MERETRICIO e voci collegate
Questa volta per rispondere alla cortese richiesta del mio carissimo amico P.G. ( del quale i consueti problemi di riservatezza mi impongono l’indicazione delle sole iniziali di nome e cognome)che mi invoglia a parlarne, qui di sèguito ci addentreremo nel campo pericoloso del meretricio e delle voci toscane e napoletane ad esso collegate.
Comincerò col dire che con la parola meretricio etimologicamente dal latino meretricium che è da merere= guadagnare, si intende la prostituzione, il prostituire, il prostituirsi; in partic., l’attività di chi fa commercio abituale del proprio corpo al fine procurarsi immediato e facile guadagno; s’usa dire che tale attività, che è innanzi tutto femminile, ma talora pure maschile, sia stato il mestiere (quale attività individuale o organizzata) piú antico del mondo; non stento a crederlo: come commercio individuale è l’unico commercio che non abbisogna di ingenti capitali o di avviamento,non è neppure vero che sia richiesta una particolare avvenenza fisica, si può svolgere all’aperto ed al chiuso indifferentemente, gli strumenti di lavoro son forniti gratis da madre natura e non necessitano di particolare manutenzione e, adottando piccole precauzioni, è mestiere che può svolgersi per lungo tempo assicurando lauti guadagni oggi esenti da tassazione statale, quantunque non da quella del cosidddetto protettore o magnaccia ( voce d’origine romanesca etimologicamente forgiata sul verbo magnà=mangiare addizionato del suffisso dispregiativo accia) e cioè lo sfruttatore di prostitute ed estensivamente l’ uomo che vive alle spalle di una donna.Ricorderò súbito che in napoletano tale sfruttatore è detto ricuttaro; la parola napoletana fu ricavata verso la fine del 1800 per adattamento corruttivo della parola recoveta che diede recotta donde il derivato recuttaro o ricuttaro; ‘a recoveta era quella raccolta di fondi, raccolta vessatoria operata (tra i piccoli bottegai ed il popolino di taluni rioni popolari della città bassa) ad opera di taluni malavitosi dediti altresí al lenocinio (dal latino lenocinium che è da lenone(m)=in origine mercante di schiave, poi protettore), raccolta necessaria per sostenere le spese di difesa di camorristi e piccoli furfanti finiti nelle maglie della giustizia e sottoposti a giudizio per il quale si rendeva necessaria l’opera di avvocati difensori che quando non fossero affiliati alla camorra, occorreva pagare.
La donna che esercita il meretricio è ovviamente la meretrice (etimologicamente dall’acc. latino meretrice(m) che è come meretricium da merere= guadagnare);ma è voce eccessivamente dotta e di àmbito forense; altra voce toscana usata per indicare la donna che faccia commercio del proprio corpo è ovviamente prostituta che è dal lat. prostituta(m), s.vo f.le da prostitutus, part. pass. di prostituere =prostituire e piú esattamente mettere in vendita o a disposizione da pro (a favore) e statuere (porre); ma la voce piú tipica, usata fin dal 14° sec. (accanto a voci –poi vedremo - regionali,per indicare chi eserciti il mestiere di cui dico, fu ed ancora è - nel gergo ed in talune espressioni artistiche (cinema, teatro e t.v.) – mignotta; i piú recenti calepini la ritengono di derivazione francese da mignotte= favorita da un antico mignon, ma penso – tenendo presente che prima che divenisse (1400) toscana, la voce fu essenzialmente laziale - che non sia peregrina l’idea che mignotta sia la corruzione dell’rspressione m(ater) ignota abbreviato in m. ignota corrotta in mignota e poi mignotta; mater ignota fu l’annotazione apposta a margine di taluni nomi di trovatelli in antichi elenchi dell’anagrafe capitolina.
Altra voce dell’italiano per indicare sia pure in senso estensivo chi esercita il meretricio è sgualdrina che come s.vo f.le (spreg.) in primis indica solo una donna di facili costumi e per estensione la prostituta vera e propria; non tranquillissima l’etimologia della voce in esame:si cominciò con il pensarla derivazione di sgualdracca, variante ant. di baldracca, con suff. diminutivo, ma la voce sgualdracca non l’ò trovata attestata se non nel Baldus poemetto scritto in versi di un latino maccheronico da Teofilo Folengo ((Mantova, 8 novembre 1491 – † Bassano del Grappa, 9 dicembre 1544), sotto lo pseudonimo di Merlin Cocaio. ; penso perciò che sia piú perseguibile, con il Delâtre, l’idea di una derivazione dal tedesco gualdana= donna da gualdo(=selva) secondo un percorso che prevede i seguenti passaggi morfologici:gualdana→gualdrana→gualdrina→sgualdrina = donna pubblica, per i cacciatori, per la truppa, per i soldati: gualdana è un derivato digualdo← wald=selva; sempre che invece sgualdrina non derivi, come io reputo, direttamente dal tedesco schwellendrine = donna che sta sulla soglia (in attesa di clienti), meretrice, donna da trivio: la voce tedesca schwellendrine è formata da schwelle= soglia e dirne→drine = ragazza di facili costumi.
Prima di sconfinare nel napoletano, segnalo l’ultima voce usata in toscano per indicare la meretrice; essa è puttana ma è voce essenzialmente pluriregionale trasmigrata nel lessico toscano; questa parola etimologicamente è d’origine latina-barbarica: putana è da puta= fanciulla, ma à avuto l’aggiunta di una desinenza (na) rispondente alla declinazione debole dei tedeschi; è parola che oggi à un senso dispregiativo che però in origine non ebbe (infatti puttana valse dapprima ragazza e poi meretrice),ed è pervenuta nelle lingue regionali italiane e da queste al toscano illustre per il tramite del francese putain e l’antico spagnolo putaña.
E veniamo finalmente al napoletano dove è viva e vegeta (accanto a molte altre che ora qui dirò) la voce pluriregionale –
- puttana voce sulla quale si sono forgiate: puttanizio/a che è il meretricio in genere e
puttaniere usato per indicare chi sia solito avere rapporti sessuali con meretrici ed estensivamente ed iperbolicamente colui che ami circuire o correr dietro le donne avvenenti o meno;
- malafemmena altra voce molto conosciuta (anche per merito di una fortunata canzonetta del principe A. de Curtis Totò nome d'arte di Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi, più noto come Antonio De Curtis (Napoli, 15 febbraio 1898 † Roma, 15 aprile 1967), fortunata canzonetta che si intitola appunto Malafemmena, quantunque la donna adombrata nella canzone non faccia il mestiere piú antico, ma si sia limitata forse a saltuarî tradimenti in danno del suo innamorato); la parola è formata dall’unione di mala (dal latino malus/a = cattivo/a) + femmena (dall’acc. latino foemina(m) = femmina, donna)con tipico raddoppiamento espressivo popolare della postonica m in parole sdrucciole; ‘e - --ffemmena ‘e Casanova =ad litteram la donna di Casanova ma da leggersi come: la sacerdotessa d’amore è locuzione nominale usata in luogo di uno dei tanti sinonimi napoletani di prostitute, meretrici,sin qui esaminati:
femmena s.vo. f.le1 nome generico di ogni individuo umano o animale portatore di gameti femminili atti a essere fecondati da quelli maschili, e quindi caratterizzato dalla capacità di partorire figli o deporre uova;2 essere umano di sesso femminile; donna, bambina ( voce dall’acc. latino foemina(m) = femmina, donna)con tipico raddoppiamento espressivo popolare della postonica m in parole sdrucciole); Casanova Giovanni Giacomo. – Dissoluto avventuriero, donnaiolo, gran tombeur de femmes (Venezia 1725 -† Dux, Boemia, 1798); figlio di attori, presto orfano di padre ed affidato dalla madre (Giovanna Maria C., detta Zanetta) alla nonna materna, fu studente a Padova, chierico a Venezia e in Calabria, segretario del cardinale P. Acquaviva a Roma, soldato dell'armata veneta in Oriente, violinista dal 1746 nel teatro S. Samuele a Venezia. Accolto come figlio dal senatore M. G. Bragadin, nel 1750 riprese la sua vita randagia attraverso la Francia, Dresda, Praga e Vienna, finché, tornato a Venezia nel luglio 1755, fu rinchiuso nei Piombi sotto l'accusa d'aver tentato di diffondere la massoneria. Evaso, tornò in Francia, ove introdusse il gioco del lotto nel 1757, e, sotto il nome di cavaliere di Seingalt, fu in Olanda, Germania, Svizzera, Italia, Polonia, Russia, seducendo donne, giocando, battendosi a duello, esercitando la magia, speculando sui valori pubblici e facendo perfino il confidente degli inquisitori di stato di Venezia. Finí la sua vita come segretario e bibliotecario del conte C. G. di Waldstein. Attivo, energico, intraprendente, il C. fu un avventuriero anche della penna e scrisse, tra l'altro, la Confutazione della storia del governo veneto di A. de la Houssaie (1769), la Storia delle turbolenze della Polonia (1774), una traduzione, incompleta, in ottava rima dell'Iliade (1775), l'opuscolo Scrutinio del libro: Eloges de M. de Voltaire par differens auteurs (1779), il romanzo Icosameron (1788); ma la sua notorietà è dovuta soprattutto alla drammatica narrazione dell'evasione dai Piombi (Histoire de ma fuite, 1788) e ai fantasiosi e licenziosi Mémoires, sostanzialmente veridici quanto alla rappresentazione della società di gaudenti e intriganti del Settecento. Stucchevole, ma forse veritiera, invece, la rappresentazione di sé stesso quale genio della seduzione.
- zoccola che – come illustrai sub TOPO etc – è in primis il grosso topo di fogna ed estensivamente la prostituta che come quel topo frequenta nottetempo i marciapiedi;
etimologicamente zoccola è da sorcula diminutivo latino femm. di sorex-ricis;
- le ultime seguenti voci sono tutte usate figuratamente per indicare la prostituta o meretrice e di tutte già alibi dissi; per cui qui le elenco solo per amore di completezza; esse sono: saittella, lòcena, lumèra,péreta dette voci possono essere usate sí per indicare la prostituta, ma piú spesso servono ad indicare una donna solo volgare o chiassosa o lercia;analiticamente si à:
1) lòcena la locena pur essendo un taglio di carne gustosissimo, è un taglio che, ricavato dal quarto anteriore della bestia, il meno pregiato e meno costoso, è da ritenersi di mediocre qualità, quasi di scarto, e di tutti i vari nomi con cui è connotato in Italia, quello che piú si attaglia a simili minime qualità, è proprio il napoletano lòcena.
Etimologicamente infatti la parola lòcena nel suo precipuo significato di vile, scadente è forgiato come il toscano ocio/a ed i successivi locio/locia (dove è evidente l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia e successiva locina con consueta epentesi di una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a locina→locena.
Chiarito il concetto di partenza, passiamo al significato traslato: fu quasi normale in un’epoca: fine ‘500, principio ‘600 in cui la donna non era tenuta in gran conto (a quell’epoca risalgono, a ben pensare, quasi tutti i proverbi misogini della tradizionale cultura partenopea …), trasferire il termine lòcena da un taglio di carne di scarto, ad una donna… di scarto, quale poteva esser ritenuta una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale..
2) saittella La saittella è quella sorta di feritoia che si trova alla base dei marciapiedi, feritoia il cui compito è quello di favorire il deflusso delle acque piovane ed incanalarle nei condotti fognarii che si trovano appena sotto il piano stradale; normalmente i ratti che stazionano nelle fogne usano queste feritoie, che non sono assolutamente protette, ma aperte e libere per sortire ed invadere l’abitato.
Etimologicamente la parola saittella è corruzione del termine toscano saiettera o saettiera che era nelle antiche mura, lo spazio tra i merli, spazio da cui i difensori potevano tirare con l'arco, la balestra e sim., rimanendo al coperto; tale spazio e la parola che lo indicava è preso a riferimento per la forma di tronco di piramide che è sia della saiettiera (orizzontata in senso verticale) che della saittella(che invece è aperta orizzontalmente).
Rammenterò appena, per amor di completezza, che con linguaggio triviale, la parola saittella è usata anche per indicare, estensivamente, una donna di facili costumi, la stessa che come ò segnalato altrove è pure detta alternativamente: péreta o lòcena.
3) lumèra è esattamente il lume a gas ma viene per traslato riferito a donna becera e volgare ed a maggior ragione ad una prostituta che abbia nel suo quotidiano costume l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumera) o di quello a petrolio ( lume a ggiorno) ambedue altresí maleolenti tali quale una pereta. Faccio notare – come ò già detto – che péreta è il femm. riscostruito del masch. pírito e deve perciò intendersi che la péreta è un gran peto, una grande scorreggia maggiormente rumorosa e forse fastidiosa del corrispondente pírito= peto, scorreggia; e ciò perché in napoletano – come passim ò molte volte rammentato - i nomi femminili si intendono riferiti a cose, oggetti etc. intesi maggiori dei corrispondenti maschili: cfr. cucchiara piú grande di cucchiaro, tammora piú grande di tammurro carretta piú grande di carretto etc. l’etimo di lumera= lume a gas è dal fr. ant. lumière,ricavato dal lat. luminaria, neutro pl. di luminare 'lampada, fiaccola';
4)péreta donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale, soprattutto quando tale donna le sue pessime qualità faccia di tutto per metterle in mostra appalesandole a guisa di biancheria esposta al balcone; tale tipo di donna è detto péreta, soprattutto quando quelle sue pessime qualità la donna le inalberi e le metta ostentatamente in mostra; le ragioni di questo nome sono facilmente intuibili laddove si ponga mente che il termine péreta(nella locuzione a margine usata per dileggio quasi come nome proprio di persona) è come ò già détto, il femminile ricostruito di píreto (dal b. lat.:peditu(m)) cioè: peto, scorreggia che sono manifestazioni viscerali rumorose rispetto alla corrispondente loffa (probabilmente dal tedesco loft= aria) fetida manifestazione viscerale silenziosa, ma olfattivamente tremenda.
Abbiamo infine le ultime due voci che sono:
5)sittantotto in riferimento al numero 78 che nella smorfia napoletana o cabala indica appunto la prostituta;
6)quatturana che sta esattamente per quattro grana corrispondente all’importo della tassa che su ogni prestazione, sotto il regno di Ferdinando I (di Aragona e di Sicilia), detto Il Giusto (circa 1380-†1416), re di Aragona e di Sicilia (1412-†1416)le meretrici dovevano pagare allo stato; detto termine passò poi ad indicare la prostituta in genere e con valenza piú triviale, l’organo sessuale delle meretrici. Aggiungo a mo’ di completezza
altre antiche (tardo ‘800) desuete voci:
7)-caccavella s.vo f.le= letteralmente la parola a margine vale pentolina ,piccolo paiolo di creta o talora di rame usato per la cottura di alimenti; per traslato e figuratamente valse anche grosso cappello da donna sempre per traslato come (alibi) buatta indicò l’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è avvicinata per esser come quello un contenitore;partendo da tale accostamento con la voce a margine si indicò anche per metonimia la prostituta, soprattutto se non particolarmente avvenente e di forme sgraziate, che quel contenitore usasse; infine con la voce a margine (etimologicamente dal lat. tardo caccabella succedaneo di caccabulusdiminutivo di caccabus = paiolo,pentolone, dal greco kàkabos) per traslato sarcastico si indicò una donna che fosse grossa,grassa e bassa; piú precisamente tale donna fu détta caccavella ‘e Sessa: Sessa Aurunca (comune della provincia di Caserta, noto con il solo nome di Sessa,in origine Suessa, città appartenete alla Pentapoli Aurunca; il nome di Sessa derivò dalla felice posizione (sessio = sedile - dolce collina dal clima mite)fu una località dove veniva prodotto vasellame in terracotta, d’uso quotidiano;
8)pontonèra/puntunèra doppia morfologia alternativa di cui la prima adottata da scrittori meno adusi alla verace parlata popolare napoletana d’un'unica voce che sostanzia un epiteto altamente offensivo rivolto ad una donna e solo a donne; ambedue le forme, con la distinzione che ò fatto, furono usate sia in letteratura (cfr. Ferdinando Russo che però adoperò la piú esatta e veracemente popolare puntunèra ) che nel parlato della città bassa quale epiteto offensivo; il significato fu univoco senza possibilità di confusione: prostituta, donna di malaffare, donna da strada, donna da marciapiede, sgualdrina, baldracca; la voce etimologicamente è un denominale di pontone/puntone (angolo di strada, spigolo di muro,cantonata di via,) addizionato del suff. di competenza f.le èra che al m.le è iere (cfr.salum-era ma salum-iere, panett-era ma panett-iere etc.); pontone/puntone s.vo m.le = angolo di strada, spigolo di muro, cantonata; voce ricavata dal s.vo puncta(m) con riferimento allo spigolo del muro, addizionato del suff. accr. m.le one.Rammento altresí che nella medesima valenza e significato della voce in esame fu usato sebbene piú in letteratura che nel parlato un analogo
9)cantonèra/cantunèra (marcato sul s.vo - che non è della parlata napoletana cantone) voce mutuata dal siciliano;
10)puppeca prostituta, malafemmina, battona etc. ; totalizzante offesa rivolta a donna e solo a donne; di per sé la voce a margine varrebbe (donna)pubblica in quanto voce etimologicamente derivata per adattamento locale dall’agg.vo lat. publĭca (passato inalterato nello spagnolo cfr. mujer publica=prostituta) secondo il seguente percorso morfologico publĭca→pubbica→pubbeca→puppeca;
Rammento comunque che le ultime tre voci furono usate quali epititi (cfr. alibi) e poco nella letteratura. A margine ed a completamento di tutto quanto fin qui scritto, rammento che nel gergo dei protettori/camorristi le prostitute venivano indicate con termini diversi a seconda della loro età o condizione; si usavano i termini pullanca (dallo spagnolo pullancòn/a) riferito a prostituta giovane ed ancóra illibata, gallenella (diminutivo di gallina nome che è dal lat. gallina(m), deriv. di gallus 'gallo') riferito a prostituta giovane ma non piú illibata, ed infine voccola (che etimologicamente piú che da un greco del Ponto kloka (che è invece affine a chioccia), ritengo derivato da un lat. volg. *vòcca deverbale di vocare=chiamare che è tipico della chioccia con i suoi pulcini) riferito a prostituta ancóra giovane, ma che già sia madre. E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento e soddisfatto l’amico P.G., interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
Raffaele Bracale
giovedì 31 marzo 2011
RAFFERMO DURO,SECCO,STANTÍO,VECCHIO&dintorni
RAFFERMO DURO,SECCO,STANTÍO,VECCHIO&dintorni
L’idea di queste paginette nacque all’indomani d’un mio incontro con l’amico N.C.(i consueti problemi di privatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) al quale contestai il fatto che nella lingua italiana gli aggettivi in epigrafe sono spessissimo usati quali sinonimi, essendo ormai invalso l’uso (anche per colpevole neghittosità (per evitar di parlare di ignoranza…) della classe insegnante) di non far distinzioni e di non insegnare ai discenti che esistono sottili differenze tra i significati termini suddetti, differenze che invece sono sostanziali attesa la specificità, oppure la graduazione e/o l’ intensità d’accezione dei termini cui si riferiscono o si accompagnano or l’uno or l’altro aggettivo: intendo dire che se ad. es. un pezzo di pane è raffermo, non necessariamente deve essere duro o secco; un pezzo di pane vecchio di alcuni giorni è certamente raffermo, ma può essere ancóra edibile posto che non risulta, benché stantío del tutto duro o secco etc.; uguale se non maggiori la graduazione e/o intensità del senso e del valore che connotano le voci napoletane che ripetono quelle dell’epigrafe. Cercherò con le pagine che seguono di convincere del mio assunto l’amico N. C. e qualche altro dei miei ventiquattro lettori. Cominciamo con le voci dell’italiano:
Raffermo agg.vo stantío,non fresco (detto spec. del pane). Voce deverbale di raffermare (che è dal lat. r(e)-ad-firmare→raffermare con assimilazione regressiva d→f); di per sé raffermare sta per render di nuovo fermo, fisso e vale per tutte quelle situazioni nelle quali si renda fissa o stabile una cosa o si confermi cosa già affermata o si rinnovi l’impiego di persona già addetta a compito o ufficio; se ne deduce che il riferimento al pane non fresco è solo un riferimento traslato;
Duro, agg.
1 che si intacca o si scalfisce difficilmente; che resiste alla pressione, che non cede: il diamante è il piú duro dei minerali; duro come un macigno, durissimo | carne dura, tigliosa | impropriamente accostato al s.vo pane: pane duro, raffermo, non fresco | legno duro, compatto e resistente | acciaio duro, ricco di carbonio | duro d'orecchi, un po' sordo; (fig.) che non vuol capire | duro di cuore, (fig.) insensibile, spietato | duro di testa, di cervello, (fig.) tardo a capire | avere la pelle dura, (fig.) essere molto resistente fisicamente o moralmente | duro a fare qualcosa, (fig.) restio, che oppone resistenza: è duro a cedere; una tradizione dura a morire. 2 (fig.) spiacevole, gravoso, difficile: patti duri; una dura verità; vita dura; tempi duri; è dura!, si dice di una situazione difficile a sopportarsi | detto di tempo, inclemente, freddo: un inverno molto duro
3 (fig.) rigido, severo: dura disciplina; è molto duro coi figli
4 (fig.) privo di grazia, di delicatezza: lineamenti, contorni duri
5 (ling.) sordo: s, z dura | velare: c, g dura
È agg.vo derivato dal lat. duru(m)
secco, agg.
1 privo d'acqua, d'umidità; asciutto, essiccato: pozzo secco; terreno secco; pelle, aria secca; clima, vento secco; avere la gola secca per il gran parlare; frutta secca; legna secca; fiori secchi | pane secco, raffermo | pasticceria secca, priva di ripieni come panna, crema o cioccolata | regime secco, quello introdotto negli Stati Uniti dal proibizionismo, caratterizzato dal divieto di produrre e spacciare bevande alcoliche | analisi, saggio per via secca, (chim.) senza portare in soluzione il composto da analizzare;
2 molto magro: un ragazzo lungo e secco; essere secco come un'acciuga; avere le braccia, le gambe secche. 3 (fig.) risoluto, brusco, deciso: tono secco; risposta secca; ordine secco; una secca frenata; colpo secco | stile secco, disadorno, essenziale | fare secco qualcuno, (fam.) ucciderlo fulmineamente | restarci secco, (fam.) morire sul colpo;
4 détto di vino o di qualsiasi altra bevanda alcolica, non dolce;
5 che sta o è considerato da solo; senza aggiunte: corso secco, nel linguaggio di borsa, quello che riguarda il solo valore capitale di un titolo, al netto degli interessi maturati | ambo, terno secco, nel gioco del lotto, ambo, terno giocato da solo, senza puntare su altre combinazioni
6 frutto secco, (bot.) con pericarpo legnoso o coriaceo
come s. m.
1 luogo senz'acqua: tirare in secco una barca | restare in secco, (fig.) senza risorse, senza mezzi;
voce dal lat. siccu(m)
Stantío, agg.
1 usato genericamente ed impropriamente per indicare chi, che à perso la freschezza, l'odore, il sapore originario; detto, a mio avviso impropriamente spec. di alimenti conservati male o per troppo tempo: pane stantío, pesce stantío;
2 (fig.ma forse piú esattamente ) vecchio, disusato, sorpassato: vocabolo stantío; notizie stantíe, prive di attualità, di interesse
anche come s. m. odore, sapore di roba stantia: puzzare, sapere di stantío.
Si tratta etimologicamente d’una voce prestito del napoletano derivata da stantivo (cfr. ultra)con sincope della consonante fricativa labiodentale sonora (v) erroneamente intesa epentesi consonantica intervocalica operata dal napoletano, laddove stantivo è dal lat. pop. e mediev. stantivus, der. di stans stantis, part. pres. di stare «stare» attraverso il suff. ivo suffisso derivato dal lat. -ivu(m), usato per formare aggettivi indicanti capacità, disposizione, qualità e sim. (difensivo, oggettivo, sportivo).
vecchio, agg.
1 che si trova nell'ultimo periodo della vita naturale; con significato piú ampio, anziano (in contrapposizione a giovane): il mio vecchio nonno; un vecchio elefante; il fulmine à schiantato il vecchio pino; essere, diventare, sentirsi vecchio; essere vecchio come Matusalemme, vecchissimo; essere piú vecchio, meno vecchio di qualcuno, essere maggiore, minore di età; nascere vecchio, si dice di chi, nonostante la giovane età, dimostri un giudizio, un'assennatezza propri delle persone mature; (spreg.) si dice di giovane privo di slanci, di fantasia | posposto al nome di artisti, di personaggi storici, assume valore di comparativo e serve a distinguerli da altri, di ugual nome, vissuti in età posteriore: Plinio il Vecchio, Palma il Vecchio, contrapposti a Plinio il Giovane e Palma il Giovane
2 che mostra i caratteri propri della vecchiaia, che rivela i segni di un declino fisico o emotivo: un viso vecchio; un cuore vecchio e stanco
3 che risale a molto tempo addietro, che dura da molto tempo: una vecchia conoscenza; una vecchia abitudine; una vecchia storia | un vestito, un cappotto vecchio, usato, malandato ' il Vecchio Testamento, espressione meno corretta per Antico Testamento | vecchio cattolico, (relig.) chi aderisce al veterocattolicesimo
4 che ha lunga pratica ed esperienza: un vecchio lupo di mare; essere vecchio del mestiere
5 di un altro tempo, di un'altra epoca; non attuale: vecchio stile; un vecchio palazzo; giornale vecchio, del giorno o dei giorni precedenti; un vecchio procedimento, antiquato | tradizionale: un gentiluomo di vecchio stampo
6 si dice di prodotto che risale al raccolto precedente o che è stato sottoposto a invecchiamento, a stagionatura: grano vecchio; parmigiano, vino vecchio
se ne deduce da tutte queste accezioni che è quanto meno improprio usar questo aggettivo come sinonimo di raffermo o stantío.
anche come s. m.
