martedì 31 luglio 2012

VARIE 1964

1.PARE 'A VARCA 'E MASTU TTORE:A POPPA CUMBATTEVANO E NUN 'O SAPEVANO A PRORA... Sembra la barca di mastro Salvatore: a poppa combattevano e lo ignoravano a prua - Cioè:il massimo della disorganizzazione!... 2.MAZZE E PANELLE, FANNO ‘E FIGLIE BBELLE..., PANELLE SENZA MAZZE, FANNO ‘E FIGLIE PAZZE! Botte e cibo saporito, fanno i figli belli, cibo senza percosse fanno i figli matti! - Cioè: nell'educazione dei figli occorre contemperare le maniere forti con quelle dolci. 3.CHI S'ANNAMMORA D''E CAPILLE E D''E DIENTE, S'ANNAMMORA 'E NIENTE... Chi si lascia conquistare dai capelli e dai denti, s'innamora di niente, perché capelli e denti sono beni che sfioriscono presto.. 4.CHIAGNERE CU 'A ZIZZA 'MMOCCA... Piangere con la tetta in bocca - Cioè: essere incontentabili; piangere ingiustificatamente. 5.GUÀLLERE E PPAZZE, VENONO 'E RAZZA... (Nell’inteso popolare) Ernie e pazzia sono ereditarie(non si possono eludere).Probabilmente si dovette un tempo riscontrare qualche coincidenza di ernia e/o pazzia in soggetti del medesimo ceppo familiare e si generalizzò la faccenda... 6.'E FESSE SO' SEMPE 'E PRIMME A SE FÀ SÈNTERE... I fessi son sempre i primi a parlare - cioè: gli sciocchi sono sempre i primi ad esprimere un parere... 7.DICETTE PULICENELLA:'A MEGLIA MMEDICINA? VINO 'E CANTINA E PURPETTE 'E CUCINA... Disse Pulcinella:La miglior medicina? vino stagionato e polpette fatte in casa... 8. ESSERE SEMPE CAZZA E CUCCHIARA CU QUACCHUNO Letteralmente: essere sempre cazza e cucchiaia con qualcuno; id est: aver rapporti cosí indissolubili con qualcuno fino a formar quasi un tutt’uno con lui alla stregua della cazza (contenitore della malta) che i muratori usano sempre in uno con la cucchiara (cazzuola), ed essa cazzuola è conservata a sera, al termine del lavoro nella cazza, per modo che sia facilmente reperita al mattino successivo quando si riprende il lavoro; per traslato la locuzione è usata nei confronti di tutti coloro che sceltosi un amico o un compagno non si separano da lui che per brevissimo lasso di tempo. La cazza come ò accennato fu in origine un recipiente per lo piú di ferro, provvisto di manico, nel quale si fondevano i metalli , poi indicò ed ancóra indica quel contenitore ,quel secchio di ferro in cui i muratori usano impastare malta e/o calcina; la voce è dal lat. tardo cattia(m), da collegarsi al gr. kyathos 'coppa, tazza'; la voce è usata piú spesso in italiano che in napoletano dove il suddetto contenitore è chiamato piú acconciamente cardarella diminutivo adattato di caldara→cardara= caldaia = in origine recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa e poi estensivamente ogni capace recipiente metallico atto a contenere materiali caldi o freddi; caldara→cardara è voce derivata del latino tardo caldaria(m), deriv. di calidus 'caldo'. Poiché, come ò detto, la voce cazza è poco nota e usata a Napoli accade che l’espressione in epigrafe venga talvolta impropriamente enunciata come Essere cazzo e cucchiara con un accostamento erroneo ed inconferente non essendovi certamente nessun nesso tra il membro maschile e la cucchiara= cucchiaia, cazzuola che è appunto la mestola che usano i muratori per prelevar la calcina o malta dalla cazza distribuendola e pareggiandola su muri e/o mattoni; cucchiara è di per sé il femminile di cucchiaro con etimo dal latino cochlearju(m) con normale semplificazione - di rj→r e chiusura di o in u in sillaba atona; cucchiaro è stato reso femminile appunto per indicare, come già dissi altrove, un oggetto più grande del corrispondente maschile (es.: tammurro più piccolo – tammorra più grande, tino più piccolo – tina più grande etc.);ugualmente è erroneo stravolgere l’espressione in epigrafe in (come pure talvolta m’è occorso d’udire) Essere tazza e cucchiara , atteso che la tazza , per grande che possa essere (fino a diventar una ciotola) potrebbe procedere di conserva con un cucchiaino (tazza da caffè) al massimo con un cucchiaio (tazza/ciotola da caffellatte) mai con una cucchiara (cazzuola). sempe= sempre, senza interruzione, senza fine (indica una continuità ininterrotta nel tempo): con etimo dal lat. semper con atipico troncamento della consonante finale r in luogo dell’atteso raddoppiamento rr e paragoge di una vocale semimuta finale (e/o) come altrove tramme←tram, bisse←bis, barre←bar, autobbusse←autobus. quaccuno = qualcuno, pronome indefinito forma sincopata di quaccheduno che è derivato da un qual(is) qui(=che) con assimilazione regressiva quacche + et unus ( = ed uno) donde quacc(hed)uno→quaccuno. 9.STAMMO ASSECCANNO 'O MARE CU 'A CUCCIULELLA... Stiamo prosciugando il mare con la conchiglia - Cioè: ci siamo imbarcati in un'impresa impossibile... 10.ARROSTERE 'O CCASO CU 'O FUMMO D''A CANNELA. arrostire il formaggio con il fumo di una candela - cioè:tentare di far qualcosa con mezzi inadeguati. 11.'A MALA NUTTATA E 'A FIGLIA FEMMENA. La notte travagliata e il parto di una figlia - cioè: Le disgrazie non vengono mai sole. 12.NUN TENÉ MANCO 'A CAPA 'E SI' VICIENZO. Non aver nemmeno la testa del sig. Vincenzo. Cioè:esser poverissimo. 'a capa 'e si' Vicienzo è la corruzione dell'espressione latina:caput sine censu ovverossia:persona senza alcun reddito, persona che pertanto non pagava tasse. 13.DICETTE MUNSIGNORE Ô CUCCHIERE:"VA' CHIANO , CA VACO 'E PRESSA!" Disse il monsignore al suo cocchiere:"Va' piano, ché ò premura!" Ossia:la fretta è una cattiva consigliera 14.CHI D'AUSTO N'E' VESTUTO, 'NU MALANNO LL'E' VENUTO Chi alla fine dell' estate non si copre bene, incorrera' in qualche malattia...cioè:occorre sempre esser previdenti 15.SENZA DENARE NUN SE CANTANO MESSE. Senza denaro non si celebrano messe cantate. Cioé: tutto à il suo prezzo. 16.A CUOPPO CUPO POCO PEPE CAPE. Nel cartoccetto conico pieno entra poco pepe. Cioè: chi è sazio non può riempirsi di piú(in tutti i sensi) 17.GIACCHINO METTETTE 'A LEGGE E GIACCHINO FUJE 'MPISO. Chi è causa del suo mal, pianga se stesso: Con riferimento a Gioacchino Murat ucciso a Pizzocalabro in attuazione di una norma da lui stesso dettata 18.A ALDARE SGARRUPATO NUN S'APPICCENO CANNELE. Ad altare diruto non si portano ceri accesi. - Figuratamente: Non bisogna corteggiare donne anziane. 19.SI LL'AUCIELLE CANUSCESSERO 'O GGRANO, NUN NE LASSASSERO MANCO N' ACENO! Se gli uccelli conoscessero il grano, non ne lascerebbero un chicco! - Cioè: se gli uomini fossero a conoscenza di tutti i benefici che la vita offre, ne approfitterebbero sempre. 20.DICETTE PULICENELLA: PE MARE NUN CE STANNO TAVERNE. Disse Pulcinella: In mare non vi sono ripari. 21. QUANNO TE MIETTE 'NCOPP' A DDOJE SELLE, PRIMMA O POJE VAJE CU 'O CULO 'NTERRA. Quando ti metti su due selle, prima o poi finisci col sedere in terra. Id est: il doppio gioco alla fine è sempre deleterio 22.'E FATTE D' 'A TIANA 'E SSAPE 'A CUCCHIARA. Letteralmente:i fatti della pentola li conosce il mestolo. La locuzione sta a significare che solo gli intimi possono essere a conoscenza dell'esatto svolgimento di una faccenda intercorsa tra due o piú persone e solo agli intimi di costoro ci si deve rivolgere se si vogliono notizie certe e circostanziate. La locuzione è anche usata da chi non voglia riferire ad altri notizie di cui sia a conoscenza. Brak

VARIE 1963

1È MMEGLIO FÀ 'MMIDIA CA PIETÀ. Ad litteram: è meglio essere invidiati che essere oggetto di commiserazione; ed il perché è intuitivo, comportando l'invidia uno status di opulenza,tale da meritarsi l'invidia del prossimo, mentre il commiserato versa - per solito - in pessime condizioni. 2 'NU STRUNZO CA CADETTE A MMARE, VEDENNO 'NU PURTUALLO CA LLA GALLIGGIAVA, DICETTE: SIMMO TUTTE PURTUALLE! Uno stronzo che cadde in mare, vedendo un'arancia che ivi galleggiava, easclamò: siamo tutti arance! A Napoli si suole ripetere questa locuzione per canzonare e commentare le azioni di tutti gli sciocchi,i saccenti, i supponenti e gli stupidi che facendo le viste di essere sapienti e/o capaci, pretendono di farsi considerare per ciò che in realtà non sono... 3 Ô RICCO LLE MORE 'A MUGLIERA, Ô PEZZENTE LE MORE 'O CIUCCIO. Ad litteram: al ricco viene a mancare la moglie, al povero, l'asino... Id est:Il povero è sempre quello piú bersagliato dalla mala sorte: infatti al povero viene a mancare l'asino che era la fonte del suo sostentamento, mentre al ricco viene a mancare la moglie, colei che gli dilapidava il patrimonio; morta la moglie il ricco non à da temere rivolgimenti di fortuna, mentre il povero che à perso l'asino che gli dava di che vivere, sarà sempre piú in miseria. 4 PAZZE E CRIATURE, 'O SIGNORE LL'AJUTA. Ad litteram: pazzi e bimbi, Dio li aiuta. Id est: gli irresponsabili godono di una particolare protezione da parte del Cielo. Con questo proverbio, a Napoli,talora ci si disinteressava di matti o altri irresponsabili, affidandoli al buonvolere di Dio ed alla Sua divina provvidenza. 5 SI COMME TIENE 'A VOCCA, TENISSE 'O CULO, FARRÍSSE CIENTO PÉRETE E NUN TE N'ADDUNASSE. Ad litteram: se come tieni la bocca, avessi il sedere faresti cento peti e non te n'accorgeresti; il proverbio è usato per bollare l'eccessiva verbosità di taluni, specie di chi è logorroico e parla a vanvera, senza alcun costrutto, di chi - come si dice - apre la bocca per prendere aria, non per esprimere concetti sensati. 6 SI 'ARENA È RROSSA, NUN CE METTERE NASSE. Ad litteram: se la sabbia(il fondale del mare) è rossa, non mettervi le nasse(perché sarebbe inutile!) Id est: Se il fondale marino è rosso - magari per la presenza di corallo, non provare a pescare, ché non prenderesti nulla. Per traslato il proverbio significa che se un uomo o una donna ànno inclinazioni cattive, è inutile tentare di crear con loro un qualsiasi rapporto: non si otterrebbero buoni risultati. 7 SI 'A TAVERNARA È BBONA, 'O CUNTO È SEMPE CARO. Ad litteram: se l'ostessa è procace, il conto risulterà sempre salato. Lo si dice a mo' d'ammonimento a tutti coloro che si ostinano a frequentare donne lascive e procaci, che per il sol fatto di mostrar le loro grazie pretendono di esser remunerate in maniera eccessiva... 8NUN TE DÀ MALINCUNÌA, NÈ PE MALU TIEMPO, NÈ PE MALA SIGNURIA. Ad litteram: non preoccuparti nè per cattivo tempo, nè per pessimi governanti. Id est: sia il cattivo tempo, che i governanti cattivi prima o poi cambiano o spariscono per cui non te ne devi preoccupare eccessivamente fino a prenderne malinconia... 9 'AMMUINA È BBONA P''A GUERRA... Ad litteram: il caos, la baraonda è utile in caso di guerra; id est: per aver successo in caso di lotta occorre che ci sia del caos, della baraonda; mestando in esse cose si può giungere piú facilmente alla vittoria nella lotta intrapresa. 10 ASTIPATE 'NU PIEZZO JANCO PE QUANNO VENONO 'E JIUORNE NIRE. Ad litteram: conserva (almeno) un pezzo bianco per quando verranno le giornate nere. Id est: cerca di comportarti giudiziosamente ; non dilapidare tutto quel che ài: cerca di tener da parte sia pure un solo scudo d'argento (pezzo bianco) di cui potrai servirti quando verranno le giornate di miseria e bisogno. 11 MALE E BBENE A FINE VÈNE. Ad litteram: il male o il bene ànno un loro termine. Id est: Non preoccuparti soverchiamente ma pure non vivere sugli allori perché sia il male sia il bene che ti incorrono,non sono eterni e come son cominciati, così finiranno. 12 CHI TÈNE PANE E VVINO, 'E SICURO È GIACUBBINO. Ad litteram: chi tiene pane e vino, di certo è un giacobino. Durante il periodo (23/1-13/6 1799)della Repubblica Partenopea, il popolo napoletano considerò, a giusta ragione, benestanti, i sostenitori del nuovo regime politico, sostenitori che erano stati beneficati in vario modo dagli invasori e si erano perciò schierati dalla loro parte. Attualmente il proverbio è inteso nel senso che sono ritenuti capaci di procacciarsi pane e vino, id est: prebende e sovvenzioni coloro che militano o fanno vista di militare sotto le medesime bandiere politiche degli amministratori comunali, regionali o provinciali che a questi nuovi giacobini son soliti procacciare piccoli o grossi favori, non supportati da alcuna seria e conclamata bravura, ma solo da una vera o pretesa militanza politica. 13 DICETTE 'O PAGLIETTA: A TTUORTO O A RRAGGIONE, 'A CCA À DDA ASCÌ 'A ZUPPA E 'O PESONE. Ad litteram: disse l'avvocatucolo: si abbia torto o ragione, di qui devon scaturire il pasto e la pigione; id est: non importa se la causa sarà vinta o persa, è giusto assumerne il patrocinio che procurerà il danaro utile al sostentamento e al pagamento del fitto di casa. Oggi il proverbio è usato quando ci si imbarchi in un'operazione qualsiasi senza attendersene esiti positivi, purché sia ben remunerata. 14 'O DIAVULO, QUANNO È VVIECCHIO, SE FA MONACO CAPPUCCINO. Ad litteram: il diavolo diventato vecchio si fa monaco cappuccino. Id est: spesso chi à vissuto una vita dissoluta e peccaminosa, giunto alla vecchiaia, cerca di riconciliarsi con Dio nella speranza di salvarsi l'anima in extremis. 15 CHI TÈNE Ô LUPO PE CUMPARE, È MMEGLIO CA PURTASSE Ô CANE SOTT' Ô MANTIELLO. Ad litteram: chi à un lupo per socio, è meglio che porti il cane sotto il mantello. Id est: chi à cattive frequentazioni è meglio che si premunisca fornendosi di adeguato aiuto per le necessità che gli si presenteranno proprio per le cattive frequentazioni. Da notare come in napoletano il congiuntivo esortativo non è reso con il presente, ma con l'imperfetto... 16 SI 'O CIUCCIO NUN VO' VEVERE, AJE VOGLIA D''O SISCÀ... Ad litteram: se l'asino non vuole bere, potrai fischiare quanto vuoi (non otterrai nulla)Id est: il testardo si redime ed accetta il nuovo solo con il proprio autoconvincimento... 17 MO M'HÊ ROTTE CINCHE CORDE 'NFACCI'Â CHITARRA E 'A SESTA POCO TENE. Ad litteram: ora mi ài rotto (spezzato) cinque corde della chitarra e la sesta è prossima a spezzarsi. Simpatica locuzione che a Napoli viene pronunciata verso chi à cosí tanto infastidito una persona da condurlo all'estremo limite della pazienza e dunque prossimo ad una reazione conseguente, come chi vedesse manomessa la propria chitarra nell'integrità delle corde di cui cinque fossero state rotte e la sesta allentata al punto tale da non poter reggere piú l'accordatura. 18 COPPOLA PE CCAPPIELLO E CCASA A SANT'ANIELLO. Ad litteram:Berretto per cappello, ma casa a sant'Aniello (a Caponapoli). Id est: vestirsi anche miseramente, ma prendere alloggio in una zona salubre ed ariosa, poiché la salute viene prima dell'eleganza, ed il danaro va speso per star bene in salute, non per agghindarsi. 