - diceva - perché di solito questo poveretto non si cura di nulla. Ma si vede che queste nostre sedute misteriose gli han destato una certa ...”
R.Bracale
SCARDA & DINTORNI
SCARDA & DINTORNI
Sollecitato dall’amico L.P. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) mi occuperò della voce in epigrafe, per segnalarne la doppia valenza (positiva o negativa) determinata da un eventuale specificativo che accompagnasse il sostantivo scarda; di per sé la voce scarda, che è pari pari anche nel siciliano, nel pugliese ed in altri linguaggi meridionali, considerata da sola e senza aggiunte specificative vale: pezzo, scheggia frammento, scaglia (di legno, di vetro o di altro); per ciò che attiene l’etimo, il D.E.I. si trincera dietro un pilatesco etimo incerto una scuola di pensiero (C. Iandolo) propone una culla tedesca sarda= spaccatura, qualche altro (Marcato) opta per una non spiegabile, a mio avviso, derivazione da cardo che dal lat. cardu(m) indica quale s. m.
1 pianta erbacea con foglie lunghe, carnose, di colore biancastro, commestibili (fam. Composite) | cardo mariano, pianta erbacea con foglie grandi e infiorescenze globose a capolino (fam. Composite) | cardo dei lanaioli, pianta erbacea con foglie fortemente incise e infiorescenze a capolino, di colore azzurro, con brattee uncinate, usate per cardare la lana e pettinare le stoffe (fam. Dipsacacee)
2 il riccio della castagna
ed ognuno vede che non v’à alcun collegamento semantico possibile tra questa pianta ed un pezzo, scheggia frammento, scaglia (di un qualcosa).
A mio modo di vedere è molto piú opportuno chiedere soccorso etimologico al francese écharde: scheggia.
Sistemata cosí la questione etimologica, affrontiamo quella semantica ricordando che in napoletano con l’accrescitivo femminile scardona la voce in epigrafe assume un significato del tutto positivo valendo gran bel pezzo di ragazza,di donna; con la voce scardona viene infatti indicata una donna giovane, bella, alta, formosa fino ad esser procace; al contrario una valenza affatto negativa la voce in epigrafe l’assume nell’espressione sî‘na scarda ‘e ruagno che ad litteram è: sei un coccio di vaso da notte Cosí con gran disprezzo si usa definire chi sia sozzo, spregevole ed abietto al punto da poter essere paragonato ad un lercio coccio di un vaso da notte infranto, vaso che è piú piccolo e basso di quello detto càntaro o càntero.
Per ciò che attiene alla etimologia della parola ruagno, dirò che essendo solitamente questo vaso di comodo ubicato nei pressi del letto per essere prontamente reperito in caso di impellente necessità, scartata l’ipotesi fantasiosa che ne fa derivare il nome da un troppo generico greco organon (strumento), penso si possa aderire all’ipotesi che fa derivare il ruagno da altro termine greco, quel ruas che indica lo scorrere, atteso che il ruagno era ed in alcune vecchie case dell’entroterra campano ancóra è destinato ad accogliere improvvisi scorrimenti viscerali o derivanti da cattiva ritenzione idrica.
Rammento a mo’ di completamento le voci
càntaro o càntero alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, vaso deputato a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntaro o càntero è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea
cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
E qui mi fermo convinto d’avere esaurito l’argomento.
Raffaele Bracale
Sollecitato dall’amico L.P. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) mi occuperò della voce in epigrafe, per segnalarne la doppia valenza (positiva o negativa) determinata da un eventuale specificativo che accompagnasse il sostantivo scarda; di per sé la voce scarda, che è pari pari anche nel siciliano, nel pugliese ed in altri linguaggi meridionali, considerata da sola e senza aggiunte specificative vale: pezzo, scheggia frammento, scaglia (di legno, di vetro o di altro); per ciò che attiene l’etimo, il D.E.I. si trincera dietro un pilatesco etimo incerto una scuola di pensiero (C. Iandolo) propone una culla tedesca sarda= spaccatura, qualche altro (Marcato) opta per una non spiegabile, a mio avviso, derivazione da cardo che dal lat. cardu(m) indica quale s. m.
1 pianta erbacea con foglie lunghe, carnose, di colore biancastro, commestibili (fam. Composite) | cardo mariano, pianta erbacea con foglie grandi e infiorescenze globose a capolino (fam. Composite) | cardo dei lanaioli, pianta erbacea con foglie fortemente incise e infiorescenze a capolino, di colore azzurro, con brattee uncinate, usate per cardare la lana e pettinare le stoffe (fam. Dipsacacee)
2 il riccio della castagna
ed ognuno vede che non v’à alcun collegamento semantico possibile tra questa pianta ed un pezzo, scheggia frammento, scaglia (di un qualcosa).
A mio modo di vedere è molto piú opportuno chiedere soccorso etimologico al francese écharde: scheggia.
Sistemata cosí la questione etimologica, affrontiamo quella semantica ricordando che in napoletano con l’accrescitivo femminile scardona la voce in epigrafe assume un significato del tutto positivo valendo gran bel pezzo di ragazza,di donna; con la voce scardona viene infatti indicata una donna giovane, bella, alta, formosa fino ad esser procace; al contrario una valenza affatto negativa la voce in epigrafe l’assume nell’espressione sî‘na scarda ‘e ruagno che ad litteram è: sei un coccio di vaso da notte Cosí con gran disprezzo si usa definire chi sia sozzo, spregevole ed abietto al punto da poter essere paragonato ad un lercio coccio di un vaso da notte infranto, vaso che è piú piccolo e basso di quello detto càntaro o càntero.
Per ciò che attiene alla etimologia della parola ruagno, dirò che essendo solitamente questo vaso di comodo ubicato nei pressi del letto per essere prontamente reperito in caso di impellente necessità, scartata l’ipotesi fantasiosa che ne fa derivare il nome da un troppo generico greco organon (strumento), penso si possa aderire all’ipotesi che fa derivare il ruagno da altro termine greco, quel ruas che indica lo scorrere, atteso che il ruagno era ed in alcune vecchie case dell’entroterra campano ancóra è destinato ad accogliere improvvisi scorrimenti viscerali o derivanti da cattiva ritenzione idrica.
Rammento a mo’ di completamento le voci
càntaro o càntero alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, vaso deputato a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntaro o càntero è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea
cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
E qui mi fermo convinto d’avere esaurito l’argomento.
Raffaele Bracale
CÈRA, CÉRA & DINTORNI
CÈRA, CÉRA & DINTORNI
L’amica T.M. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche), rimasta colpita dall’espressione “M’à fatto ‘na cèra!”pronunciata con aria dispiaciuta e/o compunta mi à chiesto di spiegarla soffermandomi sui tempi e usi dell’espressione, nonché su significato ed etimo del s.vo f.le cèra. L’accontento súbito dicendole che l’espressione napoletana in esame potrebbe esser resa nella corrispondente dell’italiano “Mi à fatto una céra” id est, con valenza negativa: Mi à lanciato un occhiataccia,mi à guardato come per ammonirmi, per richiamarmi, riprendere, rimproverare; o anche, ma con valenza positiva: Mi à lanciato un occhiata compiaciuta ,mi à guardato come per farmi un complimento,compiacersi della mia avvenenza per elogiare, encomiare, lodare . Ò usato il condizionale perché in realtà nell’italiano il s.vo céra (stupido, inutile,erroneo, scorretto adattamento del napoletano cèra e ne vedremo il perché... ) non è usato da solo in senso compiuto in valenza negativa o positiva – come invece càpita con il napoletano – ma esige sempre d’ essere accompagnato da un aggettivo che ne specifichi il senso positivo o negativo: fare una buona/cattiva céra. Il napoletano pur ammettendo costruzioni del tipo fà ‘na bbona/mala cèra (fare una buona/cattiva céra), non si sente vincolato dagli aggettivi e secondo il contesto o il modo con cui vien pronunciata l’espressione esclamatoria “Mi à fatto una céra!” ellittica di aggettivi fa sí che essa assuma da sola significato positivo o negativo, sebbene il piú delle volte, nel parlato comune, sia usata in senso negativo. Da quanto détto se ne ricava che sulla bocca di chi la pronuncia, indirizzata ad adulti o adolescenti,l’espressione può assumere carattere di encomio o di biasimo secondoché venga riportata con toni e modi garbati o dispiaciuti.In italiano la cosa non è possibile ed occorre sempre accompagnare il s.vo céra da un aggettivo che dia all’espressione il significato voluto: positivo o negativo.Per esemplificare dirò che un adolescente che con aria dispiaciuta dicesse: Mammema m’à fatto ‘na cèra!(Mia madre mi à fatto una céra!) vorrebbe certamente dire che la mamma gli à lanciato un’occhiataccia di rimprovero e/o di ammonimento;in italiano per significar la medesima cosa non sarebbe sufficiente esclamare: Mia madre mi à fatto una céra!, ma occorrerebbe dir: Mia madre mi à fatto una cattiva céra!; al contrario una avvenente signorina che con aria soddisfatta comunicasse a’ terzi: Chillu giuvinotto m’à fatto ‘na cèra! (Quel giovanotto mi à fatto una céra) vorrebbe senza dubbio dire che il giovanotto l’à sogguardata con interesse lodandone silenziosamente grazie ed avvenenza. La cosa in italiano esigerebbe l’espressione Quel giovanotto mi à fatto una bella o buona céra! che chiarisse la portata della guardata.