1 [f. -a] chi si trova nella vecchiaia: un povero vecchio | i vecchi, (fam.) i genitori o gli avi, gli antenati.
voce dal latinovec’lu(m),collaterale del class. vetulu(m), dim. di vetus 'vecchio'.
Rancido/ irrancidito agg.vi
1 si dice di sostanza grassa che si è alterata ed à preso un odore e un sapore forte e sgradevole: burro rancido
2 (fig.) antiquato, sorpassato: dottrine, idee rancide
anche come s. m. sapore, odore forte e sgradevole, proprio delle sostanze irrancidite (anche fig.): la pancetta sa di rancido; modi di pensare che ormai sanno di rancido.
Trattandosi di voce da riferirsi a sostanze grasse è quanto meno improprio usar questo aggettivo come sinonimo di raffermo o stantío che si usa riferire a sostanze non fresche (pane, pesce etc.) non necessariamente grasse
Voci derivate dal lat. Dal lat. rancidu(m), deriv. di rancíre 'essere rancido'; per la precisione irrancidito è stato ottenuto attraverso la prostesi rafforzativa di un in→ir a ranciditu(m) deverbale di rancíre.
guasto agg. che si è guastato o è stato guastato (anche fig.): orologio guasto; mele guaste; denti guasti, cariati; gioventù guasta, corrotta; anche per questo agg.vo è quanto meno improprio l’uso quale sinonimo di raffermo o stantío che si usa riferire a sostanze non fresche (pane, pesce etc.) non necessariamente marcite, rancide, andate a male bacate, ma soltanto non freschissime.
La voce è un part. pass. senza suff. di guastare (che è dal lat. vastare, deriv. di vastus 'vuoto, spopolato'; l'iniziale gu- deriva dall’ incrocio con la voce germ. wasten di sign. affine iniziante appunto per w→gu. A questo punto esaurite le voci dell’italiano, consideriamo quelle del napoletano dove troviamo
sereticcio/sedeticcio agg.vo
raffermo, stantío,non fresco (riferito esattamente al pane o ad altri prodotti da forno derivanti da impasto di farine). In senso traslato è usato anche per identificare una persona arcigna, poco trattabile, burbera, bisbetica.
Voce derivata dall’agg.vo lat. seru(m) ampliato in serotu(m) (cfr. l’it. serotino) ed addizionato del suff. iccio suffisso derivativo e alterativo di aggettivi, che continua il lat. -iciu(m) ed esprime diminuzione, imperfezione, approssimazione e sim., per lo piú con valore peggiorativo e spregiativo;
tuosto, agg.vo m.le (al f.le tosta)
tosto, duro, da intendersi solo estensivamente e per approssimazione sinonimo del precedente, in quanto di per sé è da riferirsi con esattezza a persona coriacea, rigida; irremovibile, tenace, risoluta; caparbia, ostinata; voce derivata dall’agg.vo lat. tostu(m) p.p. di tostare intensivo di torrére = essiccare;
sicco, agg.vo m.le (al f.le secca) aggettivo che come il precedente è da intendersi solo estensivamente e per approssimazione sinonimo di raffermo, stantío , in quanto di per sé è da riferirsi, con esattezza, a persona
asciutta, magra, snella, smilza e ciò contrariamente a quanto càpita con il corrispondente italiano secco che – come détto – oltre che molto magro vale anche arso, arido, riarso; anche la voce napoletana deriva dritto per dritto, senza metaplasmi vocalici, dal lat. siccu(m);
stantivo agg.vo m.le (al f.le stantiva)
1. Di alimento che, per essere stato conservato troppo a lungo e male, à perso la freschezza ed à acquistato odore e sapore sgradevoli, prossimo al rancido o all’ammuffito; si usa con riferimento alla farina, al formaggio e talora ai condimenti grassi: olio, burro, strutto;
2. fig. D’altre cose, anche astratte, non più valido, fuori uso, fuori moda, sorpassato (sempre con intonazione spreg.)
Etimologicamente, come ò già anticipato sotto la voce stantio che fu ricavata dalla voce napoletana, stantivo è dal lat. pop. e mediev. stantivus, der. di stans stantis, part. pres. di stare «stare» attraverso il suff. ivo suffisso derivato dal lat. -ivu(m), usato per formare aggettivi indicanti capacità, disposizione, qualità e sim. (difensivo, oggettivo, sportivo).
viecchio, s.vo ed agg.vo m.le(al f.le vecchia)
come sostantivo vale: anziano; attempato;
come agg.vo è riferito a vino, formaggio e simili e vale invecchiato, stagionato, maturo; ma non secco, duro come càpita per l’italiano che lo fa sinonimo di stantio, raffermo etc.; etimologicamente viecchio è da un acc. lat. vetulu(m) che diede il tardo lat. vĕclu(m) (diminutivo di vetus)→viecchio con la vocale tonica ĕ che dittonga in ie, mentre nel diminutivo vicchiariello si chiude quasi si tratti di una ē→i;
grànceto/a, agg.vo m.leo f.le .
détto (contrariamente all’italiano che nella forma rancido o irrancidito lo usa spesso in maniera impropria riferendolo ad un po’ tutti gli alimenti crudi o cotti andati a male) détto – dicevo - esclusivamente di olio, di sostanze grasse (o di cibi, soprattutto crudi, contenenti sostanze grasse) che ànno subíto un processo di irrancidimento, acquistando quindi odore e sapore aspro e sgradevole: olio, burro, lardo, sugna etc.; chesta saciccia è addeventata grànceta(questa salsiccia è diventata rancida); con uso sostantivato, il sapore e l’odore di rancido: ll’uoglio ‘e ‘sta bbutteglia à pigliato ‘e grànceto(l’olio di questa bottiglia ha preso di rancido),sape ‘e grànceto (sa di rancido),
2. fig. Talora è usato nel senso di non piú valido a causa della sua vecchiezza, sorpassato; sempre con intonazione spregiativo: chello ca dice papà à pigliato ‘e grànceto (ciò che dice mio padre è sorpassato);
etimologicamente è voce derivata dal lat. rancĭdu(m), der. di rancere “essere rancido” rancĭdu(m),fu lètto rancedu(m), e successivamente la la consonante liquida vibrante (r) fu addizionata in posizione protetica dell'affricata palatale sonora (g) ottenendo il gruppo espressivo (gr) e sempre per motivi d’espressività si sostituí la l'occlusiva dentale sonora (d) con la corrispondente occlusiva dentale sorda (t) per cui rancedu(m) si evolvette in grancetu(m)→grànceto;
fràceto, agg.vo m.le al f.le fràceta
1 con riferimento ad alimenti crudi ma guasti, andati a male, putrescenti : mela fraceta (mela fradicia, marcita); ova fràcete(uova fradice)
2 (fig.) corrotto moralmente o materialmente:’nu tipo fràceto (un soggetto corrotto) ‘na suggità fràceta (una società fradicia);
3 intriso d'acqua, inzuppato : vestite fràcete (vestiti fradici) | con funzione rafforzativa: ‘nfuso, sudato fràceto (bagnato, sudato fradicio); ‘mbriaco fràceto(ubriaco fradicio), completamente ubriaco;
2 come s. m.
1 la parte guasta, andata a male di qualcosa: ‘o ffràceto d’’a mela (il fradicio della mela);
2 (fig.) corruzione ‘o ffràceto d’’a suggità ‘e mo (il fradicio della società moderna)
3 terreno bagnato: cammenà ‘ncopp’ô ffràceto(camminare sul fradicio).
Voce dal lat. Lat. fracidu(m), con sostituzione espressiva della occlusiva dentale sonora (d) con la corrispondente occlusiva dentale sorda (t) per cui fràcidu(m)→fràcedu(m) si mutò in fràcetu(m)→fràceto;
nizzo, agg.vo m.le e solo m.le
1 di frutto mezzo cioè troppo maturo, quasi marcio
2 di ortaggio bagnato ed infradicito;
3 (fig. , non com.) corrotto, tarato (detto di persona).
Voce derivata per deformazione del parlato popolare dal lat. vietium =troppo maturo, comp. neutro di vietus = antiquato, superato la fermazione avvenne seguendo il percorso vietiu(m)→nietiu→nitiu→nizzio→nizzo;
perduto agg.vo m.le al f.le perduta
di alimento crudo o cotto alterato, avariato, andato a male, guasto, marcio per cattiva conservazione.
Part. pass. di perdere che è dal lat. perdere, comp. di per 'al di là, oltre' e dare 'dare'.
E qui faccio punto fermo e mi dico soddisfatto e convito d’aver persuaso l’amico N.C. . e qualche altro dei miei ventiquattro lettori.Satis est.
Raffaele Bracale
L’idea di queste paginette nacque all’indomani d’un mio incontro con l’amico N.C.(i consueti problemi di privatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) al quale contestai il fatto che nella lingua italiana gli aggettivi in epigrafe sono spessissimo usati quali sinonimi, essendo ormai invalso l’uso (anche per colpevole neghittosità (per evitar di parlare di ignoranza…) della classe insegnante) di non far distinzioni e di non insegnare ai discenti che esistono sottili differenze tra i significati termini suddetti, differenze che invece sono sostanziali attesa la specificità, oppure la graduazione e/o l’ intensità d’accezione dei termini cui si riferiscono o si accompagnano or l’uno or l’altro aggettivo: intendo dire che se ad. es. un pezzo di pane è raffermo, non necessariamente deve essere duro o secco; un pezzo di pane vecchio di alcuni giorni è certamente raffermo, ma può essere ancóra edibile posto che non risulta, benché stantío del tutto duro o secco etc.; uguale se non maggiori la graduazione e/o intensità del senso e del valore che connotano le voci napoletane che ripetono quelle dell’epigrafe. Cercherò con le pagine che seguono di convincere del mio assunto l’amico N. C. e qualche altro dei miei ventiquattro lettori. Cominciamo con le voci dell’italiano:
Raffermo agg.vo stantío,non fresco (detto spec. del pane). Voce deverbale di raffermare (che è dal lat. r(e)-ad-firmare→raffermare con assimilazione regressiva d→f); di per sé raffermare sta per render di nuovo fermo, fisso e vale per tutte quelle situazioni nelle quali si renda fissa o stabile una cosa o si confermi cosa già affermata o si rinnovi l’impiego di persona già addetta a compito o ufficio; se ne deduce che il riferimento al pane non fresco è solo un riferimento traslato;
Duro, agg.
1 che si intacca o si scalfisce difficilmente; che resiste alla pressione, che non cede: il diamante è il piú duro dei minerali; duro come un macigno, durissimo | carne dura, tigliosa | impropriamente accostato al s.vo pane: pane duro, raffermo, non fresco | legno duro, compatto e resistente | acciaio duro, ricco di carbonio | duro d'orecchi, un po' sordo; (fig.) che non vuol capire | duro di cuore, (fig.) insensibile, spietato | duro di testa, di cervello, (fig.) tardo a capire | avere la pelle dura, (fig.) essere molto resistente fisicamente o moralmente | duro a fare qualcosa, (fig.) restio, che oppone resistenza: è duro a cedere; una tradizione dura a morire. 2 (fig.) spiacevole, gravoso, difficile: patti duri; una dura verità; vita dura; tempi duri; è dura!, si dice di una situazione difficile a sopportarsi | detto di tempo, inclemente, freddo: un inverno molto duro
3 (fig.) rigido, severo: dura disciplina; è molto duro coi figli
4 (fig.) privo di grazia, di delicatezza: lineamenti, contorni duri
5 (ling.) sordo: s, z dura | velare: c, g dura
È agg.vo derivato dal lat. duru(m)
secco, agg.
1 privo d'acqua, d'umidità; asciutto, essiccato: pozzo secco; terreno secco; pelle, aria secca; clima, vento secco; avere la gola secca per il gran parlare; frutta secca; legna secca; fiori secchi | pane secco, raffermo | pasticceria secca, priva di ripieni come panna, crema o cioccolata | regime secco, quello introdotto negli Stati Uniti dal proibizionismo, caratterizzato dal divieto di produrre e spacciare bevande alcoliche | analisi, saggio per via secca, (chim.) senza portare in soluzione il composto da analizzare;
2 molto magro: un ragazzo lungo e secco; essere secco come un'acciuga; avere le braccia, le gambe secche. 3 (fig.) risoluto, brusco, deciso: tono secco; risposta secca; ordine secco; una secca frenata; colpo secco | stile secco, disadorno, essenziale | fare secco qualcuno, (fam.) ucciderlo fulmineamente | restarci secco, (fam.) morire sul colpo;
4 détto di vino o di qualsiasi altra bevanda alcolica, non dolce;
5 che sta o è considerato da solo; senza aggiunte: corso secco, nel linguaggio di borsa, quello che riguarda il solo valore capitale di un titolo, al netto degli interessi maturati | ambo, terno secco, nel gioco del lotto, ambo, terno giocato da solo, senza puntare su altre combinazioni
6 frutto secco, (bot.) con pericarpo legnoso o coriaceo
come s. m.
1 luogo senz'acqua: tirare in secco una barca | restare in secco, (fig.) senza risorse, senza mezzi;
voce dal lat. siccu(m)
Stantío, agg.
1 usato genericamente ed impropriamente per indicare chi, che à perso la freschezza, l'odore, il sapore originario; detto, a mio avviso impropriamente spec. di alimenti conservati male o per troppo tempo: pane stantío, pesce stantío;
2 (fig.ma forse piú esattamente ) vecchio, disusato, sorpassato: vocabolo stantío; notizie stantíe, prive di attualità, di interesse
anche come s. m. odore, sapore di roba stantia: puzzare, sapere di stantío.
Si tratta etimologicamente d’una voce prestito del napoletano derivata da stantivo (cfr. ultra)con sincope della consonante fricativa labiodentale sonora (v) erroneamente intesa epentesi consonantica intervocalica operata dal napoletano, laddove stantivo è dal lat. pop. e mediev. stantivus, der. di stans stantis, part. pres. di stare «stare» attraverso il suff. ivo suffisso derivato dal lat. -ivu(m), usato per formare aggettivi indicanti capacità, disposizione, qualità e sim. (difensivo, oggettivo, sportivo).
vecchio, agg.
1 che si trova nell'ultimo periodo della vita naturale; con significato piú ampio, anziano (in contrapposizione a giovane): il mio vecchio nonno; un vecchio elefante; il fulmine à schiantato il vecchio pino; essere, diventare, sentirsi vecchio; essere vecchio come Matusalemme, vecchissimo; essere piú vecchio, meno vecchio di qualcuno, essere maggiore, minore di età; nascere vecchio, si dice di chi, nonostante la giovane età, dimostri un giudizio, un'assennatezza propri delle persone mature; (spreg.) si dice di giovane privo di slanci, di fantasia | posposto al nome di artisti, di personaggi storici, assume valore di comparativo e serve a distinguerli da altri, di ugual nome, vissuti in età posteriore: Plinio il Vecchio, Palma il Vecchio, contrapposti a Plinio il Giovane e Palma il Giovane
2 che mostra i caratteri propri della vecchiaia, che rivela i segni di un declino fisico o emotivo: un viso vecchio; un cuore vecchio e stanco
3 che risale a molto tempo addietro, che dura da molto tempo: una vecchia conoscenza; una vecchia abitudine; una vecchia storia | un vestito, un cappotto vecchio, usato, malandato ' il Vecchio Testamento, espressione meno corretta per Antico Testamento | vecchio cattolico, (relig.) chi aderisce al veterocattolicesimo
4 che ha lunga pratica ed esperienza: un vecchio lupo di mare; essere vecchio del mestiere
5 di un altro tempo, di un'altra epoca; non attuale: vecchio stile; un vecchio palazzo; giornale vecchio, del giorno o dei giorni precedenti; un vecchio procedimento, antiquato | tradizionale: un gentiluomo di vecchio stampo
6 si dice di prodotto che risale al raccolto precedente o che è stato sottoposto a invecchiamento, a stagionatura: grano vecchio; parmigiano, vino vecchio
se ne deduce da tutte queste accezioni che è quanto meno improprio usar questo aggettivo come sinonimo di raffermo o stantío.
anche come s. m.
1 [f. -a] chi si trova nella vecchiaia: un povero vecchio | i vecchi, (fam.) i genitori o gli avi, gli antenati.
voce dal latinovec’lu(m),collaterale del class. vetulu(m), dim. di vetus 'vecchio'.
Rancido/ irrancidito agg.vi
1 si dice di sostanza grassa che si è alterata ed à preso un odore e un sapore forte e sgradevole: burro rancido
2 (fig.) antiquato, sorpassato: dottrine, idee rancide
anche come s. m. sapore, odore forte e sgradevole, proprio delle sostanze irrancidite (anche fig.): la pancetta sa di rancido; modi di pensare che ormai sanno di rancido.
Trattandosi di voce da riferirsi a sostanze grasse è quanto meno improprio usar questo aggettivo come sinonimo di raffermo o stantío che si usa riferire a sostanze non fresche (pane, pesce etc.) non necessariamente grasse
Voci derivate dal lat. Dal lat. rancidu(m), deriv. di rancíre 'essere rancido'; per la precisione irrancidito è stato ottenuto attraverso la prostesi rafforzativa di un in→ir a ranciditu(m) deverbale di rancíre.
guasto agg. che si è guastato o è stato guastato (anche fig.): orologio guasto; mele guaste; denti guasti, cariati; gioventù guasta, corrotta; anche per questo agg.vo è quanto meno improprio l’uso quale sinonimo di raffermo o stantío che si usa riferire a sostanze non fresche (pane, pesce etc.) non necessariamente marcite, rancide, andate a male bacate, ma soltanto non freschissime.
La voce è un part. pass. senza suff. di guastare (che è dal lat. vastare, deriv. di vastus 'vuoto, spopolato'; l'iniziale gu- deriva dall’ incrocio con la voce germ. wasten di sign. affine iniziante appunto per w→gu. A questo punto esaurite le voci dell’italiano, consideriamo quelle del napoletano dove troviamo
sereticcio/sedeticcio agg.vo
raffermo, stantío,non fresco (riferito esattamente al pane o ad altri prodotti da forno derivanti da impasto di farine). In senso traslato è usato anche per identificare una persona arcigna, poco trattabile, burbera, bisbetica.
Voce derivata dall’agg.vo lat. seru(m) ampliato in serotu(m) (cfr. l’it. serotino) ed addizionato del suff. iccio suffisso derivativo e alterativo di aggettivi, che continua il lat. -iciu(m) ed esprime diminuzione, imperfezione, approssimazione e sim., per lo piú con valore peggiorativo e spregiativo;
tuosto, agg.vo m.le (al f.le tosta)
tosto, duro, da intendersi solo estensivamente e per approssimazione sinonimo del precedente, in quanto di per sé è da riferirsi con esattezza a persona coriacea, rigida; irremovibile, tenace, risoluta; caparbia, ostinata; voce derivata dall’agg.vo lat. tostu(m) p.p. di tostare intensivo di torrére = essiccare;
sicco, agg.vo m.le (al f.le secca) aggettivo che come il precedente è da intendersi solo estensivamente e per approssimazione sinonimo di raffermo, stantío , in quanto di per sé è da riferirsi, con esattezza, a persona
asciutta, magra, snella, smilza e ciò contrariamente a quanto càpita con il corrispondente italiano secco che – come détto – oltre che molto magro vale anche arso, arido, riarso; anche la voce napoletana deriva dritto per dritto, senza metaplasmi vocalici, dal lat. siccu(m);
stantivo agg.vo m.le (al f.le stantiva)
1. Di alimento che, per essere stato conservato troppo a lungo e male, à perso la freschezza ed à acquistato odore e sapore sgradevoli, prossimo al rancido o all’ammuffito; si usa con riferimento alla farina, al formaggio e talora ai condimenti grassi: olio, burro, strutto;
2. fig. D’altre cose, anche astratte, non più valido, fuori uso, fuori moda, sorpassato (sempre con intonazione spreg.)
Etimologicamente, come ò già anticipato sotto la voce stantio che fu ricavata dalla voce napoletana, stantivo è dal lat. pop. e mediev. stantivus, der. di stans stantis, part. pres. di stare «stare» attraverso il suff. ivo suffisso derivato dal lat. -ivu(m), usato per formare aggettivi indicanti capacità, disposizione, qualità e sim. (difensivo, oggettivo, sportivo).
viecchio, s.vo ed agg.vo m.le(al f.le vecchia)
come sostantivo vale: anziano; attempato;
come agg.vo è riferito a vino, formaggio e simili e vale invecchiato, stagionato, maturo; ma non secco, duro come càpita per l’italiano che lo fa sinonimo di stantio, raffermo etc.; etimologicamente viecchio è da un acc. lat. vetulu(m) che diede il tardo lat. vĕclu(m) (diminutivo di vetus)→viecchio con la vocale tonica ĕ che dittonga in ie, mentre nel diminutivo vicchiariello si chiude quasi si tratti di una ē→i;
grànceto/a, agg.vo m.leo f.le .
détto (contrariamente all’italiano che nella forma rancido o irrancidito lo usa spesso in maniera impropria riferendolo ad un po’ tutti gli alimenti crudi o cotti andati a male) détto – dicevo - esclusivamente di olio, di sostanze grasse (o di cibi, soprattutto crudi, contenenti sostanze grasse) che ànno subíto un processo di irrancidimento, acquistando quindi odore e sapore aspro e sgradevole: olio, burro, lardo, sugna etc.; chesta saciccia è addeventata grànceta(questa salsiccia è diventata rancida); con uso sostantivato, il sapore e l’odore di rancido: ll’uoglio ‘e ‘sta bbutteglia à pigliato ‘e grànceto(l’olio di questa bottiglia ha preso di rancido),sape ‘e grànceto (sa di rancido),
2. fig. Talora è usato nel senso di non piú valido a causa della sua vecchiezza, sorpassato; sempre con intonazione spregiativo: chello ca dice papà à pigliato ‘e grànceto (ciò che dice mio padre è sorpassato);
etimologicamente è voce derivata dal lat. rancĭdu(m), der. di rancere “essere rancido” rancĭdu(m),fu lètto rancedu(m), e successivamente la la consonante liquida vibrante (r) fu addizionata in posizione protetica dell'affricata palatale sonora (g) ottenendo il gruppo espressivo (gr) e sempre per motivi d’espressività si sostituí la l'occlusiva dentale sonora (d) con la corrispondente occlusiva dentale sorda (t) per cui rancedu(m) si evolvette in grancetu(m)→grànceto;
fràceto, agg.vo m.le al f.le fràceta
1 con riferimento ad alimenti crudi ma guasti, andati a male, putrescenti : mela fraceta (mela fradicia, marcita); ova fràcete(uova fradice)
2 (fig.) corrotto moralmente o materialmente:’nu tipo fràceto (un soggetto corrotto) ‘na suggità fràceta (una società fradicia);
3 intriso d'acqua, inzuppato : vestite fràcete (vestiti fradici) | con funzione rafforzativa: ‘nfuso, sudato fràceto (bagnato, sudato fradicio); ‘mbriaco fràceto(ubriaco fradicio), completamente ubriaco;
2 come s. m.
1 la parte guasta, andata a male di qualcosa: ‘o ffràceto d’’a mela (il fradicio della mela);
2 (fig.) corruzione ‘o ffràceto d’’a suggità ‘e mo (il fradicio della società moderna)
3 terreno bagnato: cammenà ‘ncopp’ô ffràceto(camminare sul fradicio).
Voce dal lat. Lat. fracidu(m), con sostituzione espressiva della occlusiva dentale sonora (d) con la corrispondente occlusiva dentale sorda (t) per cui fràcidu(m)→fràcedu(m) si mutò in fràcetu(m)→fràceto;
nizzo, agg.vo m.le e solo m.le
1 di frutto mezzo cioè troppo maturo, quasi marcio
2 di ortaggio bagnato ed infradicito;
3 (fig. , non com.) corrotto, tarato (detto di persona).
Voce derivata per deformazione del parlato popolare dal lat. vietium =troppo maturo, comp. neutro di vietus = antiquato, superato la fermazione avvenne seguendo il percorso vietiu(m)→nietiu→nitiu→nizzio→nizzo;
perduto agg.vo m.le al f.le perduta
di alimento crudo o cotto alterato, avariato, andato a male, guasto, marcio per cattiva conservazione.
Part. pass. di perdere che è dal lat. perdere, comp. di per 'al di là, oltre' e dare 'dare'.
E qui faccio punto fermo e mi dico soddisfatto e convito d’aver persuaso l’amico N.C. . e qualche altro dei miei ventiquattro lettori.Satis est.
