sabato 30 aprile 2016
VARIE 16/415
1. LEVARSE ‘E PÀCCARE ‘A FACCIA.
Ad litteram: togliersi gli schiaffi da faccia; poiché è impossibile fare materialmente ciò che è affermato nella locuzione,è chiaro ch’essa deve intendersi nel senso figurato di riscattarsi da un’onta subíta, lavarsene, in una parola: vendicarsi , fieramente ricambiando il male ricevuto.
2. LEVARSE ‘O SFIZZIO
Ad litteram: togliersi il gusto, nel senso di raggiungere, conquistandeselo, l’appagamento di una intensa voglia di un desiderio a lungo covato e finalmente raggiunto. il termine sfizzio (correttamente scritto in napoletano con due zeta) deriva con qualche probabilità dal latino satis -facio e ne conserva il sostrato di soddisfazione per raggiunger la quale occorre fare abbastanza.
Non manca però coloro (ed io mi ci accodo) che propendono non a torto per un’etimologia greca da un fuxis(evasione) con tipica prostesi della S intensiva partenopea, atteso che lo sfizio è qualcosa che eccedendo il normale si connota come un’evasione dalla quotidianeità.
3. LEVÀ ‘O FFRACETO ‘A MIEZO.
Ad litteram: togliere il fradicio di mezzo. Id est:mondare, far pulizia, dare un taglio netto per eliminare ciò che è corrotto e dunque corre il rischio di infettare il restante; per traslato la locuzione è usata quando in una situazione che corre l’alea di corrompersi, si prende il coraggio a due mani e si elimina ciò che possa compromettere il buon esito della situazione e l’eliminazione, magari, è fatta a proprio danno.
4. LEVÀ ‘A SOTTO
Ad litteram: togliere di sotto; id est: terminare di lavorare, cessare un’attività, smettere di operare, smobilitare, con riferimento ad ogni tipo di attività, ma soprattutto a quelle manuali; piú esattamente la locuzione in epigrafe in origine si riferí a ciò che facevano i carrettieri d’un tempo, i quali al termine della giornata di lavoro, liberavano i cavalli dai finimenti e toglievano le bestie di sotto le stanghe dei carri, e le conducevano, per rigovernarle, nelle stalle.Successivamente, per estensione, la locuzione venne riferita alla dismissione d’ ogni tipo d’attività.
5. LINDO E PINTO
Ad litteram: pulito e dipinto; modo di dire di diretta provenienza iberica (lindo= vezzoso, pinto=dipinto) con il quale si suole commentare il mostrarsi e ancor di piú l’incedere oltremodo elegante di chi, agghindato e ben messo, vada in giro pavoneggiandosi; la locuzione à però anche un non nascosto sapore di canzonatura del soggetto che incedendo lindo e pinto, si mostra artificioso ed affettato, quando non addirittura ridicolo.
6. METTERE LL’ASSISE Ê CETRÓLE nell’espressione VA METTENNO LL’ASSISE Ê CETRÓLE
Ad litteram: mettere il calmiere ai cetrioli nell’espressione va ponendo il calmiere sui cetrioli. Icastica espressione con la quale si stigmatizza il comportamento sciocco di chi dedica il proprio tempo ad attività inutili, pretestuose ed inconferenti quale quella di calmierare il prezzo dei cetrioli, ortaggio che sebbene sia di largo consumo, per solito è a buon mercato e non v’è bisogno che se ne calmieri il prezzo; per traslato, l’espressione in esame viene riferita ad ogni attività che si riveli inutile e per ciò stesso sciocca.
7. MIÉTTELE NOMME PENNA!
Letteralmente vale : Chiamala penna!; Cosí suole, a mo’ di sfottò, consigliare chi vede qualcuno prestare un oggetto a persona che si ritiene non restituirà mai il prestito, volendo significare: “Ài prestato l’oggetto a quella tale persona? Ebbene, rasségnati a perderlo; non rivedrai mai piú il tuo oggetto che, come una piuma d’uccello è volato via!”
