giovedì 31 luglio 2014
LA ELISIONE DELLA VOCALE I DI CI
LA ELISIONE DELLA VOCALE I DI CI
Dacché è apparso sulla scena politica il sedicente dottor Tonino Di Pietro ex magistrato, che spesso è in litigio con la lingua italiana, non passa giorno che nelle sue esternazioni in piazza, parlamento o televisione non usi un suo tormentone che si sostanzia nell’espressione dialettale: “Che ci azzecca?” domanda retorica da intendersi: Non ci son punti di contatto tra i fatti di cui si parla! Ora fin quando si tratta di ascoltarlo, nulla quaestio; il suono favorisce l’intendimento di quel ci azzecca che perviene all’orecchio correttamente come un ciazzecca. Il problema è sorto quando i giornalisti o altre persone, al pari d’essi probabilmente non molto versati nella lingua italiana, ànno voluto mutuare l’espressione e riportarla per iscritto. Per usare l’icastico idioma napoletano, songo jute dint’ê chiavette (son finiti nel difficile) incorrendo molti di loro nello svarione di apostrofare l’espressione ottenendo in luogo del “Che ci azzecca?” uno scorretto “Che c’azzecca? da leggersi che cazzecca ” Il guaio è che non contenti d’usare l’errore riportando l’espressione del molisano, si sono innamorati di quella locuzione al segno di usarla continuamente in altri contesti disseminando i loro scritti di strafalcioni.
Vorrei perciò rammentare a tutti costoro una regoletta grammaticale che - per esser buoni - mostrano d’aver dimenticato, se non – se siamo cattivi – di non aver mai appreso. La regoletta è la seguente: è buona norma elidere la i solo davanti ad altra i ed a mio avviso sarebbe piú elegante addirittura evitare sempre tale elisione ; in particolare la vocale i di ci si può elidere solo davanti ad altra i oppure davanti alla e e tale elisione è corretta poi che comunque la consonante (c) d’accompagnamento continua a mantenere il suo suono palatale favorito dalla vocale (e) non genera un suono gutturale come invece avviene per l’ impossibile elisione della i di ci davanti a, o,u (cfr. ci è →c’è che si legge ce (di celebre), mentre non si può elidere la i di ci abbiamo perché c’abbiamo si legge o leggerebbe cabbiamo,con il suono gutturale del ca (di casa) e non si può elidere la i di ci ostacolano perché c’ostacolano si legge o leggerebbe costacolano, con il suono gutturale del co (di cosa) né perciò può essere elisa la i di ci azzecca perché c’azzecca si legge o leggerebbe cazzecca, con il suono gutturale del ca (di casa) né si può elidere, sempre per esempio, la i di ci usano perché c’usano si legge o leggerebbe cúsano o cusàno, con il suono gutturale del cu (di custodia).Ovviamente per la stessa regoletta non può essere elisa (come invece m’è spesso occorso di leggere…) la i di ci ho oppure, come preferisco,di ci ò perché c’ho/c’ò si leggerebbero cò con il suono gutturale del co (di cosa) e non come è corretto leggere ciò con il suono palatale di ciondolo.Va da sé che il problema non si pone per la i di altri digrammi (ti – di – si) per i quale l’elisione della i è sempre consentita davanti a tutte le vocali, atteso che non si generano mutamento di timbro dei suoni consonantici. In conclusione mi perdonerete se dico che o i giornalisti e quanti altri mettono penna in carta si rassegnano ad imparare la grammatica o son destinati ad incorrere in sesquipedali brutte figure elidendo l’espressione dipietrina ed altre similari.
Tanto dovevo!
R.Bracale Brak
LA PREPOSIZIONE DA E LE SUE VOCI OMOFONE NEL NAPOLETANO
LA PREPOSIZIONE DA E LE SUE VOCI OMOFONE NEL NAPOLETANO
Questa volta sono state alcune care amiche/lettrici di cui i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome: B.G., C.A.,L.T. e D.R. a chiedermi di suggerir loro quale sia – a mio parere – il modo piú esatto di render graficamente nel napoletano la preposizione da e le sue voci omofone. Premesso che tra gli addetti ai lavori e tra gli appassionati non vi sono identità di vedute cercherò di difendere il mio modo di veder la faccenda, illustrando il piú compiutamente possibile le voci che ci occupano e che sono:
da/’a (preposizione semplice), dâ(preposizione articolata dalla), dà(voce verbale 3ª pers. sg. dell’ind. pr. dell’infinito dare) dá (voce verbale infinito apocopato di dare), da’ (voce verbale 2ª pers. sg. imperativo dell’infinito dare). Esaminiamo le singole voci:
DA/’A prep. semplice [si unisce agli art. determ. ‘o =il,lo,’a =la, ‘e =i, gli, le formando le prep. articolate dal, dallo, dalla, dai, dagli, dalle per le quali propongo e caldeggio la grafia agglutinata dô, dâ,dê piuttosto che le usuali d’ ‘o,d’’a, d’ ‘e che possono confondersi con le omofone d’ ‘o = del,d’’a= della d’ ‘e =delle ;in molti casi si usa nella forma aferizzata ‘a che in ogni caso non à soppiantato del tutto la morfologia originaria da]
1 introduce un moto da luogo (anche in senso fig.): ‘o treno è ppartuto ‘a Roma, s’è trasferuto da ll’America a ll’Airopa; è asciuta dô magazzino; è stato prumossa dâ siconna â terza classe; cuntà da uno a ddiece [il treno è partito da Roma; trasferirsi dall'America all’ Europa; è uscita dal negozio; è stata promossa dalla seconda alla terza classe; contare da uno a dieci;]
2 esprime allontanamento: staccà ‘o lietto dâ porta;ô prossimo viculo ascimmo dô corso [staccare il letto dalla porta; al prossimo vicolo usciremo dal Corso] | separazione, distacco: ‘e muntagne ce spartono dô mare; campavano luntane ll’uno ‘a ll’ato [le montagne ci dividono dal mare; vivevano lontani uno dall'altro]; | origine o provenienza: santa Caterina da Siena; pruvene’a ‘na famiglia nobbele [discende da una famiglia illustre]; sapettemo ‘a nutizzia da ‘e ggiurnale [apprendemmo la notizia dai giornali] | distanza: da lla a Milano so’ sule vinte chilometre [da lí a Milano sono solo 20 km]; | in dipendenza da taluni verbi, in correlazione con a, indica quantità approssimativa: pesa dê quaranta ê cinquanta chile; tène da ‘e trenta a trentacinch’anne [peserà dai quaranta ai cinquanta chili; avrà da trenta a trentacinque anni] ' dopo verbi che indicano 'difesa, protezione': guardarse da ‘e nemice; arreparase dô friddo [guardarsi dai nemici; proteggersi dal freddo]
3 con il verbo al passivo introduce l'agente o la causa efficiente:chello ca facette fuje disprezzato ‘a tutte quante; ‘a porta fuje sbattuta dô viento [ciò che fece fu disprezzato da tutti; la porta fu sbattuta dal vento | con valore di semplice causa:tremmà dô friddo [tremare dal freddo];
4 con significato temporale, indica il momento o l'epoca, l'età in cui à avuto inizio un'azione o una situazione si è determinata: campammo cca da paricchi anne; è dda Natale ca nun aggio cchiú nutizzie soje; ll’aspetto ‘a n’ora; da quanno è ppartuto è ppassato assaje tiempo. [viviamo qui da diversi anni; è da Natale che non ò piú sue notizie; l'aspetto da un'ora; è passato molto tempo da quando è partito]
5 nella morfologia a dd’ ‘o/a dd’ ‘a/ a dd’ ‘e unita a nomi propri di persona, a pronomi che si riferiscono a persona, a nomi che indicano mestiere, professione, condizione, grado, relazione di parentela, di amicizia, di lavoro e sim., introduce uno stato in luogo, per lo piú con il valore di 'presso': fermarse a ddurmí a dd’ ‘o zio; ‘ncuntrarse a dd’ ‘o nutaro[fermarsi a dormire dallo zio; incontrarsi dal notaio; | in nomi di ristoranti, bar o altri esercizi commerciali: Tratturia a dd’ ‘a Berzagliera [Trattoria dalla Bersagliera];
6 seguita dagli stessi elementi lessicali indicati al punto precedente e in dipendenza da verbi di movimento, esprime moto a luogo: vaco a dd’ ‘o miereco; arrive a dd’ ‘a figlia ‘nserata; saglio n’attimo a dd’ ‘o nonno [vado dal medico; arriverà dalla figlia in serata; salirò un attimo dal nonno]
7 in dipendenza da verbi che esprimono transito, passaggio, stabilisce un moto per luogo, talvolta sottintendendo un attraversamento con sosta: passà dâ fenesta, dô curtiglio; ô ritorno passajemo a dd’ ‘a zia[passare dalla finestra, dal cortile; al ritorno passammo dalla zia];
8 con valore variamente modale: aggí ‘a disgrazziato; vivere ‘a rre;cumpurtarse da amico;[agire da lestofante; vivere da re; comportarsi da amico]; apparentemente modale, in realtà in funzione rafforzativa:faccio da sulo; pigliatello ‘a ppe tte; [faccio da solo; prenditelo da te]; | con sfumatura di limitazione: cecato ‘a n’uocchio, zuoppo ‘a ‘nu pede[cieco da un occhio; zoppo da un piede]
9 esprime una qualità, una caratteristica:’na guagliona dâ faccia allera; n’ommo dâ capa fresca [una ragazza dal volto ilare; un uomo dall’indole spensierata] | una stima, un prezzo, una misura: ‘na pazziella da pochi llire; ‘na lampadina da ciento cannele [un giocattolo da pochi soldi; una lampadina da cento candele]
10 con valore di mezzo: fuje ricunusciuto dê passe; dô culore se capisce ca è perduto.[fu riconosciuto dai passi; dal colore si capisce che è marcio]
11 in talune locuzioni à funzione attributiva(anche se piú spesso le si preferisce la preposizione de/’e): carta da bbollo [carta da bollo]; festa ‘e ballo;stanza ‘e pranzo [ festa da ballo; stanza da pranzo]
12 in funzione predicativa: ll’âmmu trattato da amice [li abbiamo trattati da amici] | appositiva: Ciccio da ggiuvinotto campava a Milano [Francesco da giovane viveva a Milano]
13 seguita da un verbo all'infinito à valore consecutivo o finale: era accussí stracquo da nun capí cchiú nniente;damme ‘nu libbro ‘a leggere;ce sta niente ‘a vevere?[era tanto stanco da non capire più nulla; dammi un libro da leggere; c'è nulla da bere?] | a malgrado sia oggi accettato, aborro e sconsiglio l'uso di da seguito da infinito in locuzioni nelle quali in realtà il termine da cui la preposizione dipende non è l'oggetto dell'azione espressa dal verbo: machina ‘a scrivere, ‘a cósere[macchina da scrivere, da cucire], in luogo del corretto ed esatto pe scrivere, pe cósere [per scrivere, per cucire] | seguita da infinito presente, con valore di 'dovere, necessità': ‘na cosa ‘a farse a fforza[una cosa da fare necessariamente];| in frasi negative o indefinite, con funzione non dissimile dal caso precedente: nun ce sta niente ‘a dicere, niente ‘a fà[non c'è nulla da dire, nulla da fare]
14 concorre alla formazione di varie loc. avverbiali: da luntano, da vicino, da parte a pparte [da lontano; da vicino, da parte a parte]; | loc. prepositive: da cca, da lla; [di qua, di là].
[ Etimologicamente è voce dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc.]
A questo punto è necessario ch’io precisi che ciò che ò scritto circa la presenza nel napoletano della preposizione da/’a è dovuto ad un ripensamento (dovuto ad ulteriori ricerche fatte) rispetto a ciò che un tempo scrissi alibi e cioè che “è pur vero che in napoletano non esiste graficamente la preposizione da (che in napoletano è sempre ‘a= da) per cui non essendovi possibilità di confusione fra voci omofone la voce verbale 3ª p.s. indicativo pres. potrebbe anche scriversi tranquillamente da evitando un pleonastico accento sulla a (dà)”; mi pento di ciò che precipitosamente scrissi e ne chiedo venia ai miei ventiquattro lettori, ma solo gli sciocchi o i fessi non si ravvedono o cambiano idea! Tanto precisato andiamo oltre.
DÂ = preposizione articolata corrispondente alla preposizione dalla dell’italiano in tutte le sue funzioni ed accezioni; morfologicamente è formata dall’agglutinazione di da +l’articolo ‘a analogamente alla prep. art. â formata dall’agglutinazione di a +l’articolo ‘a ed è la forma che preferisco atteso che l’usata d’ ‘a potrebbe ingenerar confusione con l’omografa d’ ‘a = della.
DÀ = dà(voce verbale 3ª pers. sg. dell’ind. pr. dell’infinito dare) etimologicamente dal lat. da-t; il segno diacritico dell’accento non è etimologico, ma necessario per distinguere la voce a margine dall’omofona da preposizione (cfr. antea)
DÁ = dare(voce verbale infinito apocopato di dare) graficamente molti, piú che accentare la voce, preferiscono apocoparla in da(re)→da’ ; il sottoscritto pur sapendo e rammentando che allorché viene apocopata della sillaba finale una parola che lascia come residuo un monosillabo détto monosillabo potrebbe benissimo segnarsi con un apostrofo finale, atteso che (trattandosi di monosillabo) l’accento tonico non può che cadere che su quell’unica sillaba (cfr. in napoletano fa’ infinito di fa(re) – ji’ infinito di ghi(re)/i(re) ) tuttavia poi che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di voci verbali dell’infinito preferisco e suggerisco di accentare anche i monosillabi per mantenere una omogeneità di scrittura con gli infiniti degli altri verbi e dunque per l’infinito di andare meglio scrivere jí piuttosto che ji’ e per quello di dare o fare:meglio scrivere dá oppure fà piuttosto che da’ oppure fa’ i quali ultimi oltretutto potrebbero esser confusi con la seconda persona dell’imperativo: fa’ per fa(je) - da’ per da(je).
Come si sarà notato ò optato per una á con un improprio [ma di necessità virtú] accento acuto in luogo della normale à con l’accento grave che ò riservato al dà(voce verbale 3ª pers. sg. dell’ind. pr. dell’infinito dare) cosí come nella norma.
DA’ = dai (voce verbale apocopata di da(je)→da’ [2ª per. sg. imperativo dell’infinito dare).
Da tutto quel che ò scritto si evince che ci sono due voci omofone, necessariamente anche quasi omografe:dà(voce verbale 3ª pers. sg. dell’ind. pr. dell’infinito dare) ed il dá = dare(voce verbale infinito apocopato di dare) in quanto nella linguistica nostrana non esistano che due segni diacritici (l’accento grave o acuto e l’apostrofo) ed allorché le voci da distinguere son piú di due, è giocoforza che qualcuna sia omografa d’ un altra. Nella fattispecie son del parere di accentare l’infinito apocopato da(re)→dá(contrassegnandolo per comodità – sia pure impropriamente – con un accento acuto [che di per sé è di pertinenza delle vocali chiuse e la A è la piú aperta delle vocali]) piuttosto che farlo omografo dell’imperativo da’ e ciò per renderlo omogeneo con tutti gli altri infiniti che vanno accentati [per salvaguardarne la tonicità] e non apocopati; il contesto e l’accento acuto chiariranno se si tratta di un dá infinito o di un dà, voce verbale 3ª pers. sg. dell’ind. pr. dell’infinito dare.
E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatte le amiche B.G., C.A.,L.T. e D.R. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
R.Bracale Brak
LA QUESTIONE DELLA H ETIMOLOGICA NEL VERBO AVERE & DINTORNI.
LA QUESTIONE DELLA H ETIMOLOGICA NEL VERBO AVERE & DINTORNI.
Prima questione.
Il problema del mantenimento della H etimologica nella coniugazione del verbo avere (dal lat. habere) affonda le sue radici lontano nel tempo: nell’italiano antico la sua presenza era di gran lunga maggiore rispetto all’uso moderno, in cui è limitato alle forme verbali hanno, ha, ho, hai (come sostanzialmente sancisce in modo definitivo il Vocabolario degli Accademici della Crusca, a partire dalla terza edizione, del 1691). In queste quattro forme la h è stata mantenuta per una questione diacritica, perché consentiva di distinguer le voci verbali da altre omofone (cioè “che ànno lo stesso suono, la stessa pronuncia”) anno (sostantivo), a (preposizione), o (congiunzione) e ai (preposizione articolata); ma, visto che una discriminazione di questo tipo costituisce un’eccezione nel sistema grafico italiano, alcuni ànno proposto l’eliminazione della h,che in fondo all’attualità, a malgrado della sua presenza etimologica, non è che una consonante diacritica,e non v’à ragione di mantenerla se non in presenza di voci omofone da distinguere(ed in effetti in parecchie parole derivate da voci latine principianti per h (cfr. homo→uomo, honestas→onestà etc.) nel passaggio all’italiano l’aspirata iniziale è o sparita del tutto (cfr. onestà ) o al massimo à procurato dittongazione della sillaba iniziale (cfr. homo→uomo, heri→ieri); dicevo che alcuni ànno proposto l’eliminazione della h, suggerendo di affrontare il problema della trasparenza delle forme con un’indicazione diacritica (cioè indicativa) diversa, meno invasiva quale quella dell’accento.La questione, dicevo viene di lontano e già sul finire del 1700 si propose da qualcuno l’adozione delle voci accentate ò,ài,à,ànno in luogo di ho,hai,ha,hanno ma bisognò attendere il1911 quando il Congresso della “Società Ortografica Italiana” avanzò la proposta di indicare questa differenza con l’ausilio dell’accento sulle quattro voci verbali. La questione si è trascinata a lungo nel periodo tra le due guerre (un grande sostenitore di questa tesi è stato Ferdinando Martini, docente di Letteratura Italiana presso la Scuola Normale Superiore di Pisa), ed à avuto un suo epilogo anche nel secondo dopoguerra: nel Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi (recentemente pubblicato anche in versione elettronica su CD-ROM) l’editore sceglie questa soluzione per indicare le quattro voci verbali, con un risparmio, come afferma in un suo scritto, di un centinaio di pagine. Pure nell’usatissimo e completissimo Grande Dizionario della Lingua Italiana Garzanti le forme accentate vengono segnalate come esatte anche se rare e mi meraviglio molto che il Treccani non dia le medesime indicazioni! Va però confermato che attualmente le forme con la h sono senz’altro le piú diffuse ed indicate come corrette dai grammatici e dai linguisti sessantottini(?) iconoclasti di tutto quel che à sapore di passato;ad esempio: nella Grammatica di Luca Serianni(cattedratico a LA SAPIENZA di Roma) si trova una breve sintesi sulla questione e si precisa che “ le forme à, ài, ànno ed ò oggi appaiono grafie non certo erronee, ma di uso raro e di tono popolare; tuttavia non sono poche le persone che le usano, soprattutto se la loro formazione scolastica è stata compiuta nella prima metà del secolo scorso”; Ora io dico che lo spocchioso Serianni deve mettersi d’accordo con se stesso; prima infatti afferma che le forme à, ài, ànno ed ò son di uso raro, poi confessa che non sono poche le persone che le usano. Ubi veritas? Una cosa è certa: nella pluriennale questione è emerso che si insegnava la praticabilità delle forme à, ài, ànno ed ò anche in alcune scuole elementari degli anni Cinquanta e Sessanta; sono i cattedratici giovani che storcono il naso e respingono l’uso delle forme à, ài, ànno ed ò pur senza indicare convincenti, adeguati motivi del loro dissentire.