Raffaele Bracale
VARIE 1101
1 PIGLIÀ VAVIA E METTERSE 'NGUARNASCIONE.
Letteralmente: prender bava e porsi in guarnaccia/guarnacca. Id est: assumere aria e contegno da borioso arrogante; lo si dice soprattutto di coloro che, essendo assurti per mera sorte o casualità a piccoli posti di preminenza, si atteggiano ad altezzosi ed onniscienti,cercando di imporre agli altri il loro modo di veder le cose, se non addirittura tutta la vita, laddove in realtà poggiano la loro arrogante albagia sul nulla.
vavia (deverbale di vaviarse=imbrattarsi il mento di bava letteramente sta per vava= bava quel liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, o anche da quella di bambini, vecchi, o persone che si trovino in un'anormale condizione fisica o psichica, quale è quella di chi, raggiunto un posto di preminenza, pensa di essere superiore a tutto e tutti e si regola con altezzosa, boriosa arroganza; è questa la spiegazione semantica del mettere vavia(=secernere bava). Faccio notare l'opportuna anaptissi (inserzione di una vocale in un gruppo consonantico; epentesi vocalica) operata nella lingua napoletana immettendo una i nella originaria parola vava= bava per ottenere vavia mantenendo con vava il significato di liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, etc. ed assegnando a vavia l'idea di quell 'anormale condizione fisica o psichica,che può generare iperproduzione di bava reale o figurata ,come càpita per chi, raggiunto un posto di preminenza, si regoli con altezzosa, boriosa arroganza.
guarnascione sost. masch. accrescitivo (vedi il suff. one) di una voce femminile derivata dal provenzale guarnacha=guarnacca/guarnaccia=lussuosa sopravveste medioevale di pelliccia, indossata dagli uomini ed usata come segno di importanza e/o preminenza.
2 NCE VONNO CAZZE 'E VATECARE PE FÀ FIGLIE CARRETTIERE
Letteralmente: occorrono membri da vetturali per generare figli carrettieri Id est: per ottenere i risultati sperati occorre partire da adeguate premesse; addirittura nella locuzione si adombra quasi la certezza che taluni risultati non possano essere raggiunti se non per via genetica, quasi che, ad esempio, il mestiere di carrettiere non si possa imparare se non si abbia un genitore vetturale di bestie da soma...
vatecare=vetturale, trasportatore di merci sost. masch. derivato dall’agg.vo lat. viaticus + il suff. di pertinenza areus→aro.
3 SI MINE 'NA SPORTA 'E TARALLE 'NCAPO A CHILLO, NUN NE VA MANCO UNO 'NTERRA
Letteralmente: se butti il contenuto di una cesta di taralli sulla testa di quello non ne cade a terra neppure uno (stanti le frondose ed irte corna di cui è provvista la sua testa e nelle quali corna , i taralli rimarrebbero infilati). Icastica ed iperbolica descrizione di un uomo molto tradito dalla propria donna.
4 MUNTAGNE E MUNTAGNE NUN S'AFFRONTANO.
Letteralmente: le montagne non si scontrano con le proprie simili. È una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol lasciare intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche cruento, stante la considerazione che solo i monti sono immobili...e non vogliono o possono scendere sul terreno dello scontro con i proprii simili!
5 FACCIA 'E TRENT'ANNE 'E FAVE.
Letteralmente: faccia da trent'anni di fava. Offesa gravissima con la quale si suole bollare qualcuno che abbia un volto poco rassicurante,quasi da galeotto, dal quale pertanto non ci si attende niente di buono, anzi si paventano ribalderie. La locuzione fu coniata tenendo presente che la fava secca era il cibo quasi quotidiano che nelle patrie galere veniva somministrato ai detenuti; i trent'anni rammentano il massimo delle detenzione comminabile prima dell'ergastolo; per cui un individuo condannato a trent'anni di reclusione si presume si sia macchiato di colpe gravissime e sia pronto a reiterare i reati, per cui occorre temerlo e prenderne le distanze. L’assunto in epigrafe forse conferma se non dimostra che non aveva tutti i torti Cesare Lombroso(Verona, 6 novembre 1835 –† Torino, 19 ottobre 1909) famoso antropologo, criminologo e giurista italiano. che fu uno dei pionieri degli studi sulla criminalità e nei suoi studi di fisiognomica operò una classificazione dei delinquenti in base ai loro tratti somatici; ebbe certamente torto però quando però, dopo d’averlo ipotizzato, pretese addirittura di dimostrare che tutti i crani di meridionali da lui studiati o presi in esame presentassero le caratteristiche di esseri inferiori, stupidi ed imbecilli oltre che criminali!
6 SPARÀ A VRENNA.
Letteralmente: sparare a crusca. Id est: minacciare per celia senza far seguire alle parole , nessuno dei fatti minacciati. L'espressione la si usa quando ci si riferisca a negozi, affari che si concludono in un nulla di fatto e si ricollega ad un'abitudine dell'esercito borbonico i cui proiettili, durante le esercitazioni, erano caricati anziché con piombo con la crusca, affinchè i colpi non procurassero danno alla truppa che si esercitava.
7 'E SCIABBULE STANNO APPESE E 'E FODERE CUMBATTONO.
Letteralmente: le sciabole stanno attaccate al chiodo e i foderi duellano. L'espressione è usata per sottolineare tutte le situazioni nelle quali chi sarebbe deputato all'azione, per ignavia o cattiva volontà si è fatto da parte lasciando l'azione alle seconde linee, con risultati chiaramente inferiori alle attese.
8 'A TAVERNA D''O TRENTUNO.
Letteralmente: la taverna del trentuno. Cosí, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle piú disparate ore, pretendendo che venga servito loro un veloce pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola del contado napoletano, situata in quel della zona vecchia di Pozzuoli in via san Rocco (oggi) 16, all’insegna : Taverna del trenta e trentuno che prendeva il nome dal civico dove era ubicata e che aveva due ingressi contigui: ai civici 30 e 31, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte.
taverna = bettola, osteria di infimo ordine; etimologicamente dal latino taberna(m) che significò bottega ed osteria ed è in quest’ultimo significato che la voce fu accolta,con tipica alternanza partenopea di B - V, nella lingua napoletana che per il significato di bottega preferí ricorrere, come vedemmo alibi, al greco apoteca donde trasse la voce puteca.
trentuno = agg. num. card. invar. numero naturale corrispondente a trenta unità piú uno; nella numerazione araba è rappresentato da 31, in quella romana da XXXI; l’etimo è dal lat. triginta + unum
9 'A VACCA, PE NUN MOVERE 'A CODA SE FACETTE MAGNÀ 'E PPACCHE DA 'E MOSCHE.
Letteralmente: la mucca per non voler muovere la coda, si lasciò mangiare le natiche dalle mosche. Lo si dice sarcasticamente riferendolo a gli indolenti ed ai pigri che son disposti a subire gravi nocumenti, ma non muovono un dito per evitarli alla stessa stregua di una vacca che assalita dalle mosche, per non sottostare alla fatica di agitare la coda, lasci che le mosche le pizzichino il fondo schiena!
10 TRASÍ O PASSÀ CU 'A SCOPPOLA.
Letteralmente: entrare o passare con lo scappellotto. Id est: entrare in teatro o altri luoghi pubblici come musei o pinacoteche o mostre artistiche senza pagare e senza le necessarie credenziali: biglietti o inviti. La locuzione fotografa il benevolo comportamento di taluni custodi che furono soliti fare entrare i ragazzi senza pagare il dovuto, spingendoli dentro con un compiacente scappellotto. Per traslato la locuzione si attaglia a tutte quelle situazioni, come ad es. degli esami superati senza meriti, con la benevolenza dell’esaminatore o situazioni nelle quali gratuitamente si ottengono benefìci per la magnanimità di coloro che invece dovrebbero controllare.
11 POZZA MURÍ 'E TRUONO A CCHI NUN LE PIACE 'O BBUONO.
Letteralmente: possa morire di violenta bastonatura chi non ama il buono. In una città come Napoli dove vi è un'ottima e succulenta cucina chi non è buongustaio merita di morire bastonato violentemente. in napoletano truono (dal lat. tronitus) significa sia tuono che, per ampiamento semantico, percosse violente. Faccio notare che nell’idioma napoletano il complemento oggetto - anche in frasi rette, come in questo caso, da verbo impersonale - se essere animato è sempre preceduto da una A segnacaso che invece manca se il complemento è un oggetto o cosa inanimata (ad es. aggiu visto a pateto= ò visto tuo padre – aggiu chiammato ô= a ‘o zio = ò chiamato lo zio – ma aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere etc.).
12 'A FORCA È FFATTA P''E PUVERIELLE.
Letteralmente: la forca è fatta per i poveri. Id est: nei rigori della legge incorrono solo i poveri, i ricchi trovano sempre il modo di scamparla. In senso storico, la locuzione rammenta però che la pena dell'impiccagione era comminata ai poveri, mentre ai ricchi ed ai nobili era riservata la decapitazione o - in tempi piú recenti - la fucilazione.
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Letteralmente: prender bava e porsi in guarnaccia/guarnacca. Id est: assumere aria e contegno da borioso arrogante; lo si dice soprattutto di coloro che, essendo assurti per mera sorte o casualità a piccoli posti di preminenza, si atteggiano ad altezzosi ed onniscienti,cercando di imporre agli altri il loro modo di veder le cose, se non addirittura tutta la vita, laddove in realtà poggiano la loro arrogante albagia sul nulla.
vavia (deverbale di vaviarse=imbrattarsi il mento di bava letteramente sta per vava= bava quel liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, o anche da quella di bambini, vecchi, o persone che si trovino in un'anormale condizione fisica o psichica, quale è quella di chi, raggiunto un posto di preminenza, pensa di essere superiore a tutto e tutti e si regola con altezzosa, boriosa arroganza; è questa la spiegazione semantica del mettere vavia(=secernere bava). Faccio notare l'opportuna anaptissi (inserzione di una vocale in un gruppo consonantico; epentesi vocalica) operata nella lingua napoletana immettendo una i nella originaria parola vava= bava per ottenere vavia mantenendo con vava il significato di liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, etc. ed assegnando a vavia l'idea di quell 'anormale condizione fisica o psichica,che può generare iperproduzione di bava reale o figurata ,come càpita per chi, raggiunto un posto di preminenza, si regoli con altezzosa, boriosa arroganza.
guarnascione sost. masch. accrescitivo (vedi il suff. one) di una voce femminile derivata dal provenzale guarnacha=guarnacca/guarnaccia=lussuosa sopravveste medioevale di pelliccia, indossata dagli uomini ed usata come segno di importanza e/o preminenza.
2 NCE VONNO CAZZE 'E VATECARE PE FÀ FIGLIE CARRETTIERE
Letteralmente: occorrono membri da vetturali per generare figli carrettieri Id est: per ottenere i risultati sperati occorre partire da adeguate premesse; addirittura nella locuzione si adombra quasi la certezza che taluni risultati non possano essere raggiunti se non per via genetica, quasi che, ad esempio, il mestiere di carrettiere non si possa imparare se non si abbia un genitore vetturale di bestie da soma...
vatecare=vetturale, trasportatore di merci sost. masch. derivato dall’agg.vo lat. viaticus + il suff. di pertinenza areus→aro.
3 SI MINE 'NA SPORTA 'E TARALLE 'NCAPO A CHILLO, NUN NE VA MANCO UNO 'NTERRA
Letteralmente: se butti il contenuto di una cesta di taralli sulla testa di quello non ne cade a terra neppure uno (stanti le frondose ed irte corna di cui è provvista la sua testa e nelle quali corna , i taralli rimarrebbero infilati). Icastica ed iperbolica descrizione di un uomo molto tradito dalla propria donna.
4 MUNTAGNE E MUNTAGNE NUN S'AFFRONTANO.
Letteralmente: le montagne non si scontrano con le proprie simili. È una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol lasciare intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche cruento, stante la considerazione che solo i monti sono immobili...e non vogliono o possono scendere sul terreno dello scontro con i proprii simili!
5 FACCIA 'E TRENT'ANNE 'E FAVE.
Letteralmente: faccia da trent'anni di fava. Offesa gravissima con la quale si suole bollare qualcuno che abbia un volto poco rassicurante,quasi da galeotto, dal quale pertanto non ci si attende niente di buono, anzi si paventano ribalderie. La locuzione fu coniata tenendo presente che la fava secca era il cibo quasi quotidiano che nelle patrie galere veniva somministrato ai detenuti; i trent'anni rammentano il massimo delle detenzione comminabile prima dell'ergastolo; per cui un individuo condannato a trent'anni di reclusione si presume si sia macchiato di colpe gravissime e sia pronto a reiterare i reati, per cui occorre temerlo e prenderne le distanze. L’assunto in epigrafe forse conferma se non dimostra che non aveva tutti i torti Cesare Lombroso(Verona, 6 novembre 1835 –† Torino, 19 ottobre 1909) famoso antropologo, criminologo e giurista italiano. che fu uno dei pionieri degli studi sulla criminalità e nei suoi studi di fisiognomica operò una classificazione dei delinquenti in base ai loro tratti somatici; ebbe certamente torto però quando però, dopo d’averlo ipotizzato, pretese addirittura di dimostrare che tutti i crani di meridionali da lui studiati o presi in esame presentassero le caratteristiche di esseri inferiori, stupidi ed imbecilli oltre che criminali!
6 SPARÀ A VRENNA.
Letteralmente: sparare a crusca. Id est: minacciare per celia senza far seguire alle parole , nessuno dei fatti minacciati. L'espressione la si usa quando ci si riferisca a negozi, affari che si concludono in un nulla di fatto e si ricollega ad un'abitudine dell'esercito borbonico i cui proiettili, durante le esercitazioni, erano caricati anziché con piombo con la crusca, affinchè i colpi non procurassero danno alla truppa che si esercitava.
7 'E SCIABBULE STANNO APPESE E 'E FODERE CUMBATTONO.
Letteralmente: le sciabole stanno attaccate al chiodo e i foderi duellano. L'espressione è usata per sottolineare tutte le situazioni nelle quali chi sarebbe deputato all'azione, per ignavia o cattiva volontà si è fatto da parte lasciando l'azione alle seconde linee, con risultati chiaramente inferiori alle attese.
8 'A TAVERNA D''O TRENTUNO.
Letteralmente: la taverna del trentuno. Cosí, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle piú disparate ore, pretendendo che venga servito loro un veloce pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola del contado napoletano, situata in quel della zona vecchia di Pozzuoli in via san Rocco (oggi) 16, all’insegna : Taverna del trenta e trentuno che prendeva il nome dal civico dove era ubicata e che aveva due ingressi contigui: ai civici 30 e 31, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte.
taverna = bettola, osteria di infimo ordine; etimologicamente dal latino taberna(m) che significò bottega ed osteria ed è in quest’ultimo significato che la voce fu accolta,con tipica alternanza partenopea di B - V, nella lingua napoletana che per il significato di bottega preferí ricorrere, come vedemmo alibi, al greco apoteca donde trasse la voce puteca.
trentuno = agg. num. card. invar. numero naturale corrispondente a trenta unità piú uno; nella numerazione araba è rappresentato da 31, in quella romana da XXXI; l’etimo è dal lat. triginta + unum
9 'A VACCA, PE NUN MOVERE 'A CODA SE FACETTE MAGNÀ 'E PPACCHE DA 'E MOSCHE.
Letteralmente: la mucca per non voler muovere la coda, si lasciò mangiare le natiche dalle mosche. Lo si dice sarcasticamente riferendolo a gli indolenti ed ai pigri che son disposti a subire gravi nocumenti, ma non muovono un dito per evitarli alla stessa stregua di una vacca che assalita dalle mosche, per non sottostare alla fatica di agitare la coda, lasci che le mosche le pizzichino il fondo schiena!
10 TRASÍ O PASSÀ CU 'A SCOPPOLA.
Letteralmente: entrare o passare con lo scappellotto. Id est: entrare in teatro o altri luoghi pubblici come musei o pinacoteche o mostre artistiche senza pagare e senza le necessarie credenziali: biglietti o inviti. La locuzione fotografa il benevolo comportamento di taluni custodi che furono soliti fare entrare i ragazzi senza pagare il dovuto, spingendoli dentro con un compiacente scappellotto. Per traslato la locuzione si attaglia a tutte quelle situazioni, come ad es. degli esami superati senza meriti, con la benevolenza dell’esaminatore o situazioni nelle quali gratuitamente si ottengono benefìci per la magnanimità di coloro che invece dovrebbero controllare.
11 POZZA MURÍ 'E TRUONO A CCHI NUN LE PIACE 'O BBUONO.
Letteralmente: possa morire di violenta bastonatura chi non ama il buono. In una città come Napoli dove vi è un'ottima e succulenta cucina chi non è buongustaio merita di morire bastonato violentemente. in napoletano truono (dal lat. tronitus) significa sia tuono che, per ampiamento semantico, percosse violente. Faccio notare che nell’idioma napoletano il complemento oggetto - anche in frasi rette, come in questo caso, da verbo impersonale - se essere animato è sempre preceduto da una A segnacaso che invece manca se il complemento è un oggetto o cosa inanimata (ad es. aggiu visto a pateto= ò visto tuo padre – aggiu chiammato ô= a ‘o zio = ò chiamato lo zio – ma aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere etc.).
12 'A FORCA È FFATTA P''E PUVERIELLE.
Letteralmente: la forca è fatta per i poveri. Id est: nei rigori della legge incorrono solo i poveri, i ricchi trovano sempre il modo di scamparla. In senso storico, la locuzione rammenta però che la pena dell'impiccagione era comminata ai poveri, mentre ai ricchi ed ai nobili era riservata la decapitazione o - in tempi piú recenti - la fucilazione.
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Il verbo napoletano PIGLIÀ (PIGLIARE)
Il verbo napoletano PIGLIÀ (PIGLIARE) ed i suoi significati estensivi
Cominciamo col dire súbito che il verbo napoletano piglià (pigliare) sebbene abbia il medesimo etimo (lat. volg. piliare, dal class. pilare rubare, saccheggiare, sottrarre ) del corrispondente pigliare della lingua italiana, si differenzia da quest’ultimo per un molto piú ampio ventaglio di significati; infatti l’italiano pigliare quanto ai significati non va oltre il prendere, specialmente in modo energico e rapido;afferrare; mentre il napoletano piglià sta per: prendere, comprare, comprendere, attecchire, arrestare, catturare, confondere oltre altri numerosi significati giusta il complemento cui sia legato; numerosa è infatti la fraseologia che in napoletano si può costruire con il verbo piglià; al proposito rammenterò:
- piglià ‘o tifo, piglià ‘o catarro (ammalarsi di tifo, ammalarsi di raffreddore etc; piú genericamente: piglià ‘na malatia (ammalarsi);
- -tifo = tifo etimologicamente da un lat. scientifico tyfus che è dal greco tŷfos= fumo, poi febbre con torpore;
- catarro = raffreddore copioso etimologicamente da un lat. tardo catarrhu(m), che è dal gr. katárrous, deriv. di katarrêin 'scorrere giú;
malatia = malattia etimologicamente forgiato su malato Dal lat. male habitu(m), che ricalca il gr. kakôs échon che sta male;
- piglià a mmazzate = percuotere originariamente con una mazza (lat. mateam) (donde mazzate = colpi di mazza), poi con ogni altro corpo contundente ed anche a mani nude;
- piglià aria = uscire all’aperto per godere dell’aria piena e libera;
- aria (Lat. aera, nom. aer, dal gr. aér);
- piglià ‘e fummo di cibo che, per imperizia di chi cucina, prenda sapore di fumo se non di bruciato o arsicciato;
- fummo (dal lat. fumum con radd. popolare della consonante implicata); rammenterò che anticamente anche l’italiano ebbe, come il napoletano fummo piuttosto che fumo; poi la voce fu dismessa forse per evitare l’omofonia con la voce verbale (1° p.pl. pass. remoto verbo essere) ;
- piglià fuoco = incendiarsi e metaforicamente infiammarsi, adirarsi etc.
- fuoco ( dal lat. focum con dittongazione della sillaba d’avvio intesa breve);
- piglià ‘e pparte ‘e uno = parteggiare, in una contesa, per qualcuno, schierarsi con qualcuno e spesso senza motivo, per il solo gusto di partecipare ad una contesa;
- parte = partito, schieramento, fazione (dal latino partem);
- piglià ‘na strata o ‘na via = avviarsi per una strada o via, metaforicamente giusta l’aggettivo (bbona/ mala) che accompagna il sostantivo strata/via: scegliere di comportarsi bene o male;
- piglià ‘e spunta = inacidire: detto di vino nuovo, mal conservato, che inacidisca o tenda ad inacidire;
- spunta = forte, acidulo ( probabilmente da punta con protesi di una s intensiva per significare il sapore forte proprio del vino che inacidisce; anche in italiano di tale vino si dice che è spunto.
- piglià ‘nu smallazzo/ ‘nu sciuliamazzo= stramazzare, cadere in terra di colpo/ scivolare finendo seduti in terra ;
- smallazzo=di per sé lo stramazzare, il cadere di colpo e pesantemente, etimo non tranquillissimo trattandosi di voce a carattere gergal-popolare, nella cui formazione comunque, a mio avviso, è abbastanza facile cogliere l’unione del verbo smallare(privare della buccia, del mallo) con il sostantivo mazzo (culo, deretano, sedere da un acc. latino matiam (reso maschile)= intestino), unione semanticamente spiegata col fatto che un stramazzare violento può comportare quasi certamente un’abrasione, che si può configurare come il privare di una ipotetica buccia il sedere; il medesimo mazzo lo si ritrova nella voce sciuliamazzo= scivolone con conseguente caduta battendo il sedere; etimo: dal verbo sciulià + il sost. mazzo; sciulià= scivolare da un lat. volgare exevoliare frequentativo di exevolare;
- pigliarse a capille = litigare (soprattutto di donne) accapigliandosi;
- pigliarse ‘e mano = venire alle mani, litigare furiosamente (detto di uomini)percuotendosi vicendevolmente;
- pigliarse collera = arrabbiarsi, dispiacersi;collera = collera, ira,dispiacere (dal lat. chòleram);
- pigliarsela cu uno = accusare qualcuno, ritenendolo (spesso senza motivo) responsabile di un accadimento, addossare a qualcuno una colpa forse non sua;
- pigliarla ‘e liscio = scivolare, ma estensivamente eccedere nel parlare o nell’azione;
- liscio = liscio, levigato tale da indurre a scivolare (Lat. volg. lisiu(m), prob. voce di orig. espressiva);
elenco ora tutta una serie di espressioni usate per significare l’incorrere in un errore piú o meno grande; abbiamo:
- piglià ‘a sputazza p’’a lira ‘argiento = confondere un volgare sputo con una moneta d’argento sputazza = dispregiativo di sputo da un lat. volg. sputaceam;
- piglià ‘o stipo pe don Rafele (confondere un armadio con un tal don Raffaele;locuzione mutuata da una farsa pulcinellesca, nella quale il tale don Raffaele era cosí corpulento da esser confuso con uno stipo(etimologicamente deverbale del verbo stipare=accumulare; lo stipo è l’armadio atto all’accumulazione);
- piglià ‘o cuoppo ‘aulive p’’o campanaro ‘o Carmene (confondere il cartoccio conico contenente le olive con il campanile del Carmine Maggiore) confusione iperbolica ed impensabile non potendosi mai paragonare un piccolo cartocetto, sia pure conico con lo svettante e massiccio campanile del Carmine Maggiore campanile adiacente l’omonima basilica napoletana fatta erigere a partire dal 1301 con le elargizioni di Elisabetta di Baviera, madre di Corradino di Svevia e con le sovvenzioni di Margherita di Borgogna, seconda moglie di Carlo I d’Angiò; il campanile tirato su dall’architetto Giovan Giacomo di Conforto e dal frate domenicano fra’ Nuvolo che lo coronò con la cella ottagonale e la cuspide a pera carmosina, è uno dei monumenti piú famosi e riconoscibili della città partenopea; í
- piglià ‘o cazzo d’’o ciuccio p’’a lanterna 'o Muolo(iperbolicissima confusione tra il membro dell’asino ed il faro del Molo);
-Piglià 'a banca 'e ll'acqua p''o carro 'e piererotta
Ad litteram: confondere il banco della mescita dell'acqua per il carro della festa di Piedigrotta Locuzione con cui si indicano sesquipedali errori in cui incorrono soprattutto gli stupidi ed i disattenti atteso che, per quanto coperto di elementi ornativi il piccolo banco dell'acquaiolo non può mai o meglio, non poteva mai raggiungere l'imponenza di un carro della festa di Piedigrotta, -
- piglià ‘nu zzarro o alibi piglià ‘nu rancefellone (incorrere in un inciampo che determini all’errore o prendere un granchio) infatti la parola zzarro dall’arabo zahr è il dado ma anche il sasso sporgente dal suolo, quel sasso in cui si può inciampare; ‘o rancefellone di per sé è il grosso granchio aduso a mordere, per traslato (come per l’italiano granchio) è lo svarione, il grosso errore; la parola è composta da rance dal latino cancer (granchio) nella forma metatica crance(r)+ il francese felon =fellone, traditore;
- piglià ‘nu strunzo ‘mbuolo = intromettersi, intervenire a sproposito in una questione che non ci riguardi; ‘mbuolo sta per in + vuolo, dove vuolo o buolo con tipica alternanza partenopea b/v è un particolare piccolo retino da pesca, usato per pescare a volo i pesci in transito; qualora in luogo di pesce si pescasse uno stronzo (dal longob. strunz 'sterco') si incorrerebbe in un’azione sciocca ed inutile tal quale quella di chi si intromette, intervenendo a sproposito in casi non suoi.;
- ‘o piglia letteralmente lo prende (e cosa sia il lo è facilmente intuibile…) espressione usata sarcasticamente nei riguardi di donna ritenuta di facili costumi;
- pigliarse ‘o pusilleco letteralmente prendersi il posillipo: espressione che alibi già illustrai ad abundantiam; qui mi limiterò ad indicarne rapidamente il significato di: divertirsi, darsi il buon tempo in compagnia di una donna; in senso furbesco ed antifrastico: buscarsi la lue.