Giunti qui possiamo ricordare che il s.vo f.le napoletano cèra fa parte di quei tanti altri termini nati napoletani (ammuina/o,camorra, guaglione, scugnizzo,sfogliatella, vongola etc. e loro derivati) e poi pervenuti ed accolti nella lingua nazionale, sebbene nella fattispecie il s.vo originario cèra è stato accolto nell’olimpo dell’italiano con – mi ripeto uno stupido, inutile,erroneo, scorretto cambiamento della vocale tonica che da è è divenuta é producendo un risibile céra di cui non si avvertiva la necessità in quanto questo céra di significato analogo al napoletano cèra ( aspetto, espressione del viso: avere una buona, una cattiva céra, apparire in buona, in cattiva salute; far buona, cattiva céra, fare buona, cattiva accoglienza) risulta essere omofono ed omografo di altro s.vo céra (nome generico di sostanze plastiche, fusibili a basse temperature, di origine animale o vegetale, costituite da esteri di acidi grassi con alcoli; in partic., la secrezione giallo-bruna delle ghiandole addominali delle api, con cui esse costruiscono i favi e che è usata per fabbricare candele, come impermeabilizzante, in farmacia, in cosmetica ecc.)a che pro cambiar l’accento tonico della parola cèra che evita di per sé confusione con il s.vo céra or ora illustrato che etimologicamente è dal lat. círa(m), avvicinabile al gr. kírós.
Diversa è l’etimologia della napoletana cèra che è dal gr. kára 'testa, faccia' che à anche generato il fr. ant. chiere.
In chiusura rammento che sarò grato a chi riuscisse convincentemente a spiegarmi il senso di taluni adattamenti operati dall’italiano che si arroga il diritto di mutare aperte vocali etimologiche per sostituirle con le corrispondenti chiuse nel provinciale convincimento che una vocale chiusa (é) sia piú consona alla elegante (?) lingua di Alighieri Dante
della corrispondente aperta (è) come càpita ad es. anche con il s.vo nap. fessaria= sciocchezza, stupidata, donde la toscana fesséria di significato analogo, dove il toscano trasforma senza motivo una a etimologica ( fessaria è un derivato di fessa) per adottare una piú chiusa e ( e l’originaria fessaria vien trasformata in fesseria.
E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amica T.M., interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori ed incuriosito chi dovesse leggere queste paginette.
Satis est.
Raffaele Bracale
L’amica T.M. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche), rimasta colpita dall’espressione “M’à fatto ‘na cèra!”pronunciata con aria dispiaciuta e/o compunta mi à chiesto di spiegarla soffermandomi sui tempi e usi dell’espressione, nonché su significato ed etimo del s.vo f.le cèra. L’accontento súbito dicendole che l’espressione napoletana in esame potrebbe esser resa nella corrispondente dell’italiano “Mi à fatto una céra” id est, con valenza negativa: Mi à lanciato un occhiataccia,mi à guardato come per ammonirmi, per richiamarmi, riprendere, rimproverare; o anche, ma con valenza positiva: Mi à lanciato un occhiata compiaciuta ,mi à guardato come per farmi un complimento,compiacersi della mia avvenenza per elogiare, encomiare, lodare . Ò usato il condizionale perché in realtà nell’italiano il s.vo céra (stupido, inutile,erroneo, scorretto adattamento del napoletano cèra e ne vedremo il perché... ) non è usato da solo in senso compiuto in valenza negativa o positiva – come invece càpita con il napoletano – ma esige sempre d’ essere accompagnato da un aggettivo che ne specifichi il senso positivo o negativo: fare una buona/cattiva céra. Il napoletano pur ammettendo costruzioni del tipo fà ‘na bbona/mala cèra (fare una buona/cattiva céra), non si sente vincolato dagli aggettivi e secondo il contesto o il modo con cui vien pronunciata l’espressione esclamatoria “Mi à fatto una céra!” ellittica di aggettivi fa sí che essa assuma da sola significato positivo o negativo, sebbene il piú delle volte, nel parlato comune, sia usata in senso negativo. Da quanto détto se ne ricava che sulla bocca di chi la pronuncia, indirizzata ad adulti o adolescenti,l’espressione può assumere carattere di encomio o di biasimo secondoché venga riportata con toni e modi garbati o dispiaciuti.In italiano la cosa non è possibile ed occorre sempre accompagnare il s.vo céra da un aggettivo che dia all’espressione il significato voluto: positivo o negativo.Per esemplificare dirò che un adolescente che con aria dispiaciuta dicesse: Mammema m’à fatto ‘na cèra!(Mia madre mi à fatto una céra!) vorrebbe certamente dire che la mamma gli à lanciato un’occhiataccia di rimprovero e/o di ammonimento;in italiano per significar la medesima cosa non sarebbe sufficiente esclamare: Mia madre mi à fatto una céra!, ma occorrerebbe dir: Mia madre mi à fatto una cattiva céra!; al contrario una avvenente signorina che con aria soddisfatta comunicasse a’ terzi: Chillu giuvinotto m’à fatto ‘na cèra! (Quel giovanotto mi à fatto una céra) vorrebbe senza dubbio dire che il giovanotto l’à sogguardata con interesse lodandone silenziosamente grazie ed avvenenza. La cosa in italiano esigerebbe l’espressione Quel giovanotto mi à fatto una bella o buona céra! che chiarisse la portata della guardata.
Giunti qui possiamo ricordare che il s.vo f.le napoletano cèra fa parte di quei tanti altri termini nati napoletani (ammuina/o,camorra, guaglione, scugnizzo,sfogliatella, vongola etc. e loro derivati) e poi pervenuti ed accolti nella lingua nazionale, sebbene nella fattispecie il s.vo originario cèra è stato accolto nell’olimpo dell’italiano con – mi ripeto uno stupido, inutile,erroneo, scorretto cambiamento della vocale tonica che da è è divenuta é producendo un risibile céra di cui non si avvertiva la necessità in quanto questo céra di significato analogo al napoletano cèra ( aspetto, espressione del viso: avere una buona, una cattiva céra, apparire in buona, in cattiva salute; far buona, cattiva céra, fare buona, cattiva accoglienza) risulta essere omofono ed omografo di altro s.vo céra (nome generico di sostanze plastiche, fusibili a basse temperature, di origine animale o vegetale, costituite da esteri di acidi grassi con alcoli; in partic., la secrezione giallo-bruna delle ghiandole addominali delle api, con cui esse costruiscono i favi e che è usata per fabbricare candele, come impermeabilizzante, in farmacia, in cosmetica ecc.)a che pro cambiar l’accento tonico della parola cèra che evita di per sé confusione con il s.vo céra or ora illustrato che etimologicamente è dal lat. círa(m), avvicinabile al gr. kírós.
Diversa è l’etimologia della napoletana cèra che è dal gr. kára 'testa, faccia' che à anche generato il fr. ant. chiere.
In chiusura rammento che sarò grato a chi riuscisse convincentemente a spiegarmi il senso di taluni adattamenti operati dall’italiano che si arroga il diritto di mutare aperte vocali etimologiche per sostituirle con le corrispondenti chiuse nel provinciale convincimento che una vocale chiusa (é) sia piú consona alla elegante (?) lingua di Alighieri Dante
della corrispondente aperta (è) come càpita ad es. anche con il s.vo nap. fessaria= sciocchezza, stupidata, donde la toscana fesséria di significato analogo, dove il toscano trasforma senza motivo una a etimologica ( fessaria è un derivato di fessa) per adottare una piú chiusa e ( e l’originaria fessaria vien trasformata in fesseria.
E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amica T.M., interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori ed incuriosito chi dovesse leggere queste paginette.
Satis est.
Raffaele Bracale
BAGATTELLA, CIANFRUSAGLIA, CHINCAGLIERIA, MINUTAGLIA, CARABATTOLA, CIARPAME, PACCOTTIGLIA & dintorni
BAGATTELLA, CIANFRUSAGLIA, CHINCAGLIERIA, MINUTAGLIA, CARABATTOLA, CIARPAME, PACCOTTIGLIA & dintorni
L’idea di vergare queste paginette nacque all’indomani d’un mio incontro con l’amico P. G. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) al quale contestai il fatto che nella lingua italiana le voci in epigrafe sono spessissimo usate quali sinonimi, essendo ormai invalso l’uso (anche per colpevole neghittosità (per evitar di parlare di ignoranza…) della classe docente) di non far distinzioni e di non insegnare ai discenti che esistono sottili differenze tra i significati dei termini suddetti, differenze che invece esistono e sono sostanziali attesa la graduazione e/o intensità della sensazione che accompagna or l’uno or l’altro termine o il differente campo d’applicazione in cui i termini andrebbero usati; uguale se non maggiori la graduazione e/o intensità del sentimento o sensazione che connotano le voci napoletane che ripetono quelle dell’epigrafe. Cercherò con le pagine che seguono di convincere del mio assunto l’amico P. G. e qualche altro dei miei ventiquattro lettori. Cominciamo con le voci dell’italiano:
bagattella, s.vo f.le1 in primis (ant.) gioco di bussolotti | gioco simile al biliardo.2 poi per traslato cosa da nulla, inezia, bazzecola
3 (mus.) componimento musicale da camera di struttura semplice e di breve durata: le bagattelle di Beethoven
etimologicamente dal lat. mediev. bagadellus 'di Bagdad'dove pare fosse stato ideato il giuoco;
bazzecola, s.vo f.le 1 cosa da nulla, di poco conto; inezia: costa una bazzecola!. 2 poi per traslato, ma impreciso ciarpame, paccottiglia,etc. etimologicamente da raccostarsi al persiano bazzem = cose futili e nessun pregio;
cianfrusaglia, s.vo f.le coll. Cosa minuta e senza valore; nel plur., e anche nel sing. collettivo, insieme disparato di oggetti minuti e di nessun valore: un armadio, un cassetto, un negozio pieno di cianfrusaglie. etimologicamente dall’agglutinazione di cian(cia)voce onomatopeica e frusaglia per fruscolo voce dal lat. tardo frustulu(m) 'pezzetto'
chincaglieria, s.vo f.le
1 spec. pl. piccolo oggetto ornamentale; ninnolo grazioso, ma non prezioso;
voce usata impropriamente quale sinonimo di cianfrusaglia
2 negozio in cui si vendono tali oggetti ornamentali.