La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, procurando un cattivo affare a chi à incautamente operato un prestito atteso che spesso sparisce un oggetto prestato a taluni che per solito non restituiscono ciò che ànno ottenuto in prestito.
miéttele nomme letteralmente mettigli nome e cioè chiamalo id est: ritienilo; miéttele= metti a lui, poni+gli voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito mettere=disporre, collocare, porre con etimo dal lat. mittere 'mandare' e successivamente 'porre, mettere'; nomme = nome; elemento linguistico che indica esseri viventi, oggetti, idee, fatti o sentimenti; denominazione, con etimo dal lat. nomen e tipico raddoppiamento espressivo della labiale m come avviene ad es. in ommo←hominem, ammore←amore(m), cammisa←camisia(m) etc.
Rammento che un tempo con la voce penna (dal lat. penna(m) 'ala' e pinna(m) 'penna, piuma', confluite in un'unica voce) a Napoli si indicò, oltre che la piuma d’un uccello, anche una vilissima moneta (dal valore irrisorio di mezzo e poi un ventesimo di grano. corrispondente a circa 2,1825→02,18 lire italiane) , moneta che veniva spesa facilmente, senza alcuna remora o pentimento; tale moneta che valeva appena un sol carlino (nap. carrino) prese il nome di penna dal fatto che su di una faccia di tale moneta (davanti ) v’era raffigurata l’intiera scena dell’annunciazione a Maria Ss. mentre sul rovescio v’era raffigurato il particolare dell’arcangelo con un’ala (penna) dispiegata; ora sia che la penna in epigrafe indichi la piuma d’uccello, sia indichi la vilissima moneta, la sostanza dell’espressione non cambia, trattandosi di due cose: piuma o monetina che con facilità posson volar via e/o perdersi.
8 MAL’ARIA A BBAJA o piú scorrettamente, ma piú in uso MAL’ARIA E BBA’.
Mal’aria a Baja o piú scorrettamente Mal’aria e vai.
Ambedue le espressioni, quantunque la seconda sia solo una frettolosa corruzione della prima, sono indicative di situazioni foriere di pessima evoluzione e sono usate proprio per indicare che ci si appressa a situazioni complicate e non gradevoli; nella fattispecie delle locuzioni in epigrafe tra la gente di mare era noto che se su la città di Baja il cielo fosse tempestoso, di lí a poco anche su Napoli si sarebbe scatenato il temporale; la seconda espressione in epigrafe, come ò détto è solo una corruzione della prima, ma d’uso piú comune nel parlato della città bassa.
9. MAGNÀ CULO ‘E GALLINA
Ad litteram: mangiare culo di gallina id est: essere logorroici, continuamente e fastidiosamente ciarlieri. Il culo della gallina, mosso spasmodicamente dall’animale, è preso a modello della bocca di chi parla eccessivamente al punto che alla vista di una persona che parli troppo e che muova perciò in continuazione la bocca, non ci si può esimere dal chiedersi: à magnato culo ‘e gallina? (à mangiato culo di gallina?)
10. MANNAGGIA Ô SURICILLO E PPEZZA ‘NFOSA
Ad litteram: accidenti al topino e (alla) pezza bagnata;Il motto viene pronunciato a mo’ di imprecazione da chi voglia evitare di pronunciarne altra piú triviale specialmente davanti a situazioni negative sí, ma poco importanti.
Varie le interpretazioni della locuzione in ispecie nei confronti del topolino fatto oggetto di maledizione
Esamino qui di seguito le varie interpretazioni e per ultima segnalo la mia.
1 - L’illustre amico e scrittore di cose napoletane(avv. Renato De Falco) reputa che il suricillo in epigrafe altro non sia che il frustolo d’epitelio secco che si produceva in ispecie sulle braccia e sulle gambe allorché le si lavavano soffregandole non con una spugna, ma con uno straccetto bagnato. È vero, da ragazzi usavamo dare il nome di suricillo a quei frustoli d’epitelio divelti con il soffregamento dello straccio madido d’acqua.Ma il dotto amico De Falco, per far passare per buona la sua idea è costretto a leggere la e dell’epigrafe non come congiunzione, ma come aferesi di de e leggere ‘e pezza ‘nfosa pronunciando in maniera scempia la p di pezza, laddove il proverbio raccolto dalla viva voce della gente suona: mannaggia ‘o suricillo e ppezza ‘nfosa ed è chiara la geminazione iniziale della p di pezza e il significato di congiunzione della e.Per cui, a malgrado dell’amicizia e della stima che nutro per l’avvocato De Falco, non posso addivenire alla sua idea.