19 TENÉ TUTTE 'E VIZZIE D''A ROSAMARINA. Ad litteram: avere tutti i vizi del rosmarino. Id est: avere tutti i difetti possibili, essere cioè così poco affidabile ed utile alla stregua del rosmarino, l'erba aromatica che serve a molto poco; infatti oltre che per dare un po' di aroma non serve a nulla: non è buona da ardere, perché brucia a stento, non fa fuoco, per cui non dà calore, non produce cenere che - olim - serviva per il bucato; se accesa, fa molto, fastidioso fumo...improduttivo. 20 SI 'O SIGNORE NUN PERDONA A 77, 78 E 79, LLÀ 'NCOPPA NCE APPENNE 'E PUMMAROLE. Ad litteram: Se il Signore non perdona ai diavoli(77), alle prostitute(78) e ai ladri(79), lassú (id est: in paradiso ) ci appenderà i pomodori. Id est: poiché il mondo è quasi del tutto popolato da ladri, prostitute e cattivi soggetti (diavoli), il Signore Iddio se vorrà accogliere qualcuno in paradiso, dovrà perdonare a tutti o si ritroverò con uno spazio enormemente vuoto che per riempirlo dovrebbe coltivarci pomodori. 21 CHILLO SE METTE 'E DDETE 'NCULO E CACCIA 'ANIELLE. Ad litteram: Quello si mette le dita nel sedere e ne tira fuori anelli. Id est: la fortuna di quell'essere è cosí grande che è capace di procurarsi beni e ricchezze anche nei modi meno ortodossi o possibili. 22 AVIMMO PERDUTO 'APARATURA E 'E CENTRELLE. Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini. Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali addobbi erano chiamati aparature; accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto mal tempo, il vento e la pioggia scompigliasse, fino a distruggere gli addobbi ed a svellere drappi e chiodini usati per sostenerli; la parola aparatura= addobbo è un deverbale del lat. *ad-parare=apparecchiare, preparare, mentre la voce centrelle= chiodini deriva dal greco kéntron. La locuzione attualmente viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano distrutti o vanificati tuttti gli sforzi operati per raggiungere un alcunché. 23 'A FEMMENA È CCOMME Â CAMPANA: SI NUN 'A TUCULIJE, NUN SONA. Ad litteram: la donna è come una campana: se non l'agiti non suona; id est: la donna à bisogno di esser sollecitata per tirar fuori i propri sentimenti, ma pure i propri istinti. 24 'A FEMMENA BBONA SI - TENTATA - RESTA ONESTA, NUN È STATA BBUONO TENTATA. Ad litteram: una donna procace, se - una volta che venga tentata - resta onesta, significa che non è stata tentata a sufficienza. Lo si dice intendendo affermare che qualsiasi donna, in ispecie quelle procaci si lasciano cadere facilmente in tentazione, concedendo le proprie grazie; e se non lo fanno è perché... il tentatore non è stato all'altezza del compito... 25 TRE CCOSE NCE VONNO P''E PICCERILLE: MAZZE, CARIZZE E ZIZZE! Ad litteram: tre son le cose che necessitano ai bimbi: busse, carezze e tette. Id est: per bene allevare i bimbi occorrono tre cose: un sano nutrimento(le tette), busse quando occorra punirli per gli errori compiuti, premi (carezze)per gratificarli quando si comportino bene. 26 'E PEGGE JUORNE SO' CCHILLE D''A VICCHIAIA. Ad litteram: i peggiori giorni son quelli della vecchiaia; il detto riecheggia l'antico brocardo latino: senectus ipsa morbus est; per solito, in vecchiaia non si ànno piú affetti da coltivare o lavori cui attendere, per cui i giorni sono duri da portare avanti e da sopportare specie se sono corredati di malattie che in vecchiaia non mancano mai... 27 DIMMÈNNE N'ATA, CA CHESTA GGIÀ 'A SAPEVO. Ad litteram: raccontamene un'altra perché questa già la conoscevo; id est: se ài intenzione di truffarmi o farmi del male, adopera altro sistema, giacché questo che stai usando mi è noto e conosco il modo di difendermi e vanificare il tuo operato. 28 DENARO 'E STOLA, SCIOSCIA CA VOLA. Ad litteram: denaro di stola, soffia che vola via. Id est: il danaro ricevuto o in eredità, o in omaggio da un parente prete, si disperde facilmente, con la stessa facilità con cui se ne è venuto in possesso. 29 FATTE CAPITANO E MAGNE GALLINE. Ad litteram: diventa capitano e mangerai galline: infatti chi sale di grado migliora il suo tenore di vita, per cui, al di là della lettera, il proverbio può intendersi:(anche se non è veramente accaduto), fa' le viste di esser salito di grado, cosí vedrai migliorato il tuo tenore di vita. 30 'E MARIUOLE CU 'A SCIAMMERIA 'NCUOLLO, SO' PPEGGE 'E LL' ATE. Ad litteram: i ladri eleganti e ben vestiti sono peggiori degli altri. Id est: i gentiluomini che rubano sono peggiori e fanno piú paura dei poveri che rubano magari per fame o necessità. 31 DICETTE FRATE EVARISTO:"PE MMO, PÍGLIATE CHISTO!" Ad litteram: disse frate Evaristo: Per adesso, prenditi questo!"Il proverbio viene usato a mo' di monito, quando si voglia rammentare a qualcuno, che si stia eccessivamente gloriando di una sua piccola vittoria, che per raggiungerla à dovuto comunque sopportare qualche infamante danno. Il frate del proverbio fu tentato dal demonio, che per indurlo al peccato assunse l'aspetto di una procace ragazza discinta; il frate si lasciò tentare e partí all'assalto delle grazie della ragazza che - nel momento culminante della tenzone amorosa riprese le sembianze del demonio e principiò a prendersi giuoco del frate, che invece portando a compimento l'operazione sodomitica iniziata pronunciò la frase in epigrafe. brak

LA SMORFIA NAPOLETANA parte 3ª

LA SMORFIA NAPOLETANA parte 3ª E veniamo alla parte conclusiva dell’elencazione dei piú comuni soggetti, oggetti o situazioni considerati nella smorfia partenopea; in questa parte elencherò i numm. dal 61 al 90. 61 – ‘O CACCIATORE = il cacciatore e segnatamente chi si dedichi allo sport venatorio, armato di fucile o doppietta , accompagnato da uno o piú cani da caccia ed agghindato con carniere, tascapane, cartucciera etc., personaggio cosí noto e presente nell’àmbito campagnolo e provinciale del vivere quotidiano da meritarsi un ben identificato ricordo nella smorfia dei sogni oltre ad essere presente, quantunque con evidente forzatura storico-temporale, nei tradizionali presepî partenopei della fine settecento, princípi ottocento; sono esclusi dalla voce a margine (che etimologicamente è un deverbale del basso latino captiare frequentativo del classico capere= prendere) ogni altro tipo di predatore che vada a caccia con altro tipo di arma che non sia il fucile ( che è da un lat. volg. (petram) focile(m) '(pietra) da fuoco, acciarino', deriv. di focus 'fuoco') o la doppietta che è un tipico fucile da caccia con doppia (da cui il nome) canna affiancata o sovrapposta. ). Semanticamente il 61 è inteso figura del cacciatore in quanto formato dal 60 figura di molte munizioni in quanto doppio del 30(cfr. antea: le palle del tenente) addizionato dell’1 figura del fucile, palle e fucile che son proprie del cacciatore. 62 – ‘O MUORTO ACCISO vale a dire il morto assassinato,ammazzato; qui la smorfia prende in considerazione non il morto semplice, quello cioè defunto per cause naturali, del quale nel parlato comune s’usa dire che è morto nel proprio letto (anche quando tecnicamente ciò non sia vero) e cioè sia morto per malattia, vecchiaia , morto che come tale è già ricordato con il num. 47, ma colui che sia defunto di morte violenta e segnatamente con spargimento di sangue per mano di inveterati o occasionali nemici ed estensivamente anche il morto vittima del proprio dovere, sul lavoro, in guerra etc.; come già vedemmo al num. 47 etimologicamente muorto è il part. pass. del verbo murí dal latino morire collaterale del classico mori, mentre acciso risulta essere il part. passato del verbo latino accidere da un lat. volgare ad – caèdere→accedere→accidere collaterale di ob- caèdere→occedere→occidere→uccidere.). Semanticamente il 62 è inteso figura del morto assassinato in quanto il 62 è formato addizionando il numero 41 (cfr. antea: il coltello) ed il numero 21 che vale oltre che la donna nuda, anche la ferita mortale da arma bianca; dall’unione dell’arma bianca (il coltello) e la ferita mortale ch’esso può provocare, ne scaturisce il morto assassinato. 63 – ‘A SPOSA la sposa, colei che convola a nozze, ma non a quelle… riparatrici; rammenterò che nelle tombole familiari d’antan usava divertirsi ponendo a colui che estraeva i numeri, al momento dell’estrazione del num. 63 addizionato del sacramentale ‘a sposa!, la repentina domanda: Quant’anne teneva? E ‘o sposo? tenendo per buoni e soddisfacenti i due numeri che venivano estratti súbito dopo quello a margine e l’ilarità era tanto maggiore quanto piú fosse alta la differenza tra il numero che nel giochino indicava la presunta età della sposa e quello che indicava la presunta età dello sposo; spesso per un curioso gioco del destino capitava che l’età ipotetica della sposa fosse compresa tra i numm. 70 e 90 e quella dello sposo tra i numm. 20 e 30, per cui immancabilmente s’udiva il salace commento: Se ll’era saputo piglià, eh?! Etimologicamente ‘a sposa risultando essere il part. pass. femminile del basso lat. sponsare 'fidanzarsi', deriv. di sponsus, part. pass. di spondíre 'promettere', dovrebbe significare fidanzata, promessa, ma poi finí per essere attrubuito a colei che giungeva alle nozze, dopo un periodo piú o meno lungo di fidanzamento (deverbale di un fr. ant. fiancer 'impegnarsi, garantire', poi 'promettere in matrimonio'. Anche per il numero 63 accostato alla figura della sposa, semanticamente occorre parlare di un avvicinamento di tipo fantasioso in quanto questa volta nel numero 63 si può riconoscere nel 6 (cfr. antea: organo femminile) la donna e nel 3, che tiene dietro al 6, si può figurare il rigoglioso petto d’ una giovane sposina. 64 – ‘A SCIAMMERIA letteralmente si tratta di un’ampia giacca da cerimonia che a Napoli è appunto détta con voce intraducibile sciammeria: giacca elegante con falde lunghe, tipica delle cerimonie o ricorrenze importanti, con esclusione dei matrimoni eleganti nei quali sia previsto il tight (detto giocosamente a Napoli: cafè a ddoje porte) la sciammeria probabilmente non è un denominale forgiato sul francese càmbre, ma molto piú probabilmente è derivato direttamente dallo spagnolo càmberga sempre che non derivi direttamente dal nome del duca di Schönberg (17° sec.) che volle che le sue truppe fossero equipaggiate con una lunga palandrana che, dal nome del duca, è resa in italiano col termine giamberga ; personalmente trovo piú convincente l’ipotesi ispanica che piú si presta ad approdare a sciammeria attraverso la napoletanissima, solita prostesi di una s intensiva all’originario cia (ch) spagnolo, assimilazione regressiva della b, sincope del gruppo rg sostituito da un ri con una i atona; come ò accennato si tratta di una giacca molto ampia che inviluppa quasi chi l’indossa al segno che per traslato giocoso e furbesco con il termine sciammeria si intende anche il coito, in particolare quello in cui l’uomo assume una posizione tale che copra del tutto la donna col proprio corpo e con molta probabilità quando i napoletani accennano ad una sciammeria onirica, è al coito e non alla giacca che intendono riferirsi, avendo probabilmento acceso nella loro fantasia notturna la scena d’una unione sessuale, piuttosto che d’una giacca da cerimonia. Per venire a capo del perché al numero 64 è associata la figura della sciammeria, occorre ricordare che – come ò détto – con il termine sciammeria si intende sia una giacca da cerimonia che un amplesso e tenuto presente che i napoletani accennando ad una sciammeria onirica, è al coito e non alla giacca che intendono riferirsi,semanticamente occorre parlare anche in questo caso di un avvicinamento di tipo fantasioso in quanto questa volta nel numero 64 si può riconoscere nel 6 (cfr. antea: organo femminile) la donna,coprotagonista dell’amplesso onirico e nel 4,che tiene dietro al 6, si può figurare graficamente una una smorfia di laido godimento dell’uomo che s’è congiunto alla donna. 65 – ‘O CHIANTO cioè il pianto in primis della donna (adusa a tanto) come manifestazione consistente nella reiterata e copiosa emissione di lacrime che arrossano gli occhi e rigano il volto, ma non necessariamente a sèguito o a causa di un dolore, di un lutto, di un grave dispiacere; la donna infatti spesso piange per molto meno o tutt’altro allo scopo di commuovere qualcuno ed ottenere qualcosa; in napoletano tuttavia con la parola a margine si indica pure, con linguaggio familiare e scherzoso, una cosa mal fatta, mal riuscita ed ancora una persona noiosa, fastidiosa: ‘stu vestito è ‘nu chianto; questo vestito è un pianto! o frateto è ‘nu chianto: tuo fratello è un pianto! È chiaro che l’accezione della voce a margine è quella che si riferisce ad un dolore, un lutto, un dispiacere che inducono le lacrime, non quella che riguarda l’estensione scherzosa. Detto che etimologicamente ‘o chianto è da un lat. planctu(m) 'colpo di chi si batte il petto', deriv. di plangere 'battere', poi 'piangere'normale ed usuale il passaggio di pl→chj rammenterò che a Napoli L'elemento di fondazione, che segna l'inizio della infrastrutturazione cimiteriale della zona di Poggioreale, è il Cimitero di Santa Maria del popolo, detto "delle 366 fosse", dovuto a Ferdinando Fuga, ed edificato nel 1762. Il cimitero rappresenta un monumento di straordinaria importanza rappresentando l'unico esempio conosciuto di "macchina illuminista" cimiteriale. Si tratta di una attrezzatura civica che anticipa, di almeno cinquant'anni, gli editti napoleonici riguardanti l'igiene delle sepolture e il conseguente obbligo di edificare i cimiteri lontano dall'abitato: si pensi che, all'epoca, a Napoli l'inumazione degli indigenti avveniva in una cavità dell'ospedale degli Incurabili, in piena città. L'impianto è basato su di una corte quadrata, di 80 metri di lato, recintata da un muro che si duplica, all'ingresso, a formare un basso edificio con il pronao d'ingresso, una semplice cappella e l'alloggio del custode. Altro elemento fondativo del complesso cimiteriale è il Cimitero di Santa Maria del Pianto (detto comunemente dal popolo ‘O CHIANTO) con l'omonima chiesa a pianta centrale, di impianto seicentesco, intorno alla quale sin dalla peste del 1656 avveniva l'inumazione dei cadaveri. L'attuale cimitero che consta di una amplissima superficie di oltre 20.000mq ed è dovuto ad una sistemazione ottocentesca e ad espansioni successive, si presenta su di un ripido versante, terrazzato sia nella parte della recente espansione che in quella ottocentesca, e con articolati percorsi a tornante e scale. Il cimitero oggi appare densamente edificato, in prevalenza con cappelle private ed edifici per congreghe di media dimensione. Della ricca vegetazione originale restano alcuni imponenti esemplari di cygas ed un cedro secolare posto all'ingresso, mentre nella espansione recente sono stato impiantati numerosi cipressi. Da rammentare che nel rigoglioso giardino all’inglese del Chianto è ricavato il c.d. recinto degli uomini illustri, dove ànno trovato sepoltura, meta della visita commossa del popolo napoletano, gli uomini illustri partenopei per nascita o morte, o per adozione : letterati, poeti, musicisti, drammaturghi, ma anche cantanti lirici ed attori famosi; tra questi uomini illustri son da rammentare E. Caruso, G. Donizetti, S. Di Giacomo, Libero Bovio, E. Murolo, il principe A. de Curtis in arte Totò e tanti altri. Semanticamente, per l’accostamento del pianto al numero 65, occorre parlare ancóra una volta di un avvicinamento di tipo fantasioso in quanto questa volta nel numero 65 si può riconoscere nel 6 (cfr. antea: organo femminile) la donna, adusa ad un pianto spesso interessato e nel 5,che tiene dietro al 6, si può figurare graficamente uno sfarfallio di atteggiamento ironico della donna che pur piangendo à inteso prendersi giuoco di qualcuno. 