etimologicamente dal fr. quincaillerie;
carabattola, s.vo f.le
1 spec. pl. oggetto, masserizia di poco pregio; scarabattola: le povere carabattole avevano enfiato le valigie (GADDA)
2 (fig.,ma impropriamente) bagattella, bazzecola, cianfrusaglia.
etimologicamente dal lat. grabatu(m) 'lettuccio', termine contenuto nel racconto evangelico della guarigione del paralitico (tolle grabatum tuum et ambula 'prendi il tuo lettuccio e cammina', MARCO II, 9)
ciarpame, s.vo m.lecoll.vo
1insieme di roba inservibile o di poco pregio | 2 (fig.ma impropriamente) Cosa minuta e senza valore;
3 (fig. lett.) parole, sentimenti frusti, bolsi, di cattivo gusto: il ciarpame floscio della viltà (D'ANNUNZIO).
etimologicamente, per epitesi espressiva (me) dal fr. echarpe→(e)charpe+me→ciarpame;
minutaglia, s.vo f.le coll.
1 insieme di cose minute
2 cose di scarso valore (pretestuosamente anche fig.): un baule pieno di minutaglie; sprecar tempo in minutaglie
3 assortimento di piccoli pesci per frittura.
etimologicamente dal dal Lat. tardo minutalia, neutro pl. sost. dell'agg. minutalis 'piccolo, meschino', deriv. di minutus 'minuto1';
paccottiglia s.vo f.le vedi ultra sub paccuttiglia.
Come mi pare d’aver chiarito v’è una graduazione tra i varî termini esaminati e diverso il loro campo d’applicazione e perciò andrebbero usati scegliendo opportunamente secondo l’intensità delle sensazioni provatesenza fare di ogni erba un fascio o per dirla piú icasticamente senza mischiare lana con seta o carne con pesce...
Ma queste sono pedanterie o sottigliezze che erano insegnate dai docenti di mezzo secolo fa; quelli di oggi o non le sanno (per non averle colpevolmente apprese) o se ne sono al corrente, se ne impipano ed evitano trasmetterle ai discenti,che d’altra parte non ànno gran voglia o bisogno di apprendere atteso che usano per comunicare non piú l’italiano, ma spesso lingue straniere, linguaggi da iniziati, gerghi, slang o argot e forse il mio dire risulta essere un inutile parlare al vento. Ma, vada come vada, completerò l’argomentare!
Andiamo oltre e passiamo alle voci del napoletano che ordinerò in ordine di graduazione:
cerenfruscolo s.vo m.le quisquilia, cosuccia, cosa da nulla; voce desueta, ma registrata da tutti i calepini d’antan nel significato primo di bagattella, minuzia, sciocchezza e per estensione ed ampliamento semantico, in quello di bizzarría, stranezza bizzosa, stravaganza. Quanto all’etimo si sospetta un incrocio tra i lat. caere(folium) e frustulum = bruscolo di cerfoglio; il cerfoglio in nap. cerefuoglio e cicerefuoglio indica oltre che la pianta delle ombrellifere anche gli sgorbi fatti a caso con penne e/o matite sui fogli di carta ed ancóra i vezzi, le moine, le sdolcinature, tutte cose che semanticamente posson ricondursi alle bizzarríe,alle stranezze bizzose nonché alle minuzie e/o sciocchezze;
frascaría s.vo f.le in primis frottola, menzogna, panzana, balla, palla per traslato (semanticamente spiegato con il fatto che ad una frottola, menzogna, panzana, balla, palla non si deve prestar fede) bagattella, minuzia, sciocchezza,, nonnulla, quisquilia cui non dar alcun peso; etimologicamente la voce è da collegarsi al significato traslato di frasca che quale fronda, foglie agitate dal vento nel verbo derivato frascheggiare prende il significato sia di rumoreggiare, che di raccontar frottole, sciocchezze.A sua volta la voce frasca è da un basso lat. frasca
‘gnotula/’gnotularía, s.vo f.le bagattella, minuzia, nonnulla, quisquilia. cosa di poco conto ed ancóra estensivamente sciocchezza, stupidaggine, azione non chiara ed inutile etc. voce dalla doppia morfologia, ma dall’identico significato; etimologicamente nella prima forma ‘gnotula è dal lat. ignotus→(i)gnot(us)→’gnotula con influenza del lat. inutilis addizionato del suffisso diminutivo neutro plurale, poi inteso femminile ula; nella seconda forma all’iniziale ‘gnotula è stato aggiunto il suffisso tonico aría suffisso corrispondente al lat. –arius/aria, che forma aggettivi e sostantivi, derivati dal latino o formati direttamente in italiano e/o napoletano , che stabiliscono una relazione;
bavattella s.vo f.le 1 cosa da nulla, di nessuna importanza; sciocchezza, bazzecola; 2cosa di poco conto, inezia ma fastidiosa seccante, noiosa, irritante; etimologicamente è voce dal fr. bagatelle; normale nel napoletano il metaplasmo g→v cfr. gallo→vallo, gallina→vallina, volpe→golpe, gonnella→vunnella etc.
míngule s.vo m.le pl. di míngulo 1 in primis fronzolo, sciocchezzuola da donne ; per traslato sciocchezza, bazzecola, moina da innamorati etimologicamente voce dal lat. mica con suffisso diminutivo ulo/ule che continua il lat. olu(m) edepentesi eufonica della consonante nasale dentale (n);
‘ntingúle s.vo m.lepl. di ‘ntingúlo di per sé sugo, salsa, condimento, ma per traslatosinonimo della voce precedente cui semanticamente si accosta per il fatto che fronzoli, bazzecole,moine da donne e/o innamorati sono untuosi, grassi melliflui; etimologicamente è voce deverbale di intingere ( Dal lat. intingere, comp. di in- e tingere 'tingere, bagnare'), ma la morfologia del vocabolo è stata marcata per bisticcio ed allitterazione sulla voce precedente in unione della quale è quasi affatto usato (míngule e ‘ntingule = moine, bazzecole); gnaste/’nchiaste = s.vi m.li pl. di gnasto/’nchiasto = in primis empiastro; poi anche sciocchezza nonnulla, ma fastidiosa seccante, noiosa, irritante, ed anche persona petulante; per il vero si tratta d’un unico sostantivo rappresentato in doppia morfologia di cui la seconda ‘nchiasto fu quella originaria e di partenza, mentre l’altra gnasto ne fu e ne è solo un adattamento del parlato con
1)metatesi accompagnato dal passaggio dalla affricata palatale sorda (c) alla corrispondente sonora (g) (‘nc→’ng→gn),
2)sincope della consonante diacritica (h) resa inutile dalla metatesi,
3)semplificazione del dittongo (ia→a);
etimologicamente la voce ‘nchiasto (poi gnasto) è una derivazione dal lat. emplastru(m) (marcato sul greco émplastrom)con il seguente percorso morfologico:emplastrum→(e)mplast(r)u(m)→mplastu(m)→’nchiasto (con consueto passaggio del gruppo pl a chi + vocale (cfr. cfr. platea→chiazza – plus→cchiú – plangere/planctum→chiagnere/chianto – plenam→chiena etc.) e valse in primis empiastro,fastidio ed a seguire per traslato piccola enfiagione,minuscola lividura ed ancóra sempre per traslato soprattutto come diminutivo ‘nchiastillo/gnastillo riferito ad oggetto valse cosa da nulla, sciocchezzuola, mentre riferito a persona di genere maschile bassa di statura valse omuncolo,omino, nanerottolo; declinato al femminile ‘nchiastella/gnastella valse donna petulante e fastidiosa; infine sempre nella forma m.le ‘nchiastillo/gnastillo identificò i nei posticci che le donne e/o i bellimbusti del ‘700 si dipingevano o applicavano sul viso.