- Piglià cu 'e bbone o all'inverso piglià cu 'e triste
Ad litteram: pigliar con le buone; o all'inverso prender con le cattive, violentemente id est: trattar qualcuno con buone maniere, con dolcezza, nel tentativo di ottener quello che se chiesto cu'e triste ovvero le maniere forti, probabilmente non si otterrebbe.
- Piglià ll'acqua a passà
Ad litteram: prendere l'acqua che passa id est: atteggiarsi a statico e svogliato; detto di chi si adagia mollemente in una situazione di comodo, rilassatamente ed infingardamente, non attivandosi a nulla, ma godendo dei rilassanti benefici derivanti dallo starsene in panciolle, tal quale chi, praticando l'idroterapia non deve fare altro che godere dei benefici dell'acqua che, muovendosi, passa.
-Pigliarse 'a scigna
Ad litteram: prendersi una scimmia; id est: arrabbiarsi, adontarsi,ubbriacarsi, incollerirsi, ma anche intestardirsi comportandosi caparbiamente ed irrazionalmente tal quale chi è preda dell'ubbriacatura in napoletano resa con la parola scigna non dissimilmente dal latino simia che nel linguaggio popolare indicava sia l'ubbriachezza che la collera.
- Piglià 'nu bbagno
Ad litteram: prendere un bagno id est: subire un grosso tracollo economico,, ma anche pagare un bene in maniera esorbitante rispetto al preventivato.
-Piglià 'nu terno
Ad litteram: prendere un terno id est: godere di una improvvisa, non preventivata nè cercata fortuna e ciò sia in senso materiale quando si venga fortunatamente, in possesso di una somma di danaro, sia in senso morale quando si verifichino avvenimenti tali da lasciarci soddisfatti e premiati oltre lo sperato.
- Piglià p''o culo
Ad litteram: prendere per il culo id est: ingannare, gabbare qualcuno; locuzione molto piú icastica e corposa della corrispondente italiana : prendere per i fondelli, atteso che quella napoletana, piú acconciamente, evitando una inutile sinoddoche, chiama in causa il contenuto non il contenente.
-Píglialo 'nculo
Ad litteram: prendilo nel culo(ed il cosa è facilmente intuibile) Rabbiosa esclamazione indirizzata verso chi si voglia invitare a lasciarsi figuratamente sodomizzare, per significargli che deve accettare ciò che viene, senza opporre resistenza, soprattutto se ciò che arriva è un tiro mancino proditorio ed inatteso, tiro scoccato da qualcuno con cui non si può competere; spesso la locuzione in epigrafe è accompagnata da un perentorio e statte zitto (e taci).
- Pigliarla a ppazziella
Ad litteram: prenderla a giuoco Id est: prendere alla leggera un avvenimento senza porvi la necessaria attenzione, non dandovi importanza, tenendolo in non cale e trattandolo alla medesima stregua di un giuoco; detto pure con riferimento all'atteggiamento scioccamente superficiale tenuto da qualcuno in presenza ed in risposta di conclamati fatti seri che meriterebbero adeguata attenzione e che invece vengono affrontati con ironia e senza impegno, come se si trattasse di un giuoco.
- Piglià 'na quinta 'mbacante
Ad litteram:pigliare una "quinta" a vuoto Id est: per imperizia o negligenza commettere un grosso errore. Locuzione mutuata dal linguaggio musicale; la "quinta" è un accordo musicale usato spessissimo nelle partiture di musica napoletana; prendere a vuoto la quinta significa o sbagliarne il momento dell'esecuzione o errarne la composizione come unione di note necessarie ed atte a formare l'accordo ; per traslato, dal linguaggio musicale si è approdati al linguaggio dell'uso comune.
In chiusura rammenterò un paio di significativi vocaboli partenopei forgiati con il concorso del verbo piglià: piglianculo = giovane uomo intraprendente, disinvolto, checontrariamente a ciò che potrebbe apparire non si lascia prendere per il naso e difficilissimamente cede agli inganni (evidenti le tre parti: piglia + in + culo con cui è formato il vocabolo), pigliepporta = il pettegolo malevolo che ascolta (piglia) e riferisce ad altri (porta).
Raffaele Bracale
Cominciamo col dire súbito che il verbo napoletano piglià (pigliare) sebbene abbia il medesimo etimo (lat. volg. piliare, dal class. pilare rubare, saccheggiare, sottrarre ) del corrispondente pigliare della lingua italiana, si differenzia da quest’ultimo per un molto piú ampio ventaglio di significati; infatti l’italiano pigliare quanto ai significati non va oltre il prendere, specialmente in modo energico e rapido;afferrare; mentre il napoletano piglià sta per: prendere, comprare, comprendere, attecchire, arrestare, catturare, confondere oltre altri numerosi significati giusta il complemento cui sia legato; numerosa è infatti la fraseologia che in napoletano si può costruire con il verbo piglià; al proposito rammenterò:
- piglià ‘o tifo, piglià ‘o catarro (ammalarsi di tifo, ammalarsi di raffreddore etc; piú genericamente: piglià ‘na malatia (ammalarsi);
- -tifo = tifo etimologicamente da un lat. scientifico tyfus che è dal greco tŷfos= fumo, poi febbre con torpore;
- catarro = raffreddore copioso etimologicamente da un lat. tardo catarrhu(m), che è dal gr. katárrous, deriv. di katarrêin 'scorrere giú;
malatia = malattia etimologicamente forgiato su malato Dal lat. male habitu(m), che ricalca il gr. kakôs échon che sta male;
- piglià a mmazzate = percuotere originariamente con una mazza (lat. mateam) (donde mazzate = colpi di mazza), poi con ogni altro corpo contundente ed anche a mani nude;
- piglià aria = uscire all’aperto per godere dell’aria piena e libera;
- aria (Lat. aera, nom. aer, dal gr. aér);
- piglià ‘e fummo di cibo che, per imperizia di chi cucina, prenda sapore di fumo se non di bruciato o arsicciato;
- fummo (dal lat. fumum con radd. popolare della consonante implicata); rammenterò che anticamente anche l’italiano ebbe, come il napoletano fummo piuttosto che fumo; poi la voce fu dismessa forse per evitare l’omofonia con la voce verbale (1° p.pl. pass. remoto verbo essere) ;
- piglià fuoco = incendiarsi e metaforicamente infiammarsi, adirarsi etc.
- fuoco ( dal lat. focum con dittongazione della sillaba d’avvio intesa breve);
- piglià ‘e pparte ‘e uno = parteggiare, in una contesa, per qualcuno, schierarsi con qualcuno e spesso senza motivo, per il solo gusto di partecipare ad una contesa;
- parte = partito, schieramento, fazione (dal latino partem);
- piglià ‘na strata o ‘na via = avviarsi per una strada o via, metaforicamente giusta l’aggettivo (bbona/ mala) che accompagna il sostantivo strata/via: scegliere di comportarsi bene o male;
- piglià ‘e spunta = inacidire: detto di vino nuovo, mal conservato, che inacidisca o tenda ad inacidire;
- spunta = forte, acidulo ( probabilmente da punta con protesi di una s intensiva per significare il sapore forte proprio del vino che inacidisce; anche in italiano di tale vino si dice che è spunto.
- piglià ‘nu smallazzo/ ‘nu sciuliamazzo= stramazzare, cadere in terra di colpo/ scivolare finendo seduti in terra ;
- smallazzo=di per sé lo stramazzare, il cadere di colpo e pesantemente, etimo non tranquillissimo trattandosi di voce a carattere gergal-popolare, nella cui formazione comunque, a mio avviso, è abbastanza facile cogliere l’unione del verbo smallare(privare della buccia, del mallo) con il sostantivo mazzo (culo, deretano, sedere da un acc. latino matiam (reso maschile)= intestino), unione semanticamente spiegata col fatto che un stramazzare violento può comportare quasi certamente un’abrasione, che si può configurare come il privare di una ipotetica buccia il sedere; il medesimo mazzo lo si ritrova nella voce sciuliamazzo= scivolone con conseguente caduta battendo il sedere; etimo: dal verbo sciulià + il sost. mazzo; sciulià= scivolare da un lat. volgare exevoliare frequentativo di exevolare;
- pigliarse a capille = litigare (soprattutto di donne) accapigliandosi;
- pigliarse ‘e mano = venire alle mani, litigare furiosamente (detto di uomini)percuotendosi vicendevolmente;
- pigliarse collera = arrabbiarsi, dispiacersi;collera = collera, ira,dispiacere (dal lat. chòleram);
- pigliarsela cu uno = accusare qualcuno, ritenendolo (spesso senza motivo) responsabile di un accadimento, addossare a qualcuno una colpa forse non sua;
- pigliarla ‘e liscio = scivolare, ma estensivamente eccedere nel parlare o nell’azione;
- liscio = liscio, levigato tale da indurre a scivolare (Lat. volg. lisiu(m), prob. voce di orig. espressiva);
elenco ora tutta una serie di espressioni usate per significare l’incorrere in un errore piú o meno grande; abbiamo:
- piglià ‘a sputazza p’’a lira ‘argiento = confondere un volgare sputo con una moneta d’argento sputazza = dispregiativo di sputo da un lat. volg. sputaceam;
- piglià ‘o stipo pe don Rafele (confondere un armadio con un tal don Raffaele;locuzione mutuata da una farsa pulcinellesca, nella quale il tale don Raffaele era cosí corpulento da esser confuso con uno stipo(etimologicamente deverbale del verbo stipare=accumulare; lo stipo è l’armadio atto all’accumulazione);
- piglià ‘o cuoppo ‘aulive p’’o campanaro ‘o Carmene (confondere il cartoccio conico contenente le olive con il campanile del Carmine Maggiore) confusione iperbolica ed impensabile non potendosi mai paragonare un piccolo cartocetto, sia pure conico con lo svettante e massiccio campanile del Carmine Maggiore campanile adiacente l’omonima basilica napoletana fatta erigere a partire dal 1301 con le elargizioni di Elisabetta di Baviera, madre di Corradino di Svevia e con le sovvenzioni di Margherita di Borgogna, seconda moglie di Carlo I d’Angiò; il campanile tirato su dall’architetto Giovan Giacomo di Conforto e dal frate domenicano fra’ Nuvolo che lo coronò con la cella ottagonale e la cuspide a pera carmosina, è uno dei monumenti piú famosi e riconoscibili della città partenopea; í
- piglià ‘o cazzo d’’o ciuccio p’’a lanterna 'o Muolo(iperbolicissima confusione tra il membro dell’asino ed il faro del Molo);
-Piglià 'a banca 'e ll'acqua p''o carro 'e piererotta
Ad litteram: confondere il banco della mescita dell'acqua per il carro della festa di Piedigrotta Locuzione con cui si indicano sesquipedali errori in cui incorrono soprattutto gli stupidi ed i disattenti atteso che, per quanto coperto di elementi ornativi il piccolo banco dell'acquaiolo non può mai o meglio, non poteva mai raggiungere l'imponenza di un carro della festa di Piedigrotta, -
- piglià ‘nu zzarro o alibi piglià ‘nu rancefellone (incorrere in un inciampo che determini all’errore o prendere un granchio) infatti la parola zzarro dall’arabo zahr è il dado ma anche il sasso sporgente dal suolo, quel sasso in cui si può inciampare; ‘o rancefellone di per sé è il grosso granchio aduso a mordere, per traslato (come per l’italiano granchio) è lo svarione, il grosso errore; la parola è composta da rance dal latino cancer (granchio) nella forma metatica crance(r)+ il francese felon =fellone, traditore;
- piglià ‘nu strunzo ‘mbuolo = intromettersi, intervenire a sproposito in una questione che non ci riguardi; ‘mbuolo sta per in + vuolo, dove vuolo o buolo con tipica alternanza partenopea b/v è un particolare piccolo retino da pesca, usato per pescare a volo i pesci in transito; qualora in luogo di pesce si pescasse uno stronzo (dal longob. strunz 'sterco') si incorrerebbe in un’azione sciocca ed inutile tal quale quella di chi si intromette, intervenendo a sproposito in casi non suoi.;
- ‘o piglia letteralmente lo prende (e cosa sia il lo è facilmente intuibile…) espressione usata sarcasticamente nei riguardi di donna ritenuta di facili costumi;
- pigliarse ‘o pusilleco letteralmente prendersi il posillipo: espressione che alibi già illustrai ad abundantiam; qui mi limiterò ad indicarne rapidamente il significato di: divertirsi, darsi il buon tempo in compagnia di una donna; in senso furbesco ed antifrastico: buscarsi la lue.
- Piglià cu 'e bbone o all'inverso piglià cu 'e triste
Ad litteram: pigliar con le buone; o all'inverso prender con le cattive, violentemente id est: trattar qualcuno con buone maniere, con dolcezza, nel tentativo di ottener quello che se chiesto cu'e triste ovvero le maniere forti, probabilmente non si otterrebbe.
- Piglià ll'acqua a passà
Ad litteram: prendere l'acqua che passa id est: atteggiarsi a statico e svogliato; detto di chi si adagia mollemente in una situazione di comodo, rilassatamente ed infingardamente, non attivandosi a nulla, ma godendo dei rilassanti benefici derivanti dallo starsene in panciolle, tal quale chi, praticando l'idroterapia non deve fare altro che godere dei benefici dell'acqua che, muovendosi, passa.
-Pigliarse 'a scigna
Ad litteram: prendersi una scimmia; id est: arrabbiarsi, adontarsi,ubbriacarsi, incollerirsi, ma anche intestardirsi comportandosi caparbiamente ed irrazionalmente tal quale chi è preda dell'ubbriacatura in napoletano resa con la parola scigna non dissimilmente dal latino simia che nel linguaggio popolare indicava sia l'ubbriachezza che la collera.
- Piglià 'nu bbagno
Ad litteram: prendere un bagno id est: subire un grosso tracollo economico,, ma anche pagare un bene in maniera esorbitante rispetto al preventivato.
-Piglià 'nu terno
Ad litteram: prendere un terno id est: godere di una improvvisa, non preventivata nè cercata fortuna e ciò sia in senso materiale quando si venga fortunatamente, in possesso di una somma di danaro, sia in senso morale quando si verifichino avvenimenti tali da lasciarci soddisfatti e premiati oltre lo sperato.
- Piglià p''o culo
Ad litteram: prendere per il culo id est: ingannare, gabbare qualcuno; locuzione molto piú icastica e corposa della corrispondente italiana : prendere per i fondelli, atteso che quella napoletana, piú acconciamente, evitando una inutile sinoddoche, chiama in causa il contenuto non il contenente.
-Píglialo 'nculo
Ad litteram: prendilo nel culo(ed il cosa è facilmente intuibile) Rabbiosa esclamazione indirizzata verso chi si voglia invitare a lasciarsi figuratamente sodomizzare, per significargli che deve accettare ciò che viene, senza opporre resistenza, soprattutto se ciò che arriva è un tiro mancino proditorio ed inatteso, tiro scoccato da qualcuno con cui non si può competere; spesso la locuzione in epigrafe è accompagnata da un perentorio e statte zitto (e taci).
- Pigliarla a ppazziella
Ad litteram: prenderla a giuoco Id est: prendere alla leggera un avvenimento senza porvi la necessaria attenzione, non dandovi importanza, tenendolo in non cale e trattandolo alla medesima stregua di un giuoco; detto pure con riferimento all'atteggiamento scioccamente superficiale tenuto da qualcuno in presenza ed in risposta di conclamati fatti seri che meriterebbero adeguata attenzione e che invece vengono affrontati con ironia e senza impegno, come se si trattasse di un giuoco.
- Piglià 'na quinta 'mbacante
Ad litteram:pigliare una "quinta" a vuoto Id est: per imperizia o negligenza commettere un grosso errore. Locuzione mutuata dal linguaggio musicale; la "quinta" è un accordo musicale usato spessissimo nelle partiture di musica napoletana; prendere a vuoto la quinta significa o sbagliarne il momento dell'esecuzione o errarne la composizione come unione di note necessarie ed atte a formare l'accordo ; per traslato, dal linguaggio musicale si è approdati al linguaggio dell'uso comune.
In chiusura rammenterò un paio di significativi vocaboli partenopei forgiati con il concorso del verbo piglià: piglianculo = giovane uomo intraprendente, disinvolto, checontrariamente a ciò che potrebbe apparire non si lascia prendere per il naso e difficilissimamente cede agli inganni (evidenti le tre parti: piglia + in + culo con cui è formato il vocabolo), pigliepporta = il pettegolo malevolo che ascolta (piglia) e riferisce ad altri (porta).
Raffaele Bracale
VARIE 1100
1.JÍ TRUVANNO CRISTO ‘INT’ Ê LUPINE o meglio JÍ TRUVANNO CRISTO DINTO A LA PINA
ad litteram: Andar cercando Cristo fra i lupini o meglio Andar cercando Cristo nella pigna. Id est: mettersi alla ricerca di una cosa difficile da trovarsi o da conseguirsi; cosa pretestuosa e probabilmente inutile, per cui, il piú delle volte, non metterebbe conto il mettersene alla ricerca.
Come ò segnalato la prima locuzione è meno esatta della seconda che risulta essere quella originaria, mentre la prima ne è solo una frettolosa corruzione; ed in effetti se si analizza la seconda locuzione, quella consigliata, si può intendere a pieno la valenza delle espressioni, valenza che è difficile cogliere accettando la prima locuzione che fa riferimento ad incoferenti e pretestuosi lupini; quanto piú corretta la seconda, quella che fa riferimento alla pigna in quanto i pinoli in essa contenuti presentano un ciuffetto di cinque peli comunemente detto: manina di Cristo e la locuzione richiama la ricerca di detta manina, operazione lunga e che non sempre si conclude positavamente: infatti occorre innanzitutto procurarsi una pigna fresca, abbrustolirla al fuoco per poi spaccarla ed estrarne i contenitori dei pinoli, da cui trar fuori i suddetti ed alla fine andare alla ricerca della manina e cioè di Cristo; spesso capita però che i contenitori siano vuoti di pinoli e dunque tutta la fatica fatta va sprecata e si rivela inutile. Qualche altro scrittore di cose napoletane nel vano tentativo di fare accogliere la prima locuzione, fa riferimento ad una non meglio annotata o rammentata leggenda che vede stranamente la Vergine Maria non esser misericordiosa con la pianta di lupini; nelle mie ricerche tale leggenda è risultata pressocché sconosciuta, mentre non v’è anziano popolano che non sia a conoscenza della manina di Cristo.
2.JÍ TRUVANNO CHI LL’ACCIDE nell’espressione: VA TRUVANNO CHI LL’ACCIDE
Ad litteram: andare in cerca di chi l’uccide nell’espressione va in cerca di chi l’uccide
espressione usata per commentare le antipatiche azioni del provocatore, di chi stuzzichi il prossimo fino a destare, anche se figuratamente, nei meno pazienti, istinti omicidi.
3.JÍ TRUVANNO GUAJE CU ‘A LANTERNELLA
Ad litteram: andare in cerca di guai con un lanternino detto di chi per sua natura e non per sopraggiunte casualità, si va cacciando di proposito nei guai, quasi andandone alla ricerca con una lanterna per meglio trovarli.
4.JÍ PE FFICHE E TRUVÀ CETRÓLE
Ad litteram: andare in cerca di fichi e trovare cetrioli. Locuzione di portata simile a quella ricordata al num. 361 atteso che il cetriolo pure essendo un ortaggio buono ed edibile, non è certo saporito e gustoso come un fico.
5. JÍ Ô BBATTESEMO SENZA ‘O CRIATURO
Ad litteram: recarsi al fonte battesimale senza il bambino (da battezzare) locuzione usata per bollare situazioni macroscopicamenti carenti degli elementi essenziali alla loro esistenza, riferita spercialmente a tutti coloro che distratti per natura, o perché colpevolmente poco attenti si accingono ad operazioni destinate a fallire perché prive del necessario sostrato dimenticato per distrazione o non conferito per disattenzione.
6.JÍ A PPUORTO (O A PUORTECE) PE ‘NA RAPESTA.
Ad litteram: recarsi al porto (oppure a Portici) per (acquistare) una rapa. Id est: impegnarsi eccessivamente, affaticarsi oltremodo per raggiungere un risultato modesto o meschino come sarebbe il recarsi al mercato ortofrutticolo all’ingrosso un tempo ubicato nei pressi del porto oppure recarsi addirittura a Portici, piccolo comune agricolo nei pressi di Napoli, per acquistare una sola, insignificante rapa.
7.JÍ DINT’ A LL’OSSA.
Ad litteram: andare nelle ossa detto di tutto ciò che risulti ampiamente giovevole, utile e proficuo che faccia quasi assaporarne i benefici fin dentro le ossa; la locuzione però non attiene esclusivamente al piano fisico , potendosi usare anche o spesso con riferimenti morali.
8. JÍ ‘NFREVA
Ad litteram: andare in febbre id est: adontarsi, lasciarsi cogliere da moti di rabbia innanzi a situazioni ritenute cosí ingiuste o prevaricanti da destare agitazione, foriera di febbre.
9.JÍ METTENNO ‘A FUNE ‘E NOTTE
Ad litteram: Andar mettendo la fune di notte. Locuzione che si usava pronunciare risentitamente, in forma negativa ( nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte) (non vado tendendo la fune di notte)oppure sotto forma di domande retoriche:ma che ghiesse mettenno fune ‘e notte?(forse che vado tendendo funi di notte?),oppure ma che te cride ca vaco mettenno fune ‘e notte? (pensi forse ch’io vada tendendo funi di notte?) per protestare la propria onestà, davanti ad eccessive richieste di carattere economico; a mo’ d’esempio quando un figlio chiede troppo al proprio genitore, costui nel negargli il richiesto usa a mo’ di spiegazione la locuzione in epigrafe, volendo significare: essendo una persona onesta e non un masnadiero abituato a rapinare i viandanti tendendo una fune traverso la strada, per farli inciampare e crollare al suolo, non ò i mezzi economici che occorrerebbero per aderire alle tue esose richieste; perciò règolati e mòderale !
10.JÍ TRUVANNO OVA ‘E LUPO E PIETTENE ‘E QUINNECE.
Ad litteram: andare in cerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose ma vane come sarebbe l’andare alla ricerca di uova di lupo che è un animale viviparo o cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i pettini da cardatura non ne contavano mai piú di tredici.
11.JÍ TRUVANNO SCESCÉ
Espressione intraducibile ad litteram con la quale si identifica chi, in ogni occasioni cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo dichiarato di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare), ma non ci sono certezze circa il suo primo utilizzo nel senso indicato. Si può però tranquillamente ipotizzare che durante la dominazione murattiana, se non durante quella angioina, un milite francese si fermasse a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usasse una frase analoga contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che con ogni probabilità non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).
12.LL’URDEMU LAMPIONE ‘E FOREROTTA.
ad litteram:l’ ultimo lampione di Fuorigrotta id est: essere l’ultimo, inutile, insignificante individuo di un cossesso quale esso sia. La locuzione si riferisce al fatto che un tempo a Napoli i lampioni dell’illuminazione stradale erano numerati ed accesi a sera progressivamente secondo la loro numerazione cardinale. l’ultimo di essi lampioni contrassegnato con il num. 6666 era ubicato nella periferica zona occidentale della città nel quartiere detto di Fuorigrotta ed era l’ultimo ad essere acceso , quando già le prime luci del giorno ne sminuivano l’utilità;alla luce di quanto detto si comprende che è solo un divertente, ma incoferente esercizio mentale considerare che con la quadruplice sequenza del num. 6 che nella smorfia indica tra l’altro lo sciocco, il lampione contrassegnato 6666 possa indicare un gran babbeo.
13.LL’OMMO ‘NCOPP’Â SALÈRA
Ad litteram: l’uomo sulla saliera. Cosí con l’espressione in epigrafe a Napoli si è soliti prendersi giuoco di uomini che siano piccoli e non fisicamente prestanti, assimilati a quella statuina posta come impugnatura alla sommità dei coperchi delle saliere di terracotta, statuina che riproduceva le sembianze di un tal Tom Pouce nanetto inglese che intorno al 1860 si esibí a Napoli in uno spettacolo di circo equestre.