66 – ‘E DDOJE ZETELLE o anche ‘e ddoje sarcenelle letteralmente: le due nubili o anche le due piccole fascine; ci troviamo di fronte, come ognuno può intendere, ad una indicazione di sapore furbesco; in effetti la voce originaria ricordata con il numero a margine, fu dapprima ‘e ddoje sarcenelle che qualcuno storpiava in ‘e ddoje sarchielle di carattere marcatamente furbesco atteso che con il termine sarcenella, ma anche con sarchiella(quantunque quest’ultima voce non trovava riscontro alcuno e fosse solo una patente corruzione della precedente sarcenella), si intendeva riferirsi all’organo sessuale femminile, e segnatamente a quello di una donna che per essere ancora nubile, sebbene abbastanza anziana l’avesse ispido e ben serrato a guisa di una piccola fascina (buona solo per essere arsa…) e che si tratti di due vulve lo si può agevolmente ricavare dal fatto che il numero a margine è formato dall’accostamento di due 6 (quel 6 che come vedemmo nella 1° parte indica chella ca guarda ‘nterra id est la vulva;) in prosieguo di tempo poiché non tutti all’annuncio: 66 ‘e ddoje sarcenelle, si rendevano conto di cosa si stesse parlando, si abbandonò l’annuncio figurato per dire molto piú praticamente: 66 ‘e ddoje zetelle. Etimologicamente sarcenella di cui sarcenelle è il plurale, è il diminutivo di sàrcena da un acc. latino sarcina(m)=fascina da ardere mentre la voce zetella, il cui plurale è zetelle è il diminutivo di zita che è voce di orig. dial., variante di citta = fanciulla. Molto semplice spiegarsi semanticamente l’accostamento di due nubili al numero 66, nel quale si può riconoscere l’accoppiamento di due numeri 6 e cioè di due donne (cfr. antea: organo femminile). 67 – ‘O TOTARO DINT’ Â CHITARRA letteralmente: il totano nella chitarra,ma anche in questo caso ci troviamo davanti ad una figurazione dal sapore marcatamente gioioso e furbesco, intendendosi con questa figura riferirsi all’immagine del coito ( che è dal lat. coitu(m), deriv. di coire 'andare insieme') in effetti è molto semplice rendersi conto di cosa sia adombrato sotto la figura del totaro e cosa adombri la chitarra con il foro della rosa; quanto all’etimologia abbiamo: totaro deriv. del gr. teuthís o têutòs con lo stesso significato di mollusco simile al calamaro; la voce pur partendo dal greco è giunta nel napoletano attraverso un basso latino tutanu(m) con metaplasmo e cambio di suffisso nu→ro. chitarra dall'ar. qîtâra, che è dal gr. kithára. Semanticamente, per l’accostamento del coito al numero 67, occorre parlare ancóra una volta di un avvicinamento di tipo fantasioso in quanto questa volta nel numero 67 si può chiaramente leggere nel 6 (cfr. antea: organo femminile) la donna e nel 7,che tiene dietro al 6, si può figurare graficamente l’organo maschile inastato. 68 – ‘A ZUPPA ‘E CARNACOTTA letteralmente la zuppa di carne cotta o zuppa di frattaglie (interiora del vitello affettate sottilmente e cotte in un brodo privo di grassi aggiunti, ma ricco di verdure e spezie; questa zuppa viene servita caldissima, a mestolate, (su pochefreselle (dal latino frendere= spezzettare)fette di pane biscottato) in un’ampia ciotola, accompagnata da un buon bicchiere di vino rosso e rappresentò, per anni, specie nei mesi invernali il gustoso asciolvere della povera gente o dei salariati. rammenterò che tale zuppa è nota a Napoli anche con il termine ‘a mariscialla; a Napoli una volta esistevano ed in qualche vicolo della vecchia città se ne può incontrare ancora qualcuno, i cajunzare (ventraiuoli) cioè i venditori ambulanti che su attrezzati carrettini trainati a mano servivano le trippe cioè il quinto quarto della bestia macellata e tali trippe erano servite ben affettate e ridotte in piccoli pezzi, disposti su fogli di carta oleata ed erano da portare alla bocca con le dita senza l’ausilio di alcuna posata o attrezzo cosparsi di parecchio sale ed irrorati con il succo di limone; spesso affettavano la trippa lessata (specialmente la parte detta cientopelle) in strisce larghe e lunghe come i galloni dei marescialli dell’epoca murattiana quando si indossavano divise fantasmagoriche , per cui i ventraiuoli battezzarono mariscialla la zuppa ricavata da frattaglie di vitello bollite con aggiunta come ò detto solo di poche erbe aromatiche; etimologicamente zuppa dal got. suppa 'fetta di pane inzuppata' mentre carnacotta è l’adattamento dialettale per fusione del toscano carne cotta, e mariscialla è un giocoso femminile ricostruito di maresciallo che è dal fr. marécàl, a sua volta dal lat. mediev. mariscalcus; cfr. maniscalco. Semanticamente il 68 è accostato alla zuppa di frattaglie per una mera questione di rima 69 – SOTTO E ‘NCOPPA letteralmente sotto e sopra , ma piú esattamente posti di fronte in posizione inversa; anche in questo caso, pur partendo dall’ovvia osservazione che il numero 69 è formato con due cifre di cui l’una, il 6 posto in posizione classicamente verticale, mentre il 9 pare quasi un 6 posto in posizione inversa tale da determinare un numero formato da cifre poste di fronte in posizione inversa, ci troviamo a parlare di una situazione furbesca riproducente il c.d. coito orale; quanto all’etimologia, sotto è da un basso latino subtus derivato di sub, mentre ‘ncoppa = sopra è forgiato da un in illativo e coppa dal latino cuppa(m) la parte posteriore superiore del capo che è dunque quella posta sopra. Di un’ovvietà disarmante il perché semanticamente il 69 è accostato al sotto sopra che si coglie nel fatto che il 69 è formato di due cifre di cui la prima (il 6) è vergato in posizione classicamente verticale, mentre l’altra (il 9) pare quasi un 6 posto in posizione inversa, sottosopra. 70 – ‘O PALAZZO o piú esattamente ‘O PALAZZO ‘E CASA e cioè il palazzo o con tipica tautologia partenopea il palazzo di casa che – a prima vista – potrebbe sembrare un’inutile precisazione ed invece non lo è, poi che con la parola palazzo che etimologicamente è dal latino palatiu(m) 'colle Palatino', poi 'palazzo imperiale', che nella Roma imperiale sorgeva su quel colle si intende genericamente qualsiasi edificio di grandi proporzioni e di pregio architettonico, adibito soprattutto un tempo ad abitazione di re, principi o famiglie nobili, e oggi per lo piú a sede di organi di governo, di uffici pubblici, di istituzioni culturali e sim., mentre con l’espressione palazzo ‘e casa ci si riferisce ad un piú contenuto edificio anche non di grandi proporzioni e pregio architettonico dove però si abbia la propria stabile dimora in appartamenti di un numero variabile di stanze dette - con tipica iperbole napoletana – case ( dal latino casa propriamente casa rustica opposta alla domus abitazione del dominus formata di molti piú vasti ambienti ed annesse pertinenze: giardini etc. Tra le specificazioni del palazzo ‘e casa rammenterò il c.d. palazzo ‘e casa a spuntatora e cioè il palazzo con due entrate situate o su strade adiacenti o parallele, palazzo che come la c.d. casa cu ddoje porte risultò molto inviso ai mariti gelosi che temettero la possibilità da parte d’un probabile amante della fedifraga consorte, di attingere le grazie di detta infedele moglie entrando in casa o nel palazzo attraverso l’uscio non usato abitualmente dal marito tradito. Mi piace rammentare ora un’amenità che si poteva udire, nelle tombole familiari d’antan, all’annuncio dell’estrazione del numero 70; quando con voce stentorea chi estraeva i numeri, annunciava in sostanzioso napoletano: sittanta! invariabilmente tutti i giocatori in coro, giocando sull’omofonia tra sittanta ( settanta) e ssî ttanto ( sei grosso o alto cosí e non di piú…) gli rispondevano: E nun crisce cchiú ( e non crescerai di piú). E proprio a tale giuoco di parole bisogna riferirsi per spiegarsi perché semanticamente il 70 è accostato al palazzo che una volta costruito non è possibile accrescere, se non con ampliamenti spesso abusivi e perciò vietati. 71 – LL’OMMO ‘E MMERDA letteralmente l’uomo di merda ossia l’uomo dappoco, persona infida, riprovevole,disonesta, o solo d’animo ignobile, cosí definito in quanto si appaleserebbe tal quale fosse per iperbole formato di escrementi; l’espressione a margine sostanzia una corposa offesa rivolta appunto nei confronti di chi venga considerato mancante di ogni decoro e/o dignità ed al contrario mostri cattiveria e protervia d’animo; costui a volte viene apostrofato con la voce mmerdajuolo, usata come sinonimo di quella a margine, quantunque di per sé ( con derivazione dal latino merda(m) con i suff. arius ed olo) indicherebbe colui che – per lavoro – raccattava gli escrementi animali per igiene pubblica e li rivendeva per concimare i campi; a tal proposito rammenterò l’espressione Essere ‘a tina ‘e miezo. Ad litteram: essere il tino di mezzo. Offensiva locuzione che si usa rivolgere a chi sia materialmente o moralmente cosí sozzo, sporco, lercio da poter essere assimilato al grosso tino trasportato nel bel mezzo di un carro atto allo scopo, tino nel quale, originariamente in quel di Torre del Greco, e poi in ogni altro paese rurale, veniva posto tutto il letame che, raccolto in giro e convogliato nel tino centrale mediante due altri tini piú piccoli collocati ai lati del tino centrale, veniva poi rivenduto quale concime naturale.In chiusura ricorderò le etimologie: ommo = uomo da un nomin. latino òmo con tipico raddoppiamento popolare della consonante chiusa tra le due vocali o , mentre la consonante diacritica d’avvio non viene presa in considerazione, né lascia traccia; ‘e mmerda = di merda (id est: composto di escrementi) mmerda = merda, come già visto da un acc. latino merda(m) con raddoppiamento sintattico della consonante d’avvio. Semanticamente il 71 è accostato alla figura zuppa dell’uomo dappoco, della persona infida, riprovevole,disonesta, o solo d’animo ignobilein quanto il numero in esame risulta formato dall’accostamento del 7 (cfr. antea: il vasetto ed anche il pitale), mentre l’ 1 che gli tiene dietro sta ad indicare l’uomo che se ne serve restandone probabilmente lordato! 72 – ‘A MARAVIGLIA – la meraviglia con particolare riguardo a tutti quegli accadimenti che dèstino stupore,sbalordimento, stordimento, sbigottimento, emozione, soprattutto quando queste cose provengano dal verificarsi di fatti dai connotati negativi che mai si sospettava potessero accadere; ad es. desta meraviglia oltre che orrore una madre che uccida un figlio o un figlio che diventi matricida e cosí via; quanto all’etimo ‘a maraviglia è da un latino mirabilia, propr. 'cose meravigliose', neutro pl. sost.e inteso femminile dell'agg. mirabilis meraviglioso. Semanticamente sotto il numero 72 è adombrata la figura della meraviglia, dello stupore, in quanto il numero in esame risulta formato dall’accostamento del 7 (cfr. antea: il vasetto, inteso di pregevole fattura), mentre il 2(cfr. antea: la bambina) che gli tiene dietro sta ad indicare appunto il candore infantile di chi si stupisce dinnanzi alla manifestazione del bello! 73 – ‘O SPITALE – l’ospedale e cioè l’ istituto pubblico nel quale si ricoverano e si curano gli ammalati inteso come luogo di sofferenze e miseria, atteso che è luogo dove vengono accolti per esser curati i cittadini meno abbienti; i piú facoltosi infatti fanno ricorso alle c.d. cliniche private ed un tempo si congetturò che anche il personale medico e/o paramedico che prestava la propria opera nell’ospedale fosse meno capace, in quanto peggio retribuito, del personale delle c.d. cliniche private; quanto all’etimo la voce ‘o spitale è da un lat. volg. òspitale, neutro sost. e inteso maschile dell'agg. òspitalis 'ospitale, che accoglie, con sincope della h iniziale e deglutinazione della o intesa come articolo. Semanticamente il 73 è accostato alla figura dell’ospedale perché unisce in un’unica grafia il 7 (cfr. antea: il vasetto/pitale in uso nei luoghi di degenza)associato al 3 (cfr. antea: il gatto, ma qui rappresentante di una una smorfia di dolore e/o dispiacere riscontrabile sul volto di chi è costretto ad essere ospite di un luogo di cura. 74 – ‘A ‘ROTTA e cioè la grotta con riferimento ovviamente non ad un qualsiasi anfratto naturale, ma, sulla scorta della gran tradizione cristiana partenopea, ovviamente la grotta per antonomasia : quella che ospitò il Bambino Gesú riscaldato dal fiato del bue e dell’asinello; prima di rammentare che in napoletano, con il diminutivo della voce a margine, e cioè con ‘a ‘rutticella estensivamente e con raffronto semiblasfemo si intese la vulva muliebre, ricorderò il détto che richiamando il bue e l’asinello detti, parla di ‘o scarfalietto 'e Giesú Cristo Ad litteram: Lo scaldino di Gesú Cristo. Non si direbbe, ma la locuzione ricordata è una dura, sia pure sorridente offesa che si rivolge agli uomini ritenuti ignoranti o anche becchi. Non v'è chi non sappia infatti che Gesú Cristo fu riscaldato nella greppia di Betlemme da un bue e da un asinello; di talché affibbiare ad uno il titolo di scaldino di Gesú Cristo significa dargli dell' asino e del bue id est: ignorante e cornuto e perciò significa accusare sua moglie di infedeltà continuata. Per venire a capo del perché semanticamente al numero74 è associato la figura della grotta intesa nel suo significato primo e non in quello traslato occorre pensare che il 74 è il doppio di 37 che figura (cfr. antea) il monaco e segnatamente quelli di sant’Anna del convento in piazza san Francesco, monaci che per le festività del santo Natale solevano chiamare a raccolta confratelli di altre comunità monastiche per celebrare con fasto la ricorrenza natalizia; tale numeroso concorso di monaci per prostrarsi dinnanzi dalla grotta del santo Bambino è rappresentato appunto dal74 che del 37 ne è il doppio! . 