‘nchiastaría s.vo f.le sinonimo della voce precedente, ma letteralmente l’essenza della sciocchezzuola dell’ inezia, l’essere fastidioso, noioso, petulante etimologicamente dalla radice ‘nchiast(o) dal lat. emplastru(m) addizionata del suffisso tonico di pertinenza dei nomi astratti aría;
mbroglie s.vo f.le etimologicamente dal
perecoglie s.vo f.le etimologicamente dal
paccuttiglia s.vo f.le
1 un tempo, piccola quantità di merce che ogni membro dell'equipaggio di una nave era autorizzato a trasportare ed eventualmente a commerciare in proprio: diritto, contratto di paccottiglia
2 (estens.) insieme di cose di poco valore e di cattivo gusto; merce scadente, fondo di magazzino.
etimologicamente dal fr. pacotille, che è dallo sp. pacotilla, a sua volta dall'ol. pak; trattasi in ogni caso di voce d’origine napoletana trasmigrata poi nell’italiano come paccottiglia nei medesimi significati.
vrennaría s.vo f.le sciocchezza, bagatella, cosa insignificante, quasi residuale di fatti piú serî tal quale la crusca (vrenna) che residua dopo d’aver abburattato la farina. etimologicamente è voce costruita sul s.vo vrenna (crusca) con il suffisso tonico aría suffisso corrispondente al lat. –arius/aria, che forma aggettivi e sostantivi, derivati dal latino o formati direttamente in italiano e/o napoletano , che stabiliscono una relazione ; vrenna è da un lat. med. brinna, mentre la voce italiana crusca è dal germanico *kruska.
scartapella s.vo f.le in primis carabattola, masserizia di nussun conto, vecchia, sciupata e mal messa tale da poter esser tranquillamente messa da parte; per estensione piccolezza, bazzecola, bagattella,cosa inutile di cui liberarsi
etimologicamente dallo spagnolo cartapel = carta, scritto inutile
• zavanella s.vo f.le in primis nastrino, fiocco, legaccio logoro, frusto, sdrucito, vecchio tale da non poter esser piú utilizzato; per estensione inezia, piccolezza, bazzecola, bagattella,cosa di poco o nessun pregio, inutile di cui non curarsi. etimologicamente voce collaterale nel parlato di zagarella/zaganella dall’arabo zahar con tipico adattamento morfologico g→v.
E con questo penso proprio d’avere esaurito l’argomento e d’avere convinto e forse contentato l’amico P.G., ed interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori per cui faccio punto fermo con il consueto satis est.
Raffaele Bracale
L’idea di vergare queste paginette nacque all’indomani d’un mio incontro con l’amico P. G. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) al quale contestai il fatto che nella lingua italiana le voci in epigrafe sono spessissimo usate quali sinonimi, essendo ormai invalso l’uso (anche per colpevole neghittosità (per evitar di parlare di ignoranza…) della classe docente) di non far distinzioni e di non insegnare ai discenti che esistono sottili differenze tra i significati dei termini suddetti, differenze che invece esistono e sono sostanziali attesa la graduazione e/o intensità della sensazione che accompagna or l’uno or l’altro termine o il differente campo d’applicazione in cui i termini andrebbero usati; uguale se non maggiori la graduazione e/o intensità del sentimento o sensazione che connotano le voci napoletane che ripetono quelle dell’epigrafe. Cercherò con le pagine che seguono di convincere del mio assunto l’amico P. G. e qualche altro dei miei ventiquattro lettori. Cominciamo con le voci dell’italiano:
bagattella, s.vo f.le1 in primis (ant.) gioco di bussolotti | gioco simile al biliardo.2 poi per traslato cosa da nulla, inezia, bazzecola
3 (mus.) componimento musicale da camera di struttura semplice e di breve durata: le bagattelle di Beethoven
etimologicamente dal lat. mediev. bagadellus 'di Bagdad'dove pare fosse stato ideato il giuoco;
bazzecola, s.vo f.le 1 cosa da nulla, di poco conto; inezia: costa una bazzecola!. 2 poi per traslato, ma impreciso ciarpame, paccottiglia,etc. etimologicamente da raccostarsi al persiano bazzem = cose futili e nessun pregio;
cianfrusaglia, s.vo f.le coll. Cosa minuta e senza valore; nel plur., e anche nel sing. collettivo, insieme disparato di oggetti minuti e di nessun valore: un armadio, un cassetto, un negozio pieno di cianfrusaglie. etimologicamente dall’agglutinazione di cian(cia)voce onomatopeica e frusaglia per fruscolo voce dal lat. tardo frustulu(m) 'pezzetto'
chincaglieria, s.vo f.le
1 spec. pl. piccolo oggetto ornamentale; ninnolo grazioso, ma non prezioso;
voce usata impropriamente quale sinonimo di cianfrusaglia
2 negozio in cui si vendono tali oggetti ornamentali.
etimologicamente dal fr. quincaillerie;
carabattola, s.vo f.le
1 spec. pl. oggetto, masserizia di poco pregio; scarabattola: le povere carabattole avevano enfiato le valigie (GADDA)
2 (fig.,ma impropriamente) bagattella, bazzecola, cianfrusaglia.
etimologicamente dal lat. grabatu(m) 'lettuccio', termine contenuto nel racconto evangelico della guarigione del paralitico (tolle grabatum tuum et ambula 'prendi il tuo lettuccio e cammina', MARCO II, 9)
ciarpame, s.vo m.lecoll.vo
1insieme di roba inservibile o di poco pregio | 2 (fig.ma impropriamente) Cosa minuta e senza valore;
3 (fig. lett.) parole, sentimenti frusti, bolsi, di cattivo gusto: il ciarpame floscio della viltà (D'ANNUNZIO).
etimologicamente, per epitesi espressiva (me) dal fr. echarpe→(e)charpe+me→ciarpame;
minutaglia, s.vo f.le coll.
1 insieme di cose minute
2 cose di scarso valore (pretestuosamente anche fig.): un baule pieno di minutaglie; sprecar tempo in minutaglie
3 assortimento di piccoli pesci per frittura.
etimologicamente dal dal Lat. tardo minutalia, neutro pl. sost. dell'agg. minutalis 'piccolo, meschino', deriv. di minutus 'minuto1';
paccottiglia s.vo f.le vedi ultra sub paccuttiglia.
Come mi pare d’aver chiarito v’è una graduazione tra i varî termini esaminati e diverso il loro campo d’applicazione e perciò andrebbero usati scegliendo opportunamente secondo l’intensità delle sensazioni provatesenza fare di ogni erba un fascio o per dirla piú icasticamente senza mischiare lana con seta o carne con pesce...
Ma queste sono pedanterie o sottigliezze che erano insegnate dai docenti di mezzo secolo fa; quelli di oggi o non le sanno (per non averle colpevolmente apprese) o se ne sono al corrente, se ne impipano ed evitano trasmetterle ai discenti,che d’altra parte non ànno gran voglia o bisogno di apprendere atteso che usano per comunicare non piú l’italiano, ma spesso lingue straniere, linguaggi da iniziati, gerghi, slang o argot e forse il mio dire risulta essere un inutile parlare al vento. Ma, vada come vada, completerò l’argomentare!
Andiamo oltre e passiamo alle voci del napoletano che ordinerò in ordine di graduazione:
cerenfruscolo s.vo m.le quisquilia, cosuccia, cosa da nulla; voce desueta, ma registrata da tutti i calepini d’antan nel significato primo di bagattella, minuzia, sciocchezza e per estensione ed ampliamento semantico, in quello di bizzarría, stranezza bizzosa, stravaganza. Quanto all’etimo si sospetta un incrocio tra i lat. caere(folium) e frustulum = bruscolo di cerfoglio; il cerfoglio in nap. cerefuoglio e cicerefuoglio indica oltre che la pianta delle ombrellifere anche gli sgorbi fatti a caso con penne e/o matite sui fogli di carta ed ancóra i vezzi, le moine, le sdolcinature, tutte cose che semanticamente posson ricondursi alle bizzarríe,alle stranezze bizzose nonché alle minuzie e/o sciocchezze;
frascaría s.vo f.le in primis frottola, menzogna, panzana, balla, palla per traslato (semanticamente spiegato con il fatto che ad una frottola, menzogna, panzana, balla, palla non si deve prestar fede) bagattella, minuzia, sciocchezza,, nonnulla, quisquilia cui non dar alcun peso; etimologicamente la voce è da collegarsi al significato traslato di frasca che quale fronda, foglie agitate dal vento nel verbo derivato frascheggiare prende il significato sia di rumoreggiare, che di raccontar frottole, sciocchezze.A sua volta la voce frasca è da un basso lat. frasca
‘gnotula/’gnotularía, s.vo f.le bagattella, minuzia, nonnulla, quisquilia. cosa di poco conto ed ancóra estensivamente sciocchezza, stupidaggine, azione non chiara ed inutile etc. voce dalla doppia morfologia, ma dall’identico significato; etimologicamente nella prima forma ‘gnotula è dal lat. ignotus→(i)gnot(us)→’gnotula con influenza del lat. inutilis addizionato del suffisso diminutivo neutro plurale, poi inteso femminile ula; nella seconda forma all’iniziale ‘gnotula è stato aggiunto il suffisso tonico aría suffisso corrispondente al lat. –arius/aria, che forma aggettivi e sostantivi, derivati dal latino o formati direttamente in italiano e/o napoletano , che stabiliscono una relazione;
bavattella s.vo f.le 1 cosa da nulla, di nessuna importanza; sciocchezza, bazzecola; 2cosa di poco conto, inezia ma fastidiosa seccante, noiosa, irritante; etimologicamente è voce dal fr. bagatelle; normale nel napoletano il metaplasmo g→v cfr. gallo→vallo, gallina→vallina, volpe→golpe, gonnella→vunnella etc.