2 -(prof. Francesco D’Ascoli) Il vecchio professore (parce sepulto!) , sbrigò la faccenda, ravvisando nel suricillo i pezzetti di panno che si staccavano assumendo la forma del musculus, dallo straccio per lavare a terra;l’idea non è percorribile stante anche per D’Ascoli la medesima lettura impropria della locuzione che ne fa il de Falco leggendo la E come aferesi di de e non come congiunzione.
3 - (dr. Sergio Zazzera) L’ottimo dr. Zazzera si lava le mani e propone un improbabile sorcio alle prese con un orcio di olio dal quale sia saltato via un non meglio identificato stoppaccio che non si comprende perché sia umido.
A questo punto reputo che potrebbe essere piú veritiera l’interpretazione che mi fu data temporibus illis da mia nonna che asserí che la locuzione conglobava una imprecazione rivolta ad un sorcetto introdottosi in una casa ed un suggerimento dato agli abitanti di détta casa quello cioè di introdurre sotto le fessure delle porte uno straccio bagnato per modo che al topo fossero precluse le vie di fuga e lo si potesse catturare. Volendo dire: È entrato il topino? Non c’è problema! Ce ne possiamo liberare: lo catturiamo, ma prima affinchè non ci sfugga, turiamo con uno straccio bagnato ogni fessura e procediamo alla cattura!
Ma poiché fino a che non ci si sente soddisfatti, è buona norma continuare ad investigare, continuando nell’investigazione, mi pare di poter affermare che la nonna aveva dato una casta spiegazione a dei vocaboli (e perciò a tutta l’espressione) per non inquietare la fantasia di un piccolo adolescente.
Infatti alla luce di ulteriori indagini ed al supporto di altre menti di appassionati studiosi di cose napoletane mi pare si possa accogliere la tesi del prof. A. Messina che vede nel suricillo - per il tramite di un xurikilla tardo latino usato in luogo del piú classico mentula - il membro maschile...
Peraltro il prof. Carlo Iandolo illustre scrittore di cose partenopee in una sua dotta lettera mi fa notare che nella passata parlata napoletana le pezze piú note erano - oltre quelle che significavano il danaro - quelle che le donne portavano nel loro corredo, e che usavano per i loro bisogni fisiologici di ogni volger di luna, quando ancóra non esistevano mediatici assorbenti con le ali o senza.
Ecco dunque che, messa da parte la casta spiegazione data dalla nonna, penso si possa addivenire a ritenere che l’innocente imprecazione con la quale si è soliti commentare piccolissimi inconvenienti ai quali non occorra dare faticose soluzioni, sia sgorgata sulle labbra di una donna trovatasi davanti alla improcrastinabile richiesta di favori, da parte del suo uomo (...pronto alla tenzone...) e gli abbia dovuto opporre, sia pure dolendosene che non era il tempo adatto in quanto ‘a pezza ...era ‘nfosa dal mestruo in atto.
11. MIETTE ‘NU SPRUOCCOLO DINTO A ‘NU PERTUSO
Ad litteram: poni un legnetto in un buco! Frase che si usa pronunciare a commento di un avvenimento cosí poco usuale (quale - a mo’ d’esempio - una liberalità da parte di qualcuno notoriamente avaro) da doverselo rammentare con l’introduzione di un ipotetico stecco in un altrettanto ipotetico buco. Probabilmente la locuzione rammenta la consuetudine in uso nel periodo della res publica romana, allorché il praetor maximus conficcava ogni anno - a fini eponimi - un chiodo nel tempio di Giove .
12. MAGNÀ ‘E GRASSO
Ad litteram: mangiare di grasso id est: possedere tante di quelle disponibilità economiche da esser sempre fornito di adeguato cibo abbondandemente condito; la locuzione però si usa anche in senso antifrastico ad ironico commento di pasti eccessivamente parchi.