75 – PULICENELLA e cioè Pulcinella la maschera per antonomasia della tradizione popolare partenopea che come tale non poteva non esser presente nella smorfia rappresentandovi l’uomo piú semplice, quello piú debole, quello che nella scala sociale occupa l’ultimo posto; è però dotato per compensazione di una furbizia eccezionale, capace perciò di risolvere i piú disparati problemi. Chiamato a rappresentare l’anima del popolo, i suoi istinti primitivi, appare quasi sempre in contraddizione, tanto da non avere dei tratti fissi: è ricco o povero, è prepotente o codardo, e talvolta presenta l’uno e l’altro tratto contemporaneamente. La verità sta nel fatto che a questa maschera il popolo à riservato la funzione di riassumere e di esprimere tutta la sua realtà quale che sia: brutta o bella, meschina o eroica. La maschera di Pulcinella à una storia che viene di lontano; già non c’è uniformità di vedute sull’origine del nome Pulcinella; secondo alcuni esso si vuole che debba discendere da Pulcinello cioè piccolo pulcino per via del suo naso adunco e per la voce chioccia che in origine usarono gli attori , c’è chi invece propende per Puccio d'Aniello un villano di Acerra del '600 che dopo aver preso in giro una compagnia di commedianti girovaghi si uní a loro come buffone e pare s’inventasse quel mascheramento del volto, mezzo bianco e mezzo nero, palandrana bianca e candido cappello a pan di zucchero; una scuola di pensiero propende per un tal Silvio Fiorillo attore girovago nato all'incirca nel 1560 (Viviani V.), che pare fosse il primo a portare ufficialmente in scena la figura di Pulcinella, anche se l'alternava con la casacca e la spada del capitano Matamoro spagnolo. Fiorillo viene anche ricordato come il primo commediografo pulcinellesco, essendoci giunta una sua commedia intitolata: " La Lucilla costante, con le ridicole disfide e prodezze di Pulcinella " In realtà dove e da chi sia nato Pulcinella non é dato di sapere e molti eminenti studiosi e letterati come Benedetto Croce, Salvatore Di Giacomo e Anton Giulio Bragaglia si siano impegnati in queste ricerche, senza mai poterlo stabilire con certezza; a mio avviso, pur accogliendo in parte qualcosa d’ogni singola ipotesi, penso che non sia tuttavia lontano dalla verità chi, (almeno per ciò che riguarda i caratteri generali), collega Pulcinella al Maccus della commedia atellana latina; la maschera di Pulcinella à una sua variante francese in Polichinelle' ( un fanfarone gradasso con doppia gobba e un vestito giallo-rossiccio detto crocòta) ed una inglese con Punch maschera dall' umore malinconico e brutale, molto diverso dal Pulcinella napoletano brioso e faceto; i medesimi caratteri della maschera napoletana si riscontrano invece nel russo Petruska, nel don Cristobal spagnolo e nel tedesco Kaspar, segno che la maschera napoletana fu esportata in lungo e largo.Esiste un momento centrale ed illuminante, nella storia dei rapporti fra Pulcinella e Napoli, fra Pulcinella ed il teatro ed, in particolare, fra Pulcinella e l'attore : esso coincide con la fine del '600 e l'inizio del '700, allorché la storia dello spettacolo a Napoli si fa suggestiva misura della storia stessa della città e della sua vita culturale. Vi fiorisce un teatro di prosa dialettale, espressione di una straordinaria attenzione alla lingua ed al costume; vi nasce una ricca e fertile generazione di teatranti: teorici, drammaturghi e commediografi, librettisti, musicisti, attori e cantanti, impresari; vi si rinnovano le strutture cittadine di spettacolo: si apre il San Carlo e, all'estremo opposto del consumo sociale del teatro, il non meno nobile San Carlino; si afferma la commedia in musica, detta opera buffa, capace di espandersi ed affermarsi per l'intera Europa con caratteri che ànno fatto pensare addirittura ad una scuola musicale napoletana '; sopratutto, il teatro rinasce, dopo esaltanti esperienze della commedia dell'arte praticata trionfalmente in Europa per tutto il '600 ed in questa prima metà del '700. La maschera à rappresentato e rappresenta tuttora la plebe napoletana' da sempre oppressa dai vari potenti che si sono succeduti, affamata e volgare, smargiassa, codarda e dissacrante. Molti attori ànno impersonato sulla scena il personaggio di Pulcinella ma il piú famoso di tutti è stato Antonio Petito (1822 -†1876) trionfatore sul palcoscenico del San Carlino; questo Petito nonostante fosse quasi analfabeta, à lasciato numerose commedie di grande successo che avevano come protagonista lo stesso Pulcinella. Dopo di lui, per tanti aspetti, storici, culturali e tecnici nonostante sulle scene fossero attivi altri grandi interpreti (come Salvatore De Muto(1876 † 1970) ad esempio e Gianni Crosio (di cui, purtroppo non sono stato in grado di reperire notizie biografiche) inizia la decadenza. Pulcinella in teatro diventa un personaggio, e deve attenersi ormai ad una parte scritta, ad un copione. Privata del vivificante contatto diretto con il pubblico, la maschera assume sempre piú caratteristiche stereotipate, di genere. Solo nella strada, con le guarattelle (forma metatica di guattarelle= acquattate, nascoste), il teatro napoletano dei burattini, Pulcinella mantiene la sua forza, conservando intatta nel tempo, incredibilmente, la struttura di spettacolo originaria della Commedia all’Improvviso, e in tal forma giungendo fino ai nostri giorni. Ribadito che per quel che riguarda l’etimologia del nome Pulicenella o anche Pullicenella con tipico raddoppiamento popolare della l implicata, occorre risalire ad un accusativo latino pullicinu(m)= pulcino variante del tardo latino pullicénu(m), con riferimento – come già detto – al naso adunco ed alla primitiva voce chioccia e pigolante usata dagli attori per dar vita alla maschera, ricorderò che il personaggio eternato sotto il num. 75 della smorfia napoletana non è esattamente la maschera fin qui menzionata, ma il generico buffone, il pagliaccio o l’ uomo di nessuna personalità, quel medesimo che per traslato è detto appunto Pulicenella. Complesso e non agevole il percorso da seguire per compredere il motivo per il quale la maschera di Pulcinella è associato al numero 75. In ogni caso ci proviamo ricordando che Pulcinella non è solo la maschera da palcoscenico, ma è riconducibile altresì ad una sorta di buffone di corte,sebbene di maggior personalità; il buffone che di solito è gobbo come lo stesso Pulcinella è rappresentato dal numero 57 (cfr. antea); létto in maniera inversa, per significare che in ogni caso Pulcinella à personalità più spiccata d’ un generico buffone di corte, ecco che il 57 diventa 75. 76 –‘A FUNTANA e cioè la fontana figurazione della vita, rappresentata dal fluire tipico dell’acqua, emblema quasi sacrale che come tale non poteva mancare nel libro dei sogni dei napoletani, da sempre attenti a tutto ciò che abbia un valore sacro; etimologicamente è da un accusativo latino fontana(m) aqua(m)= acqua di fonte. . Semanticamente il 76 è associato alla fontana per un giuoco di rappresentazione grafica nella quale il 7 configura il supporto astile della fontana ed il 6, con un richiamo furbesco (cfr. antea 6: la vulva) la bocca dove sortisce l’acqua. 77 –‘E CCOSCE D’ ‘E FFEMMENE ed ‘E RIÀVULE e cioè le gambe muliebri ed i diavoli accomunati a quelle atteso che le une e gli altri sono fonte di tentazione; e non faccia meraviglia se i napoletani abbiano accolto nel loro libro dei sogni, una figura (il demonio) cosí tanto all’opposto della visione sacrale che dell’esistenza ànno i partenopei; se lo ànno fatto, la cosa è avvenuto a puro scopo apotropaico nella convinzione che il considerarlo ed anzi considerarli nella loro numerosità (abbiamo infatti il plurale ‘e riavule e non il singolare ‘o riavulo) li tenesse superstiziosamente a bada e ne allontanasse i malefici influssi; a Napoli purtroppo spesso la superstizione e la religione vanno a braccetto dandosi di gomito; etimologicamente ‘e riavule che è plurale di ‘o riavulo = diavulo con tipica rotacizzazione osco-mediterranea della d→r viene da un tardo latino diabolu(m), dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabállein 'disunire, mettere male, calunniare', che nel gr. cristiano traduce l'ebr. satan 'contraddittore'. Semanticamente il 77 è associato alle gambe delle donne per un giuoco di rappresentazione grafica nella quale il doppio 7 accostato è appunto figura di due lunghe gambe di una donna. 78 – ‘A BBELLA FIGLIOLA che ad litteram starebbe per la bella ragazza, ma per eufemistico traslato vale la prostituta e piú chiaramente ‘a zoccola; trattandosi di chi esercita il mestiere piú antico e noto, fu quasi ovvio che entrasse a far parte del libro dei sogni partenopeo, quantunque si eufemizzassero i piú usati termini come prostituta o il piú corposo zoccola; ò già abbondantemente trattato alibi sub Meretricio e voci collegate, le voci prostituta e zoccola e a quell’articolo rimando, limitandomi qui a dire della voce figlióla che etimologicamente è da un accusativo latino volgare filiòla(m) per il classico filíola(m) e ricordando che il naspoletano à però la vocale tonica del dittongo chiusa. Semanticamente il 78 è accostato alla figura della prostituta perché graficamente, anticipando le moderne emoticons,(come accadrà pure per molti altri numeri) con il 7rappresenta la figura della donna che si offre e con l’ 8 che gli tiene dietro un provocante popputo petto di donna. 79 – ‘O MARIUOLO e cioè il mariolo, il ladro ed estensivamente la persona disonesta in genere anche quando non sia dedita al furto continuato; nel libro napoletano dei sogni che fotografa tutta la vita nelle sue manifestazioni ed accezioni non poteva mancare la figura del mariolo che segnatamente (prima di comprendere il disonesto in genere, il furbo e truffatore) fu quel ladro di basso profilo che a far tempo dalla fine del ‘700 ed i princípî dell’’800 operava piccoli furti di destrezza in istrada sottraendo a disattenti pedoni orologi da tasca , fazzoletti di seta e portamonete; esistettero negli anni che ò detto addirittura delle scuole dove i mariuoli alle prime armi prendevano scuola e si allenavano sottraendo a dei fantocci preparati all’uopo le mercanzie ricordate, facendo attenzione durante gli… allenamenti a non far titinnare i numerosi campanelli di cui erano forniti i pupazzi, campanelli che se avessero titinnato avrebbero dimostrato che il mariuolo non stesse agendo con la dovuta rapidità e destrezza e pertanto avrebbe dovuto continuare ad imparare, magari sferzato dolorosamente dalla verga o dallo staffile del maestro mariuolo. Per ciò che attiene all’etimologia del termine mariuolo non c’è uniformità di vedute; taluno si trincera dietro un etimo incerto, qualche altro prpende per un antico aggettivo francese mariol = furbacchione, qualche altro ancora lo legherebbe allo spagnolo marraio e marrullero = imbroglione, monello; trovo invece molto interessante la scuola di pensiero che fa risalire la voce mariuolo ad un acc. latino malevolu(m)→marevolu(m)→ marevuolo con sincope definitiva della v donde mareuólo e mariuólo. Anche per il numero 79 accostato alla figura del ladro, semanticamente occorre parlare di un avvicinamento di tipo artistico/fantasioso in quanto questa volta nel numero 79 si può riconoscere nel 7 la sdutta figura di un ladro, mentre nel 9, che tiene dietro al 7, si può cogliere fantasiosamente una sorta di mascherina che i dari erano soliti portare in volto per non farsi riconoscere. 80 – ‘A VOCCA si tratta ovviamente della bocca, la cavità nella parte anteriore del viso dell'uomo, delimitata dalle labbra, che è organo della respirazione, della nutrizione e della fonazione; ed è con particolare riferimento a quest’ultima funzione che la bocca è presa in considerazione nella smorfia partenopea in quanto emblema di coloro che erano adusi a parlare d’ogni cosa anche se spesso a sproposito,in quanto non avevano argomenti da esporre o pensieri da sostenere, al segno che, per dileggio ,di costoro s’usava dire che aprissero la bocca pe ffà piglià aria â lengua: per arieggiare la lingua; a tal proposito nelle tombole familiari d’antan all’annuncio: Uttanta, ‘a vocca!, tutti i giocatori commentavano in coro: È ‘nu bbellu strumiento, volendo appunto ricordare che spesso la bocca era usata a mo’ di strumento (dal lat. instrumentu(m), deriv. di instruere disporre, costruire) per emetter suoni senza significati. L’etimo di vocca è pacificamente dal latinobucca(m) 'guancia', poi 'bocca' con la tipica alternanza partenopea b/v. Semanticamente il numero 80 è accostato alla bocca perché graficamente, anticipando le moderne emoticons,(come accadrà pure per molti altri numeri) rappresenta un volto con occhi (8) e bocca (0) spalancati. 81 – ‘E SCIURE e cioè i fiori figurazione, per la loro bellezza, fragranza e rigogliosità, come la pregressa fontana, della vita, ed in quanto tale non potevano non esser presenti nella smorfia dei partenopei, gente dallo spirito pratico, non disgiunto (a malgrado delle apparenze) da una gentilezza di fondo che fa apprezzar loro i fiori, gioiosa e gentile manifestazione di madre natura. Quanto all’etimologia di sciore (di cui sciure è il plurale) essa è dall’accusativo latino flore(m) con la tipica mutazione del gruppo latino fl che in napoletano diventa sci , come ad es. alibi sciummo che è da flumen, sciamma da flamma(m) etc. Semanticamente il numero 81 è accostato ai fiori perché graficamente,nell’8 si posson leggere fantasiosamente delle corolle di fiori e nell’1 che tien dietro a l’8 i gambi di quei fiori. 82 – ‘A TAVULA APPARICCHIATA= il desco imbandito, la tavola colma di vettovaglie; quasi ovvio che l’atavica fame del popolo napoletano lo spingesse a considerare nel proprio libro dei sogni un gran tavolo imbandito al quale accostarsi per satollarsi ed ( almeno in sogno!) sconfiggere l’antica fame, figlia della miseria quotidiana; rammenterò che – purtroppo! – qualche napoletano piú giovane in luogo d’usare classicamente: ‘a tavula apparicchiata, si è lasciato frastornare dal toscano ed à preso a dire scioccamente ‘a tavula ‘mbandita o addirittura a tavula ‘mbannita ( dove ‘mbandita/’mbannita è l’evidente corruzione di imbandita vocabolo assolutamente estraneo all’idioma napoletano); ‘a tavula non è un generico tavolo, ma il grande (si noti che la parola è stata resa femminile: tavula e non tavulo; e come vedemmo altrove un oggetto femminile è inteso piú vasto del corrispondente maschile) desco su cui si prendono i pasti e deriva dal latino tabula(m); apparicchiata= allestita, approntata, ed anche imbandita è etimologicamente p.p. femm. del verbo basso latino ad-pariculare→appariculare iterativo di parare= preparare mentre ‘mbannita è part. passato femminile del verbo ‘mbandí risultando essere un’ inutile sistemazione dialettale dell’imbandire toscano ( che è da un in + bandire= convitare). Per venire a capo del perché semanticamente al numero82 è associato la figura del desco imbandito, occorre pensare che 82 è il doppio di 41 che figura il coltello,che oltre che un’arma bianca è una delle tante stoviglie necessarie su di una tavola imbandita, stoviglie che per essere molte ben son rappresentate da un numero doppio di quello usato per indicare il coltello. 