míngule s.vo m.le pl. di míngulo 1 in primis fronzolo, sciocchezzuola da donne ; per traslato sciocchezza, bazzecola, moina da innamorati etimologicamente voce dal lat. mica con suffisso diminutivo ulo/ule che continua il lat. olu(m) edepentesi eufonica della consonante nasale dentale (n);
‘ntingúle s.vo m.lepl. di ‘ntingúlo di per sé sugo, salsa, condimento, ma per traslatosinonimo della voce precedente cui semanticamente si accosta per il fatto che fronzoli, bazzecole,moine da donne e/o innamorati sono untuosi, grassi melliflui; etimologicamente è voce deverbale di intingere ( Dal lat. intingere, comp. di in- e tingere 'tingere, bagnare'), ma la morfologia del vocabolo è stata marcata per bisticcio ed allitterazione sulla voce precedente in unione della quale è quasi affatto usato (míngule e ‘ntingule = moine, bazzecole); gnaste/’nchiaste = s.vi m.li pl. di gnasto/’nchiasto = in primis empiastro; poi anche sciocchezza nonnulla, ma fastidiosa seccante, noiosa, irritante, ed anche persona petulante; per il vero si tratta d’un unico sostantivo rappresentato in doppia morfologia di cui la seconda ‘nchiasto fu quella originaria e di partenza, mentre l’altra gnasto ne fu e ne è solo un adattamento del parlato con
1)metatesi accompagnato dal passaggio dalla affricata palatale sorda (c) alla corrispondente sonora (g) (‘nc→’ng→gn),
2)sincope della consonante diacritica (h) resa inutile dalla metatesi,
3)semplificazione del dittongo (ia→a);
etimologicamente la voce ‘nchiasto (poi gnasto) è una derivazione dal lat. emplastru(m) (marcato sul greco émplastrom)con il seguente percorso morfologico:emplastrum→(e)mplast(r)u(m)→mplastu(m)→’nchiasto (con consueto passaggio del gruppo pl a chi + vocale (cfr. cfr. platea→chiazza – plus→cchiú – plangere/planctum→chiagnere/chianto – plenam→chiena etc.) e valse in primis empiastro,fastidio ed a seguire per traslato piccola enfiagione,minuscola lividura ed ancóra sempre per traslato soprattutto come diminutivo ‘nchiastillo/gnastillo riferito ad oggetto valse cosa da nulla, sciocchezzuola, mentre riferito a persona di genere maschile bassa di statura valse omuncolo,omino, nanerottolo; declinato al femminile ‘nchiastella/gnastella valse donna petulante e fastidiosa; infine sempre nella forma m.le ‘nchiastillo/gnastillo identificò i nei posticci che le donne e/o i bellimbusti del ‘700 si dipingevano o applicavano sul viso.
‘nchiastaría s.vo f.le sinonimo della voce precedente, ma letteralmente l’essenza della sciocchezzuola dell’ inezia, l’essere fastidioso, noioso, petulante etimologicamente dalla radice ‘nchiast(o) dal lat. emplastru(m) addizionata del suffisso tonico di pertinenza dei nomi astratti aría;
mbroglie s.vo f.le etimologicamente dal
perecoglie s.vo f.le etimologicamente dal
paccuttiglia s.vo f.le
1 un tempo, piccola quantità di merce che ogni membro dell'equipaggio di una nave era autorizzato a trasportare ed eventualmente a commerciare in proprio: diritto, contratto di paccottiglia
2 (estens.) insieme di cose di poco valore e di cattivo gusto; merce scadente, fondo di magazzino.
etimologicamente dal fr. pacotille, che è dallo sp. pacotilla, a sua volta dall'ol. pak; trattasi in ogni caso di voce d’origine napoletana trasmigrata poi nell’italiano come paccottiglia nei medesimi significati.
vrennaría s.vo f.le sciocchezza, bagatella, cosa insignificante, quasi residuale di fatti piú serî tal quale la crusca (vrenna) che residua dopo d’aver abburattato la farina. etimologicamente è voce costruita sul s.vo vrenna (crusca) con il suffisso tonico aría suffisso corrispondente al lat. –arius/aria, che forma aggettivi e sostantivi, derivati dal latino o formati direttamente in italiano e/o napoletano , che stabiliscono una relazione ; vrenna è da un lat. med. brinna, mentre la voce italiana crusca è dal germanico *kruska.
scartapella s.vo f.le in primis carabattola, masserizia di nussun conto, vecchia, sciupata e mal messa tale da poter esser tranquillamente messa da parte; per estensione piccolezza, bazzecola, bagattella,cosa inutile di cui liberarsi
etimologicamente dallo spagnolo cartapel = carta, scritto inutile
• zavanella s.vo f.le in primis nastrino, fiocco, legaccio logoro, frusto, sdrucito, vecchio tale da non poter esser piú utilizzato; per estensione inezia, piccolezza, bazzecola, bagattella,cosa di poco o nessun pregio, inutile di cui non curarsi. etimologicamente voce collaterale nel parlato di zagarella/zaganella dall’arabo zahar con tipico adattamento morfologico g→v.
E con questo penso proprio d’avere esaurito l’argomento e d’avere convinto e forse contentato l’amico P.G., ed interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori per cui faccio punto fermo con il consueto satis est.
Raffaele Bracale
CAPUZZIELLO
CAPUZZIELLO
Anche questa volta raccolgo una richiesta del mio caro amico N.C.(i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) che mi à sollecitato a parlare della voce in epigrafe udita dalla bocca di alcuni ragazzi ed indirizzata ad uno di essi che teneva un atteggiamento prepotente, arrogante,sgarbato, tracotante protervo, insolente, impudente, sfrontato; l’amico m’à chiesto di analizzarla compiutamente chiarendone significato e portata, atteso che l’amico mi à riferito d’ averla invano cercata su alcuni calepini del napoletano che ànno il torto d’esser compilati attingendo soltanto negli scritti dei classici e non anche nel vivo parlato.
Comincio súbito con il confermare che questa significativa voce napoletana è difficilmente riscontrabile sui
dizionari in uso, poi che questi in genere sono colpevolmente compilati attingendo non anche al parlar popolare, ma soltanto a gli scritti soprattutto classici e, nella fattispecie nussun classico à mai usato il termine capuzziello in alcuna delle sue accezioni; mi arrogo perciò (contendando l’amico N.C. ed interessando, spero!, qualcuno dei miei ventiquattro lettori) il merito di parlarne io per il primo dicendo che la voce a margine significa quale s.vo m.le 1piccola gugliata es: 'nu capuzziello 'e cuttone, ‘nu capuzziello ‘e spavo(una piccola gugliata di filo, di spago); in tale accezione etimologicamente è voce formata addizionando al termine capo/a il doppio suffisso diminutivo uzzo ed iello: uzzo è un collaterale di uccio suffisso che continua il lat. -uceu(m) e serve a formare diminutivi di sostantivi e aggettivi, con valore sia dispregiativo sia vezzeggiativo; mentre iello←ĕllo è un suffisso alterativo di sostantivi e aggettivi, con valore diminutivo e spesso vezzeggiativo (mariunciello, sciummetiello) il termine capo/a è usato in napoletano sia per indicare la parte del corpo umano unita al torace dal collo e in cui ànno sede gli organi che governano le facoltà intellettive e la vita sensitiva ed in senso piú ristretto, la zona del cranio rivestita di capelli, sia per indicare chi esercita un comando o dirige imprese, attività sia ancóra (estens.) chi à un ruolo preminente o esercita una funzione direttiva, godendo di particolare prestigio e autorevolezza, ma è pue usato per indicare una gugliata di cotone,di spago, di filo, di refe o anche un rocchio di salsiccia (‘nu capo ‘e cuttone, ‘nu capo ‘e saciccia o ‘na capa ‘e saciccia) e viene usato in tale accezione perché allorché una gugliata di cotone,di spago, di filo venga staccata dal suo gomitolo o rocchetto di pertinenza, ecco che la successiva gugliata si troverà all’inizio, al capo del gomitolo o rocchetto; ugual cosa capita con la salsiccia che è un trito di carne di suina aromatizzato ed insaccato in un budello lungo tra i 40 ed i 50 cm.; tale lunga salsiccia viene poi divisa in porzioni (rocchi) mediante successive legature; poiché quando dalla salsiccia cosí suddivisa ne viene staccato un pezzo (rocchio) il successivo si troverà comunque sempre in testa, in capo alla salsiccia residua, ecco che in napoletano il rocchio italiano si dice capo o capa ‘e saciccia;
la voce in esame significa altresí come nel caso che ci occupa quale agg.vo o sost.vo persona arrogante e prepotente dall'aria e modi
guappeschi ma in tale accezione è voce derivata dal s.vo capoccio/a (s.vo m.le 1 capo di una famiglia di contadini;
2 sorvegliante di una squadra di lavoranti, di pastori o di vaccari;3 ( furbescamente) chi fa da capo, da guida anche in azioni delittuose o criminase;4 (scherzosamente) il capo di casa; voce derivata da capo); la morfologia seguíta per giungere a capuzziello, partendo da capoccio è stata: capoccio→capozzo→capuzzo addizionato del solito suffisso diminutivo masch.: iello.