13. MAGNÀ NEMMICCULE CU ‘A SPINGULA
Ad litteram: mangiare lenticchie con lo spillo. Detto di coloro che, eccessivamente parchi, forse perché avari, si limitano ad un pasto cosí frugale da ridursi a sole lenticchie, consumate lentamente, addirittura infilzandole una per volta con l’ausilio di uno spillo.In senso traslato l’espressione è usata per commentare sarcasticamente l’agire eccessivamente lento e misurato di chi ami perdere tempo.
14. MAGNARSE ‘E MMANE
Ad litteram: mangiarsi le mani Cosí, per modo di dire, si comporta chi à veduto svanire, per propria insipienza,o accidia o mancanza d’intuito una situazione favorevole e si sia lasciato sfuggire l’occasione proprizia; davanti all’insuccesso non gli resta che autopunirsi mordendosi, figuratamente, le mani.
15. MAGNARSE ‘O LIMONE
Ad litteram: mangiarsi il limone; id est: accusare il colpo, subire un non preventivato , amaro risultato e rassegnarsi ad accettarlo con tutto il suo acre sapore, quasi che fosse un metaforico aspro limone .
16. MAGNARSE ‘O TUPPO ‘E SANT’ANNA
Ad litteram: mangiarsi la crocchia di sant’Anna; id est : ridursi in miseria, privarsi di tutte le proprie sostanze[e farlo addirittura senza pentirsi di incorrere in furti sacrileghi (come quello di sottrarre i capelli di un effige di sant’Anna...) pur di procurarsi beni o sostanze da dilapidare] Detto innanzitutto di donne, ma anche - per estensione - di uomini che non solo per riprevevole liberalità, ma innanzitutto per imperizia, negligenza, sciatteria e trascuraggine dilapidano tutte le loro sostanze riducendosi in miseria tale da dover vendere persino la crocchia o il ciuffo dei propri capelli o (come ò anticipato) darsi persino al furto sacrilego per procurarsi sostanze da dilapidare!
Brak
VARIE 16/414
1-'A VIPERA CA MUZZECAJE A CCHELLA MURETTE 'E TUOSSECO.
Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perí di veleno; per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto piú pericolosa di essa vipera.
2- E SSEMPE CARULINA, E SSEMPE CARULINA...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che - però, si dice - lo ripagasse con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.
3- TRE CCOSE STANNO MALE A 'STU MUNNO: N'AUCIELLO 'MMANO A 'NU PICCERILLO, 'NU FIASCO 'MMANO A 'NU TERISCO, 'NA ZITA 'MMANO A 'NU VIECCHIO.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato,il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, per definizione lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
4- UOVO 'E N'ORA, PANE 'E 'NU JUORNO, VINO 'E N'ANNO E GGUAGLIONA 'E VINT'ANNE.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare tutta l'umidità dovuta alla cottura, vino giovane che è il piú dolce ed il meno alcoolico, ed una ragazza ancora nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancora intatte.
5- A CCHI PIACE LLU SPITO, NUN PIACE LA SPATA.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
6- ADDÓ NUN MIETTE LL'ACO, NCE MIETTE 'A CAPA.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato súbito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
7-ZITTO CHI SAPE 'O JUOCO!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.La locuzione fu in origine sulla bocca dei saltimbanchi che si esibivano a nelle strade adiacenti la piazza Mercato e/o Ferrovia, nel bel mezzo di una cerchia di monelli e/o adulti perdigiorno che non potendosi permettere il pur esiguo costo di un biglietto per accedere ai teatrini zonali ed assistervi a gli spettacoli, si accontentavano di quelli fatti in istrada da girovaghi saltimbanchi che si esibivano su palcoscenici di fortuna ottenuti poggiando delle assi di legno su quattro o piú botti vuote. Spesso tali spettatori abituali, per il fatto stesso di aver visto e rivisto i giochi fatti da quei saltimbanchi/ prestigitatori di strada avevano capito o carpito il trucco che sottostava ai giochi ed allora i saltimbanchi/ prestigitatori che si esibivano con la locuzione zitto chi sape 'o juoco! invitavano ad una sorta di omertà gli astanti affinché non svelassero ciò che sapevano o avevano carpito facendo perdere l’interesse per il gioco in esecuzione, vanificando la rappresentazione e compromettendo la chétta, la raccolta di monete operata tra gli spettatori, raccolta che costituiva la magra ricompensa per lo spettacolo dato. Per traslato cosí, con la medesima espressione son soliti raccomandarsi tutti coloro che temendo che qualcuno possa svelare imprudentemente taciti accordi, quando non occultati trucchi, chiedono a tutti un generale, complice silenzio.Rammento infine a completamento dell’illustrazione della locuzione un’altra espressione che accompagnava quella in esame: ‘a fora dô singo! e cioè: Fuori dal segno! Che era quello che tracciato con un pezzo di gesso rappresentava il limite invalicabile che gli spettatori non dovevano oltrepassare accostandosi troppo al palcoscenico, cosa che se fosse avvenuta poteva consentire ai contravventori di osservare piú da presso le manovre dei saltimbanchi/ prestigitatori, scoprendo trucchi e manovre sottesi ai giochi, con tutte le conseguenze già détte.