14.LLOCO TE VOGLIO, ZUOPPO, A ‘STA SAGLIUTA
Ad litteram: Lí ti voglio (vedere), zoppo, innanzi a questa salita (vediamo cosa saprai fare...). Locuzione che ricorda quasi il dantesco: Qui si parrà la tua nobilitate e che viene usata nei confronti di tutti i saccenti, supponenti millantatori che certamente crolleranno innanzi alle prime autentiche difficoltà, quando non saranno sufficienti per raggiungere un risultato le parole di cui i millantatori sono ricchi e vacui dispensatori, ma occorreranno invece i fatti che i soliti millantatori sono incapaci di produrre.
15.LEVAMMO ‘ACCASIONE
Ad litteram: Togliamo l’occasione id est: facciamo in modo da non lasciare ad altri il destro di inopportuni interventi, rinunciamo magari a qualche piccolo vantaggio pur di non favorire la maldestra commistione di terzi, in faccende che non dovrebbero riguardarli.
16. LEVAMMO ‘A TAVERNA ‘A NANTE A CCARNEVALE.
Ad litteram: Togliamo la taverna di davanti a Carnevale. Icastica locuzione di valenza simile alla precedente, ma con un piú marcato riferimento ad eventuali ipotetici eccessi alimentari che si potrebbero produrre se non si procedesse ad eliminare eventuali occasioni scatenanti detti eccessi. Un tempo la locuzione in epigrafe era usata ad esempio in tutte le case dove, preparata una buona torta, si correva il rischio che i bambini ne mangiassero continuatamente fino, forse ad incorrere in fastidiose indigestioni; in tali occasioni un adulto, provvedendo a metter la torta fuori della portata dei ragazzi , si esprimeva con la locuzione in epigrafe, usata in occasioni analoghe quando occorresse sottrarre qualcosa ad un utilizzo sfrenato ed incontrollato.
17. LEVÀTE ‘O BBRITO.
Ad litteram: Togliete il vetro id est: Raccogliete, mettete via, lavate e riponete i bicchieri usati in quanto la giornata è finita e la mescita chiude.Secco comando che gli osti solevano dare ai garzoni nell’approssimarsi dell’ora di chiusura dell’osteria, affinché raccogliessero e lavassero i bicchieri usati dagli avventori, che - a quel comando dato dall’oste ai garzoni - capivano che dovevano abbandonare il locale; per traslato oggi la locuzione è usata ogni qualvolta si voglia fare intendere che si approssima la fine d’una qualunque operazione intrapresa e quindi occorre affrettarsi.
18.LEVÀ ‘A FRASCA ‘A MIEZO
Ad litteram: togliere la frasca di mezzo; id est: cessare definitivamente un’ attività, togliersi di mezzo, sbaraccare; la locuzione richiama ciò che facevano gli antichi osti - con mescita specialmente in strade di campagna - i quali al momento della cessazione anche solo stagionale della propria attività solevano staccare dall’architrave della porta dell’osteria il telaio ligneo ricoperto di frasche che vi avevano apposto all’inizio della stagione per segnalare che in quella osteria era giunto il vino nuovo. A Napoli vi fu una strada un tempo periferica che proprio per la presenza di numerose osterie che inalberavano le frasche fu detta ‘a ‘Nfrascata; attualmente la strada è intitolata al poeta pittore Salvator Rosa ((Napoli, 21 o 22 luglio 1615 – † Roma, 15 dicembre 1673)
19. LILLO, LÉLLA Ô PERE ‘E SANT’ ANNA.
Ad litteram: Lillo, Lélla al piede di sant’Anna.id est: prostrati ai piedi di Sant’Anna. Cosí con l’espressione in epigrafe vengono indicate tutte le coppie di coniugi anziani in ispecie quelli che si recano insieme a quotidiane funzioni religiose o anche quelle coppie di anziani che non ricevono mai visite di parenti od amici e si devono contentare della reciproca compagnia; la locuzione rammenta una coppia di attempati coniugi realmente esistiti e dimoranti in quella strada detta ‘a ‘nfrascata, coniugi che non si volevano rassegnare alla mancanza di figli e solevano recarsi in una cappella privata della zona a prostarsi davanti all’effige di sant’Anna per impetrare la grazia di un erede, ma restarono ugualmente soli.
L’espressione in epigrafe nacque in origine come Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna con riferimento ad un’abitudine invalsa nel popolino di recarsi a venerare una presunta reliquia di Sant’ANNA (un piede!) conservato nella cappella della propria abitazione napoletana dal conte Giovan Battista di Tocco di Montemiletto abitazione ubicata appunto alla confluenza piú alta della strada detta ‘a ‘nfrascata; tale nobiluomo fu discendente del capostipite Guglielmo di Tocco che s’ebbe il titolo di conte di Montemiletto (Av) al tempo degli Angioini sotto Carlo III Durazzo. L’incredibile reliquia (oggetto della venerazione di creduli fedeli) era esposta dal conte in occasione della ricorrenza di sant’Anna (26 luglio) sull’altarino della propria cappella privata,ma nell’occasione della festa aperta ai visitatoti; lareliquia era conservata in una preziosa teca di cristallo tempestata di gemme preziose, ma a mio avviso – probabilmente si trattava – come è lecito supporre! - solo di un reperto artistico ligneo e/o di cartapesta che in quell’epoca (fine ‘500 principio ‘600) di smaccata credulità popolare era stata accreditata come una autentica reliquia; questo piede di sant’Anna faceva il paio con altra presunta reliquia (il bastone di san Giuseppe) protagonista d’un’altra espressione che suona
20. SFRUCULIÀ 'A MAZZARELLA 'E SAN GIUSEPPE
Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante.
La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi (1700 ca), come appartenuto al santo padre putativo di Gesù. Il settecentesco celeberrimo tenore il 1° agosto del 1713 rientrò a Napoli da Venezia - dove aveva trionfato a “La Fenice” - convinto di recare con sé l’autentico bastone (la mazzarella) al quale San Giuseppe si era sostenuto nell’accompagnare la Madonna alla Grotta di Betlemme e che (stando almeno a quanto fa intendere Annibale Ruccello) si favoleggiava fosse efficace strumento per scacciare il Maligno dal corpo degli indemoniati. Espose dunque, in una nicchia ricavata nel salotto del suo palazzo (palazzo Cuomo) alla Riviera di Chiaia, il bastone e vi pose a guardia un suo servitore veneto con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecule) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià. Come si intende il verbo a margine è dunque un denominale che partendo dal s.vo latino frecula (pezzettino) addizionata in posizione protetica di una esse (distrattiva) è approdato a sfruculià/sfreculià passando attraverso una s (intensiva)+ il lat. volg. *friculiare=sfregare dolcemente, ma insistentemente fino a sbreccare in tutto o in parte l’oggetto dello sfregamento; chiaro ed intuitivo il traslato semantico da sfregare/sbreccare e l’infastidire.
Normalmente, a mo' di ammonimento, la locuzione è usata come imperativo preceduta da un corposo NON.
Torniamo alla locuzione di partenza per la quale si può ipotizzare che - correttamente! - l’originario Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna (Lillo, Lélla e il piede di sant’ Anna) sia stato trasformato in Lillo, Lélla ô pere ‘e sant’ Anna. (Lillo, Lélla al piede di sant’ Anna id est: Lillo, Lélla(prostrati) ai piedi di sant’Anna) quando ci si rese conto che il piede oggetto di venerazione non era una reliquia del corpo di sant’Anna, ma solo un pregevole (?) manufatto.
21. LEVARSE ‘A MIEZ’Ê BBOTTE
Ad litteram: togliersi di mezzo ai, sottrarsi al pericolo dei fuochi artificiali. Id est: Defilarsi, sottrarsi ai rischi e/o pericoli e farlo vilmente magari in danno altrui. Da notare che con la voce bbotte nell’espressione in esame si intendono i fuochi d’artificio e non si intendono le percosse,(come improvvidamente ritiene qualcuno dei sedicenti addetti ai lavori del napoletano, ma colpevolmente a digiuno dell’autentica parlata napoletana nella quale ‘e bbotte non sono le percosse,ma i fuochi artificiali; è nell’italiano, non nel napoletano che le botte son sinonimo di percosse, e l’espressione in esame è napoletana non italiana e chi opera la confusione tra le botte italiane e ‘e bbotte napoletane è un asino calzato e vestito e non si può arrogare il diritto di sedere tra gli addetti ai lavori del napoletano!
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ad litteram: Andar cercando Cristo fra i lupini o meglio Andar cercando Cristo nella pigna. Id est: mettersi alla ricerca di una cosa difficile da trovarsi o da conseguirsi; cosa pretestuosa e probabilmente inutile, per cui, il piú delle volte, non metterebbe conto il mettersene alla ricerca.
Come ò segnalato la prima locuzione è meno esatta della seconda che risulta essere quella originaria, mentre la prima ne è solo una frettolosa corruzione; ed in effetti se si analizza la seconda locuzione, quella consigliata, si può intendere a pieno la valenza delle espressioni, valenza che è difficile cogliere accettando la prima locuzione che fa riferimento ad incoferenti e pretestuosi lupini; quanto piú corretta la seconda, quella che fa riferimento alla pigna in quanto i pinoli in essa contenuti presentano un ciuffetto di cinque peli comunemente detto: manina di Cristo e la locuzione richiama la ricerca di detta manina, operazione lunga e che non sempre si conclude positavamente: infatti occorre innanzitutto procurarsi una pigna fresca, abbrustolirla al fuoco per poi spaccarla ed estrarne i contenitori dei pinoli, da cui trar fuori i suddetti ed alla fine andare alla ricerca della manina e cioè di Cristo; spesso capita però che i contenitori siano vuoti di pinoli e dunque tutta la fatica fatta va sprecata e si rivela inutile. Qualche altro scrittore di cose napoletane nel vano tentativo di fare accogliere la prima locuzione, fa riferimento ad una non meglio annotata o rammentata leggenda che vede stranamente la Vergine Maria non esser misericordiosa con la pianta di lupini; nelle mie ricerche tale leggenda è risultata pressocché sconosciuta, mentre non v’è anziano popolano che non sia a conoscenza della manina di Cristo.
2.JÍ TRUVANNO CHI LL’ACCIDE nell’espressione: VA TRUVANNO CHI LL’ACCIDE
Ad litteram: andare in cerca di chi l’uccide nell’espressione va in cerca di chi l’uccide
espressione usata per commentare le antipatiche azioni del provocatore, di chi stuzzichi il prossimo fino a destare, anche se figuratamente, nei meno pazienti, istinti omicidi.
3.JÍ TRUVANNO GUAJE CU ‘A LANTERNELLA
Ad litteram: andare in cerca di guai con un lanternino detto di chi per sua natura e non per sopraggiunte casualità, si va cacciando di proposito nei guai, quasi andandone alla ricerca con una lanterna per meglio trovarli.
4.JÍ PE FFICHE E TRUVÀ CETRÓLE
Ad litteram: andare in cerca di fichi e trovare cetrioli. Locuzione di portata simile a quella ricordata al num. 361 atteso che il cetriolo pure essendo un ortaggio buono ed edibile, non è certo saporito e gustoso come un fico.
5. JÍ Ô BBATTESEMO SENZA ‘O CRIATURO
Ad litteram: recarsi al fonte battesimale senza il bambino (da battezzare) locuzione usata per bollare situazioni macroscopicamenti carenti degli elementi essenziali alla loro esistenza, riferita spercialmente a tutti coloro che distratti per natura, o perché colpevolmente poco attenti si accingono ad operazioni destinate a fallire perché prive del necessario sostrato dimenticato per distrazione o non conferito per disattenzione.
6.JÍ A PPUORTO (O A PUORTECE) PE ‘NA RAPESTA.
Ad litteram: recarsi al porto (oppure a Portici) per (acquistare) una rapa. Id est: impegnarsi eccessivamente, affaticarsi oltremodo per raggiungere un risultato modesto o meschino come sarebbe il recarsi al mercato ortofrutticolo all’ingrosso un tempo ubicato nei pressi del porto oppure recarsi addirittura a Portici, piccolo comune agricolo nei pressi di Napoli, per acquistare una sola, insignificante rapa.
7.JÍ DINT’ A LL’OSSA.
Ad litteram: andare nelle ossa detto di tutto ciò che risulti ampiamente giovevole, utile e proficuo che faccia quasi assaporarne i benefici fin dentro le ossa; la locuzione però non attiene esclusivamente al piano fisico , potendosi usare anche o spesso con riferimenti morali.
8. JÍ ‘NFREVA
Ad litteram: andare in febbre id est: adontarsi, lasciarsi cogliere da moti di rabbia innanzi a situazioni ritenute cosí ingiuste o prevaricanti da destare agitazione, foriera di febbre.
9.JÍ METTENNO ‘A FUNE ‘E NOTTE
Ad litteram: Andar mettendo la fune di notte. Locuzione che si usava pronunciare risentitamente, in forma negativa ( nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte) (non vado tendendo la fune di notte)oppure sotto forma di domande retoriche:ma che ghiesse mettenno fune ‘e notte?(forse che vado tendendo funi di notte?),oppure ma che te cride ca vaco mettenno fune ‘e notte? (pensi forse ch’io vada tendendo funi di notte?) per protestare la propria onestà, davanti ad eccessive richieste di carattere economico; a mo’ d’esempio quando un figlio chiede troppo al proprio genitore, costui nel negargli il richiesto usa a mo’ di spiegazione la locuzione in epigrafe, volendo significare: essendo una persona onesta e non un masnadiero abituato a rapinare i viandanti tendendo una fune traverso la strada, per farli inciampare e crollare al suolo, non ò i mezzi economici che occorrerebbero per aderire alle tue esose richieste; perciò règolati e mòderale !
10.JÍ TRUVANNO OVA ‘E LUPO E PIETTENE ‘E QUINNECE.
Ad litteram: andare in cerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose ma vane come sarebbe l’andare alla ricerca di uova di lupo che è un animale viviparo o cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i pettini da cardatura non ne contavano mai piú di tredici.
11.JÍ TRUVANNO SCESCÉ
Espressione intraducibile ad litteram con la quale si identifica chi, in ogni occasioni cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo dichiarato di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare), ma non ci sono certezze circa il suo primo utilizzo nel senso indicato. Si può però tranquillamente ipotizzare che durante la dominazione murattiana, se non durante quella angioina, un milite francese si fermasse a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usasse una frase analoga contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che con ogni probabilità non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).
12.LL’URDEMU LAMPIONE ‘E FOREROTTA.
ad litteram:l’ ultimo lampione di Fuorigrotta id est: essere l’ultimo, inutile, insignificante individuo di un cossesso quale esso sia. La locuzione si riferisce al fatto che un tempo a Napoli i lampioni dell’illuminazione stradale erano numerati ed accesi a sera progressivamente secondo la loro numerazione cardinale. l’ultimo di essi lampioni contrassegnato con il num. 6666 era ubicato nella periferica zona occidentale della città nel quartiere detto di Fuorigrotta ed era l’ultimo ad essere acceso , quando già le prime luci del giorno ne sminuivano l’utilità;alla luce di quanto detto si comprende che è solo un divertente, ma incoferente esercizio mentale considerare che con la quadruplice sequenza del num. 6 che nella smorfia indica tra l’altro lo sciocco, il lampione contrassegnato 6666 possa indicare un gran babbeo.
13.LL’OMMO ‘NCOPP’Â SALÈRA
Ad litteram: l’uomo sulla saliera. Cosí con l’espressione in epigrafe a Napoli si è soliti prendersi giuoco di uomini che siano piccoli e non fisicamente prestanti, assimilati a quella statuina posta come impugnatura alla sommità dei coperchi delle saliere di terracotta, statuina che riproduceva le sembianze di un tal Tom Pouce nanetto inglese che intorno al 1860 si esibí a Napoli in uno spettacolo di circo equestre.
14.LLOCO TE VOGLIO, ZUOPPO, A ‘STA SAGLIUTA
Ad litteram: Lí ti voglio (vedere), zoppo, innanzi a questa salita (vediamo cosa saprai fare...). Locuzione che ricorda quasi il dantesco: Qui si parrà la tua nobilitate e che viene usata nei confronti di tutti i saccenti, supponenti millantatori che certamente crolleranno innanzi alle prime autentiche difficoltà, quando non saranno sufficienti per raggiungere un risultato le parole di cui i millantatori sono ricchi e vacui dispensatori, ma occorreranno invece i fatti che i soliti millantatori sono incapaci di produrre.
15.LEVAMMO ‘ACCASIONE
Ad litteram: Togliamo l’occasione id est: facciamo in modo da non lasciare ad altri il destro di inopportuni interventi, rinunciamo magari a qualche piccolo vantaggio pur di non favorire la maldestra commistione di terzi, in faccende che non dovrebbero riguardarli.
16. LEVAMMO ‘A TAVERNA ‘A NANTE A CCARNEVALE.
Ad litteram: Togliamo la taverna di davanti a Carnevale. Icastica locuzione di valenza simile alla precedente, ma con un piú marcato riferimento ad eventuali ipotetici eccessi alimentari che si potrebbero produrre se non si procedesse ad eliminare eventuali occasioni scatenanti detti eccessi. Un tempo la locuzione in epigrafe era usata ad esempio in tutte le case dove, preparata una buona torta, si correva il rischio che i bambini ne mangiassero continuatamente fino, forse ad incorrere in fastidiose indigestioni; in tali occasioni un adulto, provvedendo a metter la torta fuori della portata dei ragazzi , si esprimeva con la locuzione in epigrafe, usata in occasioni analoghe quando occorresse sottrarre qualcosa ad un utilizzo sfrenato ed incontrollato.
17. LEVÀTE ‘O BBRITO.
Ad litteram: Togliete il vetro id est: Raccogliete, mettete via, lavate e riponete i bicchieri usati in quanto la giornata è finita e la mescita chiude.Secco comando che gli osti solevano dare ai garzoni nell’approssimarsi dell’ora di chiusura dell’osteria, affinché raccogliessero e lavassero i bicchieri usati dagli avventori, che - a quel comando dato dall’oste ai garzoni - capivano che dovevano abbandonare il locale; per traslato oggi la locuzione è usata ogni qualvolta si voglia fare intendere che si approssima la fine d’una qualunque operazione intrapresa e quindi occorre affrettarsi.
18.LEVÀ ‘A FRASCA ‘A MIEZO
Ad litteram: togliere la frasca di mezzo; id est: cessare definitivamente un’ attività, togliersi di mezzo, sbaraccare; la locuzione richiama ciò che facevano gli antichi osti - con mescita specialmente in strade di campagna - i quali al momento della cessazione anche solo stagionale della propria attività solevano staccare dall’architrave della porta dell’osteria il telaio ligneo ricoperto di frasche che vi avevano apposto all’inizio della stagione per segnalare che in quella osteria era giunto il vino nuovo. A Napoli vi fu una strada un tempo periferica che proprio per la presenza di numerose osterie che inalberavano le frasche fu detta ‘a ‘Nfrascata; attualmente la strada è intitolata al poeta pittore Salvator Rosa ((Napoli, 21 o 22 luglio 1615 – † Roma, 15 dicembre 1673)
19. LILLO, LÉLLA Ô PERE ‘E SANT’ ANNA.
Ad litteram: Lillo, Lélla al piede di sant’Anna.id est: prostrati ai piedi di Sant’Anna. Cosí con l’espressione in epigrafe vengono indicate tutte le coppie di coniugi anziani in ispecie quelli che si recano insieme a quotidiane funzioni religiose o anche quelle coppie di anziani che non ricevono mai visite di parenti od amici e si devono contentare della reciproca compagnia; la locuzione rammenta una coppia di attempati coniugi realmente esistiti e dimoranti in quella strada detta ‘a ‘nfrascata, coniugi che non si volevano rassegnare alla mancanza di figli e solevano recarsi in una cappella privata della zona a prostarsi davanti all’effige di sant’Anna per impetrare la grazia di un erede, ma restarono ugualmente soli.
L’espressione in epigrafe nacque in origine come Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna con riferimento ad un’abitudine invalsa nel popolino di recarsi a venerare una presunta reliquia di Sant’ANNA (un piede!) conservato nella cappella della propria abitazione napoletana dal conte Giovan Battista di Tocco di Montemiletto abitazione ubicata appunto alla confluenza piú alta della strada detta ‘a ‘nfrascata; tale nobiluomo fu discendente del capostipite Guglielmo di Tocco che s’ebbe il titolo di conte di Montemiletto (Av) al tempo degli Angioini sotto Carlo III Durazzo. L’incredibile reliquia (oggetto della venerazione di creduli fedeli) era esposta dal conte in occasione della ricorrenza di sant’Anna (26 luglio) sull’altarino della propria cappella privata,ma nell’occasione della festa aperta ai visitatoti; lareliquia era conservata in una preziosa teca di cristallo tempestata di gemme preziose, ma a mio avviso – probabilmente si trattava – come è lecito supporre! - solo di un reperto artistico ligneo e/o di cartapesta che in quell’epoca (fine ‘500 principio ‘600) di smaccata credulità popolare era stata accreditata come una autentica reliquia; questo piede di sant’Anna faceva il paio con altra presunta reliquia (il bastone di san Giuseppe) protagonista d’un’altra espressione che suona
20. SFRUCULIÀ 'A MAZZARELLA 'E SAN GIUSEPPE
Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante.
La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi (1700 ca), come appartenuto al santo padre putativo di Gesù. Il settecentesco celeberrimo tenore il 1° agosto del 1713 rientrò a Napoli da Venezia - dove aveva trionfato a “La Fenice” - convinto di recare con sé l’autentico bastone (la mazzarella) al quale San Giuseppe si era sostenuto nell’accompagnare la Madonna alla Grotta di Betlemme e che (stando almeno a quanto fa intendere Annibale Ruccello) si favoleggiava fosse efficace strumento per scacciare il Maligno dal corpo degli indemoniati. Espose dunque, in una nicchia ricavata nel salotto del suo palazzo (palazzo Cuomo) alla Riviera di Chiaia, il bastone e vi pose a guardia un suo servitore veneto con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecule) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià. Come si intende il verbo a margine è dunque un denominale che partendo dal s.vo latino frecula (pezzettino) addizionata in posizione protetica di una esse (distrattiva) è approdato a sfruculià/sfreculià passando attraverso una s (intensiva)+ il lat. volg. *friculiare=sfregare dolcemente, ma insistentemente fino a sbreccare in tutto o in parte l’oggetto dello sfregamento; chiaro ed intuitivo il traslato semantico da sfregare/sbreccare e l’infastidire.
Normalmente, a mo' di ammonimento, la locuzione è usata come imperativo preceduta da un corposo NON.
Torniamo alla locuzione di partenza per la quale si può ipotizzare che - correttamente! - l’originario Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna (Lillo, Lélla e il piede di sant’ Anna) sia stato trasformato in Lillo, Lélla ô pere ‘e sant’ Anna. (Lillo, Lélla al piede di sant’ Anna id est: Lillo, Lélla(prostrati) ai piedi di sant’Anna) quando ci si rese conto che il piede oggetto di venerazione non era una reliquia del corpo di sant’Anna, ma solo un pregevole (?) manufatto.
21. LEVARSE ‘A MIEZ’Ê BBOTTE
Ad litteram: togliersi di mezzo ai, sottrarsi al pericolo dei fuochi artificiali. Id est: Defilarsi, sottrarsi ai rischi e/o pericoli e farlo vilmente magari in danno altrui. Da notare che con la voce bbotte nell’espressione in esame si intendono i fuochi d’artificio e non si intendono le percosse,(come improvvidamente ritiene qualcuno dei sedicenti addetti ai lavori del napoletano, ma colpevolmente a digiuno dell’autentica parlata napoletana nella quale ‘e bbotte non sono le percosse,ma i fuochi artificiali; è nell’italiano, non nel napoletano che le botte son sinonimo di percosse, e l’espressione in esame è napoletana non italiana e chi opera la confusione tra le botte italiane e ‘e bbotte napoletane è un asino calzato e vestito e non si può arrogare il diritto di sedere tra gli addetti ai lavori del napoletano!
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mercoledì 30 marzo 2011
IL VERBO DARE E LA SUA FRASEOLOGIA
IL VERBO DARE E LA SUA FRASEOLOGIA
Intendo questa volta illustrare (a beneficio dei miei consueti ventiquattro lettori e di chi altro si imbattesse in queste paginette e le trovasse, m’auguro, interessanti) un nutrito numero di espressioni costruite nell’idioma napoletano usando il verbo dare coniugato volta a volta all’infinito, in forma riflessiva o all’imperativo.