Seconda questione.
Col verbo avere si è sempre piú diffusa nell'italiano parlato di ogni regione l'inclusione dell'elemento ci, dando quasi luogo a un paradigma diverso: non ho, hai, ha, ma ciò, ciai, cià. Quando però forme del genere, tipiche dell'oralità, devono ricevere rappresentazione scritta sorgono problemi. Naturalmente non è possibile adottare scrizioni come *c'ho..., *c’ha…,*c’hai… *c’hanno atteso che è noto, o dovrebbe esser noto (almeno a chi abbia fatto delle buone scuole elementari e medie…) che la vocale i si può elidere solo davanti ad altra i oppure può essere elisa la i di ci davanti alla e, elisione che comunque continua a mantenere il suono palatale della consonante (c) d’accompagnamento e non genera un suono gutturale come invece avviene per l’ impossibile elisione della i di ci davanti a, o,u (cfr. ci è →c’è che si legge ce (di cesto), mentre non si può elidere la i di ci abbiamo perché c’abbiamo si legge o leggerebbe cabbiamo, e non si può elidere la i di ci ostacolano perché c’ostacolano si legge o leggerebbe costacolano, né si può elidere, sempre per esempio la i di ci usano perché c’usano si legge o leggerebbe cusano. Va da sé che il problema non si pone per la i di altri digrammi (ti – di – si) per i quale l’elisione della i è sempre consentita davanti a tutte le vocali, atteso che non si generano mutamenti di suoni consonantici.
Tornando al problerma della scrizione,si potrebbe optare per la grafia ci ho, ci hai ci ha, ci hanno - che è quella a cui ricorse un grande scrittore sensibile alla rappresentazione del parlato, il Verga; però molti arroganti linguisti non ritengono soddisfacente la soluzione del Verga,ma non ne spiegano il motivo, né se ne capisce il perché; io dico che usando le antiche, raccomandate forme à, ài, ànno ed ò si risolverebbe la questione ottenendo ci ò, ci ài, ci à, ci ànno di tranquilla, corretta lettura ci-ò, ci-ài, ci-à, ci-ànno e corretta scrizione.
Un’ultima notazione.
Le forme à, ài, ànno ed ò usate in luogo di ho, hai, ha,hanno trovano il dissenso non solo dei linguisti imberbi e sessantottini, ma pure dei redattori dei giornali, redattori che son usi a correggere in ho, hai, ha,hanno le forme à, ài, ànno ed ò usate da qualche lettore che scrive ai giornali, motivando tali indebite correzioni con l’affermare che i giornali vanno nelle mani d’un pubblico eterogeneo: persone istruite (che forse sanno della possibilità della doppia grafia dell’indicativo presente del verbo avere) e persone ignoranti (che resterebbero interdetti davanti alle voci verbali accentate del tipo ànno usate in luogo delle piú comuni come hanno. E poiché oggi sono i media che dirigono la musica e le redazioni dei giornali brulicano di iconoclasti ragazzini settantottini, figli del marxismo dilagante ragazzini che ànno preso la mano anche ai redattori nati neli anni quaranta e cinquanta, non resta che accettare le correzioni del redattore di turno e tenerse ‘a posta sia pure obtorto collo! Ma quando non si scrive ai giornali forse ci si potrà riprender la libertà di scrivere ò, à, ài, ànno in luogo di ho, hai, ha,hanno impipandosene dei redattori dei giornali e dei linguisti sessantottini e tenendo fede agli insegnamenti delle maestre come la mia (classe 1911, che Iddio l’abbia in gloria)che mi insegnò che le forme ò, à, ài, ànno in luogo di ho, hai, ha,hanno non solo sono corrette, ma anche piú eleganti! Satis est.
Raffaele Bracale
LA SCRIZIONE DEGLI INFINITI NEL NAPOLETANO
LA SCRIZIONE DEGLI INFINITI NEL NAPOLETANO
Mi è stato chiesto da alcuni miei abituali lettori che passim usufruiscono delle cosucce che scrivo e di cui per questioni di riservatezza non posso indicare le generalità, mi è stato chiesto di spendere una parola chiarificatrice sul modo migliore di vergare gli infiniti del napoletano, se cioè sia piú corretto usare gli infiniti accentanti sull’ultima sillaba (ad es.: magnà= mangiare) oppure una forma apocopata (es.: magna’) o addirittura (come fa uno sprovveduto compilatore di lessico partenopeo) una forma pletorica con accento e segno d’apocope (cfr. magnà’). Dico súbito che il modo piú corretto è quello di scrivere gli infiniti accentanti sull’ultima sillaba (ess.: fà, dà,jí,parlà, cantà,saglí,ferní,cadé, tené etc.) e chiarisco qui di sèguito il perché1)uniformità di scrittura degli infiniti che in napoletano (nelle forme troncate) siano essi monosillabi o plurisillabi son tutti accentati sull’ultima sillaba (cfr. ad es.fa(re)→fà – magna(re)→magnà – cammena(re)→cammenà –cade(re)→cadé - murire→murí etc.), 2) la grafia apocopata degli infiniti monosillabi (cfr. fa’, da’) presta il fianco,se considerati fuor del contesto ad esser confusa con la 2ª p.sg. dell’imperativo: da’= dai,fa’= fai. Rammento altresí che durante le mie numerose letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni autori che, ritenendo di fare cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in luogo dell' accento tonico facendo le viste di dimenticare che solo l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,e può (solo!) indicarne graficamente l'esatta pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi, ripeto, in altri maldestri autori ed addirittura compilatori di lessici, che per tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti . In effetti nella parlata napoletana è un errore di ortografia accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico apostrofo per indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba:
l'accento, inglobando in sé la doppia funzione, è piú che sufficiente alla bisogna; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia tagliare un termine mantenendone però il primitivo accento tonico.
Per esempio il verbo èssere può essere apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancóra ad es. il verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o metriche essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si dovrebbe leggere càde’ e non cadé!
Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: vede e non vedé.)È pur vero che, in napoletano, alcuni infiniti di verbi che, apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero esser scritti con il segno dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in quanto che nei monosillabi l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non può cadere su altre (che non esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il verbo stare l’ apocopato: sta’ in luogo di stà , per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’ invece di fà, per l’infinito di dare l’ apocopato: da’ invece di dà, ma personalmente reputo piú comodo come ò détto per mantenere una sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di altri verbi mono o plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare stà e fà, dà in luogo dei pur corretti sta’ e fa’, da’ che valgono stare, fare,dare tenendo conto altresí che almeno nel caso di fa’ e da’ esso potrebbe essere inteso, ripeto, come voce degli imperativo (fai→fa’dai→da’), piuttosto che degli infiniti fare,dare cosa che invece non può capitare con il verbo stare il cui imperativo nel napoletano non è sta’, ma statte. Rammento che, normalmente occorre accentare sull’ultima sillaba tutte le voci verbali degli infiniti (per lo meno bisillabi) tronchi o apocopati (ess.: magnà, purtà, pusà, cadé, rummané etc.) per modo che si possa facilmente individuare la sillaba su cui poggiare il tono della parola, cosa che non avverrebbe se in luogo di accentare il verbo si procedesse ad apostrofarlo per indicarne l’apocope dell’ultima sillaba; in tal caso infatti non spostandosi l’accento tonico si altererebbe completamente la lettura del verbo; facciamo un esempio: il verbo spàrtere (dividere) che apocopato dell’ultima sillaba diventa spartí se in luogo dell’accento fosse scritto con il segno dell’apocope sparti’ dovrebbe leggersi col primitivo accento spàrti e non indicherebbe piú l’infinito, ma – forse - una scorretta forma della 2ª pers. sing. dell’ind. pres.che è sparte e non sparti. Premesso tutto ciò, a mio sommesso, ma deciso avviso ripeto che è opportuno – per una sorta di omogeneità - accentare sull’ultima sillaba tutti i verbi al modo infinito anche quelli monosillabici (ovviamente quando si tratti di autentici verbi presenti nel lessico napoletano e non presi in prestito dall’italiano!, come impropriamente fa qualcuno che annovera tra gli infiniti del napoletano un inesistente dí contrabbandato per infinito apocopato del verbo dícere laddove è risaputo che il napoletano pretto e corretto usa sempre la forma dícere e mai, se non per rare licenze ed esigenze metriche poetiche, l’apocopato dí e chi lo usasse o avesse usato in prosa, sbaglierebbe o si sarebbe sbagliato quand’anche si fósse chiamato Di Giacomo! )
Et de hoc satis, augurandomi d’essere stato chiaro e d’aver adeguatamente risposto al quesito di alcuni dei miei ventiquattro lettori.
R.Bracale
L’ACCENTO CIRCONFLESSO NELLA SCRIZIONE DELLA PARLATA NAPOLETANA.
L’ACCENTO CIRCONFLESSO NELLA SCRIZIONE DELLA PARLATA NAPOLETANA.
Mi è stato chiesto da un cortese amico (di cui per motivi di riservatezza mi limito ad indicare le sole iniziali M.T.) mi è stato chiesto, dicevo, di spender qualche parola per illustrare l’uso dell’accento circonflesso nella scrizione della parlata napoletana. L’accontento súbito chiarendo in primis ed in generale che l’accento circonflesso (o semplicemente il circonflesso, s.vo m.le) è un segno grafico (rappresentato con la forma ^ e talora, nel greco antico, ˜) indicante in origine quell’aspetto del tono, proprio del greco, in cui all’ascesa della voce ne segue la discesa, nella stessa vocale (sempre lunga) o dittongo. In francese, il circonflesso è usato per ricordare una lettera caduta in una fase storica precedente o per indicare il valore particolare di una vocale (âne, mûr, prêt). In italiano, à funzioni puramente ortografiche e ormai di uso non assoluto; può essere adoperato per indicare la contrazione in una sola -i del plur. dei nomi o agg. in -io atono (per es. oratorî pl. di oratòrio, varî pl. di vàrio, ecc., che si scrivono però anche oratorii o oratòri o semplicemente e sciattamente oratori, varii o vari, ecc.), oppure per indicare altre contrazioni della lingua ant. o poetica (per es. fûr = furono, tôrre = togliere, côrre = cogliere e sim.); più di rado per distinguere parole di uguale grafia (per es. côrso «della Corsica», ma piú spesso còrso, di fronte a corso/córso part. pass. di correre). Tanto precisato passiamo al napoletano e diciamo che in generale l’accento circonflesso nella scrizione del napoletano va posto su qualsiasi vocale (â, ê, î, ô, û) o semivocale (ĵ) per contrassegnare le forme contratte, che son tipiche del linguaggio poetico, dovute alla sincope di una sillaba per ragioni di metrica, ma che vengono usate anche in prosa per indicare le crasi(scritture contratte/fusioni) in voci verbali o le crasi delle preposizioni articolate, nonché quelle in taluni aggettivi possessivi come esemplificherò a seguire. Infine l’accento circonflesso è posto sulla vocale i→î quale segno diacritico di voci omofone: es. sî= sei [voce verbale] diverso e distinto da si = se,si’ = signor, sí avverbio affermativo. E proseguiamo dicendo súbito che nel corretto napoletano scritto la â corrisponde all’italiano alla in quanto crasi (scrittura contratta/fusione) della preposizione a + l’articolo ‘a mentre l’ ô corrisponde all’italiano allo/al in quanto crasi (scrittura contratta/fusione) della preposizione a + l’articolo ‘o ed infine l’ ê corrisponde all’italiano alle/ a gli/ai in quanto crasi (scrittura contratta/fusione) della preposizione a + l’articolo ‘e. Il fatto è che solo pochissimi poeti e/o scrittori napoletani ànno o ebbero dimestichezza con le crasi o si rifiutano/rifiutarono di usarle ritenendole troppo eleganti, di competenza dei solo addetti ai lavori e/o poco popolari e di difficile fruizione per il pubblico medio. A mio avviso è invece giusto ed opportuno che chi à qualche piccola competenza piú degli altri faccia proseliti, tirando le orecchie (se occorre) anche a Di Giacomo, ad Eduardo ed altri famosi, con buona pace di taluni intellettuali iconoclasti delle regole grammaticali d’antan!
Rammento altresí che le crasi summenzionate â,ê,ô vanno sempre usate non soltanto da sole quali corrspondenti delle preposizioni articolate, ma nelle locuzioni articolate formate con preposizioni improprie che ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sotto il tavolo, ma nel napoletano si esige sotto al tavolo e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano [e ciò perché chi scrive in napoletano, deve pensare in napoletano!]). Mi pare opportuno che a questo punto mi soffermi sulle preposizioni articolate nel napoletano e rammenti che anche nell’idioma napoletano c’è l’uso sia nel parlato che nello scritto delle preposizioni articolate ovverossia di quelle preposizioni formate dall’unione degli articoli determinativi sg. e pl. con le preposizioni semplici (di, a, da, in, con, su, per, tra fra) o dall’unione dei medesimi articoli con quelle improprie (sotto, sopra, prima, dopo,dietro, davanti, insieme,vicino, lontano etc.). Comincio súbito con il dire che nel napoletano, cosí come nell’italiano, le locuzioni articolate formate con avverbi o preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sotto il tavolo, ma nel napoletano si esige sotto al tavolo e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano). Tanto premesso annoto altresí che mentre in italiano la gran parte delle preposizioni articolate formate dall’unione degli articoli sg. e pl. con le preposizioni semplici, ànno una forma agglutinata, nel napoletano ciò non avviene che per una o due preposizioni semplici, tutte le altre si rendono con la forma scissa mantenendo cioè separati gli articoli dalle preposizioni.
Passiamo ad elencare dunque le preposizioni articolate cosí come rese in italiano e poi in napoletano:
con la preposizione a in italiano si ànno al = a+il, allo/a= a+lo/la alle = a+ le agli = a+ gli (ma è bruttissimo e personalmente non l’uso mai preferendogli la forma scissa a gli!) in napoletano si ànno le medesime preposizioni articolate formate dall’unione degli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione a,ma esistono nel napoletano due distinte morfologie delle preposizioni articolate formate con la preposizione semplice a e gli articoli determinativi; la prima morfologia è quella che fa ricorso alla crasi /unione che produce una preposizione articolata di tipo agglutinata resa graficamente con particolari forme contratte: â = a+ ‘a (a+ la), ô = a + ‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le) da usarsi davanti a parole comincianti per consonanti, mentre davanti a parole comincianti per vocali si fa ricorso ad una morfologia rigorosamente scissa e si usano a ll’ (= alla/allo/al/alle/a gli) ess.: â casa = alla casa, ô puorto = al porto, ê scieme, ê sceme= a gli scemi/ alle sceme, ma a ll’ommo = all’ uomo, a ll’anema = all’ anima a ll’uommene = a gli uomini, a ll’ alimentari = alle (scuole) elementari;
con la preposizione di in italiano si ànno del = di+il, dello/a= di+lo/la delle = di+ le, degli = di+ gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione de (=di), produce una preposizione articolata di forma rigorosamente scissa o tutt’al piú apostrofata: de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de ‘e→d’’e; con la preposizione da in italiano si ànno dal = da+il, dallo/a= da+lo/la dalle = da+ le, dagli = di+ gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione da talora anche ‘a (=da), produce una preposizione articolata di forma normalmente scissa e spessa apostrofata: da ‘o→d’’o, da ‘a→d’’a, da ‘e→d’’e ma come ognuno vede la forma apostrofata (quantunque usatissima) presta il fianco alla confusione con le preposizioni articolate formate con la preposizione de (=di), e d’acchito è impossibile distinguere tra de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de ‘e→d’’e e da ‘o→d’’o, da ‘a→d’’a, da ‘e→d’’e e bisogna far ricorso al contesto per chiarirsi le idee; ò dunque proposto e qui propongo d’usare una forma affatto diversa per le preposizione napoletane da + ‘o→dô = dal, da+ ‘a→dâ = dalla, da+ ‘e→dê = dagli/dalle, forma da usarsi ovviamente davanti a parole principianti per consonanti (ess.: dâ scola = dalla scuola. dô treno = dal treno, dê scarpe = dalle scarpe), forma che eliminando l’apostrofo e facendo ricorso alla medesima contrazione usata per le preposizioni articolate formate con la preposizione a consente di evitare la deprecabile confusione cui accennavo precedentemente. Ovviamente non sarà possibile usare questa forma davanti a parole principianti per vocali e sarà giocoforza usare da ‘o, da ‘a, da ‘e evitando di apostrofarle per evitare possibili confusioni. Rammento che nel napoletano è usata spessissimo una locuzione articolata che con riferimento il moto a luogo rende i dal/dallo – dalla – dalle – dagli dell’italiano ; essa è (la trascrivo cosí come s’usa generalmente fare,ma a mio avviso erroneamente in quanto non ricostruibile nei suoi elementi costitutivi) essa è add’’o/add’’a/add’ ‘e es.: è gghiuto add’ ‘o zio(è andato dallo zio) è gghiuta add’ ‘a nonna, add’ ‘e pariente (è andata dalla nonna, dai parenti);; francamente non si capisce da cosa sia generato quel add’ né si comprenderebbe il motivo dell’agglutinazione della preposizione a con la successiva da→dd’; a mio avviso è piú corretta e qui la propugno: a ddô/ a ddâ/ a ddê per cui sempre ad es. avremo: è gghiuto a ddô zio(è andato dallo zio) è gghiuta a ddâ nonna, a ddê pariente (è andata dalla nonna, dai parenti);; rammento tuttavia di non confondere
a ddô con l’omofono addó←addo(ve) = dove, laddove che è un avverbio e cong. subord. che introduce proposizioni avversative, relative, interrogative dirette ed indirette.