83 – ‘O MALETIEMPO – il cattivo tempo, quello che oscura il cielo e mal dispone gli animi degli uomini e non solo dei metereopatici (specie in una città come Napoli che nell’immaginario collettivo è città di luce ed aria, ‘o paese d’’o sole!,) uomini che mal si adattano alle cupi nubi, alle piogge noiose ed ai venti turbinosi. nubi, pioggia e vento che connotano il maltempo al margine entrato nella smorfia partenopea come paventato pericolo e come tale quasi sopportato quale simbolo di cattivo presagio; a Napoli chi aprendo la finestra al mattino, vedesse il cielo offuscato da cupe nubi, prodromiche di procellose piogge,il tutto prefigurando cattive nuove, opererebbe súbito manovre apotropaiche con annessi inconfessabili scongiuri e – potendolo – rientrerebbe tra le coltri, temendo di affrontare una giornata sotto l’egida d’’o maletiempo che risulta etimologicamente derivato da malu ( dal latino malum=cattivo) + tiempo (lat. tempus con dittongazione popolare). semanticamente al numero83 è associato la figura del maltempo perché fu proprio nel 1783 che in Calabria, regione del reame di Napoli avvenne uno dei piú tremendi terremoti con imponenti piogge ed alluvione che ancóra si ricordano. 84 – ‘A CHIESIA –chiesa, basilica, luogo di culto, la chiesa intesa cioè non solo come l’edificio sacro in cui si svolgono pubblicamente gli atti di culto delle religioni cristiane,ma anche come comunità di fedeli che professano una delle confessioni cristiane: chiesa cattolica, ortodossa, anglicana, luterana, calvinista; tuttavia nell’inteso popolare, dicendo chiesa è proprio solo a l’edificio sacro in cui si svolgono pubblicamente gli atti di culto delle religioni cristiane, quell’edificio detto casa del Signore accostato di solito da un campanile dal quale squillanti campane chiamano a raccolta i fedeli, quell’edificio intorno al quale, soprattutto nei giorni festivi, gravitano una pletora di poverelli che a mano aperta e tesa son soliti chiedere l’elemosina a fedeli impietositi che si recano ad assistere alle funzioni religiose. Un popolo profondamente religioso come è il napoletano non poteva non considerare nel suo libro dei sogni la c.d. casa del Signore, quella chiesa che è centro e fulcro della vita d’ogni quartiere partenopeo. Etimologicamente la parola chiesia/chiesa è dal lat. ecclesia(m)→(ec)clesia(m)→chiesia/chiesa,che è dal gr. ekklísía 'assemblea', deriv. di ekkalêin 'chiamare'; tipica l’evoluzione del nesso cl in chi (cfr. clausu(m)→chiuso, clavu(m)→chiuovo etc. Semanticamente il numero 84 è accostato alla figura della Chiesa intesa quale comunità di fedeli, perché l’ 84 (che è l’inverso di 48) suggerisce l’esatto contrario di quanto si intende con 48; infatti quest’ultimo numero, che indica il morto che parla, suggerisce pensieri inquetanti (poi che un morto che parli mostra di non aver trovato la quiete e la pace proprie defunto), laddove l’ 84 (inverso del 48) suggerisce pensieri di fraternità amicale. 85 – LL’ ANEME D’’O PRIATORIO – e cioè le anime del purgatorio; ritorna il vasto sostrato religioso-fideistico del popolo napoletano, in forza del quale non si poteva non dare un posto nella smorfia, alle anime dei defunti che - giusta l’insegnamento della religione cattolica, non abbiano ancora ricevuto il premio o il castigo definitivo e siano ancóra confinate in un luogo di purificazione dove si emendano dei residui delle colpe trascorse per essere poi chiamate, mondate e purificate, al premio finale; tali anime, benché non si possa evocarle o chiamarle, talvolta, per permesso e volere di Dio si manifestano sia pure in sogno, spesso per chiedere preghiere e suffraggi per sé o loro simili, e talvolta per soccorrere, moralmente, ma pure praticamente, chi le invochi con speranzoso rispetto e trasporto; il popolo napoletano à un vero e proprio culto sacro delle anime purganti al segno che – specialmente dal popolino minuto -è d’uso avere in casa delle piú o meno contenute statuine di terracotta dipinta raffiguranti i nudi corpi di appunto queste anime del purgatorio avvolti in raccapriccianti lingue di rosso fuoco, quel fuoco simbolo e mezzo della purificazione; dinnanzi a dette statuine vengono accesi lumini votivi o posti piccoli fasci di fiori; in taluni antichi quartieri popolari della città vecchia, è ancóra possibile passim imbattersi in edicole sacre dedicate alle anime purganti la cui iconografia è fornita da statuette cosí come descritte, con l’aggiunta altresí di macabri teschi ed incroci di ossa tibiali. Quanto all’etimologia, pacifica per anema quella latina anima(m), connesso col gr. ánemos, mentre per priatorio pur risalendo al lat. tardo purgatoriu(m), neutro sost. dell'agg. purgatorius, deriv. di purgare 'purgare, purificare' oltre l’evidente esito metatico non bisogna scordare un incrocio d’avio con il verbo prià = pregare da un lat. volg. precare, per il class. precari, deriv. di prex/ precis 'prece'. Per spiegarci perché semanticamente l’ 85 è accostato alle anime del purgatorio, occorre ancòra una volta riferirsi alla fantasiosa interpretazione grafica del numero 85 che richiama nell’ 8 la figura dell’anima purgante e nel 5 che gli tien dietro le fiamme purificatrici in cui l’anima è avvolta. 86 – ‘A PUTECA o ‘A PUTECHELLA – la bottega o la botteguccia,dove si vendano merci e non cibi (di pertinenza di esercizi come bettole e trattorie che, come il pane nella smorfia vanno sotto il numero 50) la bottega è simbolo della (contrariamente al vieto luogo comune che vuole il napoletano sfaticato, fannullone,ozioso e scioperato) solerte anima partenopea, quei partenopei che spesso, non avendo piú certa e remunerativa attività da svolgere, per poter vivere, si dedicavano e dedicano ad improvvisati commerci piccoli o grandi che svolgevano e svolgono in negozi talvolta di fortuna: ‘a puteca e se molto piccola putechella; e tale simbolo di solerzia non poteva non esser presente nella smorfia; ricorderò anzi che spessissimo i napoletani per tener dietro solertemente e senza soluzione di continuità a tali loro commerci usarono ed usano prender dimora in, sia pure, pochi vani di pertinenza del medesimo negozio dove svolgono l’attività per modo che non sprecano tempo per portarsi di casa al luogo del lavoro e viceversa; da ciò nacque il detto: metterse ‘e casa e puteca che significò: occupare proficuamente tutto il tempo dedicandosi ad un’attività lavorativa e/o di studio.Quanto all’etimologia la voce puteca deriva dal lat. apothéca(m), dal gr. apothékí ; in latino indicò il locale che nella domus faceva da dispensa ; mentre in greco fu in primis la farmacia e poi estensivamente il magazzino, il ripostiglio, il negozio cosí come nel napoletano. Semanticamente l’ 86 è accostato alla bottega o botteguccia,in quanto l’ 86 (che è l’inverso di 68: la zuppa di carnacotta) suggerisce l’idea che si tratta di un esercizio le cui merci son ben diverse da quelle rammentate con il 68; non si tratta cioè di bottega di cibarie, ma di tutt’altra merce. 87 – ‘E PERUCCHIE – letteralmente i pidocchi e cioè i piccoli insetti dal corpo piatto, con zampe corte e robuste, che succhiano il sangue dell'uomo vivendo da parassiti sulla testa, sul corpo o nei vestiti, ma va da sé che in quanto tali, non è pensabile che potessero esser presi in considerazione e ricordati nella smorfia sebbene fossero segno di miseria e sporcizia; rammentato allora che, in quanto insetto, la voce perocchio di cui perucchie è il plurale deriva da un tardo latinopeduc’lu(m), dim. di pídis 'pidocchio, dirò che il termine plurale ‘e perucchie è stato accolto nel libro dei sogni come uno dei circa sessanta sinonimi del danaro in uso nella parlata napoletana, ed in tale accezione ‘e perucchie (segnatamente il danaro quando sia poco e pertanto con limitatissima capacità di acquisizione di beni) sono una corruzione di purchie ambedue coniati su di un antico porchia nel significato di gemma, pollone, richiamante quel rigoglio della vita facilmente assimilabile alla rigogliosità che può dare il danaro. Semanticamente l’ 87 è accostato alla figura dei pidocchi perché fantasiosamente il nunero rappresenta graficamente proprio il corpicino di un insetto corredato zampe prensili. 88 – ‘E CASECAVALLE o ‘AMMUSCIATORE – i cacicavalli o l’annoiatore; il caciocavallo è un famosissimo formaggio tipico dell'Italia merid., a pasta dura, dolce o piccante, in forme simili a grosse pere allungate, fatto con latte intero di vacca o di bufala, prodotto in altura dai casari e poi trasportato a valle legato in coppia a dorso di cavallo, donde il nome, famosissimo ed usatissimo formaggio tale da rappresentare l’emblema del buon nutrirsi (il latte è alimento principe) e perciò del ben vivere(siamo ciò che mangiamo!) ed in quanto emblema di qualcosa d’importante, entrato nella smorfia; la tipica forma a pera ed il fatto che i cacicavalli siano legati a coppia offrirono poi il destro furbesco di farli ritenere simili ai testicoli e poiché nell’immaginario partenopeo chi infastidisca o annoi qualcuno gli abboffa o ll’ammoscia ‘e ppalle e cioè gli gonfia metaforicamente o alternativamente gli rende molli i testicoli, ecco che i cacicavalli/testicoli finirono per richiamare la figura dell’ ammusciatore id est: annoiatore figura ricordata con il medesimo numero ed accanto ai casecavalli di sua pertinenza. ;ricordiamo alcune etimologie delle voci meno note contenute in questa illustrazione; avendo già detto di caciocavallo, abbiamo: abboffa voce verbale di abbuffà= gonfiare voce che quantunque recepita nel toscano è di orig. merid.; deriv. di buffa nel significato di 'rospo; ammoscia voce verbale di ammuscià= infastidire, annoiare, render molle che è un denominale di muscio (lat. musteus→mustum=mosto, vino giovane e dolce e di poca forza o consistenza; ammusciatore (vedi ammuscià) = chi infastidisce, annoia o rende molle. Semanticamente l’ 88 è accostato alla figura dei caciocavalli, proprio perché graficamente, anticipando le moderne emoticons,(come accadrà pure per molti altri numeri) i due 8 accostati ripetono la figura di due caciocavalli i tipici formaggi meridionali a pasta filata venduti a coppie, prodotti in altura e trasportati a valle legati a coppie a dorso di cavallo donde il nome. 89 – ‘A VICCHIARELLA – la vecchina; per ciò che concerne questa penultima voce a margine, non posso che ripetere – vòlto al femminile - ciò che, al maschile, dissi per ‘o viecchio sotto il num. 53; il vecchietto; la vecchia o vecchina è un’ altra figura emblematica che non poteva mancare nella smorfia dei napoletani da sempre adusi a tenere in alta considerazione chi si porti il carico di molti anni, sia che si tratti di familiari (genitori, nonni, zii) sia che ci si riferisca ad estranei con i quali si abbia un sia pure fugace contatto di vita, piú o meno quotidiano; il soggetto femminile ‘a vicchiarella (num. 89) nella smorfia non è indicato con una doppia voce: ‘a vecchia (la persona anziana che si trovi negli ultimi anni di vita) voce che volta al femminile deriva da un basso latinovec’lu(m),collaterale del class. vetulu(m), dim. di vetus 'vecchio' voce che è però molto fredda e quasi anodina,ma solo con il piú affettuoso diminutivo ‘a vicchiarella ( diminutivo, vezzeggiativo della rammentata e non usata nella smorfia vecchia) usata piú affettuosamente per indicare l’anziano di famiglia, voce che per sottolinearne l’uso piú partecipativo viene quasi sempre accompagnata dal possessivo mio: della propria anziana genitrice s’usa dire infatti: ‘a vicchiariella mia! Anche per l’ 89 semanticamente ci troviamo nuovamente nell’àmbito di un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,l’ 8 dà fantasiosamente l’idea di un corpo femminile, mentre il 9 che gli tiene dietro sta, con le sue curve e volute ad indicare che quel corpo appartiene ad una vecchietta afflitta da acciacchi artitrici. 90 – ‘A PAURA e anche ‘A PUPULAZZIONA la paura e anche la popolazione, il popolo; siamo giunti al termine dei novanti numeri con i principali significati usati nel libro napoletano dei sogni: il novanta con il quale si indica la angosciosa sensazione che si prova in presenza o al pensiero di un pericolo vero o immaginato; sensazione che va sotto il nome di paura e che, essendo uno delle piú ricorrenti percezioni del vivere umano occupò un preciso posto nella smorfia e le fu assegnato il numero piú grande possibile, per modo che potesse quasi indicare la grande scossa che quella senzazione fastidiosa provoca nell’animo umano; accanto alla paura, sotto il medesimo numero altissimo trova posto la figurazione della pupulazzione cioè a dire la popolazione intesa però non come il complesso degli abitanti di un luogo, quanto piú circoscrittamente ‘o popolo e cioè il complesso degli abitanti di un quartiere o di un rione soprattutto quando partecipanti insieme alla vita sociale in manifestazioni ludiche, religiose ed affini; trattandosi di una moltitudine apparve corretto assegnare ad essa un numero grandissimo: il novanta appunto sebbene esso fosse già di pertinenza della paura. Concludiamo con illustrare l’origine delle parole in esame: paura= paura, timore; lemma rifatto sull’acc. latino pavóre(m) attraverso un tardo pavura(m) voce che in talune zone della città vecchia è ancora usata senza sincope della v: pavura e non paura ritenuta troppo toscana; pupulazzione = popolazione, popolo che è da un accusativo tardo latino populatione(m) derivato di populu(m). Per comprendere perché al numero 90 è associato la sensazione che si prova in presenza o al pensiero di un pericolo vero o immaginato occorre riflettere che il numero 90 è formato dall’addizione del 30 (le munizioni del tenente, con il loro corrdeo di pericolo e/o spavento) e del 60 (la lagnanza, il lamento): l’addizione di pericolo e lamenti genera paura. Raffaele Bracale

LA SMORFIA NAPOLETANA parte 2ª