E cosí penso d’avere esaurito l’argomento, contentato l’amico N.C. ed interessato qualcuno dei miei soliti ventiquattro lettori. Faccio perciò punto fermo; satis est.
Raffaele Bracale
Anche questa volta raccolgo una richiesta del mio caro amico N.C.(i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) che mi à sollecitato a parlare della voce in epigrafe udita dalla bocca di alcuni ragazzi ed indirizzata ad uno di essi che teneva un atteggiamento prepotente, arrogante,sgarbato, tracotante protervo, insolente, impudente, sfrontato; l’amico m’à chiesto di analizzarla compiutamente chiarendone significato e portata, atteso che l’amico mi à riferito d’ averla invano cercata su alcuni calepini del napoletano che ànno il torto d’esser compilati attingendo soltanto negli scritti dei classici e non anche nel vivo parlato.
Comincio súbito con il confermare che questa significativa voce napoletana è difficilmente riscontrabile sui
dizionari in uso, poi che questi in genere sono colpevolmente compilati attingendo non anche al parlar popolare, ma soltanto a gli scritti soprattutto classici e, nella fattispecie nussun classico à mai usato il termine capuzziello in alcuna delle sue accezioni; mi arrogo perciò (contendando l’amico N.C. ed interessando, spero!, qualcuno dei miei ventiquattro lettori) il merito di parlarne io per il primo dicendo che la voce a margine significa quale s.vo m.le 1piccola gugliata es: 'nu capuzziello 'e cuttone, ‘nu capuzziello ‘e spavo(una piccola gugliata di filo, di spago); in tale accezione etimologicamente è voce formata addizionando al termine capo/a il doppio suffisso diminutivo uzzo ed iello: uzzo è un collaterale di uccio suffisso che continua il lat. -uceu(m) e serve a formare diminutivi di sostantivi e aggettivi, con valore sia dispregiativo sia vezzeggiativo; mentre iello←ĕllo è un suffisso alterativo di sostantivi e aggettivi, con valore diminutivo e spesso vezzeggiativo (mariunciello, sciummetiello) il termine capo/a è usato in napoletano sia per indicare la parte del corpo umano unita al torace dal collo e in cui ànno sede gli organi che governano le facoltà intellettive e la vita sensitiva ed in senso piú ristretto, la zona del cranio rivestita di capelli, sia per indicare chi esercita un comando o dirige imprese, attività sia ancóra (estens.) chi à un ruolo preminente o esercita una funzione direttiva, godendo di particolare prestigio e autorevolezza, ma è pue usato per indicare una gugliata di cotone,di spago, di filo, di refe o anche un rocchio di salsiccia (‘nu capo ‘e cuttone, ‘nu capo ‘e saciccia o ‘na capa ‘e saciccia) e viene usato in tale accezione perché allorché una gugliata di cotone,di spago, di filo venga staccata dal suo gomitolo o rocchetto di pertinenza, ecco che la successiva gugliata si troverà all’inizio, al capo del gomitolo o rocchetto; ugual cosa capita con la salsiccia che è un trito di carne di suina aromatizzato ed insaccato in un budello lungo tra i 40 ed i 50 cm.; tale lunga salsiccia viene poi divisa in porzioni (rocchi) mediante successive legature; poiché quando dalla salsiccia cosí suddivisa ne viene staccato un pezzo (rocchio) il successivo si troverà comunque sempre in testa, in capo alla salsiccia residua, ecco che in napoletano il rocchio italiano si dice capo o capa ‘e saciccia;
la voce in esame significa altresí come nel caso che ci occupa quale agg.vo o sost.vo persona arrogante e prepotente dall'aria e modi
guappeschi ma in tale accezione è voce derivata dal s.vo capoccio/a (s.vo m.le 1 capo di una famiglia di contadini;
2 sorvegliante di una squadra di lavoranti, di pastori o di vaccari;3 ( furbescamente) chi fa da capo, da guida anche in azioni delittuose o criminase;4 (scherzosamente) il capo di casa; voce derivata da capo); la morfologia seguíta per giungere a capuzziello, partendo da capoccio è stata: capoccio→capozzo→capuzzo addizionato del solito suffisso diminutivo masch.: iello.
E cosí penso d’avere esaurito l’argomento, contentato l’amico N.C. ed interessato qualcuno dei miei soliti ventiquattro lettori. Faccio perciò punto fermo; satis est.
Raffaele Bracale
venerdì 28 gennaio 2011
CIUCCIO - ASINO
CIUCCIO - ASINO
Per la voce napoletana a margine: ciuccio = asino s. m. quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio e un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante;ancóra piú strano e non comprensibile il collegamento semantico che se fa a stupido, sciocco e credulone; varie sono le proposte circa l’origine della parola :chi dal lat. cicur= mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus da collegare al greco kíllos= asino; chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi che non mi convincono molto; e segnatamente non mi convince quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a malgrado che sia ipotesi che appaia semanticamente perseguibile. Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate, l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco; d’altro canto non amo qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario. Men che meno poi mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo!
In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare.
E mi fermo qui, augurandomi di non aver detto eccessive asinerie!
Raffaele Bracale
Per la voce napoletana a margine: ciuccio = asino s. m. quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio e un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante;ancóra piú strano e non comprensibile il collegamento semantico che se fa a stupido, sciocco e credulone; varie sono le proposte circa l’origine della parola :chi dal lat. cicur= mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus da collegare al greco kíllos= asino; chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi che non mi convincono molto; e segnatamente non mi convince quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a malgrado che sia ipotesi che appaia semanticamente perseguibile. Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate, l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco; d’altro canto non amo qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario. Men che meno poi mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo!
In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare.
E mi fermo qui, augurandomi di non aver detto eccessive asinerie!
Raffaele Bracale
SCERUPPO, SCERUPPÀ E DINTORNI
SCERUPPO, SCERUPPÀ E DINTORNI
Cominciamo col dire súbito che nella parlata napoletana la voce sceruppo (con derivazione dal latino medievale sirupu(m), se non dall’arabo sharûb= bevanda dolce) normalmente indica le voci italiane sciroppo, sciloppo o siroppo per significare una soluzione molto concentrata di zucchero in acqua o in succhi di frutta che viene impiegata nella fabbricazione di bibite o in farmaceutica, per preparazioni medicinali, allo scopo di rendere piú gradevole il sapore del principio attivo:es.: sciroppo per la tosse etc.
Donde si evince che la voce sceruppo di suo indica una cosa gradevole al palato, un giulebbe: qualcosa di molto zuccheroso ed aromatico, insaporito con succo di frutta o infuso di fiori, ed estensivamente un cibo o piú spesso una bevanda molto dolce; allo stesso modo il verbo denominale sceruppà come significato primario indica l’azione di conservare frutta ed altro in uno liquido molto zuccheroso ed aromatico, variamente profumato ed insaporito.
Le cose cambiano, e di molto, quando dal significato primario si passa a quello ironico se non addirittura antifrastico, allorché cioè la voce sceruppo lungi dal significare bevanda zuccherosa ed aromatica vale: cosa o persona fastidiosa, nociva o anche situazione dannosa o pericolosa soprattutto nelle espressioni esclamative del tipo vi’ che sceruppo! oppure siente, sie’ che sceruppo! o anche siente, sie’ che sceruppo ‘e ceveze! che letteralmente valgono guarda che sciroppo! oppure senti che sciroppo! o anche senti che sciroppo di gelse!
È ovvio che i verbi guardare e sentire non vanno intesi nel loro senso reale, ma in quelli estensivi di porre attenzione, considerare etc. volendo dire di una persona o situazione fastidiosa quando non nociva o dannosa: osserva, oppure considera quanto ciò o costui/costei è fastidioso/a, nocivo/a, dannoso/a; e per significare tutto ciò, in napoletano basta usare l’esclamazione: siente che sceruppo! esclamazione che poi si colora di maggior grevezza e/o fastidio se si aggiunge uno specificativo: siente che sceruppo ‘e ceveze!, atteso che lo sciroppo di gelse, benché odorosissimo è grandemente appiccicoso, risultando molestamente importuno, di cui sarebbe difficile liberarsi e/o nettarsi se qualcuno se ne imbrattasse mani o abiti…; si usa però l’esclamazione siente che sceruppo! nel senso ironico suddetto non necessariamente in presenza di grave danno o pericolo, ma anche soltanto per bollare il fastidioso comportamento di talune persone,uomini o donne, ma piú spesso donne che usano berciare, blaterare, litigare alzando i toni etc.
Ciò premesso rammenterò, come ò già accennato, che il verbo denominale di sceruppo, e cioè sceruppare/sceruppà à come primo significato quello di conservare frutta o altro nello sciroppo o pure indulcare o migliorare con zucchero e/o aromi varie preparazioni, mentre nel significato figurato ed estensivo (soprattutto nella forma riflessiva scerupparse) vale sopportare, sorbirsi a forza qualcosa e/o qualcuno , sorbirseli pazientemente: scerupparse a uno (sopportare la vicinanza o la presenza di uno(non gradito); scerupparse ‘nu trascurzo (sorbirsi con pazienza un discorso (noioso) ). Rammenterò che tale accezione figurata ed estesa del napoletano scerupparse è pervenuta anche nella lingua nazionale dove il verbo sciroppare corrispondente del napoletano sceruppà è usato anche figuratamente nel medesimo senso di sopportare, sorbirsi a forza qualcosa e/o qualcuno del napoletano riflessivo scerupparse.