Proseguiamo.
Con la preposizione in in italiano si ànno nel = in+il, nello/a= in+lo/la nelle = in+ le, negli = in+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria dinto (dentro – indal lat. d(e) int(r)o→dinto); come ò già détto e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno nel napoletano tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre indefettibilmente aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: dentro la stanza, ma nel napoletano si esige dentro alla stanza e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da dinto a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente dint’ô dint’â, dint’ê che rendono rispettivamente nel/néllo,nélla,negli/nelle.
Con la preposizione con in italiano si ànno col = con+il, collo/a= con+lo/la colle = con+ le, cogli = con+ gli, ma a mio avviso son tutte bruttissime, a parte che prestano il fianco alla confusione con taluni sostantivi e non le uso mai preferendo sempre e non da ora la forma disagglutinata ; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione cu (=con), produce una preposizione articolata di forma rigorosamente scissa o tutt’al piú apostrofata, forma che però sconsiglio: cu ‘o→c’’o, cu ‘a→c’’a, cu ‘e che non ammette apostrofo, quantunque qualcuno si ostini a scrivere un bruttissimo ch’’e .
Con la preposizione su in italiano si ànno sul = su+il, sullo/a= su+lo/la sulle = su+ le, sugli = su+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria ‘ncoppa (sopra – su, dal lat. in + cuppa(m)); come ò già détto e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sulla tavola o sopra la tavola , ma nel napoletano si esige sulla o sopra alla tavola e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da ‘ncoppa a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente ‘ncopp’ô ‘ncopp’â, ‘ncopp’ê che rendono rispettivamente sul/sullo,sulla,sugli/sulle. Tutte le altre preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con le corrispondenti preposizioni semplici napoletane delle italiane per (pe) tra/fra(‘ntra/’nfra) ànno una forma rigorosamente scissa o ma solo per la preposizione pe, (mentre per ‘ntra/’nfra non è consentito) scissa o tutt’ al piú apostrofata: pe ‘o→p’’o (per il/lo), pe ‘a→p’’a (per la), pe ‘e→p’’e (per gli/le), mentre avremo solo ntra/’nfra ‘o - ntra/’nfra ‘a - ntra/’nfra ‘e.
Per tutte le altre preposizione articolate formate dall’unione dei soliti articoli con preposizioni improprie (sotto, sopra, dietro, davanti, insieme,vicino, lontano etc.), ci si regolerà alla medesima maniera di quanto ò già detto circa le preposizioni formate da dinto o ‘ncoppa tenendo presente che in napoletano sotto, sopra,dietro, davanti, insieme,vicino, lontano sono rese rispettivamente con sotto, ‘ncoppa,arreto, annanze,’nzieme,vicino/bbicino,luntano e tenendo presente altresí che occorre sempre rammentare che le parole e le frasi da esse formate servono a riprodurre un pensiero; ora sia che si parli, sia che si scriva, un napoletano, nello scrivere in vernacolo, non potrà pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â (dove la â è la scrittura contratta della preposizione articolata alla) casa; che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a...) o sotto (sott’a....) in mezzo (‘mmiez’ a...) vicino al/allo (vicino a ‘o→vicino ô) e cosí via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche per la lingua italiana i piú moderni ed usati vocabolarî (TRECCANI) almeno per dentro non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla accanto alle piú classiche dentro il, dentro la.
Rammento ora che l’accento circonflesso è posto sulla vocale i→î quale segno diacritico di voci omofone come si evince dall’esempio che segue SI SÎ TU ‘O SI’ PREVETE CA CE À BENEDITTO QUANNO DICETTEMO ‘E SÍ, PECCHÉ MO TE LL’ANNIJE?
Letteramente Se sei tu il signor prete che ci à benedetti quando dicemmo di sí (quando sposammo) perché ora lo neghi?
Frasetta che non à alcun recondito significato traslato e/o nascosto usata solo per illustrare alcuni vocaboli partenopei tra i quali ben quattro differenti Si che avendo ognuno un ben preciso, differente significato necessitano di quattro diverse scritture che indichino d’acchito e precisamente la diversa funzione grammaticale dei quattro omofoni si. Cominciamo: il primo Si scritto senza alcun segno diacritico (accento o apostrofo) corrisponde all’italiano se nei significati e funzioni che seguono:
1) posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico): si se mette a pparlà,nun ‘a fernesce cchiú; si i’ fosse a tte ,me ne jesse a ffà ‘na scampagnata ; si tu avisse sturiato ‘e cchiú ,fusse o sarriste stato prumosso; si fosse dipeso ‘a me, mo nun ce truvarriamo o truvassemo a chistu punto; si fusse stato cchiú accorto , non te fusse o sarriste truvato dinto a ‘sta situazziona (o pop.: si ire cchiú accorto , non te truvave dinto a ‘sta situazziona ) | in espressioni enfatiche, in frasi incidentali che attenuano un'affermazione o in espressioni di cortesia: ca me venesse ‘na cosa si nun è overo!; pure tu, si vulimmo sî ‘nu poco troppo traseticcio; si nun ve dispiace, vulesse ‘nu bicchiere ‘e vino; pecché, si è llecito,aggio ‘a jrce semp’i’? | può essere rafforzata da avverbi o locuzioni avverbiali: si pe ccaso cagne idea, famme ‘o ssapé; si ‘mmece nun è propeto pussibbile, facimmo ‘e n’ata manera | in alcune espressioni enfatiche e nell'uso fam. l'apodosi è spesso sottintesa: ma si non capisce ‘o riesto ‘e niente!; si vedisse comme è crisciuto!; se sapessi!; se ti prendo...!; e se provassimo di nuovo...? | si maje, nel caso che: si maje venisse, chiàmmame; anche, col valore di tutt'al più: simmo nuje, si maje, ca avimmo bisogno ‘e te;
2) fosse che, avvenisse che (con valore desiderativo): si vincesse â lotteria!; si putesse turnarmene â casa mia!; si ll’ avesse saputo primma!
3) dato che, dal momento che (con valore causale): si ne sî proprio sicuro, te crero; si ‘o ssapeva, pecché nun ce ll’ à ditto?
4) con valore concessivo nelle loc. cong. se anche, se pure: si pure se pentesse, ormaje è troppo tarde; si anche à sbagliato, no ppe cchesto ‘o cundanno
5) preceduto da come, introduce una proposizione comparativa ipotetica: aggisce comme si nun te ne ‘mportasse niente; me guardava comme si nun avesse capito; comme si nun si sapesse chi è!
6) introduce proposizioni dubitative e interrogative indirette: me dimanno si è ‘na bbona idea; nun sapeva si avarria o avesse fernuto pe ttiempo; nun saccio che cosa fà, si partí o restà; s’addimannava si nun se fosse pe ccaso sbagliato | si è overo?, si tengo pacienza?, sottintendendo 'mi chiedi', 'mi domandi' ecc.
Rammento che questa congiunzione si napoletana non viene mai usata come sost. m. invar. come invece capita con il corrispettivo se dell’italiano. Procediamo
--si’ è l’apocope di si(gnore) e pertanto esige il segno diacritico dell’apostrofo finale; viene usato per solito davanti ad un sostantivo comune o davanti a nome proprio di persona (ad es.: ‘o si’ prevete= il signor prete, ‘o si’ Giuanne = il signor Giovanni.) L’etimo del lemma signore da cui l’apocope a margine si’ è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano.
Ricordo che càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento del/al proprio idioma, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé – come ò sottolineato - è l’apocope di si(gnore) ) con uno scorretto zi’ (zio) apocope appunto di zio che è dal lat. thiu(m).
--sî corrispondente all’italiano sei voce verbale (2° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse la forma sî derivata etimologicamente dal lat. si(s) esige un segno diacritico (accento circonflesso) non etimologico per distinguere la voce verbale a margine, come abbiamo visto, da altri omofoni si presenti nel napoletano e di cui parlerò successivamente;
--sí avverbio affermativo derivato dal lat. sic 'cosí', forma abbr. della loc. sic est 'cosí è'
1 si usa nelle risposte come equivalente di un'intera frase affermativa (può essere ripetuto o rafforzato): "Hê capito?" "Sí"; "Venarranno pure lloro?" "Sí"; anche, "Sí, sí", "Sí certo", "Sí overamente!", "Ma sí!" | facette segno ‘e sí, annuire ' dicere ‘e sí, acconsentire ' risponnere ‘e sí, affermativamente ' paré, sperà, credere ecc. ‘e sí, che sia cosí ' si è ssí, in caso affermativo: si è ssí, te telefono/' sí, dimane, (fam. iron.) no, assolutamente no
2 spesso contrapposto a no: dimme sí o no!; ‘nu juorno sí e uno no, a giorni alterni ' sí e no, a malapena, quasi ' te muove sí o no?, esprimendo impazienza ' cchiú sí ca no, probabilmente sí
3 con valore di davvero, in espressioni enfatiche: chesta sí ch’ è bbella!; chesta sí che è ‘na nuvità!
E passo ora ad esemplificare le necessarie crasi con uso del circonflesso in talune voci verbali e segnatamente in quelle del verbo avé(avere) di cui la 2ª pers. sg. dell’ind. presente è aje= ài,ma può esser resa con hê dove la ê è sí la crasi di aje ma necessita dell’aggiunta della consonante diacritica h che permetta di evitare la confusione tra ê= ai/alle/a gli e la voce verbale hê= ài; ancóra la 1ª pers. pl. dell’ind. presente è avimmo= abbiamo, ma può esser resa anche con a(v)immo→aimmo oppure âmmo o îmmo che sono crasi di aimmo.
Non mi sovvengono altri esempi per cui mi fermo qui, sperando d’avere accontento l’amico M.T. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori. Satis est.
Raffaele Bracale
mercoledì 30 luglio 2014
CIPOLLE FRITTE
CIPOLLE FRITTE
ingredienti e dosi per 6 persone
1 kg. di cipolle dorate di Montoro,
1 bicchiere di latte intero,
1 etto di farina,
sale fino q.s.
abbondante olio per frittura.
procedimento
Mondare le cipolle, tagliarle nel senso della larghezza in fette alte 5 mm e lavarle rapidamente in acqua fredda; dividere le fette in anelli. Versare il latte in una terrina, salarlo poco e immergervi gli anelli di cipolla. Sgocciolare le cipolle, infarinarle e friggerle in abbondante olio ben caldo per 3 minuti. Sgocciolare le cipolle, asciugarle su carta assorbente da cucina e servirle subito come accompagnamento di formaggi freschi o stagionati oppure di affettati misti.
Brak
CAZUNCIELLE D’’O PURCIELLO
CAZUNCIELLE D’’O PURCIELLO
dosi per 6 persone:
per la pasta:
6 etti di farina
12 uova freschissime
due cucchiai d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.
un pizzico abbondante di sale fino.
per il ripieno:
6 -8 rocchi di salsiccia di grana finissima, al finocchietto,
1 bicchiere di vino bianco secco,
4 etti di ricotta di pecora,
1 tazzina di cognac o brandy,
1 cucchiaio di sugna,
½ bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.
½ etto di pecorino grattugiato,
pepe nero q.s.
, per il condimento:
500 gr di pomidoro freschi, lavati, sbollentati, pelati e ridotti in grossi pezzi, o pari peso di pomidoro pelati in iscatola,
Aglio mondato e tritato q.s.,
2 cucchiai di doppio concentrato di pomodoro,
½ bicchiere d’olio d’oliva e.v.
½ etto di pecorino grattugiato,
pepe nero q.s.,
cannella in polvere – mezzo cucchiaino da caffè,
abbondante olio per friggere (semi varii, arachidi, mais, girasole)
procedimento
Si comincia spellando e sbriciolando le salsicce e ponendole a rosolare lentamente(occorrerà un’ora di cottura) in un tegame con olio e sugna, bagnandole dapprima con il vino, da fare evaporare e poi con una ciotola d’acqua bollente;
si appronta súbito dopo il condimento versando un bicchiere d’ olio in un tegame e facendovi rosolare un battutino di aglio; aggiungere poi il concentrato ed i pezzi di pomidoro precedentemente scottati e pelati, fare cuocere fino a raggiungere il bollore; tenere in caldo. Approntare allora l’impasto, ponendo sulla spianatoia la farina a fontana, aprendovi dentro undici uova, un pizzico di sale e due cucchiai d’olio; impastare fino ad ottenere una palla di pasta elastica e consistente da far riposare a temperatura ambiente per circa mezz’ora in una terrina cosparsa di farina asciutta e coperta con un canevaccio affinché la pasta non secchi. Passata la mezz’ora dividere l’impasto in varî pezzi da cui ottenere con l’ausilio del matterello e tirandole sulla spianatoia cosparsa di farina asciutta, otto sfoglie dello spessore di circa ½ cm. e della dimensione di 30 x 20 cm.; nel frattempo stemperare in una terrina la ricotta di pecora con il cognac o brandy , aggiungere le salsicce rosolate assieme al fondo di cottura, il pecorino grattugiato ed il pepe ed amalgamare il tutto; a questo punto distendere sulla spianatoia quattro sfoglie ed aiutandosi con un cucchiaio a punta depositare su ogni sfoglia, a distanza regolare, otto mucchietti di ripieno; sbattere l’ultimo uovo e servendosi di un pennellino bagnarne il perimetro dei mucchietti; distendere su ogni sfoglia un’altra sfoglia e pressare con l’indice sul perimetro dei singoli mucchietti per modo che l’uovo ivi distribuito facendo da collante, sigilli il ripieno ed unisca la sfoglia inferiore con la superiore; sempre seguendo il perimetro dei mucchietti ottenere da ogni accoppiata di sfoglie con l’ausilio di un coltello affilatissimo o una rotellina dentata, otto calconzelli in modo di avere alla fine trentadue calzoncelli che vanno súbito fritti in olio bollente e profondo fino a che siano ben dorati; una volta fritti, prelevarli con una schiumarola, sgrondandoli accuratamente e metterli in una pirofila da forno, irrorandoli con tutto il sugo di pomodoro, cospargendoli con il pecorino, un poco di pepe nero e la cannella in polvere.Evitare di rimestare, per non fare aprire i calzoncelli e passare la pirofila in forno preriscaldato a 180° fino a gratinatura dorata.
Servire caldissimi in ragione di quattro calzoncelli a porzione.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
BOCCONCINI DI MELANZANE
BOCCONCINI DI MELANZANE
Ingredienti e dosi per 6 persone
1200 g. Melanzane violette napoletane grigliate
- 100 g. Uvetta Sultanina
- 300 g. Formaggio Provolone piccante in cubetti da ½ cm. di spigolo,
- 4 Tuorli D'uovo
– Pangrattato 6 cucchiai
- Farina 6 cucchiai
- 1 Pizzico Origano
- Noce Moscata q.s.
- Olio Di Semi q.s.
- Sale fino e Pepe decorticato q.s.
- Per La Pastella:
- 300 g. Farina
- 3 Uova
- 1 Albume D'uovo
– 2 Cucchiai di Olio D'oliva e.v.p. s. a f.
Preparazione
Mettere in ammollo l'uvetta in acqua tiepida. Tagliare via la buccia alle melanzane, tritarle finemente o passarle in un tritaverdure a buchi grossi e raccoglierle in una terrina con l'uvetta strizzata ed asciugata, i 4 tuorli, l'origano, una grattugiata di noce moscata, sale fino e pepe. Quindi aggiungere tanto pangrattato quanto basti per ottenere un composto consistente, ma morbido.