LA SMORFIA NAPOLETANA parte 2ª Continuiamo nell’elencazionecommentata dei numeri della smorfia ed in questa sezione affronteremo i numm. dal 31 al 60. Abbiamo dunque 31 – ‘O PATRONE ‘E CASA= il padrone di casa, il proprietario di casa, ma non colui che possegga la casa dove abiti, quanto colui che possessore di uno o piú appartamenti li ceda da locatore a dei locatarî contro pagamento di un canone di locazione mensile o annuale detto in toscano fitto o pigione, ed in napoletano pesone che è dall’acc. latino pensone(m)dal verbo pendere= pesare, pagare; rammenterò che (come già dissi alibi) un tempo ‘o pesone era corrisposto annualmente in ragione di quattro mensilità anticipate ( 4 gennaio,4 maggio, 4 settembre), dunque tre volte all’anno di talché le quattro pigioni finirono per esser dette tierze alla medesima stregua degli interessi derivanti dai titoli obbligazionarî, interessi che venivano riscossi tre volte all’anno contro esibizione delle relative cedole dette in napoletano cupune ed al singolare cupone (dal francese coupon = tagliando). Detti tierzi intesi come interessi di un capitale impiegato (beni immobili o titoli obbligazionarii) ritornano nel detto napoletano: perdere tierze e capitale detto usato ad amaro commento di situazioni nelle quali si verifichi un tracollo finanziario grave che ponga chi lo subisce nella pessima condizione di veder sparire tutto: capitali ed interessi; va da sé che l’espressione possa essere intesa in piú ampi e traslati significati con riferimento ad ogni perdita cosí grave nella quale ci si possa rifondere ad es. lavoro e salute o tempo e danaro e cosí di sèguito. Successivamente (metà1800) quando le spettanze mensili degli impiegati cominciarono ad esser corrisposte ai 27 del mese ecco che anche il pagamento del dovuto per le abitazioni condotte in fitte da quegli impiegati furono corrisposte mensilmente e fu stabilito che ciò avvenisse in una data prossima alla ricezione dello stipendio, quando ancóra la famiglia non aveva dato fondo a tutto il lucrato; fu perciò che il padrone di casa ricevette i suoi emolumenti nell’ultimo giorno del mese, ai 31 appunto e con tale numero semanticamente venne indicato il padrone di casa cui quei mensili andavano corrisposti. 32 – ‘O CAPITONE = il capitone e cioè la grossa anguilla femmina, regina delle napoletane tavole di magro della vigilia di Natale, allorché viene ammannito arrostito alla brace, in carpione, in umido all’agro o fritto; la voce capitone etimologicamente è dall’accusativo latino capitone(m) da capito/onis collaterale di caput/tis in quanto oltre il corpo à una testa molto pronunciata; rammenterò che nelle ricordate tombole familiari quando si estraesse il num. 32 chi lo estraeva annunciava trionfante: trentaroje ‘o capitone!,ma súbito chiosava: cu ‘e rrecchie volendo significare che si intendeva riferire proprio alla grossa anguilla provvista ai lati del capo di due piccole, trasparenti appendici ritenute orecchie, e non intendeva, col dire capitone, riferirsi ad altro furbesco richiamo non ittico, di appendice maschile spesso ricordata con la voce a margine: ‘o capitone senza recchie (il capitone privo d’orecchie). Per comprendere perché semanticamente il 32 è accostato al capitone (con le orecchie) occorre rammentarsi che nella smorfia con il n° 23 si identifica lo scemo, il grullo, il tonto, il poco intelligente e poiché nell’inteso comune il capitone è tutt’altro che scemo, grullo, tonto o poco intelligente risultando anzi furbo, astuto, scaltro,restio a lasciarsi prendere ed ammazzare, al segno che anche tagliato a pezzi continua ad avere una gran vitalità, ecco che rappresenta l’esatto contrario del 23 e cioè il 32! 33 – LL’ANNE ‘E CRISTO = gli anni di Cristo, atteso che nella tradizione cattolica, sebbene non fondata su alcuna certezza storica, si presume che Cristo iniziasse la sua vita pubblica, a trent’anni e che fosse messo a morte tre anni dopo, se ne dedusse che la vita terrena di Cristo durò trentatré anni e con tale numero (da riferirsi non solo agli anni, ma alla persona , nella sua interezza),il Cristo come personaggio storico è indicato nella smorfia. Cristo, aggettivo, se non apposizione del nome proprio Gesú, è voce che etimologicamente è dal lat. Christu(m), traslitterazione del gr. Christós, che traduce l'ebr. mashiah e vale l’unto del Signore. 34– ‘A CAPA = letteralmente il capo, la testa, ma nella tradizione popolare partenopea , furbescamente il numero a margine talvolta piú che al capo, si riferisce alla capocchia ossia al glande soprattutto quando ci si voglia riferire per dileggio alla testa di qualcuno sciocco, stupido o – peggio ancora - volutamente irrazionale; ed è proprio ad una testa bislacca che bisogna pensare per spiegarsi la semantica del n° 34 che graficamente ripropone un volto corredato di occhi bolsi tipici d’uno stupido e di una bocca atteggiata ad un movimento innaturale riscontrabile appunto in un soggetto stolto. Etimi: capa: dal latino caput, ma reso femminile; capocchia: dal medesimo etimo, ma con l’aggiunta del suffisso diminutivo occhia per ocula e dunque da capocula→ capocchia. 35 – LL’AUCELLUZZO=l’uccellino, nome generico di qualsiasi volatile non identificato apparso in sogno, va da sé che trattandosi di un diminutivo, il volatile debba essere piccolo; infatti aucelluzzo è il diminutivo, vezzeggiativo di auciello (uccello) da un tardo latino: aucellus doppio diminutivo di avis per il tramite di avicula→avicellus poi con dittongazione della sillaba implicata seguita da doppia consonante. Nelle consuete tombole familiari cui spesso faccio riferimento l’annuncio: trentacinche: l’aucelluzzo era seguito da un corale verso onomatopeico: zuízuí che tentava di riproporre il cinguettio dell’uccellino, ma che appariva, piú verosimilmente lo squittio di un topolino! Semanticamente il 35 è accostato all’uccellino perché fantasiosamente il nunero rappresenta graficamente proprio il corpicino di un fringuello corredato di alucce sbattute in volo. 36 – ‘E CASTAGNELLE = : castagnette esse sono la versione povera e popolaresca delle piú nobili nacchere spagnole e consistono in due cave, piccole semisfere di legno intagliato ad hoc, ma un tempo anche di osso ugualmente lavorato; dette semisfere legate a coppia con una fettuccia che è inforcata dal dito medio vengono azionate schiacciandole ritmicamente contro il palmo della mano, per modo che urtandosi fra di loro, producano un suono secco e schioppettante, atto ad accompagnare, quasi sempre, i passi delle danze popolari quali tarantella, saltarello ed altre consimili. Semanticamente il 36 è accostato alle nacchere perché fantasiosamente e furbescamente il nunero rappresenta al quadrato il numero 6 (cfr. antea) strumento di per sé atto a menare le danze per uno dei piú gradevoli sistemi per divertirsi; molto di piú se lo strumento risulta moltiplicato per se stesso. La parola nacchera che connota uno strumento molto simile alle castagnelle è di origine araba: nakâra propriamente scavato, incavato con riferimento appunto alla morfologia dello strumento, mentre il termine castagnelle o castagnette è dallo spagnolo castaňetas (che in terra iberica indicano le nacchere) quasi castagna per la forma vagamente somigliante delle castagnelle come delle nacchere al frutto del castagno.Chiarirò che il numero a margine possa essere usato non solo per identificare le predette castagnelle, ma ogni altro gioioso strumento atto alla danza popolare, quando ovviamente non esista altro preciso numero per indicarlo come ad es il tamburello che è identificato dal num. 51 etc. 37 – ‘O MONACO ed anche ‘O MUNACIELLO; ‘o monaco sta ovviamente per il monaco cioè a dire chi à abbracciato il monachesimo; nel cattolicesimo, membro di un ordine monastico o religioso che à pronunciato i voti solenni di povertà, castità e obbedienza; etimologicamente è voce dal lat. tardo monachu(m), che è dal gr. monachós 'unico', poi 'solitario' (e quindi 'monaco'), deriv. di mónos 'solo, unico'; il medesimo etimo sia pure addizionato di un suffisso diminutivo iello vale per la voce munaciello che nella tradizione popolare partenopea è un particolare piccolo monaco; ‘o munaciello a Napoli è un’entità dai vasti poteri magici; ò parlato di entità in quanto non è dato sapere se si tratti di uno spirito o di un essere umano; nell’un caso o nell’altro detta entità è rappresentata con le sembianze che sono o di un nano mostruoso o di c.d. bambino vecchio, ed assume due personalità: quando si appalesa in una casa, o vi prende stabile dimora, se à in simpatia gli abitanti della casa,che lo abbiano accolto di buon grado, onorandolo e ammannendogli dolciumi (‘o munaciello è molto goloso!) egli arreca buona sorte e prosperità; se, al contrario prende in odio una famiglia, che non lo abbia accolto con i dovuti onori, egli le suscita guai ad iosa.Molto vaste son le testimonianze che riguardano l’apparizione di questa simpatica entità che non vi à posto per alcun dubbio sulle sue manifestazioni, che spesso sono oggetto di vivaci discussioni sul tipo di onori (lauti e dolci pasti, odorosi incensi) da tributare a questo spiritello che si mostra sotto forma di vecchio-bambino vestito col saio dei trovatelli accolti nei conventi, scarpe basse con fibbia d’argento, chierica e cappuccio.Non si lascia vedere da chiunque, ma compare d’improvviso, quando vuole ed a chi vuole(meglio però se donne in ispecie giovani e procaci) , magari portando in mano le scarpe che à tolto per non produrre rumore di calpestio Scalzo, scheletrico, spesso lascia delle monete sul luogo della sua apparizione come se volesse ripagare le persone, dello spavento procurato o di inconfessabili confidenze palpatorie che ama a volte concedersi. Vi sono due ipotesi sulla sua origine: La prima ipotesi vuole l'inizio di tutta la vicenda intorno all'anno 1445 durante il regno Aragonese. La bella Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe, si innamora di un tal Stefano Mariconda, bello quanto si vuole, ma semplice garzone di bottega. Naturalmente l'amore tra i due è fortemente contrastato. Il fato volle che tutta la storia finisse in tragedia. Stefano viene assassinato nel luogo dei loro incontri segreti mentre Caterinella si rinchiude in un convento. Ma era già da tempo incinta di Stefano ed infatti dopo pochi mesi nacque da Caterinella un bambino alquanto deforme(il Cielo talvolta fa ricadere sui figli le colpe dei genitori!...). Le suore del convento adottarono motu proprio il bambino cucendogli loro stesse vestiti simili a quelli monacali con un cappuccio per mascherare le deformità di cui il ragazzo soffriva. Fu cosí che per le strade di Napoli veniva chiamato " lu munaciello". Gli si attribuirono poteri magici fino ad arrivare alla leggenda che oggi tutti i napoletani conoscono. Anche lu munaciello morí misteriosamente., lasciando probabilmente in giro il suo bizzarro spirito. La seconda ipotesi vuole che il Munaciello altro non sia che il gestore degli antichi pozzi d'acqua che, in molti casi, erano posti al centro dei cortili domestici, quando non addirittura nel primo vano delle case, di tal che aveva facile accesso nelle case passando attraverso i cunicoli di pertinenza del pozzo. Personalmente sono maggiormente attratto dalla vicenda di Stefano e Caterinella, che mi appare piú consona ad una favola, anche perché niente osta a che ‘o munaciello anche senza esserne il gestore, si servisse dei pozzi per penetrare in casa; del resto storicamente spesso Napoli, imprendibile dalle mura, fu invasa attraverso le condutture idriche. Per comprendere la semantica che collega il n° 37 alla figura del monaco, occorre fare una piccola digressione e ricordare che a Napoli e segnatamente nella zona popolare della città bassa la comunità monastica piú nota fu quella dei francescani cosiddetti “muonece ‘e sant’Anna” che avevano il loro convento in piazza San Francesco nell’edificio che in seguito e fino a poco tempo fa ospitò gli uffici della Pretura di Napoli; ed avevano il loro edificio di culto nell’adiacente chiesa dedicata a sant’Anna donde il nome di “muonece ‘e sant’Anna” con cui la comunità monastica fu nota. Ebbene tale comunità fino a quando (tardo ‘800) non fu dispersa in altri conventi francescani contava 37 frati e fu proprio il numero 37 asignificare nella smorfia la figura del monaco. 38 – ‘E MMAZZATE/’E BBOTTE = le percosse, gli scoppi; le percosse in napoletano, come già alibi illustrai sono di varie specie ed ànno vario nome; va da sé che quelle a margine sono da ritenere onnicomprensive di tal che chi sognasse di percosse dovrebbe giocare al lotto il numero 38 quale che fosse il tipo o la specie delle percosse sognate, a meno che non si tratti di particolari percosse ben connotate da altro numero come ad es. gli schiaffi che sono 5, il pugno che è 8, il calcio che è 88. Semanticamente il 38 è accostato alle percosse per una mera questione di rima perché in origine al numero 38 era collegata la figura delle bòtte (gli scoppi) e solo successivamente gli fu affiancato per associazione mentale la figura delle percosse (mazzate); ora il termine bbòtte rima con trentotto. 39 – ‘A FUNA ‘NCANNA= la corda alla gola e cioè per sineddoche: l’impiccagione; rammenterò infatti che spesso alibi l’impiccato, in napoletano è detto appunto ‘o funancanna, con una simpatica fusione resa maschile della situazione ricordata sotto il numero a margine; funancanna fu tempo addietro uno dei nomignoli (accanto a chiappo, chiappillo e matarazzo) assegnato dai napoletani alle quattro grandi statue che adornavono una grossa fontana fatta erigire nel 1559 sul molo grande dal viceré Parafan de Rivera. Lo scultore Giovanni Merliani, cui era stata commissionata l’opera, forse effigiò nelle quattro statue i quattro grandi fiumi: Tigri, Eufrate, Gange e Nilo oppure - secondo un’altra opinione - Ebro,Reno, Danubio e Tago: i grandi fiumi dei dominii di Carlo V, ma il popolino rammentando che lí dove era stata eretta la fontana, un tempo esistevano le forche per le esecuzioni capitali,quelle stesse forche poi trasferite posteriormente, al tempo di Masaniello, in piazza Mercato assegnò alle sculture i nomi ricordati con chiaro intento di dileggio; ( per quanto riguarda l’etimo di chiappo ed il suo diminutivo chiappillo, occorre risalire al basso latino cap’lum sincope di capulum = corda, fune;quanto a matarazzo evidente voce furbesca, giocosa usata per significare persona grande e grossa tal quale il materasso, cioè il rigonfio involucro pieno di lana su cui ci si distende per riposare, è etimologicamente da collegarsi all’arabo matrah con il suffisso estensivo aceus,che in napoletano diventa azzo; per funancanna si tratta, mi pare ovvio, di altra voce furbesca per indicare l’impiccato come persona cui è stata stretta una fune alla gola; la voce è ottenuta infatti legando assieme le parole funa= fune(dal latino fune(m)) e ‘ncanna(che è: in+canna dal latino/greco kanna e questo dal semitico qaneh) dove – come vedemmo alibi con canna si intende il canale della gola); quando poi, dopo appena un secolo dalla sua costruzione il viceré Pedro Antonio d’Aragona fece smontare la fontana per spedirla a Madrid si venne a sapere che della fontana e delle sue imponenti statue s’erano perse le tracce non essendo la fontana probabilmente mai giunta a Madrid, con i nomignoli riportati o con l’onnicomprensiva espressione: i quattro del molo, si passò ad indicare una combriccola di poco commendevoli individui che avesse fatto perdere le sue tracce e non fosse piú riapparsa. Semanticamente il 39 è accostato alla figura dell’impiccato e dell’impiccagione perché graficamente, anticipando i moderni emoticon,(come accadrà pure per molti altri numeri) rappresenta sia pure fantasiosamente un corpo enfiato ed una testa con una corda pendente. 