Ed ora, quasi al termine mi piace illustrare un’ icastica frase in uso a Napoli forgiata col verbo sceruppà; essa recita sceruppà ‘nu strunzo e vale ad litteram: sciroppare uno stronzo, ma va da sé che non la si può intendere in senso letterare atteso che, per quanto sodo possa essere lo stronzo in esame, nessuno mai potrebbe o riuscirebbe a vestirlo di congrua glassa zuccherina, e che perciò l’espressione sceruppà ‘nu strunzo debba esser letta nel senso figurato di:elevare ad immeritati onori un uomo dappoco e ciò sia che lo si faccia di propria sponte, sia che avvenga su sollecitazione del diretto interessato e la cosa vale soprattutto nei confronti di chi supponente e saccente, ciuccio e presuntuoso, pretende arrogantemente di porsi o d’esser posto una spanna al di sopra degli altri facendo le viste d’essere in possesso di scienza e conoscenza conclamate ed invece in realtà è persona che poggia sul niente la sua pretesa e spesso sbandierata falsa valentía in virtú della quale s’aspetta ed addirittura esige d’essere elavato ad alti onori in campo socio-economico cosa che gli consentirebbe di muoversi con iattanza, boria e presunzione, guardando l’umanità dall’alto in basso…; tale soggetto con icastica espressività, coniugando al part. passato l’infinito sceruppà, è detto strunzo sceruppato= stronzo sciroppato, quell’escremento cioè che quand’anche (se fosse possibile, e non lo è) fosse ricoperto di uno congruo strato di giulebbe, sotto la glassa zuccherina, sarebbe pur sempre quel pezzo di fetida merda che è.
Altrove tale soggetto è detto (restando pur sempre in àmbito scatologico): pireto annasprato=peto coperto di glassa zuccherina. Ed anche in tal caso, come per il precedente stronzo sciroppato, ci troviamo difronte ad un iperbolico modo di dire con il quale si vuol significare che il soggetto di cui si parla, è veramente un’infima cosa e quand’anche si riuscisse a coprirlo di glassa zuccherina (cosa che risulta tuttavia impossibile da farsi) mostrerebbe sempre, sotto la copertura zuccherina, la sua intima natura di evanescente, ma rumoroso gas intestinale!
In chiusura riepiloghiamo l’etimo di varie voci incontrate:
sceruppo =sciroppo dal lat. medievale sirupu(m) che fu dall’arabo sharûb= bevanda dolce;
sceruppà = sciroppare denominale del precedente;
ceveze =plurale di ceveza/ceuza = gelsa, il frutto del gelso: albero con piccoli frutti commestibili, dolci, di colore nero o bianco (more) e foglie cuoriformi, di cui si nutrono i bachi da seta (fam. Moracee); l’etimo delle napoletane cèveza/cèuza è dall’ acc.vo latino (arborem) celsa(m)=albero alto; da cèlsa→*celza con successivo passaggio di lz ad uz per cui si ottenne cèuza e successiva epentesi eufonica del suono v tra la è tonica e la u evanescente fino ad ottenere cèvuza o cèveza. Ricorderò che ad oggi a Napoli città la voce usata da tutti (borghesi e/o popolani) è cèveza, mentre nel contado provinciale è piú facile trovare ancòra l’antica voce cèuza ;
vi’ = vedi; forma apocopata di vide voce verbale che indica o la 2° pers. sing. dell’indic. pres. dall’infinito vedé=vedere o può indicare, come nel caso che ci occupa, la 2° pers. sing. dell’imperativo dall’infinito vedé=vedere con etimo dal basso lat. *videre per il classico vidíre;
siente /sie’=senti;sie’ non è che la forma apocopata di siente=senti voce verbale che indica o la 2° pers. sing. dell’indic. pres. dall’infinito sentí=sentire, udire o può indicare, come nel caso che ci occupa, la 2° pers. sing. dell’imperativo dall’infinito sentí=sentire, udire e qui porre attenzione con etimo dal basso latino sentire;
ciuccio = asino, ciuco soprattutto nel significato di ignorante; non di facile lettura l’etimologia di ciuccio; c’è chi opta per il lat. cicur= mansuefatto domestico, chi per il lat. cillus da collegare al greco kíllos asino chi per lo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi e segnatamente quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, ipotesi che per l’asperità del cammino morfologico, se non semantico non mi convincono molto;non mi convince altresí, in quanto m’appare forzata, l’idea che il napoletano ciuccio sia da collegare all’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante ed in conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice dell’arabo sciach-arà= ragliare che è il verso proprio dell’asino;rammenterò che dalla medesima radice nasce sceccu che è il nome in siciliano dell’asino.
strunzo = stronzo, escremento solido di forma cilindrica
e figuratamente: persona stupida, odiosa, saccente, supponente
l’etimo della voce napoletana è dritto per dritto dal tedesco strunz= sterco;
píreto =peto, emissione rumorosa di gas intestinale con etimo dal lat. peditu(m), deriv. di pedere 'fare peti'; da notare nella voce napoletana la consueta chiusura della sillaba tonica d’avvio donde pe passa a pi oltre la tipica alternanza osco mediterranea di d/r mentre la vocale postonica i s’apre diventando e ma di timbro evanescvente;
annasprato=coperto di naspro voce verbale part. pass. masch. sing. aggettivato dell’infinito *annasprà=coprire di naspro;
la voce naspro ed il conseguente denominale *annasprà (a quel che ò potuto indagare) sono espressioni in origine del linguaggio regionale della Lucania, poi trasferitosi in altre regioni meridionali (Campania, Calabria, Puglia) ed è difficile trovarne un esatto corrispettivo nella lingua nazionale; si può tentare di tradurre naspro con il termine glassa atteso che nel linguaggio dei dolcieri meridionali la voce naspro indicò ed ancóra indica una spessa glassa zuccherina variamente aromatizzata e talora colorata usata per ricoprire in origine dei biscotti dall’impasto abbastanza semplice o povero; in sèguito si usò il naspro colorato per ricoprire delle torte dolci e segnatamente quelle nuziali con un naspro rigorosamente bianco; a Napoli non vi fu festa nuziale che non si concludesse con un sacramentale gattò mariaggio coperto di spessa glassa zuccherina bianca: la voce gattò mariaggio nel significato di torta del matrimonio fu dal francese gâteau (de) mariage.
Per ciò che riguarda l’etimo della voce naspro, non trattandosi di voce originaria partenopea, né della lingua nazionale (dove risulta sconosciuta), ma – come ò detto – del linguaggio lucano mi limito a riferire l’ipotesi della coppia Cortelazzo/Marcato che pensarono ad un greco àspros=bianco, ipotesi che poco mi convince in quanto morfologicamente non chiarisce l’origine della n d’avvio che certamente non à origini eufoniche; penso di poter a proporre una mia ipotesi peraltro non supportata da nessun riscontro; l’ipotesi che formulo è che trattandosi di una preparazione molto dolce per naspro si potrebbe pensare ad un latino (no)nasperum→nasperum→naspro, piuttosto che ad un (n?)àspros. Spero di non essermi macchiato di lesa maestà! Del resto in tale non convincimento, sono in ottima compagnia: anche l'amico prof. Carlo Iandolo non si disse soddisfatto dell'ipotesi Cortelazzo/Marcato e trovò (ma spero non lo abbia fatto per mera amicizia...) piú perseguibile la mia idea.
E qui faccio punto.
Raffaele Bracale
Cominciamo col dire súbito che nella parlata napoletana la voce sceruppo (con derivazione dal latino medievale sirupu(m), se non dall’arabo sharûb= bevanda dolce) normalmente indica le voci italiane sciroppo, sciloppo o siroppo per significare una soluzione molto concentrata di zucchero in acqua o in succhi di frutta che viene impiegata nella fabbricazione di bibite o in farmaceutica, per preparazioni medicinali, allo scopo di rendere piú gradevole il sapore del principio attivo:es.: sciroppo per la tosse etc.
Donde si evince che la voce sceruppo di suo indica una cosa gradevole al palato, un giulebbe: qualcosa di molto zuccheroso ed aromatico, insaporito con succo di frutta o infuso di fiori, ed estensivamente un cibo o piú spesso una bevanda molto dolce; allo stesso modo il verbo denominale sceruppà come significato primario indica l’azione di conservare frutta ed altro in uno liquido molto zuccheroso ed aromatico, variamente profumato ed insaporito.
Le cose cambiano, e di molto, quando dal significato primario si passa a quello ironico se non addirittura antifrastico, allorché cioè la voce sceruppo lungi dal significare bevanda zuccherosa ed aromatica vale: cosa o persona fastidiosa, nociva o anche situazione dannosa o pericolosa soprattutto nelle espressioni esclamative del tipo vi’ che sceruppo! oppure siente, sie’ che sceruppo! o anche siente, sie’ che sceruppo ‘e ceveze! che letteralmente valgono guarda che sciroppo! oppure senti che sciroppo! o anche senti che sciroppo di gelse!