Diluire la farina con il cucchiaio di olio e poi con mezzo bicchiere d'acqua fredda. Incorporare 3 uova intere sbattute ed a seguire l'albume montato alla fiocca. Salare poco e lasciare riposare. Intanto con il composto di melanzana formare tante palline grosse quanto una noce,farcirle con un paio di cubetti di provolone, infarinarle e passarle a mano a mano nella pastella. Friggere i bocconcini pochi alla volta in abbondante olio di semi bollente e profondo , per circa 5 minuti. Sgocciolarli quando siano dorati, passarli su carta assorbente da cucina, salare ancóra se occorresse e servirli caldi come antipasto o come contorno gustoso.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
martedì 29 luglio 2014
ALTRI EPITETI
ALTRI EPITETI
Accodo alla precedente nutrita elencazione di epiteti numerosi altri molto icastici ed espressivi quantunque \ antichi e desueti, tutti riportati nelle sue opere dal Basile (Giugliano in Campania, 1566 o 1575 –† Giugliano in Campania, 1632) notissimo letterato napoletano di epoca barocca, primo a utilizzare la fiaba come forma di espressione popolare.. Gli epiteti desueti sono
Ciernepérete agg.vo f.le e solo femminile letteralmente setacciatrice di scorregge ma va da sé che non potendosi passare allo staccio le emissioni gassose intestinali, si tratti di una divertitente, quantunque offensiva voce traslata con cui si indica una donna dal voluminoso fondoschiena che abbia un incedere ancheggiante e dondolante facendo oscillare il sedere per modo che imiti il movimento d’un setaccio; la voce è formata dall’agglutinazione di cierne + il s.vo pérete:
cierne v.ce verbale (2ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito cèrnere= stacciare, setacciare dal lat. cernere 'vagliare, separare',
pérete s.vo f.lepl. di péreta femminilizzazione espressiva di píreto s.vo m.le = peto, emissione rumorosa di gas dagli intestini. (dal lat. pēditu(m), deriv. di pedere 'fare peti' con alternanza osco mediterranea di d→r onde pēditu(m)→piritu(m)→píreto);il s.vo f.le péreta fu coniato nell’intento di connotare un emissione di gas intestinali che fosse piú rumorosa di quella normalmente indicata dal m.le píreto e ciò perché In napoletano un oggetto o cosa che sia è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ) ,‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella;
Forcelluta agg.vo f.le; al maschile, ma poco usato, è furcelluto mordace, maledico/a aggressivo/a, caustico/a, graffiante, tagliente, salace, sferzante, ironico/a ma sempre addizionati di una dose di malevoli bugie; con linguaggio moderno si direbbe lingua biforcuta ; etimologicamente la voce infatti è un denominale di furcella/forcella = forcina,forcella, nome generico di vari utensili costituiti da un'asta biforcata in due bracci: dal lat. furcilla(m), dim. di furca 'forca';
Perogliosa agg.vo f.le; al maschile, ma poco usato, è perogliuso = cencioso/a – lacero/a, sbrindellone/a, sciattone/a; epiteto rivolto soprattutto a giovane donna o giovane uomo che siano molto poco attenti al loro decoro personale mantenendo un atteggiamento di immagine o comportamentale trasandato, trascurato, disordinato, scalcinato; la voce è un denominale di pèroglie s.vo f.le pl. =cenci, cianfrusaglie,pezze per i piedi dal lat. pedulĭa : da notare la roticizzazione osco-mediterranea della d→r;
Pontonèra/Puntunèra doppia morfologia alternativa di cui la prima adottata da scrittori meno adusi alla verace parlata popolare napoletana d’un'unica voce che sostanzia un epiteto altamente offensivo rivolto ad una donna e solo a donne; ambedue le forme, con la distinzione che ò fatto, furono usate sia in letteratura (cfr. Ferdinando Russo che però adoperò la piú esatta e veracemente popolare puntunèra ) che nel parlato della città bassa quale epiteto offensivo; il significato fu univoco senza possibilità di confusione: prostituta, donna di malaffare, donna da strada, donna da marciapiede, sgualdrina, baldracca; la voce etimologicamente è un denominale di pontone/puntone (angolo di strada, spigolo di muro,cantonata di via,) addizionato del suff. di competenza f.le èra che al m.le è iere (cfr.salum-era ma salum-iere, panett-era ma panett-iere etc.); pontone/puntone s.vo m.le = angolo di strada, spigolo di muro, cantonata; voce ricavata dal s.vo puncta(m) con riferimento allo spigolo del muro, addizionato del suff. accr. m.le one.Rammento altresí che nella medesima valenza e significato della voce in esame fu usato sebbene piú in letteratura che nel parlato un analogo cantonèra/cantunèra (marcato sul s.vo - che non è della parlata napoletana cantone) voce mutuata dal siciliano;
Puppeca prostituta, malafemmina, battona etc. ; totalizzante offesa rivolta a donna e solo a donne; di per sé la voce a margine varrebbe (donna)pubblica in quanto voce etimologicamente derivata per adattamento locale dall’agg.vo lat. publĭca (passato inalterato nello spagnolo cfr. mujer publica=prostituta) secondo il seguente percorso morfologico publĭca→pubbica→pubbeca→puppeca;
Quaquarchia/Quarchiosa/Quarchiamma triplice morfologia d’un unico vocabolo di partenza: quaquarchia che sostanziò una pesante offesa rivolta ad una donna e solo a donne: donna brutta,sporca, sudicia, lorda, lercia, lurida nonché sordida; volgare, scurrile, indecente e quindi spregevole; la voce quaquarchia come le successive, etimologicamente derivano tutte da quarchia (s.vo f.le d’origine onomatopeica per indicare una cosa sporca, un oggetto unto); quaquarchia presenta l’iterazione espressiva e rafforzativa della prima sillaba posta in posizione protetica; sempre partendo da quarchia si ottenne (addizionandole il suff. osa suffisso di pertinenza derivato dal lat. osa←osu(m)),si ottenne l’agg.vo sostantivato quarchiosa = sporca, unta,impiastricciata e dunque lorda, lercia, lurida nonché sordida, volgare, scurrile, indecente; infine sempre partendo da quarchia si ottenne (addizionandole il suff.dispregiativo amma (cfr. lut-amma/lot-amma) suffisso affine ad imma←imen (cfr. zuzz-imma cazz-imma etc.), si ottenne quarchiamma s.vo f.le e solo f.le = cosa eccessivamente sporca o unta di grasso fluido, donna sporca, sudicia, lorda, lercia, lurida, sconcia, abietta, turpe, laida, immonda, ignobile
Varvera s.vo f.le e solo f.le bruciante offesa che sta per prostituta esosa, donnaccia pelatrice ed estensivamente anche piú semplicemente donna che sia avida, ingorda, gretta, tirchia, spilorcia nonché profittatrice,sfruttatrice, opportunista, adusa a pelare amici e conoscenti. Di per sé infatti la voce a margine quale denominale del s.vo varva (dal lat. barba(m) con normale passaggio di b a v (cfr. vocca←bucca(m), varca←barca etc.) addizionato del suff. f.le èra che al m.le è iere (cfr.salum-era ma salum-iere, panett-era ma panett-iere etc.) indicherebbe la barbiera f.le di barbiere: la donna o l’uomo che svolge il mestiere di radere la barba e tagliare o acconciare i capelli ( rammento en passant che fino agli inizi del sec. XIX all'esercizio di questo mestiere erano connesse anche pratiche mediche e chirurgiche);posto, dicevo, che la voce indicherebbe in primis la donna che svolgesse il mestiere di barbiere, è del tutto pacifico che si possa indicare con il medesimo termine, a fini offensivi, una donna sfruttatrice, opportunista, adusa a pelare (togliere figuratamente… i peli ad) amici e conoscenti.
Vammana comincio con il dire che la voce vammana fu un tempo accostato a mammana = levatrice domestica levatrice, donna esperta che assiste le partorienti e ne raccoglie il parto ( sia vammana che mammana son voci derivate dalla medesima voce del lat. volgare *mammàna(m)) ma per vammana con forma dissimilata nella cons. d’avvio che da mammàna passa a vammana;
la vocevammana è usata, nel parlato comune popolare, non per indicare una vera e propria levatrice che assiste la puerpera e ne raccoglie il parto, ma per significare, in senso dispregiativo, e quindi offensivo quelle praticone, prive di adeguata preparazione, ma non di esperienza, aduse ad esercitare pratiche abortive clandestine (spesso servendosi di mezzi di fortuna, inidonei e pericolosi).Che si tratti di termine dispregiativo è dimostrato dal fatto che già anticamente (cfr. Basile) la voce vammana era usata quale epiteto.
Vommacavracciólle ancóra un epiteto abbondantemente desueto quantuque molto icastico ed espressivo; s.vo o agg.vo f.le voce composta addizionando una voce verbale (vommeca) ed un sostantivo pl. (vracciolle); letteralmente vale: vomitabraccine ma significò quale grave epiteto offensivo strega antropofoga, fattucchiera, ingorda arpía, megera adusa iperbolicamente a cibarsi di bambini di cui però poi recedesse le braccia; un tempo la voce a margine fu usata non solo come s.vo ma anche come agg.vo accostato al s.vo janara ottenendosi un’offensiva janara vommecavracciollle (megera antropofoga) accostata alle pregresse janara catarrosa ed janara cecagnòla o scazzata (per ambedue cfr. antea);
vommeca voce verbale (3 p.sg. ind. pres. dell’infinito vummecà (= vomitare,recere,) adattamento del lat. vomitare, intensivo di vomere 'vomitare': vomitare→vomicare→vommicare/vummecà;
vracciolle s.vo f.le diminutivo di vraccia pl. del m.le vraccio = braccine del corpo umano; vraccio è dal lat. brachiu(m), che è dal gr. brachíon con normale passaggio di b a v (cfr. vocca←bucca(m), varca←barca etc.); rammento che negli anni ’50 del 1900 la voce in esame era completamente sparita anche nel parlato nella zona bassa della città e se ne adottò, quanto meno nel solo parlato, una sorta di adattamento che fu vommecavrasciole con il medesimo significato di strega, megera, ingorda fattucchiera che vomitasse indigeste braciole ripiene; la voce adottata metteva da parte le iperboliche e raccapriccianti vracciolle (braccine) per accontentarsi di piú probabili e meno inorridenti vrasciole (braciole/involtini ripieni); per ciò che riguarda la voce brasciola/vrasciola s.vo f.le dirò ch’esso s.vo deriva dal tardo latino brasa/vrasa+ il suff.diminutivo ola femm. di olus; semanticamente la faccenda si spiega col fatto che originariamente la brasola fu una fetta di carne da cuocere alla brace, e successivamente con la medesima voce adattata nel napoletano con normale passaggio della esse + vocale (so) al palatale scio che generò da brasola, brasciola si intese non piú una fetta di carne da cucinare alla brace, ma la medesima fetta divenuta grosso involto imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla e molto frequentemente, ma non necessariamente sugo di pomidoro, involto che è d’uso consumare caldissimo.
A margine di tutto ciò rammento che la voce brasciola viene usata nel napoletano quale voce furbesca e di dileggio riferita ad un uomo basso e grasso détto comunemente fra’ brasciola; ancóra la medesima voce è usata per traslato, ma piú spesso nei dialetti della provincia, che nell’autentica parlata napoletana,per indicare un tipo di pettinatura maschile, segnatamente quella del ciuffo prospiciente la fronte che semanticamente si ricollega alla brasciola perché il ciuffo è quasi ripiegato come un grosso involto; a Napoli il medesimo ciuffo cosí pettinato viene détto ‘o cocco voce del linguaggio infantile che oltre ad indicare il ciuffo suddetto è un s. m. [f. -a; pl. m. -chi] voce familiare usata per indicare una persona prediletta, un oggetto di affettuosa e protettiva tenerezza (spec. un bambino)che semanticamente si ricollega all’affettuosa tenerezza con cui le mamme sogliono sistemare la pettinatura dei proprii bambini, prediligendo il ciuffo ripiegato a mo’ di involto.
Infine rammento ancóra che in taluni dialetti provinciali (Capri, Visciano etc.) , furbescamente con la voce brasciola viene indicata la vulva, con riferimento semantico alla focosità e carnalità del sesso femminile.A Napoli che pure (vedi alibi) sono in usi numerose voci per indicar la vulva, questa provinciale brasciola non viene di norma usata.
Vottacàntere/ Votacàntere altra desueta voce composta s.vo f.le raramente anche m.le, ma come epiteto esclusivamente femminile; valse letteralmente butta/svuotacànteri cioè serva o anche servo addetto ai lavori piú umili e segnatamente a quello di vuotare in mare i cànteri cioè i grossi vasi di comodo in cui la famiglia depositava le proprie deiezioni giornaliere; va da sé che una siffatta misera serva o talora misero servo fosse ritenuto un essere immondo, sudicio, sporco, sozzo, lurido; repellente, ripugnante, schifoso, disgustoso, nauseabondo, sconcio, laido tale che con la voce a margine si sostanziasse una corposa offesa.
Se si trattò di una donna che fósse addetta al còmpito rammentato, essa fu détta anche
zambracca= serva di infimo conio, fantesca addetta alla pulizia dei cessi e/o dei cànteri. La voce a margine origina dall’addizione del suffisso dispregiativo acca (=accia) con la parola zambra (che è dal francese chambre) in francese la voce chambre indicò dapprima una generica camera, poi uno stanzino ed infine il gabinetto di decenza. Pure questa zambracca fu usato quale epiteto offensivo nella medesima valenza precedente; tornando a
vottacàntere ripeto che si tratta di una voce s.vo f.le o talora m.le composta da una voce verbale votta = butta, svuota etc. (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito vuttà = gettare,buttare, svuotare etc. dal fr. ant. bouter, provenz. botar, di orig. germ con il consueto passaggio di b a v.; la voce verbale votta non è da confondere con l’omofono omografo s.vo votta = botte (dal lat. tardo *butta(m)→vutta(m)→votta 'piccolo vaso') che semanticamente nulla à a che vedere dall’incombenza esercitata dal/dalla vottacàntere;
leggermente diversa la morfologia della voce votacàntere piú vicina al parlato della letteraria vottacàntere; votacàntere è composta addizionando la voce càntere a quella verbale vota = vuota, svuota etc. (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito vutà = vuotare,liberare, svuotare etc.) cfr. ultra
1) càntare/càntere s.vo m.le pl. di càntaro/càntero alto e vasto vaso cilindrico dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, vaso di comodo atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea e cioè con:cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia (ca 27 grammi) nel culo (e non occorre spiegare cosa rappresenti l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!Per restare in tema di càntaro/càntero riporto qui di sèguito un’interessante espressione che suona:
Vutà ‘o càntero = vuotare il vaso di comodo vale a dire: rinfacciare torti subíti o spiacevolezze patite; anche in questo caso è relativamente semplice cogliere il collegamento semantico tra il vuotare un vaso di comodo ed il rinfacciare torti subíti trattandosi in ambedue i casi di due operazioni fastidiose e/o spiacevoli, ma necessarie ed in fondo chi rinfaccia torti subíti o spiacevolezze patite si affranca di qualcosa di sgradevole che fino al momento di liberarsene era stata tenuta come un peso increscioso sul proprio io, il tutto alla medesima stregua di chi in tempi andati, come ò già riferito ( e cfr. ad abundantiam alibi ‘a malora ‘e Chiaia ) era costretto all’incresciosa, ma necessaria operazione di svuotare in mare i vasi di comodo colmi degli esiti fisiologici della famiglia.
Vutà/are v. tr. = vuotare, rendere vuoto, privare qualcosa del contenuto; svuotare; etimologicamente denominale del lat. volg. *vocitu(m), variante di *vacitu(m), part. pass. di *vacíre 'essere vuoto', corradicale del lat. vacuus 'vuoto'.
Faccio notare che nel napoletano non va confuso il verbo a margine vutà = vuotare con il verbo avutà/are = voltare, girare, volgere, indirizzare in un altro senso; orientare altrove (derivato dal lat. volg. * a(d)+volutare, intensivo di volvere 'volgere'; da * a(d)+volutare→av(ol)utare→avutare).
E sempre per restare in tema di di càntaro/càntero e di insulti/epiteti veniamo a dei duri brucianti insulti che sono: a) Piezzo ‘e càntero scardato! e b) Pezza ‘e càntero!
Sgombero súbito il campo da un facile equivoco: è vero che l’insulto sub a) per solito è rivolto ad un uomo dandogli del coccio infranto di un vaso da notte sbreccato, nell’intento di classificarlo e considerarlo moralmente sporco, lercio, immondo, individuo sordido, abietto, corrotto, ripugnante come potrebbe essere un pezzaccio di un vaso da notte che per il lungo uso risulti sporco e sbreccato; dicevo è pur vero che l’insulto sub a) per solito è rivolto ad un uomo, mentre l’insulto sub b) è rivolto ad una donna,bollando anche costei come persona moralmente sporca, sozza, lorda e quindi da evitare, ma le voci usate piezzo e pezza non sono il maschile ed il femminile di un unico termine, come qualche sprovveduto potrebbe ipotizzare, ma sono due sostantivi affatto diversi di significato affatto diversi:
piezzo s.vo m.le = pezzo, quantità, parte non determinata, ma generalmente piccola, di un materiale solido, qui usato nel significato di coccio, ciascuno dei pezzi in cui si rompe un oggetto fragile; l’etimo della voce a margine è dal lat. med. pettia(m) con metaplasmo e cambio di genere; ben diverso il sostantivo
pezza s.vo f.le = straccio, cencio, pezzo, ritaglio di tessuto (con etimo dal dal lat. med. pettia(m)); nella fattispecie la pezza dell’insulto in esame fu quello straccio, quel cencio usato in tempi andati per ricoprire, in attesa di vuotarli, i cànteri usati quando cioè risultassero colmi di escrementi; la medesima pezza era talora usata per nettarsi dopo l’operazione scatologica ed in tal caso però prendeva furbescamente il nome di ‘o liupardo (il leopardo) risultando détta pezza al termine delle operazioni maculata a macchie come il mantello d’un leopardo.
Rammento infine che in luogo dell’insulto piezzo ‘e càntero
un tempo fu usato un corrispondente scarda ‘e ruagno che ad litteram è: coccio di un piccolo vaso da notte. Cosí con gran disprezzo si usò e talvolta ancóra s’usa definire chi sia sozzo, spregevole ed abietto al punto da poter essere paragonato ad un lercio coccio di un contenuto vaso da notte infranto, vaso che è piú piccolo e basso di quello detto càntaro o càntero.
Per ciò che attiene alla etimologia della parola
scarda s.vo f.le che è pari pari anche nel siciliano, nel pugliese ed in altri linguaggi meridionali, considerata da sola e senza aggiunte specificative, vale: pezzo, scheggia frammento, scaglia (di legno, di vetro o di altro); per ciò che attiene l’etimo,dicevo noto che il D.E.I. si trincera dietro un pilatesco etimo incerto una scuola di pensiero (C. Iandolo) propone una culla tedesca sarda= spaccatura, qualche altro (Marcato) opta per una non spiegabile, a mio avviso, derivazione da cardo che dal lat. cardu(m) indica quale s. m.
1 pianta erbacea con foglie lunghe, carnose, di colore biancastro, commestibili (fam. Composite) | cardo mariano, pianta erbacea con foglie grandi e infiorescenze globose a capolino (fam. Composite) | cardo dei lanaioli, pianta erbacea con foglie fortemente incise e infiorescenze a capolino, di colore azzurro, con brattee uncinate, usate per cardare la lana e pettinare le stoffe (fam. Dipsacacee)
2 il riccio della castagna
ed ognuno vede che non v’à alcun collegamento semantico possibile tra questa pianta ed un pezzo, scheggia frammento, scaglia (di un qualcosa).
A mio modo di vedere è molto piú opportuno chiedere soccorso etimologico al francese écharde: scheggia.