40 – ‘A PAPOSCIA = l’ernia inguinale, altrove nota con molti altri icastici nomi e tra questi rammenterò: ‘ntoscia, mellunciello,quaglia, zeppola e con altra valenza in quanto nomi non riferiti all’ernia inguinale, ma a quella scrotale o allo scroto tout court: guallera, burzone, pallera; quanto agli etimi avremo: paposcia: probabilmente da un basso latino papus= rigonfiamento a papus è aggiunto un suffisso estensivo femminile osia dal quale il si→scia come da simia derivò scigna, vesica che diede vescica; ‘ntoscia: dal greco entóshia= intestini; mellunciello riferimento giocoso al melone, la cucurbitacea chiamata in causa per la sua sfericità la medesima che ad un dipresso presenta una congrua ernia inguinale; mellunciello sta per piccolo melone e questi è dall’accusativo tardo latino melone(m), dimílo/onis, forma abbr. di melopepo/ onis, che è dal gr. mílopépon/onos, comp. di mêlon 'melo, frutto' e pépo¯n 'popone; altro riferimento giocoso è quello che chiama in causa la quaglia con la sua quasi sfericità di corpo; quaglia è dall'ant. fr. quaille, che è probabilmente da un poco attestato lat. volg. coacula(m), forse di orig. onomatopeica; ennesimo riferimento giocoso è quello che chiama in causa la zeppola per taluni di etimo incerto, per altri (Roòlfs) da un tardo latino zippula(m), e per altri da cymbula(m) che però avrebbe dovuto dare zommola; l’ultima scuola di pensiero (Jandolo) propone serpula(m) per la tipica forma a mo’ di serpe acciambellata che è della zeppola la frittella dolce guarnita di crema e marmellate d’uso a Napoli nella ricorrenza di san Giuseppe; atteso che la zeppola à proprio la forma di una ciambella, mi pare di potere aderire all’ipotesi proposta dall’ amico Jandolo, quantunque debba qui ricordare che la zeppola usata come sinonimo di ernia non sia esattamente il dolce qui rammentato ed il cui nome risulta usurpato atteso che la zeppola-ernia è piú esattamente quella che a Napoli si dice pastacrisciuta che è appunto una frittella ricavata da un semplice impasto rustico di farina acqua e livito; una volta che la pasta risulti liscia e lievitata, ne vengono presi a strappo piccoli pezzi messi a friggere in olio bollente e profondo; appena calati nell’olio bollente i pezzi ànno la particolarità friggendo di gonfiarsi ad libitum risultando tali pastecresciute dette popolarmente, ma inesattamente zeppole o zeppulelle, piú consone giusta la sfericità determinatasi in esse con la frittura, a rappresentare un’ inguinale ernia debordante e gonfia; guallera= ernia scrotale o anche scroto tout court dall’arabo wadara= ernia burzone = ugualmente ernia scrotale o anche scroto tout court il tutto ovviamente in senso ironico e giocoso, accrescitivo reso maschile (si veda il suffisso one) della voce femminile borza da un tardo latino bursa(m), dal gr. byrsa “pelle, otre di pelle”; normale il mutamento rs→rz; il medesimo senso ironico e giocoso si riscontra in pallera che indica ugualmente l’ernia scrotale , ma piú esattamente lo scroto tout court in quanto contenitore delle palle che sono – con voce triviale - i testicoli pensati sferici a guisa di sfere; il suffisso ero/a cosí come in pallera indica la pertinenza: che riguarda i/le.Anche nel caso del n°40 semanticamente occorre pensare ad un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 4 indica una smorfia di disappunto e lo 0 con la sua rotondità un’ernia gonfia a dismisura. 41 – ‘O CURTIELLO = il coltello, ma ovviamente non quello da tavola, l’innocua posata usata per mangiare, quanto l’acuminata arma bianca proditoria di punta e di taglio, a serramanico che quando sia provvista di apertura a scatto è detta mulletta che è arma di difesa, ma piú spessa d’offesa, arma che facilmente si poté reperire in mano o nelle tasche di delinquenti comuni, camorristi e/o guappi che l’usarono in alternativa con affilatissimi rasule (rasoi) , prima che ci si cominciò ad armare con piú rumorose e devastanti armi da fuoco; ‘o curtiello è voce che etimologicamente è dal lat. cultellu(m), dim. di culter coltello normale l’alternanza l→r; mulletta = coltello a serramanico, ma con apertura a scatto azionato da una piccola molla è voce che etimologicamente è appunto il diminutivo di molla deverbale di mollare in quanto atto a rilasciare. rasulo = rasoio è voce che etimologicamente è dal latino rasorium che diede rasoru donde per dissimilazione della seconda r→l il napoletano rasulo. Come per il precedente numero 40, anche nel caso del n°41 semanticamente occorre pensare ad un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 4 indica ancóra una volta una smorfia di disappunto e l’1 un’acuminata lama di coltello pericolosamente inastata 42 – ‘O CCAFÈ = il caffè, ma in quanto bevanda pronta da degustare, o chicchi o polvere per approntare la detta bevanda; si noti infatti che in napoletano esistono delle voci che possono avere una doppia forma grafica: o con la geminazione della consonante d’avvio o con la consonante scempia; quando la grafia e quindi la lettura di tipo forte presenta la geminazione iniziale, ci si trova difronte ad una voce neutra e solitamente son voci che si riferiscono a generi alimentari o inanimati ovvero che non contemplano l’intervento umano (ad. es.: ‘o ccafè, ‘o ppane, ‘o ssale, ‘o ppepe, ‘o ffierro(inteso come metallo); spesso invece una medesima voce può presentarsi con una consonante d’avvio scempia ed in tal caso cambia di significato (ad es.: ‘o cafè =mescita o negozio dove viene servita la relativa bevanda, ‘o fierro (inteso come attrezzo da lavoro o utensile domestico) o ancora ‘o russo (uno con i capelli fulvi) e ‘o rrusso (il colore rosso e per traslato: il sangue; in base a tale argomentare risulta chiaro che la voce a margine ‘o ccafé debba intendersi come bevanda e non come mescita o negozio; comunque ambedue ‘o ccafè e ‘o cafè etimologicamente sono dal turco kahve, e questo dall'ar. qahwa, orig. bevanda eccitante'. Per venire a capo del perché al n°42 è associato la figura del caffé, quale bevanda tonica, eccitante e per certi versi festosa occorre pensare che il 42 è il doppio di 21 che figura la donna nuda, soggetto eccitante e per certi versi festoso e quanto piú tonica, eccitante e per certi versi festosa è da considerarsi la bevanda di caffé che del 21 rappresenta il doppio! 43 – ‘ONNA PÉRETA FORA Ô BARCONE = letteralmente donna Pereta fuori (affacciata) al balcone; ci troviamo dinnanzi ad una locuzione usata con divertente immagine per mettere alla berlina una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale, soprattutto quando tale donna le sue pessime qualità faccia di tutto per metterle in mostra appalesandole a guisa di biancheria esposta al balcone; tale tipo di donna è detto péreta, soprattutto quando quelle sue pessime qualità la donna le inalberi e le metta ostentatamente in mostra; le ragioni di questo nome sono facilmente intuibili laddove si ponga mente che il termine péreta(nella locuzione a margine usata per dileggio quasi come nome proprio di persona) è il femminile ricostruito di pireto (dal b. lat.:peditu(m)) cioè: peto, scorreggia che sono manifestazioni viscerali rumorose rispetto alla corrispondente loffa (probabilmente dal tedesco loft= aria) fetida manifestazione viscerale silenziosa, ma olfattivamente tremenda. Altrove quella donna becera, sguaiata, volgare e sfrontata è detta, volta volta:locena o anche lumera e/o lume a ggiorno; locena: che nel suo precipuo significato di vile, scadente è forgiato come il toscano ocio ed il successivo locio (dove è evidente l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia e successiva locina con consueta epentesi di una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a locena; lumera = esattamente lume a gas e lume a ggiorno =lume a petrolio atteso che una donna becera e volgare abbia nel suo quotidiano costume l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumera) o di quello a petrolio ( lume a giorno) ambedue altresí maleolenti tali quale una pereta.Con il numero in esame è anche indicata la campana che semanticamente facilmente si raccosta alla donna Pereta fuori (affacciata) al balcone in quanto ambedue si appalesano rumorosamente. , anche nel caso del n°43 semanticamente occorre pensare ad un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 4 indica ancóra una volta una smorfia di laido disappunto ed il 3 che l’accompagna il prominente petto della donna che si mette in mostra al balcone. 44 – ‘E CCANCELLE e cioè le carceri; la voce plurale a margine, femminile va riferita come la maschile ‘e cancielle ambedue alla voce singolare neutra canciello= cancello indicante la /le inferriate: protezioni astate in ferro, canciello è etimologicamente un diminutivo attraverso il suff. iello di un cancer latino = graticcio; nel parlato popolare l’originario neutro singolare canciello produsse due plurali: uno maschile ‘e cancielle = inferriate, cancellate ed uno femminile ‘e ccancelle, femminile che comporta al solito la geminazione della consonante d’avvio, plurale femminile che venne usato esclusivamente per indicare le carceri, le prigioni, partendo dall’osservazione che le prigioni son appunto provviste, per solito di robusti cancelli. Per venire a capo del perché al n°44 è associato la figura delle cancellate apposte alle finestre d’un carcere, basta riflettere che usando le due mani atteggiate ad indicare ognuna un quattro, sovrapponendo le dita della mano destra a quelle della sinistra si ottiene proprio ad un dipresso la forma di una grata in tutto simile a quella della finestra d’ una prigione! 45 – ‘O VINO BBUONO = il vino buono; nell’immaginario popolare partenopeo, frutto di antica tradizione contadina, una figura di preminenza forte, tale da essere considerato pure nel libro dei sogni, è quella del vino, gustosa e sacrale bevanda (non dimentichiamo che Cristo lo trasformò nel Suo Sangue! ) bevanda che va da sé debba essere buona, non potendosi prendere in seria considerazione una bevanda che sia una ciofeca (dall’arabo šafèq che in arabo indica appunto un liquido, una bevanda corrotta o piú estensivamente tutto il cattivo delle cose, di qualità inferiore, di scarto, di nessun valore); etimologicamente vino è dal latino vinum e bbuono dal latino bonum; Per comprendere perché al n°45 è associato la festosa figura del vino buono basta riflettere che il numero 45 è formato dall’addizione del 20 (‘a festa) e del 25 ( festività del Natale) ed è proprio durante le festività che si è soliti accompagnare la festa con bevute di vino buono e non di scarto memori del détto: Quann’uno s’ à dda ‘mbriacà è mmeglio ca ‘o ffa cu ‘o vino bbuono!(Se uno intende ubriacarsi, è opportuno lo faccia con il vino buono). 46 – ‘E SORDE – ‘E DENARE = i soldi e segnatamente le monete sonanti intesi nella loro genericità ; infatti in napoletano esistono – come già ebbi modo di chiarire altrove - numerosissimi vocaboli ad òc per indicare i varî tipi di monete o soldi, addirittura tali voci pare siano quasi sessanta, per cui qui non mi dilungo segnalando solo l’etimo di sordo/e che è da un acc. latino solidum =nome di una moneta d'oro romana dell'età imperiale → soldum→soldo→ sordo, mentre denaro/e viene dal lat. denariu(m) (nummum), propr. moneta da dieci, deriv. di díni a dieci a dieci; Per comprendere perché al n°46 è associato la figura del danaro occorre pensare al fatto che il numero cui è associato è formato dall’accostamento d’ un 4con un 6 (cfr. antea) e servendosi non di uno, ma di quattro 6 o meglio di ciò ch’esso rappresenta, si possono ottenere lauti guadagni cioè danari. 47 – ‘O MUORTO = il morto (ma rammentato da vivo) e segnatamente un familiare defunto, magari da poco tempo, familiare che per essere probabilmente molto amato ed affettuosamente ricordato, viene facilmente richiamato nella fantasia onirica di parenti o amici;muorto etimologicamente è part. passato del latino volgare morire collaterale del classico mori, è voce che spesso nel parlato napoletano viene addizionato, nelle tipiche iperboli del napoletano, di uno specificativo, come ad es.: muorto ‘e famma ( morto di fame che sta per molto affamato) muorto ‘e suonno, ‘e sete etc. (morto di sonno, di sete nel senso di molto assonnato, molto assetato) cioè a dire: tanto affamato,assonnato,assetanto da, addirittura, sia pure solo a parole, morirne; anche nel caso del n°47 semanticamente occorre pensare ad un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 4 indica ancóra una volta una smorfia di triste disappunto ed il 7 che l’accompagna il vadavere d’ un soggetto disteso con i piedi sollevati. 48 – ‘O MUORTO CA PARLA = il morto che parla; questa volta con il numero a margine si significa non un morto, sognato nelle sue manifestazioni da vivo, quanto il defunto cui ò fatto cenno al numero precedente, ricordato o sognato allorché da morto parli e si manifesti esprimendo concetti e consigli a pro del sognatore; si tratta ovviamente di una assurdità: nessun morto può da morto esprimersi e formulare pensieri; ma nell’àmbito dell’onirico tutto è possibile: anche un morto che parli; parla voce verbale (ind. pres. 3° pers. sing.) del verbo parlà/parlare dal lat. volg. parabolare (con sincope delle sillaba bo) deriv. di parabola parabola, poi discorso, parola;rammenterò che un film del 1950 interpretato dal famosissimo A. De Curtis (Totò) fu intitolato in modo – solo apparentemente errato: 47, morto che parla; ò detto apparentemente perché il film trattava le vicende non di un morto che da morto parlasse in sogno, ma di un vivo che – fingendosi morto – parlava ed agiva nel sogno. Come per il precedente n°47, anche per il 48 semanticamente occorre pensare ancóra ad un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 4 indica ancóra una volta una smorfia di triste disappunto mentre l’8 che l’accompagna sta per la bocca aperta nell’atto del parlare del precedente defunto disteso. 