Comincio con il premettere che il verbo napoletano dare/dà (con etimo dal lat. dare) conserva nel napoletano i medesimi significati dell’omografo ed omofano italiano dare e cioè:
come verbo transitivo[aus. avé/avere]
1 trasferire da sé ad altri qualcosa che si possiede, si à, si conosce: dà ‘nu libbro, ‘nu pacco,’na ‘nfurmazzione, ‘na nutizzia (dare un libro, un pacco; dare un'informazione, una notizia) | in molte espressioni il sign. del verbo è precisato dal compl. oggetto: dà fuoco (dare fuoco), incendiare, accendere; dà acqua (dare acqua), spargerla, versarla, irrorarla; dà aria (dare aria), arieggiare; dà’na mana (dare una mano), aiutare; dà l'assembbio (dare l'esempio), impartirlo; dà curaggio (dare coraggio), incoraggiare; dà ‘a sferracchiata (dare l'assalto), assalire; dà ‘a stracciata (dare battaglia), cominciare a combattere; ; dà’nu sbuttulone( dare una spinta), spingere; dà ‘na festa, ‘nu tàffio(dare una festa, un pranzo), offrirli, organizzarli; dà ‘a sàmmena(dare gli esami), sostenerli; dà ‘a bbona notta, ‘o bongiorno(dare la buona notte, il buon giorno, augurarli; darse penziero(darsi pensiero), preoccuparsi; | in altri casi, che però fatta eccezione per le espressioni come dà pe ccerto, pe sicuro, pe bbuono(dare per certo, per sicuro, per buono), riconoscere tali; dà a ppenzà(dare da pensare), preoccupare; darse ‘a fà(darsi da fare), impegnarsi o brigare per raggiungere uno scopo; in altri casi, che sono solo dell’italiano, il sign. del verbo è precisato da un compl. indiretto, da un compl. predicativo o da una prop. infinitiva: dare in dono, regalare; dare in moglie, concedere la mano, far sposare; dare alla luce, partorire; dare a intendere qualcosa, farla credere; darsela a gambe, fuggire; negli esempi riportati il napoletano preferisce l’uso di forme verbali prive dell’ infinito dà : dare in dono = rijalà, dare in moglie = fà ‘mmaretà etc.
2 porgere: damme ‘o cappiello; damme ‘a mana (dammi il cappello; dare la mano), in segno di saluto
3 somministrare, propinare: dà ‘na mmericina(dare una medicina) | darse ‘a cipria, ‘o rrussetto(darsi la cipria, il rossetto), e sim.
4 affidare: dà ‘na cummissione a uno(dare un incarico a qualcuno;
5 assegnare: dare ‘nu punto, (dare un voto)
6 cedere: dà ‘o passo, ‘a strata(dare il passo, la strada), fare largo | conferire; aggiudicare: dà ‘nu premio(dare un premio)
7 concedere, accordare: dà ‘nu permesso(dare un permesso)
8 attribuire, riconoscere: dà ‘a córpa a uno(dare una colpa ad uno); dà raggione, tuorto(dare ragione, torto); dà valore a quaccosa(dare peso, importanza a qualcosa); quant’anne lle daje?(quanti anni gli dai?);
9 infliggere (pene, percosse): dà ‘nu fucuzzone, ‘na cundanna pesante (dare un pugno, una pesante condanna) | anche assol.: ce nn’aggiu date ‘nu tummolo e ‘na sporta (gliene ò date ad iosa)
10 arrecare, provocare:dà cuntiento, ‘mpiccio (dare gioia, fastidio); chellu ttuosseco po’ ddà ‘a morte(quel veleno può dare la morte)
11 (fam.) pagare: quanto ll’hê dato pe chella sciffuniera? quanto gli hai dato per quello stipo?; mme ddanno ‘nu melione ô mese(mi dànno un milione al mese)
12 (fam.) vendere: dà coccosa pe pochi sorde(dare qualcosa per pochi soldi)
13 rendere, fruttare; produrre: ‘na campagna ca dà pochi frutte, ‘na fatica ca nun dà assaje guaragno(una campagna che dà pochi frutti; un lavoro che non dà molto guadagno)
14 considerare, definire (in usi assol., solo al part. pass.):dàtese ‘e circustanze (date le circostanze); | dàtosi che (dato che), poiché; supposto, ammesso che | dato e nun cuncesso ca (dato e non concesso che), ammesso per ipotesi ma non di fatto che |||
come v. intr. [aus. avé/avere]
1 cogliere, colpire; urtare, imbattersi: dà ‘e ponta dinto a ‘nu zzarro e cadé(inciampare in un sasso e cadere) | in molte locuzioni assume significati particolari: dà ‘ncapa (dare alla testa), stordire; dà a ll’uocchie (dare nell'occhio), farsi notare; dà contro a quaccuno(dare contro a qualcuno), dargli torto; dà ‘o ttu, ‘o vvuje (dare del tu, del voi, rivolgersi a qualcuno usando la seconda persona sg. o pl.;
2 di case, finestre ecc., guardare, essere rivolto:’a casa dà dint’ô vico (la casa dà sul vicolo)
3 di colori, tendere: ‘sta tinta dà ‘ncopp’ô lluvardoquesta tinta dà sull’azzurro |||
darse v. rifl. [aus. essere]
1 applicarsi: darse ô sturio d’ ‘a canzone napulitana, ô cummercio (darsi allo studio della canzone napoletana, al commercio) ' abbandonarsi: darse a bbevere, ô juoco,â pazza joja(darsi al bere, al gioco, alla pazza gioia) | darse ô nemico(darsi al nemico), sottometterglisi | darse pe mmalato(darsi per malato), farsi credere tale
2 cominciare: darse a correre, a mangià (darsi a correre, a mangiare) |||
v. rifl. rec. scambiarsi: darse ‘nu vaso (darsi un bacio) |||
v. intr. pron.
1 esserci, presentarsi: nun s’è data nisciuna uccasione (non si è data alcuna occasione) | verificarsi, accadere: po’ darese ca isso vene cca(può darsi che egli venga qui); s’è ddato ‘o caso ca isso stesse cca si dà il caso che egli sia qui
2 (solo in italiano(fam.))darsela, battersela, svignarsela (dalla loc. darsela a gambe). Giunti a questo pounto e prima di affrontare la fraseologia mette conto ch’io faccia una precisazione che riguarda il dà = dà voce verbale (3° p.s. indicativo pres.) o anche infinito (come nelle locuzioni che illustrerò qui di sèguito) del verbo dare/dà derivato, come ò già détto del lat. dare; è pur vero che in napoletano non esiste graficamente la preposizione da (che in napoletano è sempre ‘a= da) per cui non essendovi possibilità di confusione fra voci omofone la voce verbale 3° p.s. indicativo pres. potrebbe anche scriversi tranquillamente da evitando un pleonastico accento sulla a (dà), ma per non essere accusato da qualche sprovveduto (ignaro che i raffronti occorre farli nell’ambito di una medesima lingua e non di idiomi diversi) dicevo per non essere accusato da qualche sprovveduto di non sapere che la3° p.s. indicativo pres.del verbo dare esige l’accento (dà) preferisco nun mettere carne a ccocere (evitare polemiche) e pro bono pacis faccio una forzatura alle mie conoscenze e convinzioni linguistiche ed adeguo (sia pure con mio malgrado) il dà napoletano al dà dell’italiano. Diverso è il discorso per l’infinito dà (forma tronca dell’infinito dare). Comincerò con il precisare che il verbo dare il cui infinito nel napoletano è dà/ddà infinito che io, contrariamente a tutti gli altri cultori dell’idioma napoletano (che usano la grafia apocopata da’) preferisco rendere con la à accentata (dà/ddà ) per alcuni ben precisi motivi: 1)uniformità di scrittura degli infiniti che in napoletano (nelle forme troncate) siano essi monosillabi o plurisillabi son tutti accentati sull’ultima sillaba (cfr. ad es.fa(re)→fà – magna(re)→magnà – cammena(re)→cammenà –cade(re)→cadé - murire→murí etc.), 2) la grafia apocopata da’ si presta, a mio avviso,fuor del contesto ad esser confusa con la 2° p.sg. dell’imperativo: da’= dai, come si presterebbe alla medesima confusione l’infinito apocopato fa’ di fare che potrebbe essere inteso, prescindendo dal contesto, come2° p.sg. dell’imperativo: fa’= fai, A proposito di infiniti rammento che durante le mie numerose letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni autori che, ritenendo di fare cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in luogo dell' accento tonico e non si rendono conto che solo l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,e può (solo!) indicarne graficamente l'esatta pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi in altri maldestri autori ed addirittura compilatori di dizionari, che per tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti . In effetti nella parlata napoletana è un errore di ortografia accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico apostrofo per indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba:
l'accento, inglobando in sé la doppia funzione, è piú che sufficiente alla bisogna; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia tagliare un termine mantenendone però il primitivo accento tonico.
Per esempio il verbo èssere può essere apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancóra ad es. il verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o metriche essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si dovrebbe leggere càde’ e non cadé!
Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: vede e non vedé.)È pur vero che, in napoletano, alcuni infiniti di verbi che, apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero esser scritti con il segno dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in quanto che nei monosillabi l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non può cadere su altre (che non esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il verbo stare l’ apocopato: sta’ in luogo di stà , per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’ invece di fà, per l’infinito di dare l’ apocopato: da’ invece di dà, ma personalmente reputo piú comodo come ò détto per mantenere una sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di altri verbi mono o plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare stà e fà, dà in luogo dei pur corretti sta’ e fa’, da’ che valgono stare, fare,dare tenendo conto altresí che almeno nel caso di fa’ e da’ esso potrebbe essere inteso, ripeto, come voce degli imperativo (fai→fa’dai→da’), piuttosto che degli infiniti fare,dare cosa che invece non può capitare con il verbo stare il cui imperativo nel napoletano non è sta’, ma statte. Rammento che, normalmente occorre accentare sull’ultima sillaba tutte le voci verbali degli infiniti (per lo meno bisillabi) tronchi o apocopati (ess.: magnà, purtà, pusà, cadé, rummané etc.) per modo che si possa facilmente individuare la sillaba su cui poggiare il tono della parola, cosa che non avverrebbe se in luogo di accentare il verbo si procedesse ad apostrofarlo per indicarne l’apocope dell’ultima sillaba; in tal caso infatti non spostandosi l’accento tonico si altererebbe completamente la lettura del verbo; facciamo un esempio: il verbo spàrtere (dividere) che apocopato dell’ultima sillaba diventa spartí se in luogo dell’accento fosse scritto con il segno dell’apocope sparti’ dovrebbe leggersi col primitivo accento spàrti e non indicherebbe piú l’infinito, ma – forse - una scorretta forma della 2° pers. sing. dell’ind. pres.che è sparte e non sparti. Premesso tutto ciò, a mio sommesso, ma deciso avviso ripeto che è opportuno – per una sorta di omogeneità - accentare sull’ultima sillaba tutti i verbi al modo infinito anche quelli monosillabici (ovviamente quando si tratti di autentici verbi presenti nel napoletano e non presi in prestito dall’italiano!, come impropriamente fa qualcuno che annovera tra gli infiniti del napoletano un inesistente dí contrabbandato per infinito apocopato del verbo dícere laddove è risaputo che il napoletano pretto e corretto usa sempre la forma dícere e mai, se non per rare licenze ed esigenze metriche poetiche, l’apocopato dí e chi lo facesse o avesse fatto, sbaglierebbe o si sarebbe sbagliato quand’anche si chiamasse Di Giacomo! ) ottenendosi perciò:
dà = dare( apocope del lat. dare) , fà = fare ( apocope del lat. facere) evitando di scrivere – come invece propone qualcuno – da’ o fa’ che potrebbero esser confusi con gli imperativi da’= dai o fa’= fai.
Tutto ciò premesso veniamo alle locuzioni costruite con il verbo dare cominciando da quelle nella cui formulazione è presente l’infinito apocopato dà = dare:
1.dà corda (oppure) dà spavo
Ad litteram: Dar corda (oppure) dar spago Id est: aizzare, eccitare, montare qualcuno contro un altro con atti o con parole quasi allungandogli un’ipotetica figurata corda o un metaforico spago che ne impedisse i movimenti; la voce corda è dal lat. chorda(m) 'corda musicale', poi 'corda' in generale, dal gr. chordé;
2.dà ‘a cumposta
Ad litteram: Dar la composta Id est: Somministrare a discoli e/o disubbidienti figliuoli o ragazzi in genere che la meritassero una nutrita, salutare aspra dose di percosse; infatti con la voce cumposta (derivata da cumpos(i)ta(m) part. pass. f.le dal lat. componere, comp. di cum 'con' e ponere 'porre')che in napoletano indica un misto di ortaggi bolliti e conservati sotto un acido ed asprigno aceto (contrariamente all’italiano dove la voce composta indica della frutta mista cotta in uno sciroppo di zucchero), con la voce napoletana cumposta si vuole significare qualcosa non di dolce, ma al contrario di amaro, acre, aspro,pungente quali sono, appunto, le percosse.
3.dà aurienza
Ad litteram: Dar udienza
Id est: in primis ascoltare, prestare attenzione a qualcuno,accordare ascolto ed attenzione alle richieste altrui,
in senso esteso addivenire a qualcosa, lasciarsi convincere; la voce aurienza è dritto per dritto, con tipica alternanza osco-mediterranea d→r, dal lat. audientia(m), deriv. di audire 'udire', rifatto secondo udire;
4.dà ciento muorze a unu fasulo
Ad litteram: Dar cento morsi ad un unico fagiolo
Id est: in primis essere eccessivamente golosi,oppure
in altro senso essere smisuratamente parsimoniosi; nel primo caso il senso della golosità si coglie nel fatto di volere estendere ad libitum il godimento di mangiare affrontando un singolo fagiolo con piccoli, ma reiterati morsi senza mai deglutirlo, nel secondo caso il senso della spilorceria si coglie nel fatto di volere limitare il nutrimento ad un singolo fagiolo affrontato – a maggior disdoro - con piccoli e reiterati morsi senza mai deglutirlo del tutto.
La voce muorze s.vo m.le pl. di muorzo letteralmente morso e talora boccone, ed anche breve, contenuto asciolvere etimologicamente dal lat. morsu(m) deverbale di mordire per mordere;tipica nel napoletano l’evoluzione rs→rz come in borza da borsa, perziana da persiana;
fasulo s.vo neutro ( al pl. fasule) = fagiolo 1 pianta erbacea con fusto volubile, foglie trilobate e fiori bianchi o rossi; i frutti sono baccelli contenenti semi commestibili (fam. Leguminose) | fasule a ucchietiello(fagiolo dell'occhio), dolico;
2 il seme della pianta del fagiolo: ‘nzalate ‘e fasule(insalata di fagioli); pasta e ffasule(pasta e fagioli) | (fam.) dà luogo a varie locuzioni fig.: jí a ffasulo(andare a fagiolo), andare a genio; capità, vení a ffasulo (capitare, venire a fagiolo), capitare a proposito, al tempo giusto:
3 nel gergo goliardico, studente del secondo anno di università;
voce dal lat. phaseolu(m), dim. di phasílus, dal gr. phásílos;
unu/uno agg.vo num.le card.le, pron. indef. nella forma ‘nu/’no art. indet. [ dal lat. ūnus]. –1. Primo numero naturale dopo lo zero (in cifre arabe 1, in numeri romani I); è il numero con cui à normalmente inizio una numerazione (per es., dei giorni del mese, delle pagine di un libro, dei numeri civici di una via): il numero uno, a pagina uno, il giorno uno marzo. Nelle operazioni: sette per uno (7 × 1); otto meno uno (8 – 1), ecc.; ricominciando la sequenza dei numeri dopo ogni decina, uno si unisce, come secondo elemento, al numero che esprime la nuova decina (fa eccezione unnice(undici) che, derivando direttamente dal lat. undĕcim, à un aspetto proprio): vintuno(ventuno), venti e uno, trentuno, trenta e uno, ecc.; e poi cient’euno(centouno) o, raro, cientuno(centuno), ecc., mill’euno(milleuno), ecc. Com. la locuz. fig. ‘o nummero uno (il numero uno), chi occupa il primo posto in assoluto nel proprio settore di attività o all’interno di una gerarchia;
2 uno e uno solo pígliame unu quaderno, unu libbro (prendimi un solo quaderno, un solo libro ) mentre pígliame ‘nu quaderno, ‘nu libbro (prendimi un qualsiasi quaderno, un libro qualsiasi )
3 un tale, un certo, una certa persona;aggiu parlato cu uno ca te cunosce( ò parlato con uno che ti conosce); è uno ca dice ca fa ll’architetto(è uno che dice di essere l'architetto); parlavano ‘e uno ca se nn’era fujuto dô carcere(parlavano di uno che era fuggito di prigione) |
in costruzioni partitive: aggiu parlato cu uno d’’e cupagne suoje (ò parlato con uno dei suoi compagni; ànno sciveto uno ‘e lloro (ànno scelto uno diloro); è uno d’ ‘e meglie; uno d’ ‘e tante,unu qualunque( uno dei migliori; uno dei tanti, uno qualsiasi);
rammento che la voce a margine unu/uno non va assolutamente confusa con la forma aferetica ‘nu/no= corrispondenti all’articolo indeterminativo un ed uno della lingua italiana; [ rammento che in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s. o agg. che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa l’articolo indeterminativo ‘no/‘nu indifferentemente davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa una forma tronca un (ad es.: un osso) nella parlata napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente, come ò anticipato, dal lat. (u)nu(m) e l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il vezzo di scrivereno/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘na = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una; l’etimo di ‘na è ovviamente dal lat. (u)na(m) l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il vezzo di scrivere l’articolo na privo di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, mi ripeto, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile.
5.dà funa longa
Ad litteram: Dar fune lunga Id est: dare a qualcuno piú di quanto gli competa o gli sia dovuto; essere troppo concessivo nei confronti di qualcuno o per eccessiva bonta o per stupidità, mancanza di personalità; con altra valenza: esitare lungamente, quasi sempre per inettitudine e/o irresolutezza, quando non timore o paura, prima di prendere i dovuti provvedimenti nei confronti di qualcuno; la locuzione in esame non va confusa con quella illustrata precedentemente dà corda (oppure) dà spavo che valeva aizzare, eccitare, montare qualcuno contro un altro con atti o con parole quasi allungandogli un’ipotetica figurata corda o un metaforico spago che ne impedisse i movimenti;
funa s.vo f.le = fune, insieme di piú fili di canapa, d'acciaio o di altro materiale ritorti e intrecciati fra di loro; corda, cavo,
etimologicamente dal lat.parlato *funa(m) per il cl. fune(m);
longa agg.vo f.le
1 che si estende nello spazio in senso orizzontale, o anche nel senso della dimensione la cui estensione è maggiore: ‘na funa longa seje metri; ‘na tavula longa tre metri e llarga dduje (una fune lunga sei metri; una tavola lunga tre metri e larga due);
2 che à una notevole lunghezza o una lunghezza che è comunque maggiore rispetto alla misura normale, media, o rispetto a un'altra possibile misura sensibilmente inferiore ‘na strata longa, purtà ‘a capellera longa,’a gonna longa,una lunga strada; portare i capelli lunghi, gonna lunga;
3 si dice di persona molto alta, spec. se magra | anema longa(anima lunga), (scherz.) persona altissima, allampanata | essere cchiú llarga ca longa(essere piú larga che lunga, (scherz.) essere molto grassa
4 che si estende nel tempo, che dura da o per molto tempo: ‘na prereca cchiú llonga d’ ‘a quaraesima(una predica piú lunga della quaresima); ‘na cummeddia longa (una lunga rappresentazione teatrale);
5 (fam.) si dice di persona lenta, che impiega molto tempo per fare qualcosa: essere longa a mmagnà(essere lunga nel mangiare); comme sî llonga a scrivere! (come sei lunga a scrivere!)
6 si dice di bevanda o cibo preparato con una quantità d'acqua maggiore rispetto alla misura media o normale: bevanda, menesta longa (tisana,minestra lunga)
7 (ling.) si dice di suono che à una durata di emissione maggiore di un altro, detto breve: vucale longhe(vocali lunghe) | sillabba longa(sillaba lunga), nella versificazione greca e latina, sillaba che contiene una vocale lunga o un dittongo; voce dal lat. longa(m);
6.dà ll’uorgio
Ad litteram: dare l’orzo id est: punire pesantemente chi meriti una punizione per essersi comportato male o non essersi attenuto a ciò che gli era stato comandato di fare.La locuzione fa riferimento ad una punizione che nell’esercito romano si soleva comminare ai soldati che si fossero dimostrati poco volorosi in combattimento o avessero trasgredito gli ordini ricevuti. La punizione consisteva nel distribuir loro in luogo del buon pane di frumentoo di farro, dello scadente pane di orzo, o altri cereali meno saporiti del grano. La voce uorgio s.vo neutro = orzo, pianta erbacea simile al frumento, con spighe munite di lunghe ariste; si impiega come foraggio, nella fabbricazione della birra e nell'alimentazione umana (fam. Graminacee):farina d’uorgio (farina d'orzo) è voce derivata dal lat.hordeu(m)→lat. volg.(h)ordju(m)→uorgio con dj→gi/ggi come nel lat. modjum→moggio e *sedja(m)→seggia
7.dà ‘na bbotta ô chirchio e n’ata ê tumpagne Ad litteram: assestare un colpo al cerchio ed uno ai fondi della botte Id est: barcamenarsi tra varie alternative pur di raggiungere lo scopo prefissato cosí come fa il fabbricante di bótti che per riuscire nell’intento di sistemare il cerchio di ferro contentivo attorno alle doghe della bótte, assesta alternativamente colpi ora al cerchio, ora alla bótte e segnatamenteai suoi fondi; per traslato la locuzione indica pure un modo di fare non troppo corretto di colui che pur di raggiungere uno scopo non esita a tenere il piede in due staffe.
chirchio s.vo m.le cerchio,(nella fattispecie) cerchio metallico che costituisce la parte contentiva delle doghe delle botti, oppure (alibi) la parte esterna (battistrada) delle ruote di legno di un carro. voce dal lat. circulu(m) dim. di ci°rcus 'cerchio' con il percorso circulu(m)→circ(u)lu(m)circlu(m)→circhio e poi con assimilazione regressiva chi/ci →chi/chi chirchio;
tumpagne s.vo m.le pl. di tumpagno = fondo della botte (dal greco tympànion che sta giustappunto per chiusura).
8.dà ‘na mana Ad litteram: dare una mano Id est: aiutare qualcuno in un lavoro,in un’attività sia contro una remunerazione, sia (piú spesso) gratuitamente collaborando fattivamente.
9.dà ‘o canzo
10.dà ‘o ntrattieno Ad litteram: dare l’intrattenimento (a qualcuno). Detto normalmente con riferimento ai bambini che con speciose ragioni o subdole motivazioni vengono trattenuti in altre sciocche e/o inutili incombenze e non possano cosí partecipare ad accadimenti che si vogliono riservare agli adulti; ; la locuzione è usata anche nei confronti degli adulti per tenerli esclusi da attività comuni perché soggetti di poca compagnia in quanto sgradevoli, fastidiosi o noiosi sebbene sia piú complicato trovare ragioni e motivazioni da opporre a degli adulti, solitamente meno creduloni dei fanciulli.
La voce ntrattieno usata peraltro solo in questa locuzione o altra consimile è un deverbale di trattenere (trattieno) addizionato in posizione protetica di una nasale eufonica espressiva (n) che non essendo l’aferesi di (i)n→’n non necessita di alcun segno diacritico.
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11.dà sotto
12.dà zizza ‘e vacca pe tarantiello
Letteralmente: dar mammella (di mucca) per tarantello. La locuzione à una doppia valenza a seconda del significato che si dà al termine tarantello. In una prima accezione tarantello è un pezzo di carne dato come aggiunta a della carne piú pregiata, al fine di sistemarne il giusto peso. Usandola con tale accezione, figuratamente, la locuzione significa che colui contro cui è rivolta, non si è impegnato molto nel dare il giusto dovuto, ma à rabberciato la prestazione portandola a compimento con l'uso di materiali di scarto. Nel caso che con la voce tarantello si voglia invece indicare il pregiato salume ricavato dalla pancetta di tonno, figuratamente vuol significare che colui contro cui la locuzione è diretta, si è comportato da gran mistificatore ed imbroglione come chi abbia conferito vilissima mammella di mucca in luogo della dovuta, costosa pancetta di tonno.In ogni caso si tratta di un imbroglio reale o figurato.
La voce zizza = tetta, mammella d’essere umano o bestia, viene per adattamentodall’ accusativo tardo latino *titta(m)= capezzolo attraverso una forma aggettivale tittja(m) dove il ttj intervocalico diede zz che influenzò anche la sillaba d’avvio ti→zi.
La voce tarantiello in ambedue le accezioni è un denominale (diminutivo) di Taranto
la città pugliese dove si produce il pregiato salume ricavato dalla pancetta di tonno.
E veniamo ora alle locuzioni costruite con il verbo dare espresso nella forma dell’infinito riflessivo darse = darsi:
13.darse ‘e mane Ad litteram:darsi di mani id est:litigare e venire alle mani colpendosi vicendevolmente con percosse inferte a preferenza con le mani
mane s.vo f.le pl. di mana = mano; ; etimologicamente la voce mana, deriva da un accusativo latino manu(m) reso femminile mana(m); anche nel toscano anticamente la mano fu mana.
14.darse ô quatt’austo Ad litteram:darsi ai quattro d’agosto id est: darsi il buon tempo, divertirsi,sollazzarsi in amicale compagnia o preferibilmente accompagnandosi con una donna, con la quale appartarsi; l’espressione fa riferimento ad un’abitudine d’antan allorché proprio nel dí della festa di san Domenico (4 di agosto) la gioventú napoletana soleva organizzare allegre gite che avevano per meta le alture del Vomero, dei Camaldoli o piú spesso di Posillipo, con salutari passeggiate e/o pantagrueliche mangiate e bevute; in senso piú esteso l’espressione in esame vale il generico allietarsi, ricrearsi, svagarsi in cento modi spesso anche rozzi ed inurbani. A margine rammento che proprio in riferimento alla meta di Posillipo, alibi l’espressione a margine suonò anche Pigliarse 'o Pusilleco.