Sistemata cosí la questione etimologica, affrontiamo quella semantica ricordando che in napoletano con l’accrescitivo femminile scardona la voce in epigrafe assume un significato del tutto positivo valendo gran bel pezzo di ragazza,di donna; con la voce scardona viene infatti indicata una donna giovane, bella, alta, formosa fino ad esser procace; al contrario una valenza affatto negativa la voce scarda (che attraverso il verbo scardare= sbreccare è anche alla base dell’agg.vo scardato/a) l’assume nell’espressione Sî‘na scarda ‘e ruagno! = Sei un coccio d’un piccolo vaso da notte!
Ruagno s.vo m.le = pitale, piccolo vaso da notte.Per ciò che riguarda etimo e semantica di questa voce dirò súbito che essendo solitamente questo vaso di comodo ubicato nei pressi del letto per essere prontamente reperito in caso di impellenti necessità, scartata l’ipotesi fantasiosa che ne fa derivare il nome da un troppo generico greco organon (strumento), penso si possa aderire all’ipotesi che fa derivare il ruagno da altro termine greco, quel ruas che indica lo scorrere, atteso che il ruagno era ed in alcune vecchie case dell’entroterra campano ancóra è destinato ad accogliere improvvisi contenuti scorrimenti o viscerali o derivanti da cattiva ritenzione idrica.
schiattacàntere anche in questo caso ci troviamo di fronte
ad un antico, desueto epiteto in forma di voce composta, voce f.le, ma pure m.le che letteralmente sta per crepacànteri e che pertanto non è un sinonimo (come invece qualche disaccorto addétto ai lavori à erroneamente opinato)in quanto la voce in esame non è riconducibile all’attività svolta da un/una servo/a di vuotare i vasi di comodo liberandoli delle deiezioni ivi contenute e come tale essere immondo, sudicio, sporco, sozzo, lurido; repellente, ripugnante, schifoso, disgustoso, nauseabondo, sconcio, laido; niente di tutto ciò! Con la voce a margine ci troviamo invece difronte a tutt’altra tipologia di soggetto per quanto anch’esso nauseante, ripugnante, ributtante, stomachevole, sgradevole in quanto soggetto aduso a stomachevoli pletoriche ripetute deiezioni tali da produrre iperbolicamente la crepatura o rottura dei vasi destinati a contenerle; in napoletano l’azione del crepare, rompere, squarciare è resa con l’infinito schiattare/à (voce intesa d’origine onomatopeica, ma è lecito ipotizzare un tema latino sclap-it da un originario sclap (il medesimo di schiaffo), da sclapit si ricavò un lat. parlato *sclapitare→sclaptare→schiaptare→schiattare); dicevo che in napoletano l’azione del crepare, rompere, squarciare è resa con l’infinito schiattare/à per cui addizionando la 3° pers. sg. dell’ind. pres. schiatta con il consueto s.vo cànatare/càntere si ottenne la voce a margine usata quale epiteto rivolto ad una ripugnante donna accreditata, per offesa di stomachevoli pletoriche ripetute deiezioni tali da produrre iperbolicamente la crepatura o rottura dei vasi destinati a contenerle;
vocca ‘e cernia antico, desueto offensivo epiteto di pertinenza femminile e talora anche m.le; epiteto formato addizionando al s.vo f.le vocca (=bocca, dal lat. bucca(m)→vucca→vocca con consueto, normale passaggio di b a v (cfr. varva←barba(m), varca←barca etc.) ) con lo specificativo ‘e cernia (di cernia) per indicare una donna brutta, deforme, sguaiata, volgare, triviale, scurrile, sboccata, maleducata, rozza, zotica, grossolana, linguacciuta e pettegola provvista iperbolicamente, alla bisogna d’una bocca ampia tal quale quella della cernia; la cernia (dal lat. tardo (a)cernia(m) infatti è un pesce marino, comune nel mediterraneo, di dimensioni medio grandi con carni pregiate, ma d’aspetto poco rassicurante, brutto e deforme, provvista altresí di una grossa brutta ed irregolare bocca vorace;
zoria eccoci all’ultimo antico, desueto epiteto, registrato dal Basile e di pertinenza f.le e solo f.le; si tratta d’un s.vo f.le usato anche come agg.vo nel significato di furba,maliziosa, maligna, malevola, adescatrice,seduttrice, ammaliatrice; con diversa valenza: prostituta, donna da marciapiede, sgualdrina, baldracca, donnaccia; la voce a margine voce marcata sullo spagnolo zorra (dove vale volpe e/o zoccola): come volpe semanticamente riporta al significato di furba, adescatrice,seduttrice, ammaliatrice etc.; come zoccola semanticamente richiama il significato di sgualdrina, baldracca, donnaccia, prostituta etc.
E giunti a questo punto ritengo di poter porre un punto fermo. Satis est.
Raffaele Bracale
EPITETI
EPITETI
Per rispondere alla cortese richiesta del mio carissimo amico P.G. ( del quale i consueti problemi di riservatezza mi impongono l’indicazione delle sole iniziali di nome e cognome)che mi invoglia a parlarne, qui di sèguito prendo in esame molte delle parole napoletane usate quali epiteti rivolti soprattutto verso le donne o in uso scambievole tra le donne del popolino della città bassa.La prima voce di cui mi sovviene è lòcena e riporto quanto ebbi a dire alibi circa la voce lòcena e dintorni e che qui, per rapidità di consultazione, ripeto ( la lòcena pur essendo un taglio di carne gustosissimo, è un taglio che, ricavato dal quarto anteriore della bestia, il meno pregiato e meno costoso, è da ritenersi di mediocre qualità, quasi di scarto, e di tutti i vari nomi con cui è connotato in Italia, quello che piú si attaglia a simili minime qualità, è proprio il napoletano lòcena.
Etimologicamente infatti la parola lòcena nel suo precipuo significato di vile, scadente è forgiato come il toscano ocio/a ed i successivi locio/locia (dove è evidente l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia e successiva locina con consueta epentesi di una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a locina→lòcena.
Chiarito il concetto di partenza, passiamo al significato traslato: fu quasi normale in un’epoca: fine ‘500, principio ‘600 in cui la donna non era tenuta in gran conto (a quell’epoca risalgono, a ben pensare, quasi tutti i proverbi misogini della tradizionale cultura partenopea …), trasferire il termine lòcena da un taglio di carne di scarto, ad una donna… di scarto, quale poteva esser ritenuta una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale..
Rammenterò che altrove, con linguaggio piú pungente se non piú crudo, tale tipo di donna è détto péreta, soprattutto quando quelle sue pessime qualità la donna le inalberi e le metta ostentatamente in mostra;in particolare con il détto termine péreta si suole indicare una pessima donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare,ma soprattutto sfrontata che si comporti da donna di malaffare non per necessità o per mestiere(in tali casi sarebbe una zoccola, una puttana patentata), ma per vizio o per indole da sgualdrina, baldracca, donnaccia, prostituta; le ragioni di questo nome sono facilmente intuibili laddove si ponga mente che il termine péreta è il femminile metafonetico di píreto (dal b. lat.:peditu(m)) cioè: peto, scorreggia che sono manifestazioni viscerali rumorose rispetto alla corrispondente loffa (probabilmente dal tedesco luft - loft= aria) fetida manifestazione viscerale silenziosa, ma olfattivamente tremenda.
Va da sé che una donna che strombazzi le sue pessimi qualità, si comporta alla medesima stregua di un peto, manifestando rumorosamente la sua presenza e ben si può meritare, con icastico, seppur crudo linguaggio, l’appellativo di péreta; a margine rammento che talvolta l’epiteto péreta è addizionato di un aggettivo stellïata= scintillante, luminosa quasi a voler indicare che la donna che strombazzi le sue pessimi qualità, si comporta alla medesima stregua di un peto, manifestando rumorosamente la sua presenza e lo faccia (a maggior disdoro) in maniera cosí chiara e palese come un astro brillante.
Per completezza dirò poi che simile donna becera e volgare, altrove, ma con medesima valenza è anche detta alternativamente lumèra o anche lume a ggiorno atteso che una donna becera e volgare abbia nel suo quotidiano costume l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumèra) o di quello a petrolio ( lume a ggiorno) ambedue altresí maleolenti tali quale una péreta confusa con una loffa.
Ciò che vengo dicendo è tanto vero che addirittura questo tipo di donna è stato codificato nella Smorfia napoletana che al num. 43 recita: donna Péreta for’ ô balcone per indicare appunto una donna… di scarto che faccia di tutto per mettersi in mostra; ed addirittura nella smorfia il termine péreta da nome comune è divenuto quasi nome proprio.)
In coda a tutto ciò che ò détto circa la voce péreta rammento un altro icastico epiteto forgiato servendosi della medesima voce péreta; l’epiteto è zompapéreta s.vo ed agg.vo f.le e solo f.le (non è attestato infatto un m.le zompapíreto) che ad litteram varrebbe saltapeto che però non à ed avrebbe alcun senso, atteso che non è praticabile il salto d’ una scorreggia; nell’epito in esame infatti il termine péreta non deve essere inteso nel senso letterale ma in quello traslato di pessima donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare,e soprattutto sfrontata che si comporti da donna di malaffare offrendo in giro le proprie grazie non per bisogno, ma per vizio, costume, mania o capriccio saltando da un amante all’altro;di talché la voce andrebbe tradotta come sfacciata che salta e morfologicamente forse sarebbe stato piú corretto che il verbo avesse seguito il sostantivo coniugato al participio presente: péreta zompante ,ma la voce non avrebbe consentito l’agglutinazione funzionale e non sarebbe risultata gradevole all’udito né icastica come la popolaresca zompapéreta. Il verbo zumpare = saltare la cui 3ª pers.sg. dell’ind. pres. zompa è servita a formare la voce in esame è un denominale di zumpo(= salto)che è da un agg.vo greco sostantivato sýmpous→*sýmpu con normale passaggio di s→z.
Proseguo ora tentando l’illustrazione degli epiteti che le popolane sogliono rivolgersi l’un l’altra , per offendersi talvolta pesantemente; preciso súbito che gli epiteti di cui dirò sono presenti oltre che sulle labbra di infime donnaccole, anche passim negli scritti di BasileGiugliano in Campania, 1566 – †Giugliano in Campania, 1632), Sgruttendio (Pseudonimo dell'ignoto autore di una raccolta di poesie in dialetto napoletano, De la tiorba a taccone, pubblicata a Napoli nel 1646), Cortese(Napoli 1570 circa - ivi† 1646 circa);, Trinchera(Napoli, 2 giugno 1702 – ivi † 12 febbraio 1755) ed altri.
Ciò detto, principio, augurandomi di risultare il piú chiaro possibile ,anche se non esauriente, atteso che gli epiteti – soprattutto di viva voce - possono essere molti di piú, stante la vivacità d’inventiva del popolo napoletano e soprattutto di quello plebeo; abbiamo:
-capèra = ad litteram: pettinatrice a domicilio ed estensivamente: pettegola, propalatrice di notizie raccolte in giro e riportate magari corredate di falsità aggiunte ad arte alle originarie notizie conosciute durante l’itinerante lavoro; etimologicamente è voce derivato da capo (testa) + il suffisso femm. di pertinenza era (al masch.èra diventa iere (es.: ‘a salum+èra, ‘o salum+iere));
cajotela/cajotula = donnicciuola pettegola adusa a andarsene in giro a raccogliere e propalare notizie,ma pure donna plebea, becera, sporca che emani cattivo odore e per ampliamento: donna lercia di facili costumi; semanticamente la seconda accezione si spiega con un supposto etimo da cajorda (che è ipotizzato dall’ebraico hajordah) = puzzola; ma piú che caiorda pare che la voce di partenza debba essere una sia pure non attestata *chiaiorda con riferimento a donna abitante la Riviera di Chiaia un tempo strada molto sporca, covo di gente testarda e malfamata; tuttavia mi pare molto difficile, morfologicamente parlando, pervenire a cajotela/cajotula sia che si parta da cajorda che da chiaiorda. Ecco perché penso che sia preferibile l’ipotesi etimologica che collega le voci cajotela/cajotula al basso latino catula= cagna. In questo caso sarebbero salve sia la morfologia (da catula con consueta doppia epentesi vocalica eufonica (epentesi tipica delle parlate meridionali) i-o facilmente si giunge a caiotula) sia la semantica ( è nell’indole della cagna priva di padrone, vagabondare latrando (cfr. spettegolando) e concedendosi ai randagi (cfr. donna di facili costumi).
cannaccara s.vo ed agg.vo f.le che letteralmente sta per provvista di troppe, eccessive cannacche(= collane vistose; dall’arabo hannaqa)= collane vistose che rendono inelegate e perciò spregevole la donna che le indossi che oltre alla voce a margine fu apostrofata talora con il termine sié maesta ‘ncannaccata dove sié è l’apocope metatetica del francese sei(gneuse) = signora, femminile di seigneur= signore); maesta = maestra mentre ‘ncannaccata = ingioiellata;part. pass. f.le agg.vato dell’infinito ‘ncannaccà= provvedere di collane denominale da in→’n + cannacca (dall’arabo hannaqa= monile, collana); cessa ‘e mmerda con questo epiteto apparentemente tautologico atteso che nella sua formulazione completa suona cessa ‘nquacchiata ‘e mmerda ( gran cesso lordo di escrementi!)ci si rivolge ad una donna ritenuta non solo laida, sordida, sudicia, repellente,ma estremamente brutta, ributtante, ripugnante.La particolarità che d’acchito colpisce in questo epiteto baroccheggiante è la femminilizzazione del sostantivo cesso che diventa cessa atteso che In napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella; nella fattispecie volendosi con l’offesa che si lancia affermare che la donna cui è rivolta è veramente un grande cesso lordo di escrementi ecco che cesso che diventa cessa;
il s.vo cesso vale 1 (ant.) luogo appartato
2 (pop.) gabinetto, ritirata, latrina
3 (volg.) luogo sporco, cosa o persona lurida, schifosa; è voce dal lat. recessu(m)→(re)cessu(m)→cesso, deriv. di recedere 'ritirarsi'
l’agg.vof.le nquacchiata/nguacchiata che à in nquacchiato/nguacchiato il m.le è esattamente il part.pass. del verbo nquacchià/nguacchià che nella parlata napoletana vengono usati per indicare: sporcare, insudiciare, macchiare, imbrattare, ed anche il mettere in atto un pasticcio di difficile soluzione,una situazione intrigata, deflorare una ragazza ed infine l’ungere o il condire esageratamente in ispecie con sugo di pomodoro, tutti fatti che sostanziano in ogni caso un lordura, una cosa sporca o anche un errore; faccio notare che etimologicamente trattasi di voci di origine onomatopeica e che la n d’attacco anteposta alle originarie voci quacchià/guacchià/ ed alibi quacchiarïà nonché a guacchio/quacchio, è sempre e solo una consonante eufonica migliorativa del suono delle parole che da quacchià/guacchià/quacchiarïà approdano a nquacchià/nguacchià/nquacchiarïà nonché da guacchio/quacchio, a nguacchio/nquacchio; si tratta precisamente di una consonante eufonica e non di un residuo di un in→’n per cui non à senso anteporre a nguacchio/nquacchio,nquacchià/nguacchià/nquacchiarïà un inutile ed incoferente segno diacritico (’) che presupporrebbe la caduta della vocale i di in e pertanto correttamente occorre scrivere nguacchio/nquacchio, nquacchià/nguacchià/nquacchiarïà e non ‘nguacchio/’nquacchio,o ‘nquacchià/’nguacchià/’nquacchiarïà come purtroppo càpita di leggere in talune raffazzonate pubblicazioni di sedicenti cultori e/o esperti del napoletano!
mmerda/merda s.vo f.le dal lat. merda(m) = escremento, sterco e figuratamente: cosa che disgusta, persona spregevole, situazione ripugnante | nella loc.ne agg.le ‘e mmerda= pessimo/a, spregevole: fà ‘na fijura ‘e mmerda: fare una figura di merda = fare una pessima figura; dal s.vo a margine deriva il s.vo m.le mmerdajuolo = raccoglitore di sterco;
dal s.vo a margine deriva altresí l’agg.vo m.le o f.le mmerduso/mmerdosa = inetto/a, incapace, buono/a a nulla. o di ragazzo/a che si atteggino ad adulti;in tale significato sono usati piú spesso i diminutivi mmerdusillo/mmerdusella.
banchèra= ad litteram: sguaiata, ciarliera ma pure sboccata, maleducata, rozza, zotica, grossolana venditrice al minuto che lavora servendosi di un banco/bancone tenuto all’aperto sulla pubblica via, venditrice che essendo in contatto con molte persone può – come la precedente capèra - diventar pettegola, propalatrice di notizie; etimologicamente è voce derivata da banche plurale di banco (che è dal germ. *bank 'sedile di legno' ) + il suffisso femm. di pertinenza èra o altrove iéra per erronea imitazione del suff. m.le iére (suffisso di sostantivi derivati dal francese (-ier) o formati direttamente in italiano, la cui origine è il lat. -ariu(m); forma soprattutto nomi di professioni, mestieri, attivit o di oggetti;come dicevo l’esatto suffisso di pertinenza f.le è èra mentre il maschile è appunto iére (cfr. salum-iere ma salum-èra, canten-iére ma canten-èra e nel caso che ci occupa banch-iéro ma banch-èra etc.);
chiazzera e perraro al m.le chiazziére/o; chiazzera è un s.vo f.le che vale sguaiata, ciarliera ma pure sboccata, maleducata, rozza, zotica, grossolana pettegola, soggetto che parla spesso con morbosa curiosità e con malizia di fatti e comportamenti altrui e lo fa in maniera scomposta, volgare, triviale, scurrile, maleducata, a voce alta e soprattutto palam in piazza (affinché tutti intendano e le notizie si propalino piú facilmente); la voce è ricavata addizionando il suffisso di pertinenza èra o altrove iéra per erronea imitazione del suff. m.le iére (suffisso di sostantivi derivati dal francese (-ier) o formati direttamente in italiano, la cui origine è il lat. -ariu(m); forma soprattutto nomi di professioni, mestieri, attivit o di oggetti;come dicevo l’esatto suffisso di pertinenza f.le è èra mentre il maschile è appunto iére (cfr. salum-iere ma salum-èra, canten-iére ma canten-èra e nel caso che ci occupa banch-iéro ma banch-èra etc.); addizionando il suffisso al s.vo chiazza = piazza(chiazza è dal lat. platea(m) con normale passaggio del pl latino al chi napoletano (cfr. i normali sviluppi di pl→chj→chi ad es.: chino ←plenum, cchiú←plus, chiaja←plaga,platea→chiazza, chiummo←plumbeum etc.)).