49 – ‘O PIEZZO ‘E CARNE = letteralmente è il pezzo di carne, ma in realtà non ci troviamo a trattare di argomento da macelleria; infatti il pezzo di carne a margine fa riferimento, senza remore o falsi pudori, al prosperoso e procace corpo di una donna , offerto senza reticenze a gli altrui sensi! Rammenterò che in napoletano la voce piezzo che etimologicamente è un derivato di pezza da un lat. volg. pettia(m), di origine celtica con metaplasmo (nella grammatica tradizionale, qualunque alterazione formale che subiscano le parole nella loro struttura abituale) e cambio di genere, oltre ad indicare un pezzo, una particella di qualcosa,è talvolta usata, come nel caso a margine, quando sia seguita da uno specificativo, quasi in senso antifrastico per significare una gran quantità di qualcosa o una gran sovrabbondanza o prestanza fisica come ad es. ‘nu piezzo d’ommo che sta per un uomo grande e grosso o ad es.: ‘nu piezzo ‘e scemo che sta per un grosso stupido e cosí via. quanto al termine carne dal pacifico etimo latino carne(m) non mette conto aggiunger altro, avendo già chiarito che quella dell’espressione a margine rapprenta l’intero procace corpo di una donna ed estensivamente la donna tout court. anche per il 49 semanticamente ci troviamo nuovamente nell’àmbito di un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 4 indica questa volta una smorfia di laido godimento mentre il 9 che l’accompagna sta ad indicare il prosperoso corpo della donna con un suo foro di pertinenza. 50 – ‘O PPANE = il pane; sotto questo numero viene ricordata una delle figure piú comuni e piú ricorrenti nei sogni del popolino partenopeo e cioè quell’imprescindibile,sacro alimento (trasformato da Cristo nel Suo Corpo!) dell’uomo; tale alimento ricorre nei sogni nelle piú varie forme o pezzature, corrispondenti a quelle normalmente in uso a Napoli e si avrà perciò ‘o paniello o ‘a panella (etimologicamente dal latino panis + i suffissi di genere iello o ella ) ambedue: ampia pagnotta rotondeggiante di ca 1 kg. avremo altresí ‘o palatone (grosso filone di ca 2 kg., bastevole al fabbisogno giornaliero di una famiglia numerosa, il suo nome gli deriva dal fatto che al momento di infornarlo, detto filone occupava per intero la lunga pala usata alla bisogna; la palata è invece il filone il cui peso non eccede 1 kg. ed occupava la metà della pala per infornare; un quarto o meno della pala occupavano le c.d. palatelle (piccoli filoncini da 500 o 250 gr.) per ciò che attiene all’àmbito linguistico rammenterò che ‘o ppane (etimologicamente dal latino pane(m) ) è un alimento e come tale di genere neutro, ciò che comporta una grafia con la geminazione della consonante d’avvio: ‘o ppane e non ‘o pane. Semanticamente il 50 è accostato al pane perché il cinquanta fu inteso la metà d’un pensato chilogrammo e sta cioè per cinquecento grammi che fu il peso del filone di pane che un adulto poteva consumare in una giornata. 51 – ‘O CIARDINO o ‘O CIARDENIELLO; di per sé le voci significherebbero il giardino o il piccolo giardino; etimologicamente ciardino ed il suo diminutivo (vedi suff. iello) ciardeniello vengono dall’antico francese jardain con passaggio dalla sonora gi alla sorda ci come altrove nel napoletano dove si à ad es.: Calibbarde in luogo di Garibaldi etc. Ò usato il condizionale significherebbero in quanto nell’immaginario dei sognanti partenopei con la voce ciardino e piú ancora con il diminutivo ciardeniello si suole indicare con traslato furbesco e forse impudico, piú che il fronzuto appezzamento di terreno in cui si coltivano fiori e piante ornamentali, un giovane irsuto pube femminile, come suggerisce anche la rappresentazione grafica del numero che semanticamente è riconducibile al pube femminile con i riccioluti peli rappresentati dal 5 e la fenditura rappresentata dall’ 1. 52 – ‘A MAMMA o MAMMÀ = la mamma, l’essere piú caro specialmente ai soggetti maschili, essere che come tale non poteva assolutamente mancare nell’elenco dei soggetti, oggetti o situazioni sognabili; ed è tanto presente nell’immaginario partenopeo da assegnarle due identificativi: ‘a mamma (etimologicamente dal lat. mamma(m) mammella, poppa e nel linguaggio infantile mamma) voce che appare però piú asettica o meno partecipativa della successiva mammà (etimologicamente dal franc. maman ) che pur essendo voce essenzialmente regionale, usata sempre senza articolo, appare piú coinvolgente emotivamente rispetto alla toscana mamma. Semanticamente il 52 è accostato alla mamma perché esso è formato dall’accostamento tra il numero 5 (cfr. antea: la mano, qui intesa protettiva) ed il numero 2 (cfr. antea: la bambina, qui accompagnata da una protettiva mano che è propria della mamma). 53 – ‘O VIECCHIO o anche ‘O VICCHIARIELLO = il vecchietto; altra figura emblematica che non poteva mancare nella smorfia dei napoletani da sempre adusi a tenere in alta considerazione chi si porti il carico di molti anni, sia che si tratti di familiari (genitori, nonni, zii) sia che ci si riferisca ad estranei con i quali si abbia un sia pure fugace contatto di vita, piú o meno quotidiano al segno che nella smormia il soggetto è indicato con una doppia voce: ‘o viecchio (la persona anziana che si trovi negli ultimi anni di vita) voce che deriva da un basso latinoveclu(m),collaterale del class. vetulu(m), dim. di ve°tus 'vecchio'voce che è però molto fredda e quasi anodina, rispetto alla successiva vicchiariello ( diminutivo, vezzeggiativo della pregressa viecchio) usata piúaffettuosamente per indicare l’anziano di famiglia, voce che per sottolinearne l’uso piú partecipativo viene quasi sempre accompagnata dal possessivo mio: del proprio genitore s’usa dire infatti: ‘o vicchiariello mio! Anche per il 53 semanticamente ci troviamo nuovamente nell’àmbito di un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente, sia il 5 che il 3 che l’accompagna con le loro curve e tratti angolosi suggeriscono l’idea di un individuo che ormai à raggiunto un’età in cui il corpo comincia ad avere problemi di postura o di artrosi anche deformante. 54 – ‘O CAPPIELLO = letteralmente il cappello, ma in senso generico, indifferentemente da uomo o da donna, un qualsivoglia copricapo composto da una cupola o cupolino e da una tesa o falda piú o meno pronunciata, quell’oggetto il cui nome viene da un tardo latino cappellu(m) doppio diminutivo maschile di cappa= copricapo e dunque un qualunque copricapo alto o basso di feltro o di felpa, quella felpa (tessuto pesante per confezionare cappelli rigidi) il cui accrescitivo maschile : felpone diede la voce ferbone che indicò qualsiasi proditorio proiettile lanciato dagli scugnizzi sul finire del 1800 contro gli uomini che indossassero alti e rigidi copricapi, allo scopo di dileggiarli, facendo loro cascare il cappello, quel medesimo generico copricapo cui si fa riferimento nella nota frase partenopea: Àccepe cappiello! (riproducente il latino: Accipe cappellum id est: Prendi il cappello (e tira via!) usata a mo’ di canzonatura rivolta dal vincitore al perdente al termine di una gara o tenzone, quasi per dirgli: Ài perduto… Non à piú senso che tu stia qui: prendiil tuo cappello e vattene! Aggiungerò che l’oggetto a margine è uno di quegli oggetti elencati nella smorfia con numerosi numeri, secondo il tipo o la specie; ne rammento alcuni: – 53 cappello bianco – 57,cappello del papa, camauro -70, capp. vescovile -61, capp. cardinalizio – 62, capp. da prete – 3, cappello alto e bordato – 63, da donna con penne 27(si noti l’irrisione: come specificai con il medesimo num. 27 è elencato il pitale, appaiato qui ad un cappello da donna probabilmente di foggia cilindrica, la stesso d’’o cantero, pitale…), capp. da ragazzo – 58, da cafone -64, da militare generico – 82, capp. di paglia, paglietta – 36, capp. incerato, da pioggia – 39,di seta – 67, con fiori – 10,stracciato – 37, da contadino calabrese -19, da bandito – 36, gibus (che è il cappello a cilindro provvisto di molle che permettono di ripiegarlo e appiattirlo, usato un tempo nell'abbigliamento maschile da sera, e che deriva il suo nome dal fr. gibus, dal cognome del cappellaio Gibus che lo inventò nel 1834). Anche per il 54 semanticamente ci troviamo nuovamente nell’àmbito di un accostamento di tipo fantasioso in quanto graficamente,il 5 indica un voluminoso cappello da donna ricco di piume o merletti, mentre il 4 che gli tiene dietro sta per una smorfia di disappunto di una donna probabilmente non contenta di indossarlo! 55 – ‘A MUSECA cioè la musica, con particolare riferimento non a quella eseguita da musicisti professionisti al chiuso di teatri, ma a quella gioiosa delle feste popolari eseguita da musicanti improvvisati, all’aperto, con rumorosi strumenti a fiato e/o percussione, quelli stessi che elencai alibi sub STRUMENTI POPOLARI NAPOLETANI ed a cui rimando, per evitare di dilungarmi ripetendomi qui; la voce museca etimologicamente è dal lat. musica(m) (arte(m), che è dal gr. mousiké (téchní); (propr. 'arte delle Muse).Semanticamente è inteso figura della musica in quanto il 55 è reiterazione del 5 (cfr. antea: la mano) e richiama appunto il numero di mani ( 2) da usare per generare la musica soprattutto con gli strumenti a percussione. 56 – ‘A CARUTA e cioè la caduta, quell’inopinato accadimento, che quando avviene, se non procura in chi lo subisce gravi danni, muove spessissimo al riso, in ispecie quando detta caduta è goffa e repentina, soprattutto quando chi cada sia persona grossa e/o grassa e se donna metta in mostra nascoste grazie; alla stessa categoria che muove al riso attiene la c.d. sciuliata (che è l’atto dello scivolare ricordato però sotto il numero 68) tanto piú divertente quando alla sciuliata faccia seguito una plateale caruta; quanto agli etimi, caruta è un part. pass. femminile sostantivato, con tipica mutazione d’area osco-mediterranea della d→r, ed occorre risalire al lat. volg. cadíre, per il class. cadere; mentre sciuliata risulta essere anch’essa un part. pass. femminile sostantivato dal lat. volg. exevolare attraverso una forma frequentativa exevoliare. Anche per il 56 semanticamente ci troviamo nuovamente nell’àmbito di un accostamento di tipo fantasioso in quanto questa volta la figura che rappresenta (la caduta) non è intesa in senso reale, ma in quello metaforico e graficamente,il 5 indica un uccello (come antea per il 35), ma questa volta figurato , mentre il 6 che gli tiene dietro sta per quel che esso indica antea (cfr. sub 6); l’unione del traslato uccello con il 6 nel significato noto, porta per l’appunto a rammentare una metaforica caduta indicata con il 56. 57 – ‘O SCARTELLATO/IL BUFFONE cioè il gobbo/il buffone di corte figura emblematiche dell’immaginario partenopeo ritenute portabuono; ricorderò che si sta parlando dello scartellato e cioè di un uomo affetto da una gobba posteriore quella che è detta scartiello (etimologicamente da un basso latino cartellu(m)=cesta, gerla con tipica prostesi della s intensiva partenopea; al contrario, se si sognasse di una donna provvista di scartiello ci troveremmo davanti ad una scartellata, figura decisamente negativa: se lo scartellato porta buono, la scartellata porta male, anzi malissimo; rammenterò in chiusura che qualora si sogni di un uomo che porti la sua gobba non sulle spalle, fra le scapole, ma sul davanti sullo sterno, non potremmo piú parlare di scartiello, ma dovremo parlare di bauglio ( che è dallo spagnolo bahúl da un basso latino bajulare=portare) e chi sognasse di un portatore di gobba pettorale (bauglio) non potrebbe piú giocare il numero 57, che fa riferimento allo scartiello posteriore e dovrebbe indirizzare le proprie preferenze per il giuoco al num. 75 che è il num. 57 lètto in maniera voltata, come voltata è la gobba non piú posizionata sulle spalle, ma sul davanti del gobbo. Anche per il 57 semanticamente occorre parlare di accostamento di tipo fantasioso in quanto questa volta la figura della gobba è rappresentata dall’accostamento del 5 che qui un grasso signore corredato di una gobba rappresentata dall’angolo del numero 1 che tiene dietro al 5. 58 – ‘O PACCOTTO che è esattamente il grosso pacco,l’ involto di qualsiasi merce confezionata e sistemata ben stretta e legata per un agevole asporto; con il medesimo termine però in senso traslato furbesco e scherzoso si intende anche un vasto, prosperoso deretano muliebre(altrove detto pure culo a buttiglione o a purtera) inviluppato in ampi ed eccessivi vestiti tali da fare apparire il detto culo merce confezionata in grosso pacco pronta per l’asporto; la voce paccotto è etimologicamente da collegarsi al greco paktòs deverbale di pegnýô=comporre, compattare. Semanticamente il 58 è accostato al grosso pacco per una mera questione di rima 59 – ‘E PILE - i peli e segnatamente i capelli o quelli che ricoprono irsuti ed abbondanti un prestante torace d’un giovane uomo, peli intesi come simbolo di rigogliosa forza e giovinezza e come tali accolti nel libro dei sogni napoletani nel quale le manifestazioni della giovinezza son sempre tenute in gran considerazione;(non dimentichiamo la storiella biblica di Sansone che aveva nelle chiome l’origine della sua forza; i partenopei, gran parte della loro cultura di fondo la devono a greci,osci, arabi, ebrei dai quali mutuarono parecchie idee e concezioni filosofiche, ma pure credenze e norme comportamentali); etimologicamente ‘e pile plurale di ‘o pilo è dal latino pilu(m) parallelo al greco pïlos. Anche per il numero 59 accostato ai peli, semanticamente occorre parlare di un avvicinamento di tipo fantasioso in quanto questa volta la figura dei peli è rappresentata dall’accostamento del 5 inteso come l’ irsuta villosità d’ un petto maschile adombrato nella rotondità del nove che tiene dietro al 5. 60 – ‘O LAMIENTO o SE LAGNA – letteralmente il lamento, la lagnanza o si lagna (lamenti e lagne tipici della donna) ed ovviamente si tratta di lamenti o lagnanze ben motivati, conseguenze di un dolore provato, o di una vicissitudine subíta; sono escluse dalle voci a margine quelle fastidiose, pretestuose impuntature o capricci, richieste immotivati dei bambini che producono antipatiche lamentele che vanno sotto il nome di ‘nzirie per la cui etimologia, scartati gli inconferenti latini: insidiae ed in-ira, penso si possa risalire non al greco sun-eris che ad litteram è con dissidio,che m’appare esorbitante rispetto alla consistenza della ‘nziria, ma al lat. in-sideo = sto su, mi soffermo, insisto giusta i contrasti insistenti ed astiosi tipici delle ‘nzirie dei bambini; per l’etimo di ‘o lamiento occorre riferirsi al latino lamentu(m) mentre per quello della voce verbale se lagna del verbo lagnarse occorre pensare ad un tardo latino: laniare se = dilaniarsi per il dolore. Anche per il numero 60 accostato ai lamenti e/o lagne muliebri , semanticamente occorre parlare di un avvicinamento di tipo fantasioso in quanto questa volta nel numero 60 si può riconoscere nel 6 (cfr. antea: organo femminile) la donna còlta nel momento del lamento rappresentato dallo 0 che tiene dietro al 6 adombrando una bocca spalancata nell’atto del lamento. (segue)Brak