Letteralmente: Prendersi il Posillipo. Id est: Darsi il buon tempo, accompagnarsi ad una bella donna, per trascorrere un po' di tempo in maniera gioiosa.La locuzione fa riferimento ad una famosa collina partenopeaPosillipo,che dal greco Pausillipon significa tregua all'affanno, luogo amenissimo dove gli innamorati son soliti appartarsi. In senso antifrastico e furbesco la locuzione sta per: buscarsi la lue.
austo s.vo m.le = agosto (nome dell’ottavo mese dell’anno nel calendario gregoriano) voce dal lat. Augustu(m) (mìnsem), dal nome di Ottaviano Augusto; normale nel napoletano la caduta dell'occlusiva velare sonora (g) intervocalica come per Austino←Agostino, rraú←ragout, sciaurato←sciagurato.
15.darse ‘nu pizzeco ‘ncopp’â panza
Ad litteram:darsi un pizzico sulla pancia, pizzicarsi sulla pancia Id est: autoimporsi una sofferenza che ci permetta di non sentirne un’altra. Per traslato e piú genericamente: sopportare con rassegnazione qualche sgradevole accadimento, nella speranza che ciò ce ne eviti di peggiori; a Napoli a qualcuno che si stia lamentando di dover sopportare alcunché si suole consigliare con la frase in epigrafe di pizzicarsi la pancia facendo buon viso a cattivo gioco. Talvolta però il darsi pizzichi sulla pancia è quasi un atto dovuto, non perché cosí facendo si pensi di evitar guai maggiori, ma perché chi ci sta comminando pene e/o sofferenze è persona cosí tanto importante o meritevole di rispetto che non gli si può opporre una reazione, ma solo rassegnazione.
pizzeco s.vo m.le
1 come nel caso che ci occupa lo stringere con il pollice e l'indice una parte molle del corpo; l'atto del pizzicare: dà ‘nu pizzeco a una(dare un pizzico ad una
2 (estens.) quantità di roba che si può prendere con i polpastrelli delle dita:’nu pizzeco ‘e sale, ‘e pepe(un pizzico di sale, di pepe)
voce deverbale di pezzecà (Intens. del verbo ant. pizzare 'pungere', da avvicinare a pizzo 'punta');
‘ncopp’â preposizione articolata = sulla, sopra la forgiata da un in→’n illativo e da coppa dal latino cuppa(m) la parte posteriore superiore del capo che è dunque quella posta sopra, addizionata di â (crasi di a ‘a=alla);
panza s.vo f.le indica essenzialmente il ventre, l’addome dell’uomo(come nel caso che ci occupa) o della bestia, ed in senso figurato la parte centrale e tondeggiante di qualcosa: pancia del fiasco,pancia del vaso o ancora la forma tondeggiante di alcune lettere dell’alfabeto: la pancia della a, della p ; è forgiata sul latino pantice(m)→pan(ti)cja(m)→panza con metaplasmo e risoluzione di cj in z.
E giungiamo infine alle locuzioni costruite con il verbo dare espresso nella forma dell’imperativo (2ª p.sg.) dalle= dagli:
16.dalle arrèto! ad litteram: dagli indietro! Ingiunzione esclamativa che in origine si poteva cogliere sulla bocca dei passeggeri di vetture da nolo che rivolgendosi al cocchiere lo sollecitavano a dar di frusta sugli scugnizzi che aggrappati sulla parte posteriore della vettura importunavano i viaggiatori; successivamente l’esclazione fu, ed ancóra è usata, da chiunque intenda spronare all’azione qualcuno, nel senso generico di insegui, non dargli tregua! con riferimento all’importuno di turno di cui occorra liberarsi anche con le maniere spicce.
arrèto/arèto/adderèto/dderèto prep. impr. ed avv.
nella parte posteriore, opposta al davanti: nun guardà arèto (non guardare dietro); preferisco stà adderèto(preferisco star dietro) | preceduto da altro avv. di luogo: steva annascuso lla dderèto(era nascosto lí dietro); à dda stà cca dderèto(deve essere qua dietro);
come prep. impr. è sempre seguita dalla prep. sempl. a aspiettame arrèto a chella culonna (attendimi dietro quella colonna; s’è annascusa arèto/arrèto â porta (s’è nascosta dietro la porta); | non può essere preceduto (come invece nell’italiano) dalla prep. di pleonastica:tu va’ annanze ca i’ sto’ arrèto( tu vai davanti, io sto di dietro || nella loc. corrispondente all’italiano di dietro (o in grafia unita didietro) è usata nella forma ‘e rèto ed à anche un valore di agg. e di s. m. : ‘e zzampe ‘e rèto(le zampe posteriori);’a parte ‘e rèto ‘e ll’armuà(il pannello di dietro dell’ armadio) etimologicamente è dal tardo lat. *ad de retro→adderèt(r)o→ adderèto →arrè(re)to e quest’ultimo anche a(r)rèto;
17.dalle a vvévere! ad litteram: Dagli da bere! (Zittiscilo) dandogli da bere( tanta acqua quasi da soffocarlo)...Malizioso furbesco consiglio esclamatorio rivolto a chi sia costretto a ad ascoltare da un noioso terzo reiterate prolisse lagnanze e/o lamentele spesso infandate se non inventate, affinché si liberi di codesto fastidioso individuo versandogli da bere molta acqua ed anzi costringendolo ad assumerla tutta per modo che con la bocca piena alla fine si taccia dando respiro al povero ascoltatore...
dalle = voce verbale dagli (2ª pers. sg. imperativo dell’infinito dare addizionato in posizione enclitica del pronome lle corrispondente all’italiano gli (, pron. pers. m. di terza persona sg. forma complementare atona di egli, usata come compl. di termine in posizione enclitica e raramente proclitica);
vvévere/bbévere = bere voce verbale infinito; voce in doppia morfologia dal lat. bibere; nel primo caso si è avuto il consueto passaggio partenopeo di b→v (cfr. barca→varca,bacio→vaso,bótte→votta etc.)ed assimilazione regressiva per cui bibere→bivere→vevere; mentre nel secondo caso non si è avuta l’assimilazione regressiva per cui bibere→bivere→bevere;
18.dalle ‘a zizza ad litteram: Dagli da succhiare! (Zittiscilo) dandogli da succhiare(attaccato alla tetta)...spazientito,malizioso consiglio esclamatorio rivolto ad una mamma perché ponga fine ai fastidiosi, reiterati pianti o strilli d’ un suo pargolo per modo che occupato a suggere il latte materno la smetta di infastidire gli astanti piangendo e/o gridando.
per zizza cfr. antea sub 12.
19.dalle ‘ncapa ad litteram: Dagli sulla testa! Espressione dalla doppia valenza: in primis ed in senso molto comodo, funzionale,utile quasi materiale (Colpiscilo sulla testa,mettilo a tacere colpendolo sul capo, addirittura ammazzalo agendo nella medesima maniera); in tale valenza l’espressione è ed era ad es., il consiglio/ordine dato all’incaricato/a perché addivenga/addivenisse rapidamente ad un risultato nell’operazione di uccidere il lubrico, sfuggente capitone la grossa gustosa anguilla femmina che solo se colpito sul capo si riesce ad ammazzare per poi eviscerarlo, tagliarlo in pezzi e preparalo per esser cucinato ed ammannito in tavola; in altra valenza, quella metaforica, l’espressione vale rimproverare reiteratamente qualcuno,sollecitandolo insistentemente con atti o piú spesso con parole per convincerlo ad es. a cambiare il suo modus vivendi,ad impegnarsi nello studio o nel lavoro, a dare una svolta in senso positivo e migliore alla sua vita; in questa seconda valenza l’espressione dalle ‘ncapa viene spesso addizionata di una non pleonastica integrazione diventando dalle ‘ncapa, falle ‘nu fuosso ‘ncapa (dagli sul capo fino a fargli un buco in testa)id est fino a che non si convinca ad agire cosí come è giusto che agisca.
‘ncapa loc. avv.le di luogo in testa, sul capo formata dal s.vo f.le capa (= capo, testa dal lat. parlato *capa(m) per il class. caput) agglutinato in posizione protetica di un in→(i)n→’n illativo; rammento che in napoletano il termine capo/a è usato in napoletano sia per indicare la parte del corpo umano unita al torace dal collo e in cui ànno sede gli organi che governano le facoltà intellettive e la vita sensitiva ed in senso piú ristretto, la zona del cranio rivestita di capelli, sia per indicare chi esercita un comando o dirige imprese, attività sia ancóra (estens.) chi à un ruolo preminente o esercita una funzione direttiva, godendo di particolare prestigio e autorevolezza, ma è pure usato per indicare una gugliata di cotone,di spago, di filo, di refe o anche un rocchio di salsiccia (‘nu capo ‘e cuttone, ‘nu capo ‘e saciccia o ‘na capa ‘e saciccia) e viene usato in tale accezione perché allorché una gugliata di cotone,di spago, di filo venga staccata dal suo gomitolo o rocchetto di pertinenza, ecco che la successiva gugliata si troverà all’inizio, al capo del gomitolo o rocchetto; ugual cosa capita con la salsiccia che è un trito di carne di suina aromatizzato ed insaccato in un budello lungo tra i 40 ed i 50 cm.; tale lunga salsiccia viene poi divisa in porzioni (rocchi) mediante successive legature; poiché quando dalla salsiccia cosí suddivisa ne viene staccato un pezzo (rocchio) il successivo si troverà comunque sempre in testa, in capo alla salsiccia residua, ecco che in napoletano il rocchio italiano si dice capo o capa ‘e saciccia;
capitone s.vo m.le
1 come nel caso che ci occupa anguilla femmina di grosse dimensioni, pregiata per le sue carni; è cibo tradizionale delle feste di Natale
2 (ant.) filo di seta grosso ed ineguale
3 alare del focolare. voce dal lat. capitone(m) 'che à la testa grossa', deriv. di caput -pitis 'capo';
fuosso s.vo m.le = fosso, incavo naturale del terreno | buca naturale o artificiale presente o scavata nel terreno, di forma e dimensioni varie secondo l'uso cui è destinata, voce
che è il part. pass. sostantivato lat. fŏssu(m) del verbo fŏdĕre = scavare.
20.dalle ‘ncopp’ê rrecchie ad litteram: Dagli sulle orecchie! Espressione da intendersi sia in senso reale che, piú acconciamente, in senso metaforico in relazione cioè all’atteggiamento da tenere nei confronti di chi sia tanto borioso, supponente, presuntuoso, spocchioso, arrogante, vanaglorioso, tronfio da incedere sempre con il capo provocatoriamento eretto quasi con le orecchie dritte oltre ogni decenza. A costui, per ridimensionarlo mortificandolo e convincendolo dell’opportunità di abbassare le orecchie e/o il capo e piú in generale di scendere dal suo inutile e falso cavallo bianco, a costui farebbe un gran bene esser colpito realmente o piú acconciamente metaforicamente sulle orecchie per fargliele abbassare mettendo un freno a quell’aria da Padreterno con cui normalmente un borioso, supponente, presuntuoso, spocchioso, arrogante si propone in giro.
‘ncopp’ê loc. prepositiva di luogo sulle, sopra le; alibi anche sugli, sopra i/gli cfr. antea sub 15:
recchie s.vo f.le pl. di recchia = 1(come nel caso che ci occupa)orecchio, padiglione auricolare,organo dell'udito
2(estens.) piega fatta all'angolo di una pagina, per trascuratezza o appositamente, come segnale
3 recchia ‘e mare(orecchia marina), mollusco marino con conchiglia rivestita internamente di madreperla e munita di una serie di fori laterali, da cui escono i tentacoli
voce dal lat. auricula(m)→(au)ric(u)la(m)→recchia; auricula(m) è il dim. di auris 'orecchio'
E cosí reputo di aver ottemperato a quanto m’ero ripromesso e di avere interessato i miei consueti ventiquattro lettori e di chi altro si imbattesse in queste paginette, per cui mi congedo con il mio consueto satis est.
R.Bracale
Intendo questa volta illustrare (a beneficio dei miei consueti ventiquattro lettori e di chi altro si imbattesse in queste paginette e le trovasse, m’auguro, interessanti) un nutrito numero di espressioni costruite nell’idioma napoletano usando il verbo dare coniugato volta a volta all’infinito, in forma riflessiva o all’imperativo.
Comincio con il premettere che il verbo napoletano dare/dà (con etimo dal lat. dare) conserva nel napoletano i medesimi significati dell’omografo ed omofano italiano dare e cioè:
come verbo transitivo[aus. avé/avere]
1 trasferire da sé ad altri qualcosa che si possiede, si à, si conosce: dà ‘nu libbro, ‘nu pacco,’na ‘nfurmazzione, ‘na nutizzia (dare un libro, un pacco; dare un'informazione, una notizia) | in molte espressioni il sign. del verbo è precisato dal compl. oggetto: dà fuoco (dare fuoco), incendiare, accendere; dà acqua (dare acqua), spargerla, versarla, irrorarla; dà aria (dare aria), arieggiare; dà’na mana (dare una mano), aiutare; dà l'assembbio (dare l'esempio), impartirlo; dà curaggio (dare coraggio), incoraggiare; dà ‘a sferracchiata (dare l'assalto), assalire; dà ‘a stracciata (dare battaglia), cominciare a combattere; ; dà’nu sbuttulone( dare una spinta), spingere; dà ‘na festa, ‘nu tàffio(dare una festa, un pranzo), offrirli, organizzarli; dà ‘a sàmmena(dare gli esami), sostenerli; dà ‘a bbona notta, ‘o bongiorno(dare la buona notte, il buon giorno, augurarli; darse penziero(darsi pensiero), preoccuparsi; | in altri casi, che però fatta eccezione per le espressioni come dà pe ccerto, pe sicuro, pe bbuono(dare per certo, per sicuro, per buono), riconoscere tali; dà a ppenzà(dare da pensare), preoccupare; darse ‘a fà(darsi da fare), impegnarsi o brigare per raggiungere uno scopo; in altri casi, che sono solo dell’italiano, il sign. del verbo è precisato da un compl. indiretto, da un compl. predicativo o da una prop. infinitiva: dare in dono, regalare; dare in moglie, concedere la mano, far sposare; dare alla luce, partorire; dare a intendere qualcosa, farla credere; darsela a gambe, fuggire; negli esempi riportati il napoletano preferisce l’uso di forme verbali prive dell’ infinito dà : dare in dono = rijalà, dare in moglie = fà ‘mmaretà etc.
2 porgere: damme ‘o cappiello; damme ‘a mana (dammi il cappello; dare la mano), in segno di saluto
3 somministrare, propinare: dà ‘na mmericina(dare una medicina) | darse ‘a cipria, ‘o rrussetto(darsi la cipria, il rossetto), e sim.
4 affidare: dà ‘na cummissione a uno(dare un incarico a qualcuno;
5 assegnare: dare ‘nu punto, (dare un voto)
6 cedere: dà ‘o passo, ‘a strata(dare il passo, la strada), fare largo | conferire; aggiudicare: dà ‘nu premio(dare un premio)
7 concedere, accordare: dà ‘nu permesso(dare un permesso)
8 attribuire, riconoscere: dà ‘a córpa a uno(dare una colpa ad uno); dà raggione, tuorto(dare ragione, torto); dà valore a quaccosa(dare peso, importanza a qualcosa); quant’anne lle daje?(quanti anni gli dai?);
9 infliggere (pene, percosse): dà ‘nu fucuzzone, ‘na cundanna pesante (dare un pugno, una pesante condanna) | anche assol.: ce nn’aggiu date ‘nu tummolo e ‘na sporta (gliene ò date ad iosa)
10 arrecare, provocare:dà cuntiento, ‘mpiccio (dare gioia, fastidio); chellu ttuosseco po’ ddà ‘a morte(quel veleno può dare la morte)
11 (fam.) pagare: quanto ll’hê dato pe chella sciffuniera? quanto gli hai dato per quello stipo?; mme ddanno ‘nu melione ô mese(mi dànno un milione al mese)
12 (fam.) vendere: dà coccosa pe pochi sorde(dare qualcosa per pochi soldi)
13 rendere, fruttare; produrre: ‘na campagna ca dà pochi frutte, ‘na fatica ca nun dà assaje guaragno(una campagna che dà pochi frutti; un lavoro che non dà molto guadagno)
14 considerare, definire (in usi assol., solo al part. pass.):dàtese ‘e circustanze (date le circostanze); | dàtosi che (dato che), poiché; supposto, ammesso che | dato e nun cuncesso ca (dato e non concesso che), ammesso per ipotesi ma non di fatto che |||
come v. intr. [aus. avé/avere]
1 cogliere, colpire; urtare, imbattersi: dà ‘e ponta dinto a ‘nu zzarro e cadé(inciampare in un sasso e cadere) | in molte locuzioni assume significati particolari: dà ‘ncapa (dare alla testa), stordire; dà a ll’uocchie (dare nell'occhio), farsi notare; dà contro a quaccuno(dare contro a qualcuno), dargli torto; dà ‘o ttu, ‘o vvuje (dare del tu, del voi, rivolgersi a qualcuno usando la seconda persona sg. o pl.;
2 di case, finestre ecc., guardare, essere rivolto:’a casa dà dint’ô vico (la casa dà sul vicolo)
3 di colori, tendere: ‘sta tinta dà ‘ncopp’ô lluvardoquesta tinta dà sull’azzurro |||
darse v. rifl. [aus. essere]
1 applicarsi: darse ô sturio d’ ‘a canzone napulitana, ô cummercio (darsi allo studio della canzone napoletana, al commercio) ' abbandonarsi: darse a bbevere, ô juoco,â pazza joja(darsi al bere, al gioco, alla pazza gioia) | darse ô nemico(darsi al nemico), sottometterglisi | darse pe mmalato(darsi per malato), farsi credere tale
2 cominciare: darse a correre, a mangià (darsi a correre, a mangiare) |||
v. rifl. rec. scambiarsi: darse ‘nu vaso (darsi un bacio) |||
v. intr. pron.
1 esserci, presentarsi: nun s’è data nisciuna uccasione (non si è data alcuna occasione) | verificarsi, accadere: po’ darese ca isso vene cca(può darsi che egli venga qui); s’è ddato ‘o caso ca isso stesse cca si dà il caso che egli sia qui
2 (solo in italiano(fam.))darsela, battersela, svignarsela (dalla loc. darsela a gambe). Giunti a questo pounto e prima di affrontare la fraseologia mette conto ch’io faccia una precisazione che riguarda il dà = dà voce verbale (3° p.s. indicativo pres.) o anche infinito (come nelle locuzioni che illustrerò qui di sèguito) del verbo dare/dà derivato, come ò già détto del lat. dare; è pur vero che in napoletano non esiste graficamente la preposizione da (che in napoletano è sempre ‘a= da) per cui non essendovi possibilità di confusione fra voci omofone la voce verbale 3° p.s. indicativo pres. potrebbe anche scriversi tranquillamente da evitando un pleonastico accento sulla a (dà), ma per non essere accusato da qualche sprovveduto (ignaro che i raffronti occorre farli nell’ambito di una medesima lingua e non di idiomi diversi) dicevo per non essere accusato da qualche sprovveduto di non sapere che la3° p.s. indicativo pres.del verbo dare esige l’accento (dà) preferisco nun mettere carne a ccocere (evitare polemiche) e pro bono pacis faccio una forzatura alle mie conoscenze e convinzioni linguistiche ed adeguo (sia pure con mio malgrado) il dà napoletano al dà dell’italiano. Diverso è il discorso per l’infinito dà (forma tronca dell’infinito dare). Comincerò con il precisare che il verbo dare il cui infinito nel napoletano è dà/ddà infinito che io, contrariamente a tutti gli altri cultori dell’idioma napoletano (che usano la grafia apocopata da’) preferisco rendere con la à accentata (dà/ddà ) per alcuni ben precisi motivi: 1)uniformità di scrittura degli infiniti che in napoletano (nelle forme troncate) siano essi monosillabi o plurisillabi son tutti accentati sull’ultima sillaba (cfr. ad es.fa(re)→fà – magna(re)→magnà – cammena(re)→cammenà –cade(re)→cadé - murire→murí etc.), 2) la grafia apocopata da’ si presta, a mio avviso,fuor del contesto ad esser confusa con la 2° p.sg. dell’imperativo: da’= dai, come si presterebbe alla medesima confusione l’infinito apocopato fa’ di fare che potrebbe essere inteso, prescindendo dal contesto, come2° p.sg. dell’imperativo: fa’= fai, A proposito di infiniti rammento che durante le mie numerose letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni autori che, ritenendo di fare cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in luogo dell' accento tonico e non si rendono conto che solo l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,e può (solo!) indicarne graficamente l'esatta pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi in altri maldestri autori ed addirittura compilatori di dizionari, che per tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti . In effetti nella parlata napoletana è un errore di ortografia accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico apostrofo per indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba:
l'accento, inglobando in sé la doppia funzione, è piú che sufficiente alla bisogna; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia tagliare un termine mantenendone però il primitivo accento tonico.
Per esempio il verbo èssere può essere apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancóra ad es. il verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o metriche essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si dovrebbe leggere càde’ e non cadé!
Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: vede e non vedé.)È pur vero che, in napoletano, alcuni infiniti di verbi che, apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero esser scritti con il segno dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in quanto che nei monosillabi l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non può cadere su altre (che non esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il verbo stare l’ apocopato: sta’ in luogo di stà , per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’ invece di fà, per l’infinito di dare l’ apocopato: da’ invece di dà, ma personalmente reputo piú comodo come ò détto per mantenere una sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di altri verbi mono o plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare stà e fà, dà in luogo dei pur corretti sta’ e fa’, da’ che valgono stare, fare,dare tenendo conto altresí che almeno nel caso di fa’ e da’ esso potrebbe essere inteso, ripeto, come voce degli imperativo (fai→fa’dai→da’), piuttosto che degli infiniti fare,dare cosa che invece non può capitare con il verbo stare il cui imperativo nel napoletano non è sta’, ma statte. Rammento che, normalmente occorre accentare sull’ultima sillaba tutte le voci verbali degli infiniti (per lo meno bisillabi) tronchi o apocopati (ess.: magnà, purtà, pusà, cadé, rummané etc.) per modo che si possa facilmente individuare la sillaba su cui poggiare il tono della parola, cosa che non avverrebbe se in luogo di accentare il verbo si procedesse ad apostrofarlo per indicarne l’apocope dell’ultima sillaba; in tal caso infatti non spostandosi l’accento tonico si altererebbe completamente la lettura del verbo; facciamo un esempio: il verbo spàrtere (dividere) che apocopato dell’ultima sillaba diventa spartí se in luogo dell’accento fosse scritto con il segno dell’apocope sparti’ dovrebbe leggersi col primitivo accento spàrti e non indicherebbe piú l’infinito, ma – forse - una scorretta forma della 2° pers. sing. dell’ind. pres.che è sparte e non sparti. Premesso tutto ciò, a mio sommesso, ma deciso avviso ripeto che è opportuno – per una sorta di omogeneità - accentare sull’ultima sillaba tutti i verbi al modo infinito anche quelli monosillabici (ovviamente quando si tratti di autentici verbi presenti nel napoletano e non presi in prestito dall’italiano!, come impropriamente fa qualcuno che annovera tra gli infiniti del napoletano un inesistente dí contrabbandato per infinito apocopato del verbo dícere laddove è risaputo che il napoletano pretto e corretto usa sempre la forma dícere e mai, se non per rare licenze ed esigenze metriche poetiche, l’apocopato dí e chi lo facesse o avesse fatto, sbaglierebbe o si sarebbe sbagliato quand’anche si chiamasse Di Giacomo! ) ottenendosi perciò:
dà = dare( apocope del lat. dare) , fà = fare ( apocope del lat. facere) evitando di scrivere – come invece propone qualcuno – da’ o fa’ che potrebbero esser confusi con gli imperativi da’= dai o fa’= fai.
Tutto ciò premesso veniamo alle locuzioni costruite con il verbo dare cominciando da quelle nella cui formulazione è presente l’infinito apocopato dà = dare:
1.dà corda (oppure) dà spavo
Ad litteram: Dar corda (oppure) dar spago Id est: aizzare, eccitare, montare qualcuno contro un altro con atti o con parole quasi allungandogli un’ipotetica figurata corda o un metaforico spago che ne impedisse i movimenti; la voce corda è dal lat. chorda(m) 'corda musicale', poi 'corda' in generale, dal gr. chordé;
2.dà ‘a cumposta
Ad litteram: Dar la composta Id est: Somministrare a discoli e/o disubbidienti figliuoli o ragazzi in genere che la meritassero una nutrita, salutare aspra dose di percosse; infatti con la voce cumposta (derivata da cumpos(i)ta(m) part. pass. f.le dal lat. componere, comp. di cum 'con' e ponere 'porre')che in napoletano indica un misto di ortaggi bolliti e conservati sotto un acido ed asprigno aceto (contrariamente all’italiano dove la voce composta indica della frutta mista cotta in uno sciroppo di zucchero), con la voce napoletana cumposta si vuole significare qualcosa non di dolce, ma al contrario di amaro, acre, aspro,pungente quali sono, appunto, le percosse.