votacàntere = vuota-pitali quella donna (probabilmente lercia, sporca,o pensata tale), addetta agli infimi uffici quale quello di svuotare in mare( per solito durante la c.d. malora ‘e chiaia(vedi altrove)) i vasi di comodo in cui le famiglie depositavano i propri esiti fisiologici; etimologicamente la voce votacàntare risulta esser l’unione di una voce verbale vòta = vuota (3° pers. sing. ind. pres. dell’infinito votà= vuotare che è un denominale derivato dal lat. volg. *vocitu(m), variante di *vacitu(m), part. pass. di *vacíre 'essere vuoto', corradicale del lat. vacuus 'vuoto') + il sostantivo càntare plurale di càntaro s.vo m.le = vaso di comodo, pitale etimologicamente dal lat. càntharu(m) forgiato sul greco kantharos, da non confondersi con il termine cantàro (che è dall’arabo quintâr) voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro);
vajassa = serva, fantesca ma intesa in senso dispregiativo ; dall’arabo: baassa attraverso il francese bajasse con la solita alternanza partenopea b/v, da cui in italiano: bagascia= meretrice.
funnachèra letteralmente abitante, frequentatrice di un fondaco, il fondaco(in napoletano fúnneco) fu, dalla seconda metà dell’ ‘800, ai primi del ‘900, un locale a pianterreno o seminterrato, usato come magazzino o come abitazione poverissima;ma anche estensivamente un cortilaccio o vicolo cieco circondato di abitazioni da povera gente, ed addirittura una zona poverissima ed insalubre della città ( a Napoli ne esistettero fino ai primi del 1900, a dir poco una settantina (tra i quali il famoso Funneco Verde cantato da Salvatore Di Giacomo) ubicati quasi tutti nella città vecchia segnatamente nelle zone del Porto e Pendino e spesso detti fondaci prendevano il loro nome da quello degli artieri che vi aprivono bottega: es: funneco verde =fondaco degli ortolani, funneco ‘a ramma fondaco dei ramai) con costruzioni fatiscenti e malsane; quindi la funnachèra quale abitante o frequentatrice di un fondaco, connota una donna di bassa condizione civile , intesa becera, volgare, triviale; etimologicamente voce denominale di fúnneco che è derivato dall'arabo funduq (attraverso lo spagnolo fúndago(con assimilazione progressiva nd→nn e variazione di tipo popolare della occlusiva velare sonora g con la piú aspra e dura occlusiva velare sorda c):altra ipotesi etimologica è che tale fondaco: 'alloggio, magazzino', possa derivare dal gr. pandokêion(pan=tutto, dokomai=accolgo)ed in tal caso fondoca varrebbe oltre che magazzino anche locanda, albergo pubblico; da funnaco + il solito suffisso femminile di pertinenza era scaturisce funnachera; il suffisso era al maschile è iere(suffisso di sostantivi derivati dal francese (-ier) o formati direttamente in italiano, la cui origine è il lat. -ariu(m); forma soprattutto nomi di professioni, mestieri, attività (panettiere, cavaliere, ‘nfermiere, raggiuniere) o di oggetti (rasiere,repustiere); (per la differenza di suffisso cfr. salum-iere, ma salum-era);
vasciajola letteralmente abitante di un basso locale a pianterreno o seminterrato, usato come magazzino o come abitazione poverissima, simile al fondaco; ) e quindi donna, di infima condizione civile , intesa becera, volgare, triviale, incline al pettegolezzo e alla chiassata; etimologicamente la voce vasciajola è un chiaro denominale di vascio (lat.: bassu(m))+ il suffisso lat. volg.: ariolus/la con un’ inattesa dissimilazione totale della r;
janara catarrosa letteralmente strega affetta da catarro e dunque sporca, lercia; di per sé la janara è la strega, la megera,ma pure una donna plebea brutta e malefica; etimologicamente pare essere un derivato come penso e reputo, del nome della dea pagana Diana(m), non manca però chi pensa ad una derivazione da (r)janara forma metatetica di irana/iranara = granata coperta di peli di capra; catarrosa = agg.femm. sofferente di catarro: una vecchia catarrosa
o che rivela la presenza di catarro: tosse, voce catarrosa denominale di catarro che è dal tardo lat. catarrhu(m), che è dal gr. katárrous, deriv. di katarrêin 'scorrere giú;
janara cecagnòla o scazzata letteralmente strega, megera,quasi cieca o cisposa; cecagnòla = guercia; nell’immaginario comune l’esser guercio o come il successivo, l’esser cisposo è di persona (specie se donna) volgare, laida, sporca, falsa ed inaffidabile, tendente alla cattiveria; l’etimo di cecagnola risulta un deverbale di cecà/cecare dal lat. caecare, mentre la voce scazzata = cisposa, da scaccolare è un aggettivo da un participio passato dell’infinito scazzà = scaccolare, liberar gli occhi dalle caccole che formano il cispo (in napoletano scazzimma da un lat.volgare caccita; non si può però escludere che il verbo scazzà derivi da un basso latino ex-cacare composto di cacare)
spernocchia =conocchia/canocchia o cicala di mare: piccolo crostaceo marino con duro carapace, commestibile, con corpo allungato e zampe anteriori ripiegate, atte alla presa; per traslato donna coriacea, repulsiva, scostante; letteralmente vale l’italiano sparnocchia; la voce napoletana è un adattamento popolare giocoso di spannocchia (dal lat. volg. *panucula(m), per il class. panicula(m), dim. di panus ' con protesi di una s intensiva) forse per la forma che ricorda quella di una pannocchia ben accartocciata nelle sue foglie;
trafechèra letteralmente vale l’italiano traffichina e dunque donna dedita a traffici poco onesti, imbrogliona, intrigante; etimologicamente è un deverbale del verbo trafechïà attraverso il sostantivo trafeca (travaso) + il consueto suffisso femm. èra; la voce trafechïà in primis vale (con derivazione dal catalano trafegar)travasare il vino (da un tardo latino: trans + faex-faecis= feccia )e quindi estensivamente: maneggiare, esercitar traffici illeciti;
muzzecútela vale l’italiano maldicente,malevola sparlatrice, mordace detto soprattutto di donna che in una discussione pretende d’aver sempre l’ultima parola; etimologicamente è un deverbale del verbo muzzecà (morsicare, mordere anche in senso figurato) che è forse da un basso latino *muccicare, se non dal tardo lat. morsicare, deriv. di morsus, part. pass. di mordíre 'mordere' con tipico passaggio rs→rz→zz.
trammèra è la medesima voce riportata a seguire con una piccola differenza morfologica rappresentata da una n eufonica posta in posizione protetica, consonante che essendo prettamente eufonica e non derivata da aferesi di un (i)n→’n illativo, non necessita di segno diacritico(‘) ; è voce che indica colei che tesse inganni, congiure, insidie, donna inaffidabile;va da sé che la voce a margine non à nulla a che spartire con il termine tram essendo etimologicamente un derivato della voce trama (dal lat. trama(m) ) = macchinazione, intrigo, con tipico raddoppiamento popolare della labiale m e l’aggiunta del suff. femm. èra;
ndrammera/ntrammera, , agg.vo e talora s.vo f.le e solo femminile atteso che il corrispondente maschile ntrammettiere= uomo ,volgare, intrigante,pettegolo non è attestato e non è usato né nello scritto, né nel parlato comune;anche la voce a margine (unica voce con due grafie leggermente diverse) è voce antica ed abbondantemente desueta; letteralmente valse: donna pettegola ed intrigante, inframmettente, linguacciuta, che tesse trame; etimologicamente delle due grafie riportate la seconda (ntrammera) appare quella piú esatta e con ogni probabilità originaria atteso che risulta formata da una n eufonica protetica del s.vo trama (con raddoppiamento espressivo della nasale bilabiale m) e con il suffisso di pertinenza èra; l’altra grafia (ndrammera) è palesemente ricavata dalla originaria ntrammera attraverso la sostituzione della consonante occlusiva dentale sorda t con la piú dolce consonante occlusiva dentale sonora d;
palazzola, agg.vo e talora s.vo f.le e ora solo femminile atteso che il corrispondente maschile palazzuolo= è desueto e non è usato né nello scritto, né nel parlato comune;letteralmente la voce a margine fu coniata, quale denominale della voce palazzo, per identificare quelle popolane, ciarliere e petulanti che vivevano ai margini del palazzo reale in cerca di benefattori tra i nobili frequentatori della corte; il maschile palazzuolo un tempo (1750 – 1850 ) fu usato nella medesima accezione del femminile; dopo l’unità (1860) cadde in disuso e venne usato solo nel significato di furbo, abile (forse tenendo presenti gli accorgimenti usati da quei popolani per strappare qualche vantaggio, utilità dai nobili cui si rivolgevano circuendoli con chiacchiere e ciarle;
pirchipétola/perchipetolaagg.vo e talora s.vo f.le e solo femminile atteso che il corrispondente maschile pirchipetolo= uomo intrigante,pettegolo non è attestato e non è usato né nello scritto, né nel parlato comune;anche la voce a margine (unica voce con due grafie leggermente diverse) è voce antica ma non desueta; letteralmente valse e vale l’italiano donna ciana, becera, donnaccola pettegola e volgare, linguacciuta, quando non donna di facili costumi con derivazione dell’addizione della voce perchia = perca: pesce acquatico di scarsissimo valore con bocca grossa e ventre ampio e floscio + petola/petula = pettegola, ciarliera; delle medesime infime qualità: bocca grossa (come che sottolineata dal pesante trucco), e ventre ampio e floscio, frutto del tipo di… lavoro comportante spesso gravidanze indesiderate è accreditata
la donna di facili costumi detta perchia spesso ciarliera e dunque pirchipétola/perchipétola.
cajòtela vale l’italiano donna di facili costumi probabilmente voce derivata da un lat. (foemina) *caveottula con riferimento al ristretto covo (cavea) in cui detta femmina prestava la sua opera mercenaria;
pernacchia da non confondere con l’omonima voce italiana con la quale si rende il napoletano pernacchio, cioè il suono volgare emesso con un forte soffio a labbra serrate, in segno di disprezzo o di scherno; (ricordo súbito che la voce pernacchio, anticamente fu vernacchio e con tale voce derivata dal tardo lat. vernaculu(m) si significò inizialmente la vera e propria scoreggia cioè il suono volgare emesso dai visceri per espellere gas intestinali e solo successivamente con la parola vernacchio/pernacchio si intese il suono che imitativamente a quello prodotto dai visceri veniva emesso dalle labbra serrate in segno di dileggio e/o disprezzo.) questa a margine è offesa che si rivolge ad una donnaccola brutta, ripugnante e dai modi volgari che tuttavia, nel tentativo di farsi notare ed accettare usa agghindarsi in maniera ridondante ed appariscente attirandosi spesso il dileggio di coloro che la guardino, e che spesso usano nomarla pernacchia ‘mpernacchiata (donnaccola agghindata) l’etimo di pernacchia è dal lat. vernacula 'cose servili, scurrili'neutro plur (poi inteso femm.). di vernaculum deriv. di verna 'schiavo nato in casa';
‘mpernacchiata agg.vo f.le e solo f.le = agghindata mpreziosita, ingioiellata in maniera eccessiva; voce part. pass. f.le dell’infinito ‘mpernacchià denominale del lat. scien. perna= perla, gioiello;
pirchipétola/perchipetola vale l’italiano donna ciana, becera, donnaccola pettegola e volgare, linguacciuta, quando non donna di facili costumi con derivazione dell’addizione della voce perchia = perca: pesce acquatico di scarsissimo valore con bocca grossa e ventre ampio e floscio + petola/petula = pettegola, ciarliera; delle medesime infime qualità: bocca grossa (come che sottolineata dal pesante trucco), e ventre ampio e floscio, frutto del tipo di… lavoro comportante spesso gravidanze indesiderate è accreditata
la donna di facili costumi detta perchia spesso ciarliera e dunque pirchipétola/perchipétola;
rosecacucchiara s.vo f.le furbesco usato per indicare in primis la sguattera addetta alla cucina. Questa sguattera, afflitta da fame poco lenita, rimestava continuamente con la cucchiarella (cucchiaio di legno) nei cibi in cottura e saggiava in continuazione sin quasi a rodere il piccolo mestolo di legno.Voce formata dall’agglutinazione della voce verbale roseca+ il s.vo cucchiara;
roseca (3ª per. sg. ind. pr. dell’inf.transitivo rusecà = rosicchiare; alibi come intransitivo = sparlare, criticare; rusecà è dal lat. rosicare frequentativo di rodere;
cucchiara s.vo f.le qui mestolo di legno alibi cazzuola del muratore voce etimologicamente adattamento al femminile del m.le latino cocleariu-m;
cucchiarella s.vo f.le diminutivo del precedente.
la voce rosecacucchiara per ampiamento semantico tenendo dietro all’uso intransitivo di rusecà vale anche malalingua, maldicente, pettegola, calunniatrice.
chiazzèra donna plebea, ciana, volgare adusa ad urlare, vociare sguaiatamente soprattutto palam in piazza in maniera spesso scomposta, volgare, triviale, scurrile, sboccata, maleducata rozza, zotica; etimologicamente derivata dall’addizione di chiazza (=piazza dal lat. platea(m) 'via ampia', che è dal gr. platêia, f. sost. di platy/s 'ampio, largo)+ il solito suff. femm. èra
fuchèra donnaccola pettegola e volgare adusa ad accendere metaforici fuochi, seminando zizzania, con derivazione dall’addizione di fuoche (plurale di fuoco che è dal lat. focu(m)) + il consueto suff. femm. di pertinenza èra
‘mmicïata donna di facili costumi, viziosa ; voce quasi del tutto desueta che però si può ancora riscontrare – con intenzioni e valenza molto offensive - nel parlato plebeo di talune cittadine dell’area vesuviana; etimologicamente derivata dal basso latino *in vitiata da un in (illativo)+ vitium con stravolgimento dell’originario significato di vitium inteso non piú come errore, ma come la disposizione abituale al male; l'acquiescenza continua agli istinti piú bassi; per il passaggio di inv a ‘mm vedi alibi invece=’mmece, invidia=’mmidia;
scigna cacata letteralmente scimmia sporca d’escrementi e per traslato: donna lercia, laida,sporca quantunque tenti di apparire avvenente (tené ‘e bbellizze d’’a scigna = avere le grazie della scimmia cfr. alibi)scigna deriva dal lat. simia→simja, con un consueto passaggio di s+ vocale a sci: (vedi altrove semum→scemo) e mj→gn (come in ca(m)mjare→cagnà) cacata = part. passato femm. aggettivato dell’infinito cacà/cacare = defecare dal latino cacare;
aucellona ‘nzevosa uccellone unto id est: donnaccola appariscente, ma sporca, lercia; aucellona è l’accrescitivo femm. (vedi il suff. ona) del sostantivo maschile auciello derivato da un tardo lat. aucellus doppio diminutivo di avis→avicula→avicellus→avuciello→auciello con tipica dittongazione cie della sillaba ce, sillaba implicata ossia seguita da due consonanti; ‘nzevosa= unta, untuosa e quindi sporca, lercia con etimo da un basso latino in(illativo) + sebosus = ingrassato, aggettivo forgiato su sebum= grasso, in+s sfocia sempre in ‘nz e tipica è l’alternanza partenopea b/v (vedi barca/varca, bocca/vocca etc.;
zandraglia perucchiosa zandraglia = donna volgare, sporca incline alle chiassate, ai litigi ed al pettegolezzo; perucchiosa = pidocchiosa, coperta di pidocchi,la voce zandraglia (etimologicamente dal francese les entrailles,)indicò dapprima le donne povere volgari e vocianti che si litigavano, alle porte delle cucine reali o del macello situato a Napoli presso il ponte Licciardo, le interiora e le ossa delle bestie macellate,(donde l’espressione partenopea: va’ fa ll’osse ô ponte= vai a raccattar le ossa al ponte, invito perentorio e malevolo rivolto a chi ci importunasse con richieste fastidiose, affinché ci liberi della sua sgradevole presenza, spostandosi altrove!) interiora ed ossa distribuite gratuitamente; poi, in altra epoca, con la medesima voce si indicarono le donne designate a ripulire dai resti umani i campi di battaglia e/o i luoghi di esecuzioni capitali (ed in tali occasioni queste donne malvissute si contendevano l’un l’altra le vesti e qualche effetto personale dei soldati o dei condannati); l’aggettivo perucchiosa femm. metafonetico di perucchiuso vale pidocchiosa, affetta dai pidocchi, dalle zecche, ma pure avara, taccagna forgiato sul sostantivo perocchio (con derivazione da un originario lat.pedis= pidocchio attraverso un diminutivo pediculus alterato in peduculus→ peduc’lus →perocchio con la tipica alternanza osco- mediterranea d/r) addizionato dei suffissi di appartenenza uso/osa;
zellósa aggettivo sostantivato femm. metafonetico di zelluso e vale tignosa, affetta da alopecia(in napoletano: zella) la voce a margine etimologicamente è formata dall’addizione di zella (da un lat. regionale (p)silla(m) dal greco psilòs =nudo, calvo; il raddoppiamento della liquida è d’origine popolare, (come alibi mellone da melon – ‘ntallià da in-taliare etc. ) con i soliti suffissi di appartenenza uso/osa;
fetósa aggettivo sostantivato femm. metafonetico di fetuso e vale fetida, poco raccomandabile, pericolosa, sporca, lercia, che puzza; la voce a marigine etimologicamente è formata dall’addizione di fieto (che è uno dei pochi lemmi derivati non da un accusativo latino, ma da un nom.: foetor= puzzo) con i soliti suffissi di appartenenza uso/osa;
mmerdósa di per sé pur’esso un aggettivo sostantivato femm., metafonetico di mmerduso e varrebbe in primis: sporco di escrementi, ma sta pure per persona abietta, spregevole, capace di qualsiasi slealtà; l’etimo risulta essere la consueta addizione di un sostantivo con i soliti suffissi di appartenenza uso/osa;il sostativo in questione è chiaramente mmerda (dritto per dritto dal lat. merda(m)=escrementi umani ed animali;
culo ‘e tiella letteralmente fondo di padella (che per essere costantemente a contatto con il fuoco, risulta bruciacchiato ed annerito, inteso dunque perennemente sporco; culo di per sé culo, sedere,deretano, ma nell’accezione a margine sta per fondo, etimologicamente dal basso latino culu(m) che è dal greco kolon=intestino;
tiella è la padella, teglia e segnatamente quella di ferro con etimo dal lat. volgare tegella(m) diminutivo di tegula (in origine i tegami furono di argilla cotta come le tegole); da tegella →tejella/teiella→tiella;
cacatrònele sostantivo che (intraducibile ad litteram in quanto sarebbe caca-tuoni), indica la donnaccola becera, sfrontata, scostumata che non si fa scrupolo di fare trombetta del proprio posteriore abbandonandosi palam al crepitío prolungato di rumorosi peti.