È ovvio che i verbi guardare e sentire non vanno intesi nel loro senso reale, ma in quelli estensivi di porre attenzione, considerare etc. volendo dire di una persona o situazione fastidiosa quando non nociva o dannosa: osserva, oppure considera quanto ciò o costui/costei è fastidioso/a, nocivo/a, dannoso/a; e per significare tutto ciò, in napoletano basta usare l’esclamazione: siente che sceruppo! esclamazione che poi si colora di maggior grevezza e/o fastidio se si aggiunge uno specificativo: siente che sceruppo ‘e ceveze!, atteso che lo sciroppo di gelse, benché odorosissimo è grandemente appiccicoso, risultando molestamente importuno, di cui sarebbe difficile liberarsi e/o nettarsi se qualcuno se ne imbrattasse mani o abiti…; si usa però l’esclamazione siente che sceruppo! nel senso ironico suddetto non necessariamente in presenza di grave danno o pericolo, ma anche soltanto per bollare il fastidioso comportamento di talune persone,uomini o donne, ma piú spesso donne che usano berciare, blaterare, litigare alzando i toni etc.
Ciò premesso rammenterò, come ò già accennato, che il verbo denominale di sceruppo, e cioè sceruppare/sceruppà à come primo significato quello di conservare frutta o altro nello sciroppo o pure indulcare o migliorare con zucchero e/o aromi varie preparazioni, mentre nel significato figurato ed estensivo (soprattutto nella forma riflessiva scerupparse) vale sopportare, sorbirsi a forza qualcosa e/o qualcuno , sorbirseli pazientemente: scerupparse a uno (sopportare la vicinanza o la presenza di uno(non gradito); scerupparse ‘nu trascurzo (sorbirsi con pazienza un discorso (noioso) ). Rammenterò che tale accezione figurata ed estesa del napoletano scerupparse è pervenuta anche nella lingua nazionale dove il verbo sciroppare corrispondente del napoletano sceruppà è usato anche figuratamente nel medesimo senso di sopportare, sorbirsi a forza qualcosa e/o qualcuno del napoletano riflessivo scerupparse.
Ed ora, quasi al termine mi piace illustrare un’ icastica frase in uso a Napoli forgiata col verbo sceruppà; essa recita sceruppà ‘nu strunzo e vale ad litteram: sciroppare uno stronzo, ma va da sé che non la si può intendere in senso letterare atteso che, per quanto sodo possa essere lo stronzo in esame, nessuno mai potrebbe o riuscirebbe a vestirlo di congrua glassa zuccherina, e che perciò l’espressione sceruppà ‘nu strunzo debba esser letta nel senso figurato di:elevare ad immeritati onori un uomo dappoco e ciò sia che lo si faccia di propria sponte, sia che avvenga su sollecitazione del diretto interessato e la cosa vale soprattutto nei confronti di chi supponente e saccente, ciuccio e presuntuoso, pretende arrogantemente di porsi o d’esser posto una spanna al di sopra degli altri facendo le viste d’essere in possesso di scienza e conoscenza conclamate ed invece in realtà è persona che poggia sul niente la sua pretesa e spesso sbandierata falsa valentía in virtú della quale s’aspetta ed addirittura esige d’essere elavato ad alti onori in campo socio-economico cosa che gli consentirebbe di muoversi con iattanza, boria e presunzione, guardando l’umanità dall’alto in basso…; tale soggetto con icastica espressività, coniugando al part. passato l’infinito sceruppà, è detto strunzo sceruppato= stronzo sciroppato, quell’escremento cioè che quand’anche (se fosse possibile, e non lo è) fosse ricoperto di uno congruo strato di giulebbe, sotto la glassa zuccherina, sarebbe pur sempre quel pezzo di fetida merda che è.
Altrove tale soggetto è detto (restando pur sempre in àmbito scatologico): pireto annasprato=peto coperto di glassa zuccherina. Ed anche in tal caso, come per il precedente stronzo sciroppato, ci troviamo difronte ad un iperbolico modo di dire con il quale si vuol significare che il soggetto di cui si parla, è veramente un’infima cosa e quand’anche si riuscisse a coprirlo di glassa zuccherina (cosa che risulta tuttavia impossibile da farsi) mostrerebbe sempre, sotto la copertura zuccherina, la sua intima natura di evanescente, ma rumoroso gas intestinale!
In chiusura riepiloghiamo l’etimo di varie voci incontrate:
sceruppo =sciroppo dal lat. medievale sirupu(m) che fu dall’arabo sharûb= bevanda dolce;
sceruppà = sciroppare denominale del precedente;
ceveze =plurale di ceveza/ceuza = gelsa, il frutto del gelso: albero con piccoli frutti commestibili, dolci, di colore nero o bianco (more) e foglie cuoriformi, di cui si nutrono i bachi da seta (fam. Moracee); l’etimo delle napoletane cèveza/cèuza è dall’ acc.vo latino (arborem) celsa(m)=albero alto; da cèlsa→*celza con successivo passaggio di lz ad uz per cui si ottenne cèuza e successiva epentesi eufonica del suono v tra la è tonica e la u evanescente fino ad ottenere cèvuza o cèveza. Ricorderò che ad oggi a Napoli città la voce usata da tutti (borghesi e/o popolani) è cèveza, mentre nel contado provinciale è piú facile trovare ancòra l’antica voce cèuza ;
vi’ = vedi; forma apocopata di vide voce verbale che indica o la 2° pers. sing. dell’indic. pres. dall’infinito vedé=vedere o può indicare, come nel caso che ci occupa, la 2° pers. sing. dell’imperativo dall’infinito vedé=vedere con etimo dal basso lat. *videre per il classico vidíre;
siente /sie’=senti;sie’ non è che la forma apocopata di siente=senti voce verbale che indica o la 2° pers. sing. dell’indic. pres. dall’infinito sentí=sentire, udire o può indicare, come nel caso che ci occupa, la 2° pers. sing. dell’imperativo dall’infinito sentí=sentire, udire e qui porre attenzione con etimo dal basso latino sentire;
ciuccio = asino, ciuco soprattutto nel significato di ignorante; non di facile lettura l’etimologia di ciuccio; c’è chi opta per il lat. cicur= mansuefatto domestico, chi per il lat. cillus da collegare al greco kíllos asino chi per lo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi e segnatamente quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, ipotesi che per l’asperità del cammino morfologico, se non semantico non mi convincono molto;non mi convince altresí, in quanto m’appare forzata, l’idea che il napoletano ciuccio sia da collegare all’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante ed in conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice dell’arabo sciach-arà= ragliare che è il verso proprio dell’asino;rammenterò che dalla medesima radice nasce sceccu che è il nome in siciliano dell’asino.
strunzo = stronzo, escremento solido di forma cilindrica
e figuratamente: persona stupida, odiosa, saccente, supponente
l’etimo della voce napoletana è dritto per dritto dal tedesco strunz= sterco;
píreto =peto, emissione rumorosa di gas intestinale con etimo dal lat. peditu(m), deriv. di pedere 'fare peti'; da notare nella voce napoletana la consueta chiusura della sillaba tonica d’avvio donde pe passa a pi oltre la tipica alternanza osco mediterranea di d/r mentre la vocale postonica i s’apre diventando e ma di timbro evanescvente;
annasprato=coperto di naspro voce verbale part. pass. masch. sing. aggettivato dell’infinito *annasprà=coprire di naspro;
la voce naspro ed il conseguente denominale *annasprà (a quel che ò potuto indagare) sono espressioni in origine del linguaggio regionale della Lucania, poi trasferitosi in altre regioni meridionali (Campania, Calabria, Puglia) ed è difficile trovarne un esatto corrispettivo nella lingua nazionale; si può tentare di tradurre naspro con il termine glassa atteso che nel linguaggio dei dolcieri meridionali la voce naspro indicò ed ancóra indica una spessa glassa zuccherina variamente aromatizzata e talora colorata usata per ricoprire in origine dei biscotti dall’impasto abbastanza semplice o povero; in sèguito si usò il naspro colorato per ricoprire delle torte dolci e segnatamente quelle nuziali con un naspro rigorosamente bianco; a Napoli non vi fu festa nuziale che non si concludesse con un sacramentale gattò mariaggio coperto di spessa glassa zuccherina bianca: la voce gattò mariaggio nel significato di torta del matrimonio fu dal francese gâteau (de) mariage.
Per ciò che riguarda l’etimo della voce naspro, non trattandosi di voce originaria partenopea, né della lingua nazionale (dove risulta sconosciuta), ma – come ò detto – del linguaggio lucano mi limito a riferire l’ipotesi della coppia Cortelazzo/Marcato che pensarono ad un greco àspros=bianco, ipotesi che poco mi convince in quanto morfologicamente non chiarisce l’origine della n d’avvio che certamente non à origini eufoniche; penso di poter a proporre una mia ipotesi peraltro non supportata da nessun riscontro; l’ipotesi che formulo è che trattandosi di una preparazione molto dolce per naspro si potrebbe pensare ad un latino (no)nasperum→nasperum→naspro, piuttosto che ad un (n?)àspros. Spero di non essermi macchiato di lesa maestà! Del resto in tale non convincimento, sono in ottima compagnia: anche l'amico prof. Carlo Iandolo non si disse soddisfatto dell'ipotesi Cortelazzo/Marcato e trovò (ma spero non lo abbia fatto per mera amicizia...) piú perseguibile la mia idea.
E qui faccio punto.
Raffaele Bracale