3.dà aurienza
Ad litteram: Dar udienza
Id est: in primis ascoltare, prestare attenzione a qualcuno,accordare ascolto ed attenzione alle richieste altrui,
in senso esteso addivenire a qualcosa, lasciarsi convincere; la voce aurienza è dritto per dritto, con tipica alternanza osco-mediterranea d→r, dal lat. audientia(m), deriv. di audire 'udire', rifatto secondo udire;
4.dà ciento muorze a unu fasulo
Ad litteram: Dar cento morsi ad un unico fagiolo
Id est: in primis essere eccessivamente golosi,oppure
in altro senso essere smisuratamente parsimoniosi; nel primo caso il senso della golosità si coglie nel fatto di volere estendere ad libitum il godimento di mangiare affrontando un singolo fagiolo con piccoli, ma reiterati morsi senza mai deglutirlo, nel secondo caso il senso della spilorceria si coglie nel fatto di volere limitare il nutrimento ad un singolo fagiolo affrontato – a maggior disdoro - con piccoli e reiterati morsi senza mai deglutirlo del tutto.
La voce muorze s.vo m.le pl. di muorzo letteralmente morso e talora boccone, ed anche breve, contenuto asciolvere etimologicamente dal lat. morsu(m) deverbale di mordire per mordere;tipica nel napoletano l’evoluzione rs→rz come in borza da borsa, perziana da persiana;
fasulo s.vo neutro ( al pl. fasule) = fagiolo 1 pianta erbacea con fusto volubile, foglie trilobate e fiori bianchi o rossi; i frutti sono baccelli contenenti semi commestibili (fam. Leguminose) | fasule a ucchietiello(fagiolo dell'occhio), dolico;
2 il seme della pianta del fagiolo: ‘nzalate ‘e fasule(insalata di fagioli); pasta e ffasule(pasta e fagioli) | (fam.) dà luogo a varie locuzioni fig.: jí a ffasulo(andare a fagiolo), andare a genio; capità, vení a ffasulo (capitare, venire a fagiolo), capitare a proposito, al tempo giusto:
3 nel gergo goliardico, studente del secondo anno di università;
voce dal lat. phaseolu(m), dim. di phasílus, dal gr. phásílos;
unu/uno agg.vo num.le card.le, pron. indef. nella forma ‘nu/’no art. indet. [ dal lat. ūnus]. –1. Primo numero naturale dopo lo zero (in cifre arabe 1, in numeri romani I); è il numero con cui à normalmente inizio una numerazione (per es., dei giorni del mese, delle pagine di un libro, dei numeri civici di una via): il numero uno, a pagina uno, il giorno uno marzo. Nelle operazioni: sette per uno (7 × 1); otto meno uno (8 – 1), ecc.; ricominciando la sequenza dei numeri dopo ogni decina, uno si unisce, come secondo elemento, al numero che esprime la nuova decina (fa eccezione unnice(undici) che, derivando direttamente dal lat. undĕcim, à un aspetto proprio): vintuno(ventuno), venti e uno, trentuno, trenta e uno, ecc.; e poi cient’euno(centouno) o, raro, cientuno(centuno), ecc., mill’euno(milleuno), ecc. Com. la locuz. fig. ‘o nummero uno (il numero uno), chi occupa il primo posto in assoluto nel proprio settore di attività o all’interno di una gerarchia;
2 uno e uno solo pígliame unu quaderno, unu libbro (prendimi un solo quaderno, un solo libro ) mentre pígliame ‘nu quaderno, ‘nu libbro (prendimi un qualsiasi quaderno, un libro qualsiasi )
3 un tale, un certo, una certa persona;aggiu parlato cu uno ca te cunosce( ò parlato con uno che ti conosce); è uno ca dice ca fa ll’architetto(è uno che dice di essere l'architetto); parlavano ‘e uno ca se nn’era fujuto dô carcere(parlavano di uno che era fuggito di prigione) |
in costruzioni partitive: aggiu parlato cu uno d’’e cupagne suoje (ò parlato con uno dei suoi compagni; ànno sciveto uno ‘e lloro (ànno scelto uno diloro); è uno d’ ‘e meglie; uno d’ ‘e tante,unu qualunque( uno dei migliori; uno dei tanti, uno qualsiasi);
rammento che la voce a margine unu/uno non va assolutamente confusa con la forma aferetica ‘nu/no= corrispondenti all’articolo indeterminativo un ed uno della lingua italiana; [ rammento che in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s. o agg. che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa l’articolo indeterminativo ‘no/‘nu indifferentemente davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa una forma tronca un (ad es.: un osso) nella parlata napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente, come ò anticipato, dal lat. (u)nu(m) e l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il vezzo di scrivereno/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘na = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una; l’etimo di ‘na è ovviamente dal lat. (u)na(m) l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il vezzo di scrivere l’articolo na privo di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, mi ripeto, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile.
5.dà funa longa
Ad litteram: Dar fune lunga Id est: dare a qualcuno piú di quanto gli competa o gli sia dovuto; essere troppo concessivo nei confronti di qualcuno o per eccessiva bonta o per stupidità, mancanza di personalità; con altra valenza: esitare lungamente, quasi sempre per inettitudine e/o irresolutezza, quando non timore o paura, prima di prendere i dovuti provvedimenti nei confronti di qualcuno; la locuzione in esame non va confusa con quella illustrata precedentemente dà corda (oppure) dà spavo che valeva aizzare, eccitare, montare qualcuno contro un altro con atti o con parole quasi allungandogli un’ipotetica figurata corda o un metaforico spago che ne impedisse i movimenti;
funa s.vo f.le = fune, insieme di piú fili di canapa, d'acciaio o di altro materiale ritorti e intrecciati fra di loro; corda, cavo,
etimologicamente dal lat.parlato *funa(m) per il cl. fune(m);
longa agg.vo f.le
1 che si estende nello spazio in senso orizzontale, o anche nel senso della dimensione la cui estensione è maggiore: ‘na funa longa seje metri; ‘na tavula longa tre metri e llarga dduje (una fune lunga sei metri; una tavola lunga tre metri e larga due);
2 che à una notevole lunghezza o una lunghezza che è comunque maggiore rispetto alla misura normale, media, o rispetto a un'altra possibile misura sensibilmente inferiore ‘na strata longa, purtà ‘a capellera longa,’a gonna longa,una lunga strada; portare i capelli lunghi, gonna lunga;
3 si dice di persona molto alta, spec. se magra | anema longa(anima lunga), (scherz.) persona altissima, allampanata | essere cchiú llarga ca longa(essere piú larga che lunga, (scherz.) essere molto grassa
4 che si estende nel tempo, che dura da o per molto tempo: ‘na prereca cchiú llonga d’ ‘a quaraesima(una predica piú lunga della quaresima); ‘na cummeddia longa (una lunga rappresentazione teatrale);
5 (fam.) si dice di persona lenta, che impiega molto tempo per fare qualcosa: essere longa a mmagnà(essere lunga nel mangiare); comme sî llonga a scrivere! (come sei lunga a scrivere!)
6 si dice di bevanda o cibo preparato con una quantità d'acqua maggiore rispetto alla misura media o normale: bevanda, menesta longa (tisana,minestra lunga)
7 (ling.) si dice di suono che à una durata di emissione maggiore di un altro, detto breve: vucale longhe(vocali lunghe) | sillabba longa(sillaba lunga), nella versificazione greca e latina, sillaba che contiene una vocale lunga o un dittongo; voce dal lat. longa(m);
6.dà ll’uorgio
Ad litteram: dare l’orzo id est: punire pesantemente chi meriti una punizione per essersi comportato male o non essersi attenuto a ciò che gli era stato comandato di fare.La locuzione fa riferimento ad una punizione che nell’esercito romano si soleva comminare ai soldati che si fossero dimostrati poco volorosi in combattimento o avessero trasgredito gli ordini ricevuti. La punizione consisteva nel distribuir loro in luogo del buon pane di frumentoo di farro, dello scadente pane di orzo, o altri cereali meno saporiti del grano. La voce uorgio s.vo neutro = orzo, pianta erbacea simile al frumento, con spighe munite di lunghe ariste; si impiega come foraggio, nella fabbricazione della birra e nell'alimentazione umana (fam. Graminacee):farina d’uorgio (farina d'orzo) è voce derivata dal lat.hordeu(m)→lat. volg.(h)ordju(m)→uorgio con dj→gi/ggi come nel lat. modjum→moggio e *sedja(m)→seggia
7.dà ‘na bbotta ô chirchio e n’ata ê tumpagne Ad litteram: assestare un colpo al cerchio ed uno ai fondi della botte Id est: barcamenarsi tra varie alternative pur di raggiungere lo scopo prefissato cosí come fa il fabbricante di bótti che per riuscire nell’intento di sistemare il cerchio di ferro contentivo attorno alle doghe della bótte, assesta alternativamente colpi ora al cerchio, ora alla bótte e segnatamenteai suoi fondi; per traslato la locuzione indica pure un modo di fare non troppo corretto di colui che pur di raggiungere uno scopo non esita a tenere il piede in due staffe.
chirchio s.vo m.le cerchio,(nella fattispecie) cerchio metallico che costituisce la parte contentiva delle doghe delle botti, oppure (alibi) la parte esterna (battistrada) delle ruote di legno di un carro. voce dal lat. circulu(m) dim. di ci°rcus 'cerchio' con il percorso circulu(m)→circ(u)lu(m)circlu(m)→circhio e poi con assimilazione regressiva chi/ci →chi/chi chirchio;
tumpagne s.vo m.le pl. di tumpagno = fondo della botte (dal greco tympànion che sta giustappunto per chiusura).
8.dà ‘na mana Ad litteram: dare una mano Id est: aiutare qualcuno in un lavoro,in un’attività sia contro una remunerazione, sia (piú spesso) gratuitamente collaborando fattivamente.
9.dà ‘o canzo
10.dà ‘o ntrattieno Ad litteram: dare l’intrattenimento (a qualcuno). Detto normalmente con riferimento ai bambini che con speciose ragioni o subdole motivazioni vengono trattenuti in altre sciocche e/o inutili incombenze e non possano cosí partecipare ad accadimenti che si vogliono riservare agli adulti; ; la locuzione è usata anche nei confronti degli adulti per tenerli esclusi da attività comuni perché soggetti di poca compagnia in quanto sgradevoli, fastidiosi o noiosi sebbene sia piú complicato trovare ragioni e motivazioni da opporre a degli adulti, solitamente meno creduloni dei fanciulli.
La voce ntrattieno usata peraltro solo in questa locuzione o altra consimile è un deverbale di trattenere (trattieno) addizionato in posizione protetica di una nasale eufonica espressiva (n) che non essendo l’aferesi di (i)n→’n non necessita di alcun segno diacritico.
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11.dà sotto
12.dà zizza ‘e vacca pe tarantiello
Letteralmente: dar mammella (di mucca) per tarantello. La locuzione à una doppia valenza a seconda del significato che si dà al termine tarantello. In una prima accezione tarantello è un pezzo di carne dato come aggiunta a della carne piú pregiata, al fine di sistemarne il giusto peso. Usandola con tale accezione, figuratamente, la locuzione significa che colui contro cui è rivolta, non si è impegnato molto nel dare il giusto dovuto, ma à rabberciato la prestazione portandola a compimento con l'uso di materiali di scarto. Nel caso che con la voce tarantello si voglia invece indicare il pregiato salume ricavato dalla pancetta di tonno, figuratamente vuol significare che colui contro cui la locuzione è diretta, si è comportato da gran mistificatore ed imbroglione come chi abbia conferito vilissima mammella di mucca in luogo della dovuta, costosa pancetta di tonno.In ogni caso si tratta di un imbroglio reale o figurato.
La voce zizza = tetta, mammella d’essere umano o bestia, viene per adattamentodall’ accusativo tardo latino *titta(m)= capezzolo attraverso una forma aggettivale tittja(m) dove il ttj intervocalico diede zz che influenzò anche la sillaba d’avvio ti→zi.
La voce tarantiello in ambedue le accezioni è un denominale (diminutivo) di Taranto
la città pugliese dove si produce il pregiato salume ricavato dalla pancetta di tonno.
E veniamo ora alle locuzioni costruite con il verbo dare espresso nella forma dell’infinito riflessivo darse = darsi:
13.darse ‘e mane Ad litteram:darsi di mani id est:litigare e venire alle mani colpendosi vicendevolmente con percosse inferte a preferenza con le mani
mane s.vo f.le pl. di mana = mano; ; etimologicamente la voce mana, deriva da un accusativo latino manu(m) reso femminile mana(m); anche nel toscano anticamente la mano fu mana.
14.darse ô quatt’austo Ad litteram:darsi ai quattro d’agosto id est: darsi il buon tempo, divertirsi,sollazzarsi in amicale compagnia o preferibilmente accompagnandosi con una donna, con la quale appartarsi; l’espressione fa riferimento ad un’abitudine d’antan allorché proprio nel dí della festa di san Domenico (4 di agosto) la gioventú napoletana soleva organizzare allegre gite che avevano per meta le alture del Vomero, dei Camaldoli o piú spesso di Posillipo, con salutari passeggiate e/o pantagrueliche mangiate e bevute; in senso piú esteso l’espressione in esame vale il generico allietarsi, ricrearsi, svagarsi in cento modi spesso anche rozzi ed inurbani. A margine rammento che proprio in riferimento alla meta di Posillipo, alibi l’espressione a margine suonò anche Pigliarse 'o Pusilleco.
Letteralmente: Prendersi il Posillipo. Id est: Darsi il buon tempo, accompagnarsi ad una bella donna, per trascorrere un po' di tempo in maniera gioiosa.La locuzione fa riferimento ad una famosa collina partenopeaPosillipo,che dal greco Pausillipon significa tregua all'affanno, luogo amenissimo dove gli innamorati son soliti appartarsi. In senso antifrastico e furbesco la locuzione sta per: buscarsi la lue.
austo s.vo m.le = agosto (nome dell’ottavo mese dell’anno nel calendario gregoriano) voce dal lat. Augustu(m) (mìnsem), dal nome di Ottaviano Augusto; normale nel napoletano la caduta dell'occlusiva velare sonora (g) intervocalica come per Austino←Agostino, rraú←ragout, sciaurato←sciagurato.
15.darse ‘nu pizzeco ‘ncopp’â panza
Ad litteram:darsi un pizzico sulla pancia, pizzicarsi sulla pancia Id est: autoimporsi una sofferenza che ci permetta di non sentirne un’altra. Per traslato e piú genericamente: sopportare con rassegnazione qualche sgradevole accadimento, nella speranza che ciò ce ne eviti di peggiori; a Napoli a qualcuno che si stia lamentando di dover sopportare alcunché si suole consigliare con la frase in epigrafe di pizzicarsi la pancia facendo buon viso a cattivo gioco. Talvolta però il darsi pizzichi sulla pancia è quasi un atto dovuto, non perché cosí facendo si pensi di evitar guai maggiori, ma perché chi ci sta comminando pene e/o sofferenze è persona cosí tanto importante o meritevole di rispetto che non gli si può opporre una reazione, ma solo rassegnazione.
pizzeco s.vo m.le
1 come nel caso che ci occupa lo stringere con il pollice e l'indice una parte molle del corpo; l'atto del pizzicare: dà ‘nu pizzeco a una(dare un pizzico ad una
2 (estens.) quantità di roba che si può prendere con i polpastrelli delle dita:’nu pizzeco ‘e sale, ‘e pepe(un pizzico di sale, di pepe)
voce deverbale di pezzecà (Intens. del verbo ant. pizzare 'pungere', da avvicinare a pizzo 'punta');
‘ncopp’â preposizione articolata = sulla, sopra la forgiata da un in→’n illativo e da coppa dal latino cuppa(m) la parte posteriore superiore del capo che è dunque quella posta sopra, addizionata di â (crasi di a ‘a=alla);
panza s.vo f.le indica essenzialmente il ventre, l’addome dell’uomo(come nel caso che ci occupa) o della bestia, ed in senso figurato la parte centrale e tondeggiante di qualcosa: pancia del fiasco,pancia del vaso o ancora la forma tondeggiante di alcune lettere dell’alfabeto: la pancia della a, della p ; è forgiata sul latino pantice(m)→pan(ti)cja(m)→panza con metaplasmo e risoluzione di cj in z.
E giungiamo infine alle locuzioni costruite con il verbo dare espresso nella forma dell’imperativo (2ª p.sg.) dalle= dagli:
16.dalle arrèto! ad litteram: dagli indietro! Ingiunzione esclamativa che in origine si poteva cogliere sulla bocca dei passeggeri di vetture da nolo che rivolgendosi al cocchiere lo sollecitavano a dar di frusta sugli scugnizzi che aggrappati sulla parte posteriore della vettura importunavano i viaggiatori; successivamente l’esclazione fu, ed ancóra è usata, da chiunque intenda spronare all’azione qualcuno, nel senso generico di insegui, non dargli tregua! con riferimento all’importuno di turno di cui occorra liberarsi anche con le maniere spicce.
arrèto/arèto/adderèto/dderèto prep. impr. ed avv.
nella parte posteriore, opposta al davanti: nun guardà arèto (non guardare dietro); preferisco stà adderèto(preferisco star dietro) | preceduto da altro avv. di luogo: steva annascuso lla dderèto(era nascosto lí dietro); à dda stà cca dderèto(deve essere qua dietro);
come prep. impr. è sempre seguita dalla prep. sempl. a aspiettame arrèto a chella culonna (attendimi dietro quella colonna; s’è annascusa arèto/arrèto â porta (s’è nascosta dietro la porta); | non può essere preceduto (come invece nell’italiano) dalla prep. di pleonastica:tu va’ annanze ca i’ sto’ arrèto( tu vai davanti, io sto di dietro || nella loc. corrispondente all’italiano di dietro (o in grafia unita didietro) è usata nella forma ‘e rèto ed à anche un valore di agg. e di s. m. : ‘e zzampe ‘e rèto(le zampe posteriori);’a parte ‘e rèto ‘e ll’armuà(il pannello di dietro dell’ armadio) etimologicamente è dal tardo lat. *ad de retro→adderèt(r)o→ adderèto →arrè(re)to e quest’ultimo anche a(r)rèto;
17.dalle a vvévere! ad litteram: Dagli da bere! (Zittiscilo) dandogli da bere( tanta acqua quasi da soffocarlo)...Malizioso furbesco consiglio esclamatorio rivolto a chi sia costretto a ad ascoltare da un noioso terzo reiterate prolisse lagnanze e/o lamentele spesso infandate se non inventate, affinché si liberi di codesto fastidioso individuo versandogli da bere molta acqua ed anzi costringendolo ad assumerla tutta per modo che con la bocca piena alla fine si taccia dando respiro al povero ascoltatore...
dalle = voce verbale dagli (2ª pers. sg. imperativo dell’infinito dare addizionato in posizione enclitica del pronome lle corrispondente all’italiano gli (, pron. pers. m. di terza persona sg. forma complementare atona di egli, usata come compl. di termine in posizione enclitica e raramente proclitica);
vvévere/bbévere = bere voce verbale infinito; voce in doppia morfologia dal lat. bibere; nel primo caso si è avuto il consueto passaggio partenopeo di b→v (cfr. barca→varca,bacio→vaso,bótte→votta etc.)ed assimilazione regressiva per cui bibere→bivere→vevere; mentre nel secondo caso non si è avuta l’assimilazione regressiva per cui bibere→bivere→bevere;
18.dalle ‘a zizza ad litteram: Dagli da succhiare! (Zittiscilo) dandogli da succhiare(attaccato alla tetta)...spazientito,malizioso consiglio esclamatorio rivolto ad una mamma perché ponga fine ai fastidiosi, reiterati pianti o strilli d’ un suo pargolo per modo che occupato a suggere il latte materno la smetta di infastidire gli astanti piangendo e/o gridando.
per zizza cfr. antea sub 12.
19.dalle ‘ncapa ad litteram: Dagli sulla testa! Espressione dalla doppia valenza: in primis ed in senso molto comodo, funzionale,utile quasi materiale (Colpiscilo sulla testa,mettilo a tacere colpendolo sul capo, addirittura ammazzalo agendo nella medesima maniera); in tale valenza l’espressione è ed era ad es., il consiglio/ordine dato all’incaricato/a perché addivenga/addivenisse rapidamente ad un risultato nell’operazione di uccidere il lubrico, sfuggente capitone la grossa gustosa anguilla femmina che solo se colpito sul capo si riesce ad ammazzare per poi eviscerarlo, tagliarlo in pezzi e preparalo per esser cucinato ed ammannito in tavola; in altra valenza, quella metaforica, l’espressione vale rimproverare reiteratamente qualcuno,sollecitandolo insistentemente con atti o piú spesso con parole per convincerlo ad es. a cambiare il suo modus vivendi,ad impegnarsi nello studio o nel lavoro, a dare una svolta in senso positivo e migliore alla sua vita; in questa seconda valenza l’espressione dalle ‘ncapa viene spesso addizionata di una non pleonastica integrazione diventando dalle ‘ncapa, falle ‘nu fuosso ‘ncapa (dagli sul capo fino a fargli un buco in testa)id est fino a che non si convinca ad agire cosí come è giusto che agisca.
‘ncapa loc. avv.le di luogo in testa, sul capo formata dal s.vo f.le capa (= capo, testa dal lat. parlato *capa(m) per il class. caput) agglutinato in posizione protetica di un in→(i)n→’n illativo; rammento che in napoletano il termine capo/a è usato in napoletano sia per indicare la parte del corpo umano unita al torace dal collo e in cui ànno sede gli organi che governano le facoltà intellettive e la vita sensitiva ed in senso piú ristretto, la zona del cranio rivestita di capelli, sia per indicare chi esercita un comando o dirige imprese, attività sia ancóra (estens.) chi à un ruolo preminente o esercita una funzione direttiva, godendo di particolare prestigio e autorevolezza, ma è pure usato per indicare una gugliata di cotone,di spago, di filo, di refe o anche un rocchio di salsiccia (‘nu capo ‘e cuttone, ‘nu capo ‘e saciccia o ‘na capa ‘e saciccia) e viene usato in tale accezione perché allorché una gugliata di cotone,di spago, di filo venga staccata dal suo gomitolo o rocchetto di pertinenza, ecco che la successiva gugliata si troverà all’inizio, al capo del gomitolo o rocchetto; ugual cosa capita con la salsiccia che è un trito di carne di suina aromatizzato ed insaccato in un budello lungo tra i 40 ed i 50 cm.; tale lunga salsiccia viene poi divisa in porzioni (rocchi) mediante successive legature; poiché quando dalla salsiccia cosí suddivisa ne viene staccato un pezzo (rocchio) il successivo si troverà comunque sempre in testa, in capo alla salsiccia residua, ecco che in napoletano il rocchio italiano si dice capo o capa ‘e saciccia;
capitone s.vo m.le
1 come nel caso che ci occupa anguilla femmina di grosse dimensioni, pregiata per le sue carni; è cibo tradizionale delle feste di Natale
2 (ant.) filo di seta grosso ed ineguale
3 alare del focolare. voce dal lat. capitone(m) 'che à la testa grossa', deriv. di caput -pitis 'capo';
fuosso s.vo m.le = fosso, incavo naturale del terreno | buca naturale o artificiale presente o scavata nel terreno, di forma e dimensioni varie secondo l'uso cui è destinata, voce
che è il part. pass. sostantivato lat. fŏssu(m) del verbo fŏdĕre = scavare.
20.dalle ‘ncopp’ê rrecchie ad litteram: Dagli sulle orecchie! Espressione da intendersi sia in senso reale che, piú acconciamente, in senso metaforico in relazione cioè all’atteggiamento da tenere nei confronti di chi sia tanto borioso, supponente, presuntuoso, spocchioso, arrogante, vanaglorioso, tronfio da incedere sempre con il capo provocatoriamento eretto quasi con le orecchie dritte oltre ogni decenza. A costui, per ridimensionarlo mortificandolo e convincendolo dell’opportunità di abbassare le orecchie e/o il capo e piú in generale di scendere dal suo inutile e falso cavallo bianco, a costui farebbe un gran bene esser colpito realmente o piú acconciamente metaforicamente sulle orecchie per fargliele abbassare mettendo un freno a quell’aria da Padreterno con cui normalmente un borioso, supponente, presuntuoso, spocchioso, arrogante si propone in giro.
‘ncopp’ê loc. prepositiva di luogo sulle, sopra le; alibi anche sugli, sopra i/gli cfr. antea sub 15:
recchie s.vo f.le pl. di recchia = 1(come nel caso che ci occupa)orecchio, padiglione auricolare,organo dell'udito
2(estens.) piega fatta all'angolo di una pagina, per trascuratezza o appositamente, come segnale
3 recchia ‘e mare(orecchia marina), mollusco marino con conchiglia rivestita internamente di madreperla e munita di una serie di fori laterali, da cui escono i tentacoli
voce dal lat. auricula(m)→(au)ric(u)la(m)→recchia; auricula(m) è il dim. di auris 'orecchio'
E cosí reputo di aver ottemperato a quanto m’ero ripromesso e di avere interessato i miei consueti ventiquattro lettori e di chi altro si imbattesse in queste paginette, per cui mi congedo con il mio consueto satis est.
R.Bracale