la voce a margine è formata dall’unione di caca (voce verbale 3° pers. sing. ind. pres. dell’infinito cacà/cacare =defecare, dal basso lat. cacare) + il sostantivo femm. plurale trònele = tuoni, percosse,peti (dal basso lat. tonitru(m)→*tronitu(m) con un suff. diminutivo atono femm. ole (lat.ulae);
cuopp’ ‘allesse cartoccio (conico) di castagne lesse, inteso tale cartoccio bagnato e macchiato (la buccia interna delle castagne lesse tinge di scuro la carta con cui si confeziona il cartoccio!) e quindi lercio, sporco e tali sono ritenute le donnaccole cui è riferito l’epiteto a margine; cuoppo = cartoccio (conico) quanto all’etimo è una forma masch. e dittongata del tardo lat. cuppa(m) per il class. cupa(m)= botte, per la comunanza funzionale, sebbene non di forma, del concetto di capienza e ricezione; allesse plur. di allessa= castagna privata della dura scorza esterna e bollita in acqua con aggiunta di foglie d’alloro e semi di finocchio derivata dal part. pass. femm. del tardo lat. elixare 'far cuocere nell'acqua, sebbene qualcuno proponga un tardo lat. *ad-lessa(m) ma non ne vedo la necessità;
furnacella sfunnata letteralmente piccolo forno sfondato; va da sé che quale epiteto rivolto ad una donnaccola con la voce fornacella non si indica certamente il fornetto in pietra o metallo, ma furbescamente la vulva di colei cui è diretto l’epiteto, vulva che risultando sfunnata (sfondata) accredita la donnaccola offesa d’esser donna di facili costumi, se non addirittura una meretrice abbondantemente conosciuta in senso biblico; furnacella= fornetto portatile alimentato a carbone; nell’espressione a margine vale però per traslato : vulva atteso che sia il fornetto sia la vulva son sede(l’uno di un reale fuoco, l’altra di uno figurato; rammenterò al proposito che nel parlato napoletano tra le piú comuni voci usate per indicare la vulva c’è quella che suona purchiacca/pucchiacca che con etimo dal greco pýr +k(o)leacca←*cljacca sta per fodero di fuoco; tornando a furnacella dirò che l’etimologia è dall’acc. lat. volgare furnacella(m) che è un diminutivo con cambio di suffisso per cui in luogo dell’atteso furnacula(m) dim. di furnum si è ottenuto la ns. furnacella(m); sfunnata= sfondata, rotta , consunta part. pass. femm. aggettivato dell’infinito sfunnà = sfondare; denominale del latino fundu(m) con protesi di una s questa volta distrattiva;
tozzola spugnata = cantuccio di pane raffermo ammollato in acqua, dunque donnaccola lercia, ciana, sporca,bagnata; la tozzola essendo un cantuccio di pane raffermo è cosa inutile, da buttar via, inservibile, tal quale la donnaccola volgare e spregevole cosí chiamata; tozzola= cantuccio di pane raffermo, tozzo; tozzola etimologicamente appare un diminutivo femminilizzato del lat. tursum =gambo, da un *tursola→turzola e per assimilazione regressiva tuzzola→tozzola;
spugnata part. pass. femm. aggettivato dell’infinito spugnà= ammollare etimologicamente denominale di spogna= spugna che è dal lat. spongia(m);
vrenzola spurtusata letteralmente straccio bucato e dunque donna volgare, lercia , rabberciata, stracciona, raffazzonata ; di per sé la voce vrenzola nel suo significato primo di straccio e poi in quello estensivo di persona, donna mal fatta o mal ridotta pare che etimologicamente possa ricollegarsi ad una brenniciola→bren(i)ciola→brenciola diminutivo di un’originaria brenna corrispondente (vedi il Du Cange) ad un basso lat. breisna= rozza, vile,senza valore ma non manca (senza che mi trovi d’accordo) chi fa derivare brenna dall'ant. fr. braine (giumenta) sterile e quindi priva di valore; spurtusata part. pass. femm. aggettivato dell’infinito spertusà =bucare denominale della voce pertuso =buco (dal lat. *pertusium derivato di pertundere=bucare) con protesi di una s intensiva.
guallecchia vale di per sé ernia molliccia e dunque per traslato donna dappoco, volgare, fastidiosa tal quale un’ernia molliccia quella stessa che a Napoli è indicata oltre che con la voce a margine anche con l’espressione guallera cu ‘e filosce (ernia corredata di spugnose frittatine) ed infatti la voce a margine risulta essere una gustosa forma eufemistica della voce guallera (dall’arabo wadara =ernia) incrociata con la voce pellecchia=pelle aggrinzita, molle e cadente ma pure buccia sottile (ad es. di pomidoro) ( che deriva da un lat. volg. pellicla(m) per il class. pellicula(m) diminutivo di pellis-is = pelle, buccia); rammento pure che la voce filoscio di cui filosce/i è il plurale = frittata sottile e spugnosa (dal francese filoche da fil= filo sottile ;
squàcquara vale di per sé neonata, bambina piccola e, come offesa rivolta ad una donna: flaccida, deforme,senza forze, rachitica; in effetti al di là di imprevisti malanni costituzionali, una neonata non può avere tutta la gagliardía fisica di un’adulta e spesso si mostra flaccida e senza forze; quanto all’etimo la voce a margine risulta un deverbale di squacquarà che riproduce in modo onomatopeico il verso della quaglia giovane ed infatti a Napoli, nel gergo giovanile, una ragazza giovane si disse quaglia (che è dall'ant. fr. quaille, voce derivata dal lat. volg. *coacula(m), di origine onomatopeica) e la piccola bambina quagliarella
chiarchiósa pesante offesa che rivolta ad una donna l’accredita d’esser sudicia, sporca, lordata quando non estensivamente laida meretrice; la voce a margine di suo è un aggettivo poi sostantivato (vedi il suff. femm. di pertinenza osa/oso unito al sostantivo di partenza che è chiarchio = lordura, sozzura, muco nasale (di probabile etimo onomatopeico);
‘nfranzesata letteralmente infranciosata, meretrice che à contratto il mal francese cioè la lue o sifilide e dunque donnaccia da trivio; rammenterò che un tempo la sifilide fu detta a Napoli mal francese in quanto ritenuta malattia infettiva trasmessa attraverso le prostitute dai soldati francesi di Carlo VIII re di Francia (1470-†1498),che era figlio di Luigi XI e di Carlotta di Savoia.(c’è sempre un Savoia (mannaggia a loro!) sulla strada dei Napoletani!) , mentre in Francia fu chiamato mal napolitaine, in quanto pensato propagato tra i medesimi soldati dalle prostitute partenopee che già ne erano affette, e per dileggio si usò dire di chi fosse stato colpito dall’infezione: È stato in… Francia! Etimologicamente la voce a margine è un’adattamento dialettale di infranciosata che è il part. passato femm. dell’infinito infranciosare per il piú comune infrancesare (da un in illativo + francese).
Tràcena s.vo f.le 1 (in primis) tracina,trachino (pesce di mare dalle carni gustose, usato soprattutto nelle zuppe, di media grandezza e con corpo allungato, provvisto di una pinna dorsale a raggi spinosi e veleniferi), pesce ragno (ord. Perciformi)). 2(per traslato come nel caso che ci occupa) donnaccola infida,maldicente, pettegola, malalingua, diffamatrice, dagli affrettati giudizi, pericolosa sino a diventare addirittura velenosa tal quale il pesce da cui mutua il nome. Voce derivata dal lat. mediev. anthrace(m)→(an)t(h)race→trace→tracena con allungamento sillabico eufonico (na).
In coda a questa nutrita elencazione di epiteti ne aggiungo numerosi altri molto icastici ed espressivi quantunque \ antichi e desueti, tutti riportati nelle sue opere dal Basile (Giugliano in Campania, 1566 o 1575 –† Giugliano in Campania, 1632) notissimo letterato napoletano di epoca barocca, primo a utilizzare la fiaba come forma di espressione popolare.. Gli epiteti desueti sono
Cernapérete agg.vo f.le e solo femminile letteralmente setacciatrice di scorregge ma va da sé che non potendosi passare allo staccio le emissioni gassose intestinali, si tratti di una divertitente, quantunque offensiva voce traslata con cui si indica una donna dal voluminoso fondoschiena che abbia un incedere ancheggiante e dondolante facendo oscillare il sedere per modo che imiti il movimento d’un setaccio; la voce è formata dall’agglutinazione di cerna + il s.vo pérete:
cerna voce verbale (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito cèrnere= stacciare, setacciare dal lat. cernere 'vagliare, separare',
pérete s.vo f.lepl. di péreta femminilizzazione espressiva di píreto s.vo m.le = peto, emissione rumorosa di gas dagli intestini. (dal lat. pēditu(m), deriv. di pedere 'fare peti' con alternanza osco mediterranea di d→r onde pēditu(m)→piritu(m)→píreto);il s.vo f.le péreta fu coniato nell’intento di connotare un emissione di gas intestinali che fosse piú rumorosa di quella normalmente indicata dal m.le píreto e ciò perché In napoletano un oggetto o cosa che sia è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella;
forcelluta agg.vo f.le; al maschile, ma poco usato, è furcelluto mordace, maledico/a aggressivo/a, caustico/a, graffiante, tagliente, salace, sferzante, ironico/a ma sempre addizionati di una dose di malevoli bugie; con linguaggio moderno si direbbe lingua biforcuta ; etimologicamente la voce infatti è un denominale di furcella/forcella = forcina,forcella, nome generico di vari utensili costituiti da un'asta biforcata in due bracci: dal lat. furcilla(m), dim. di furca 'forca';
perogliosa agg.vo f.le; al maschile, ma poco usato, è perogliuso = cencioso/a – lacero/a, sbrindellone/a, sciattone/a; epiteto rivolto soprattutto a giovane donna o giovane uomo che siano molto poco attenti al loro decoro personale mantenendo un atteggiamento di immagine o comportamentale trasandato, trascurato, disordinato, scalcinato; la voce è un denominale di pèroglie s.vo f.le pl. =cenci, cianfrusaglie,pezze per i piedi dal lat. pedulĭa : da notare la roticizzazione osco-mediterranea della d→r;
picoscia agg.vo e s.vo f.le non è attestato un m.le picoscio sebbene sia ipotizzabile = donna bassa e dalle gambe storte e come tale adusa ad una andatura scorretta, tentennante, di sghimbescio tale, semanticamente, da farla classificare come persona infida ed inaffidabile, falsa, doppia, ambigua;interessante l’etimo della voce che piú che una derivazione del s.vo paloscio (che è dal serbocr. paloš, che è dall’ungh. Pallos) derivazione di cui non si riesce a cogliere il nesso semantico atteso che questo paloscio indica la daga a lama stretta, ad un solo taglio, portata nel medioevo dai cacciatori, anche per aprirsi il cammino nella boscaglia, e in seguito dai battistrada dei cortei, né è attestato che questa corta daga avesse la lama storta e non diritta; piú che una derivazione del s.vo paloscio, io penso ad un incrocio tra coscia e bi-cocca (catapecchia, casa diroccata; misera casupola dal fr. bicoque) l’incontro bi – cocca e coscia determinò bi→pi-coscia che da un significato di partenza di gamba (coscia) misera e malmessa per metonimia indicò la donna bassa che avesse quelle gambe storte e malmesse;in coda rammento che il corrispondente al maschile della voce in esame è lo scatobbio agg.vo m.le e solo m.le usato per indicare in primis l’ometto deforme, rachitico, sgraziato, brutto, goffo, racchio, ranocchiesco e per estensione semantica figuratamente l’uomo da nulla,di nessuna rilevanza, anzi emarginato, sgradevole in quanto ripugnante il tutto in linea con l’etimo della voce che è dal greco skatòs (sterco) addizionato con bios (vita) insomma quasi un titolare di una vita di merda.
privasa/prevasa/provasa/pruvasa quattro morfologie alternative d’un'unica voce che in senso traslato, sostanzia un epiteto altamente offensivo rivolto ad una donna e solo a donne; in realtà delle quattro forme solo l’ultima pruvasa fu usata nel parlato della città bassa quale epiteto offensivo; le altre forme furono usate in letteratura e quasi del tutto in senso proprio; si tratta di un s.vo f.le con cui si indica in senso proprio il cesso, la latrina, il gabinetto di uso privato;in senso traslato ed offensivo fu usato per indicare una donna volgare, lercia, sordida, abietta, corrotta, ripugnante, ributtante,disgustosa,tal quale un cesso o una latrina non nettati o ripuliti; è voce marcata sul fr. privaise a sua volta ricavata da un lat. volg. *privatĭa d’analogo significato;
pontonèra/puntunèra doppia morfologia alternativa [di cui la prima adottata da scrittori meno adusi alla verace parlata popolare napoletana] d’un'unica voce che sostanzia un epiteto altamente offensivo rivolto ad una donna e solo a donne; ambedue le forme, con la distinzione che ò fatto, furono usate sia in letteratura (cfr. Ferdinando Russo che però adoperò la piú esatta e veracemente popolare puntunèra ) che nel parlato della città bassa quale epiteto offensivo; il significato fu univoco senza possibilità di confusione: prostituta, donna di malaffare, donna da strada, donna da marciapiede, sgualdrina, baldracca; la voce etimologicamente è un denominale di pontone/puntone (angolo di strada, spigolo di muro,cantonata di via,) addizionato del suff. di competenza f.le èra che al m.le è iere (cfr.salum-era ma salum-iere, panett-era ma panett-iere,cantenera,ma canteniere etc.); pontone/puntone s.vo m.le = angolo di strada, spigolo di muro, cantonata; voce ricavata dal s.vo puncta(m) con riferimento allo spigolo del muro, addizionato del suff. accr. m.le one.Rammento altresí che nella medesima valenza e significato della voce in esame fu usato sebbene piú in letteratura che nel parlato un analogo cantonèra/cantunèra (marcato sul s.vo - che non è della parlata napoletana cantone) voce mutuata dal siciliano;
púppeca prostituta, malafemmina, battona etc. ; totalizzante offesa rivolta a donna e solo a donne; di per sé la voce a margine varrebbe (donna)pubblica in quanto voce etimologicamente derivata per adattamento locale dall’agg.vo lat. publĭca (passato inalterato nello spagnolo cfr. mujer publica=prostituta) secondo il seguente percorso morfologico publĭca→pubbica→pubbeca→púppeca;
quaquarchia/quarchiosa/quarchiamma triplice morfologia d’un unico vocabolo di partenza: quaquarchia che sostanziò una pesante offesa rivolta ad una donna e solo a donne: donna brutta,sporca, sudicia, lorda, lercia, lurida nonché sordida; volgare, scurrile, indecente e quindi spregevole; la voce quaquarchia come le successive, etimologicamente derivano tutte da quarchia (s.vo f.le d’origine onomatopeica per indicare una cosa sporca, un oggetto unto); quaquarchia presenta l’iterazione espressiva e rafforzativa della prima sillaba posta in posizione protetica; sempre partendo da quarchia si ottenne (addizionandole il suff. osa suffisso di pertinenza derivato dal lat. osa←osu(m)),si ottenne l’agg.vo sostantivato quarchiosa = sporca, unta,impiastricciata e dunque lorda, lercia, lurida nonché sordida, volgare, scurrile, indecente; infine sempre partendo da quarchia si ottenne (addizionandole il suff.dispregiativo amma (cfr. lut-amma/lot-amma) suffisso affine ad imma←imen (cfr. zuzz-imma cazz-imma etc.), si ottenne quarchiamma s.vo f.le e solo f.le = cosa eccessivamente sporca o unta di grasso fluido, donna sporca, sudicia, lorda, lercia, lurida, sconcia, abietta, turpe, laida, immonda, ignobile
varvera s.vo f.le e solo f.le bruciante offesa che sta per prostituta esosa, donnaccia pelatrice ed estensivamente anche piú semplicemente donna che sia avida, ingorda, gretta, tirchia, spilorcia nonché profittatrice,sfruttatrice, opportunista, adusa a pelare amici e conoscenti. Di per sé infatti la voce a margine quale denominale del s.vo varva (dal lat. barba(m) con normale passaggio di b a v (cfr. vocca←bucca(m), varca←barca etc.) addizionato del suff. f.le èra che al m.le è iere (cfr.salum-era ma salum-iere, panett-era ma panett-iere etc.) indicherebbe la barbiera f.le di barbiere: la donna o l’uomo che svolge il mestiere di radere la barba e tagliare o acconciare i capelli ( rammento en passant che fino agli inizi del sec. XIX all'esercizio di questo mestiere erano connesse anche pratiche mediche e chirurgiche);posto, dicevo, che la voce indicherebbe in primis la donna che svolgesse il mestiere di barbiere, è del tutto pacifico che si possa indicare con il medesimo termine, a fini offensivi, una donna sfruttatrice, opportunista, adusa a pelare (togliere figuratamente… i peli ad) amici e conoscenti.
vammana comincio con il dire che la voce vammana fu un tempo accostato a mammana = levatrice domestica levatrice, donna esperta che assiste le partorienti e ne raccoglie il parto ( sia vammana che mammana son voci derivate dalla medesima voce del lat. volgare *mammàna(m)) ma per vammana con forma dissimilata nella cons. d’avvio che da mammàna passa a vammana;
la vocevammana è usata, nel parlato comune popolare, non per indicare una vera e propria levatrice che assiste la puerpera e ne raccoglie il parto, ma per significare, in senso dispregiativo, e quindi offensivo quelle praticone, prive di adeguata preparazione, ma non di esperienza, aduse ad esercitare pratiche abortive clandestine (spesso servendosi di mezzi di fortuna, inidonei e pericolosi).Che si tratti di termine dispregiativo è dimostrato dal fatto che già anticamente (cfr. Basile) la voce vammana era usata quale epiteto.
Vommacavracciólle ancóra un epiteto abbondantemente desueto quantuque molto icastico ed espressivo; s.vo o agg.vo f.le voce composta addizionando una voce verbale (vommeca) ed un sostantivo pl. (vracciolle); letteralmente vale: vomitabraccine ma significò quale grave epiteto offensivo strega antropofoga, fattucchiera, ingorda arpía, megera adusa iperbolicamente a cibarsi di bambini di cuiperò poi recedesse le braccia; un tempo la voce a margine fu usata non solo come s.vo ma anche come agg.vo accostato al s.vo janara ottenendosi un’offensiva janara vommecavracciole (megera antropofoga) accostata alle pregresse janara catarrosa ed janara cecagnòla o scazzata (per ambedue cfr. antea);
vommeca voce verbale (3 p.sg. ind. pres. dell’infinito vummecà (= vomitare,recere,) adattamento del lat. vomitare, intensivo di vomere 'vomitare': vomitare→vomicare→vommicare/vummecà;
vracciolle s.vo f.le diminutivo di vraccia pl. del m.le vraccio = braccine del corpo umano; vraccio è dal lat. brachiu(m), che è dal gr. brachíon con normale passaggio di b a v (cfr. vocca←bucca(m), varca←barca etc.); rammento che negli anni ’50 del 1900 la voce in esame era completamente sparita anche nel parlato nella zona bassa della città e se ne adottò, quanto meno nel solo parlato, una sorta di adattamento che fu vommecavrasciole con il medesimo significato di strega, megera, ingorda fattucchiera che vomitasse indigeste braciole ripiene; la voce adottata metteva da parte le iperboliche e raccapriccianti vracciolle (braccine) per accontentarsi di piú probabili e meno inorridenti vrasciole (braciole/involtini ripieni); per ciò che riguarda la voce brasciola/vrasciola s.vo f.le dirò ch’esso s.vo deriva dal tardo latino brasa/vrasa+ il suff.diminutivo ola femm. di olus; semanticamente la faccenda si spiega col fatto che originariamente la brasola fu una fetta di carne da cuocere alla brace, e successivamente con la medesima voce adattata nel napoletano con normale passaggio della esse + vocale (so) al palatale scio che generò da brasola, brasciola si intese non piú una fetta di carne da cucinare alla brace, ma la medesima fetta divenuto grosso involto imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla e molto frequentemente, ma non necessariamente sugo di pomidoro, involto che è d’uso consumare caldissimo.
A margine di tutto ciò rammento che la voce brasciola viene usata nel napoletano quale voce furbesca e di dileggio riferita ad un uomo basso e grasso détto comunemente fra’ brasciola; ancóra la medesima voce è usata per traslato, ma piú spesso nei dialetti della provincia, che nell’autentica parlata napoletana,per indicare un tipo di pettinatura maschile, segnatamente quella del ciuffo prospiciente la fronte che semanticamente si ricollega alla brasciola perché il ciuffo è quasi ripiegato come un grosso involto; a Napoli il medesimo ciuffo cosí pettinato viene détto ‘o cocco voce del linguaggio infantile che oltre ad indicare il ciuffo suddetto è un s. m. [f. -a; pl. m. -chi] voce familiare usata per indicare una persona prediletta, un oggetto di affettuosa e protettiva tenerezza (spec. un bambino)che semanticamente si ricollega all’affettuosa tenerezza con cui le mamme sogliono sistemare la pettinatura dei proprii bambini, prediligendo il ciuffo ripiegato a mo’ di involto.
Infine rammento ancóra che in taluni dialetti provinciali (Capri, Visciano etc.) , furbescamente con la voce brasciola viene indicata la vulva, con riferimento semantico alla focosità e carnalità del sesso femminile.A Napoli che pure (vedi alibi) sono in usi numerose voci per indicar la vulva, questa provinciale brasciola non viene di norma usata.
Vottacàntere altra desueta voce composta s.vo f.le raramente anche m.le, ma come epiteto esclusivamente femminile; valse letteralmente butta(svuota)cànteri cioè serva o anche servo addetto ai lavori piú umili e segnatamente a quello di vuotare in mare i cànteri cioè i grossi vasi di comodo in cui la famiglia depositava le proprie deiezioni giornaliere; va da sé che una siffatta misera serva o talore misero servo fosse ritenuto un essere immondo, sudicio, sporco, sozzo, lurido; repellente, ripugnante, schifoso, disgustoso, nauseabondo, sconcio, laido tale che con la voce a margine si sostanziasse una corposa offesa.
Se serva la donna addetta al còmpito rammentato fu détta anche
zambracca= serva di infimo conio, fantesca addetta alla pulizia dei cessi e/o dei cànteri. La voce a margine origina dall’addizione del suffisso dispregiativo acca (=accia) con la parola zambra (che è dal francese chambre) in francese la voce chambre indicò dapprima una generica camera, poi uno stanzino ed infine il gabinetto di decenza. Pure questa zambracca fu usato quale epiteto offensivo nella medesima valenza precedente; tornando a
vottacàntere ripeto che si tratta di una voce s.vo f.le o talora m.le composta da una voce verbale votta = butta, svuota etc. (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito vuttà = gettare,buttare, svuotare etc. dal fr. ant. bouter, provenz. botar, di orig. germ con il consueto passaggio di b a v.; la voce verbale votta non è da confondere con l’omofono omografo s.vo votta = botte (dal lat. tardo *butta(m)→vutta(m)→votta 'piccolo vaso') che semanticamente nulla à a che vedere dall’incombenza esercitata dal/dalla vottacàntere
1) càntare/càntere s.vo m.le pl. di càntaro/càntero alto e vasto vaso cilindrico dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, vaso di comodo atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea e cioè con:cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia (ca 27 grammi) nel culo (e non occorre spiegare cosa rappresenti l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!Per restare in tema di càntaro/càntero riporto qui di sèguito un’interessante espressione che suona:
Vutà ‘o càntero = vuotare il vaso di comodo vale a dire: rinfacciare torti subíti o spiacevolezze patite; anche in questo caso è relativamente semplice cogliere il collegamento semantico tra il vuotare un vaso di comodo ed il rinfacciare torti subíti trattandosi in ambedue i casi di due operazioni fastidiose e/o spiacevoli, ma necessarie ed in fondo chi rinfaccia torti subíti o spiacevolezze patite si affranca di qualcosa di sgradevole che fino al momento di liberarsene era stata tenuta come un peso increscioso sul proprio io, il tutto alla medesima stregua di chi in tempi andati, come ò già riferito ( e cfr. ad abundantiam alibi ‘a malora ‘e Chiaia ) era costretto all’incresciosa, ma necessaria operazione di svuotare in mare i vasi di comodo colmi degli esiti fisiologici della famiglia.
Vutà/are v. tr. = vuotare, rendere vuoto, privare qualcosa del contenuto; svuotare; etimologicamente denominale del lat. volg. *vocitu(m), variante di *vacitu(m), part. pass. di *vacíre 'essere vuoto', corradicale del lat. vacuus 'vuoto'.
Faccio notare che nel napoletano non va confuso il verbo a margine vutà = vuotare con il verbo avutà/are = voltare, girare, volgere, indirizzare in un altro senso; orientare altrove (derivato dal lat. volg. * a(d)+volutare, intensivo di volvere 'volgere'; da * a(d)+volutare→av(ol)utare→avutare).
E sempre per restare in tema di di càntaro/càntero e di insulti/epiteti veniamo a dei duri brucianti insulti che sono: a) Piezzo ‘e càntero scardato! e b) Pezza ‘e càntero!
Sgombero súbito il campo da un facile equivoco: è vero che l’insulto sub a) per solito è rivolto ad un uomo dandogli del coccio infranto di un vaso da notte sbreccato, nell’intento di classificarlo e considerarlo moralmente sporco, lercio, immondo, individuo sordido, abietto, corrotto, ripugnante come potrebbe essere un pezzaccio di un vaso da notte che per il lungo uso risulti sporco e sbreccato; dicevo è pur vero che l’insulto sub a) per solito è rivolto ad un uomo, mentre l’insulto sub b) è rivolto ad una donna,bollando anche costei come persona moralmente sporca, sozza, lorda e quindi da evitare, ma le voci usate piezzo e pezza non sono il maschile ed il femminile di un unico termine, come qualche sprovveduto potrebbe ipotizzare, ma sono due sostantivi affatto diversi di significato affatto diversi:
piezzo s.vo m.le = pezzo, quantità, parte non determinata, ma generalmente piccola, di un materiale solido, qui usato nel significato di coccio, ciascuno dei pezzi in cui si rompe un oggetto fragile; l’etimo della voce a margine è dal lat. med. pettia(m) con metaplasmo e cambio di genere; ben diverso il sostantivo
pezza s.vo f.le = straccio, cencio, pezzo, ritaglio di tessuto (con etimo dal dal lat. med. pettia(m)); nella fattispecie la pezza dell’insulto in esame fu quello straccio, quel cencio usato in tempi andati per ricoprire, in attesa di vuotarli, i cànteri usati quando cioè risultassero colmi di escrementi; la medesima pezza era talora usata per nettarsi dopo l’operazione scatologica ed in tal caso però prendeva furbescamente il nome di ‘o liupardo (il leopardo) risultando détta pezza al termine delle operazioni maculata a macchie come il mantello d’un leopardo.
Rammento infine che in luogo dell’insulto piezzo ‘e càntero
un tempo fu usato un corrispondente scarda ‘e ruagno che ad litteram è: coccio di un piccolo vaso da notte. Cosí con gran disprezzo si usò e talvolta ancóra s’usa definire chi sia sozzo, spregevole ed abietto al punto da poter essere paragonato ad un lercio coccio di un contenuto vaso da notte infranto, vaso che è piú piccolo e basso di quello detto càntaro o càntero.
Per ciò che attiene alla etimologia della parola
scarda s.vo f.le che è pari pari anche nel siciliano, nel pugliese ed in altri linguaggi meridionali, considerata da sola e senza aggiunte specificative, vale: pezzo, scheggia frammento, scaglia (di legno, di vetro o di altro); per ciò che attiene l’etimo,dicevo noto che il D.E.I. si trincera dietro un pilatesco etimo incerto una scuola di pensiero (C. Iandolo) propone una culla tedesca sarda= spaccatura, qualche altro (Marcato) opta per una non spiegabile, a mio avviso, derivazione da cardo che dal lat. cardu(m) indica quale s. m.
1 pianta erbacea con foglie lunghe, carnose, di colore biancastro, commestibili (fam. Composite) | cardo mariano, pianta erbacea con foglie grandi e infiorescenze globose a capolino (fam. Composite) | cardo dei lanaioli, pianta erbacea con foglie fortemente incise e infiorescenze a capolino, di colore azzurro, con brattee uncinate, usate per cardare la lana e pettinare le stoffe (fam. Dipsacacee)
2 il riccio della castagna
ed ognuno vede che non v’à alcun collegamento semantico possibile tra questa pianta ed un pezzo, scheggia frammento, scaglia (di un qualcosa).
A mio modo di vedere è molto piú opportuno chiedere soccorso etimologico al francese écharde: scheggia.
Sistemata cosí la questione etimologica, affrontiamo quella semantica ricordando che in napoletano con l’accrescitivo femminile scardona la voce in epigrafe assume un significato del tutto positivo valendo gran bel pezzo di ragazza,di donna; con la voce scardona viene infatti indicata una donna giovane, bella, alta, formosa fino ad esser procace; al contrario una valenza affatto negativa la voce scarda (che attraverso il verbo scardare= sbreccare è anche alla base dell’agg.vo scardato/a) l’assume nell’espressione Sî‘na scarda ‘e ruagno! = Sei un coccio d’un piccolo vaso da notte!
Ruagno s.vo m.le = pitale, piccolo vaso da notte.Per ciò che riguarda etimo e semantica di questa voce dirò súbito che essendo solitamente questo vaso di comodo ubicato nei pressi del letto per essere prontamente reperito in caso di impellenti necessità, scartata l’ipotesi fantasiosa che ne fa derivare il nome da un troppo generico greco organon (strumento), penso si possa aderire all’ipotesi che fa derivare il ruagno da altro termine greco, quel ruas che indica lo scorrere, atteso che il ruagno era ed in alcune vecchie case dell’entroterra campano ancóra è destinato ad accogliere improvvisi contenuti scorrimenti o viscerali o derivanti da cattiva ritenzione idrica.
schiattacàntere anche in questo caso ci troviamo di fronte
ad un antico, desueto epiteto in forma di voce composta, voce f.le, ma pure m.le che letteralmente sta per crepacànteri e che pertanto non è un sinonimo (come invece qualche disaccorto addétto ai lavori à erroneamente opinato)in quanto la voce in esame non è riconducibile all’attività svolta da un/una servo/a di vuotare i vasi di comodo liberandoli delle deiezioni ivi contenute e come tale essere immondo, sudicio, sporco, sozzo, lurido; repellente, ripugnante, schifoso, disgustoso, nauseabondo, sconcio, laido; niente di tutto ciò! Con la voce a margine ci troviamo invece difronte a tutt’altra tipologia di soggetto per quanto anch’esso nauseante, ripugnante, ributtante, stomachevole, sgradevole in quanto soggetto aduso a stomachevoli pletoriche ripetute deiezioni tali da produrre iperbolicamente la crepatura o rottura dei vasi destinati a contenerle; in napoletano l’azione del crepare, rompere, squarciare è resa con l’infinito schiattare/à (voce intesa d’origine onomatopeica, ma è lecito ipotizzare un tema latino sclap-it da un originario sclap (il medesimo di schiaffo), da sclapit si ricavò un lat. parlato *sclapitare→sclaptare→schiaptare→schiattare); dicevo che in napoletano l’azione del crepare, rompere, squarciare è resa con l’infinito schiattare/à per cui addizionando la 3° pers. sg. dell’ind. pres. schiatta con il consueto s.vo cànatare/càntere si ottenne la voce a margine usata quale epiteto rivolto ad una ripugnante donna accreditata, per offesa di stomachevoli pletoriche ripetute deiezioni tali da produrre iperbolicamente la crepatura o rottura dei vasi destinati a contenerle;
vocca ‘e cernia antico, desueto offensivo epiteto di pertinenza femminile e talora anche m.le; epiteto formato addizionando al s.vo f.le vocca (=bocca, dal lat. bucca(m)→vucca→vocca con consueto, normale passaggio di b a v (cfr. varva←barba(m), varca←barca etc.) ) con lo specificativo ‘e cernia (di cernia) per indicare una donna brutta, deforme, sguaiata, volgare, triviale, scurrile, sboccata, maleducata, rozza, zotica, grossolana, linguacciuta e pettegola provvista iperbolicamente, alla bisogna d’una bocca ampia tal quale quella della cernia; la cernia (dal lat. tardo (a)cernia(m) infatti è un pesce marino, comune nel mediterraneo, di dimensioni medio grandi con carni pregiate, ma d’aspetto poco rassicurante, brutto e deforme, provvista altresí di una grossa brutta ed irregolare bocca vorace;
zoria eccoci all’ultimo antico, desueto epiteto, registrato dal Basile e di pertinenza f.le e solo f.le; si tratta d’un s.vo f.le usato anche come agg.vo nel significato di furba,maliziosa, maligna, malevola, adescatrice,seduttrice, ammaliatrice; con diversa valenza: prostituta, donna da marciapiede, sgualdrina, baldracca, donnaccia; la voce a margine voce marcata sullo spagnolo zorra (dove vale volpe e/o zoccola): come volpe semanticamente riporta al significato di furba, adescatrice,seduttrice, ammaliatrice etc.; come zoccola semanticamente richiama il significato di sgualdrina, baldracca, donnaccia, prostituta etc.
In coda ed a completamento dell’elencazione segnalo la voce cutroscia s.vo f.le e solo f.le che però non è d’uso napoletano, ma di altre province campane: Salerno, Benevento ed in genere segnatamente di quelle zone dove esisteva un signorotto locale con propria corte e maniero; etimologicamente la voce nel significato generico di prostituta, meretrice, cortigiana è infatti una lettura metatetica ed abbreviata di curtesciana→cutrescia(na)→cutroscia.
Altro epiteto da rammentare benché desueto è quello che recita allessa ‘e miezejuorno, icastica espressione che ad litteram è: castagna lessa di mezzodí nel intento di identificare una persona (uomo o donna adulto/a) di nessun valore, di scarsa qualità, di scarto, mediocre, scadente e ciò in quanto le castagne lesse furono cibo consumato nelle ore del mattino e va da sé che quelle che gli avventori mattutini avessero scartate in quanto non buone o appetibili, restassero in fondo al paiolo fino a mezzodí quale merce invenduta perché scadente.
allessa s.vo f.le = castagna privata del riccio e della dura scorza esterna e bollita in acqua con aggiunta di foglie d’alloro e semi di finocchio ; voce derivata dal part. pass. femm. del tardo lat. elixare 'far cuocere nell'acqua, sebbene qualcuno proponga un tardo lat. *ad-lessa(m) ma non ne vedo la necessità in quanto nulla osta al passaggio che riporto elixare→alissare→allissare→allessare e da quest’ultimo il part. pass allessato/a→allessa(to/a)→allessa.
E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico P.G. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.
Satis est.
RaffaeleBracale