8 - VUÓ CAMPÀ LIBBERO E VVIATO? MEGLIO SULO CA MALE ACCUMPAGNATO.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato? Meglio solo che male accompagnato Il proverbio in epigrafe, in fondo traduce l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo.
9- QUANNO 'NA FEMMENA S'ACCONCIA 'O QUARTO 'E COPPA, VO' AFFITTÀ CHILLO 'E SOTTO.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di un amante che soddisfi le sue voglie sessuali.
10 - QUANNO QUACCHE AMICO TE VENE A TRUVÀ, QUACCHE CAZZO TE VENE A CCERCÀ.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa viene a cercarti. Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o di affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa.
11 - LL'UOCCHIE SO' FFATTE PE GGUARDÀ, MA 'E MMANE PE TTUCCÀ.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare palpeggiamenti delle rotondità femminili.
12 - ZAPPA 'E FEMMENA E SSURCO 'E VACCA, MALA CHELLA TERRA CA L'ANCAPPA.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
13 - 'AMICE E VVINO ÀNNO 'A ESSERE VIECCHIE!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data.
14- 'A MEGLIA VITA È CCHELLA D''E VACCAREPECCHÉ, TUTTA 'A JURNATA, MANEJANO ZIZZE E DDENARE.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
15 -'O TURCO FATTO CRESTIANO, VO' 'MPALÀ TUTTE CHILLE CA GHIASTEMMANO.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
16 -'O PATATERNO ADDÓ VEDE 'A CULATA, LLA SPANNE 'O SOLE
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
Brak
VARIE 16/413
1 DÀ ZIZZA 'E VACCA PE TTARANTIELLO.
Letteralmente: dar mammella di mucca per tarantello. La locuzione à una doppia valenza a seconda del significato che si dà al termine tarantello. In una prima accezione tarantIello è un pezzo di carne dato come aggiunta vicino a della carne piú pregiata, al fine di sistemarne il giusto peso. Usandola con tale accezione, figuratamente, la locuzione significa che colui contro cui è rivolta, non si è impegnato molto nel dare il giusto dovuto, ma à rabberciato la prestazione portandola a compimento con l'uso di materiali di scarto. Nel caso che con la voce tarantello si voglia indicare la pregiata pancetta di tonno, figuratamente vuol significare che colui contro cui la locuzione è diretta, si è comportato da gran mistificatore ed imbroglione come chi abbia conferito vilissima mammella di mucca in luogo della dovuta, costosa pancetta di tonno.
2 MANTENÍMMOCE PULITE, CA CE STANNO 'E CCARTE JANCHE!
Letteralmente: manteniamoci netti perché son presenti le carte bianche! Id est: Non affrontiamo argomenti scabrosi; teniamo a mente che ci son presenti dei bambini che ci ascoltano ed in loro presenza è sconveniente toccare argomenti che potrebbero provocare domande a cui sarebbe difficile rispondere.
3 FACIMMO AMMUINA!
Letteralmente: facciamo confusione. È l'invito a creare il disordine nel quale si possa mestare al fine di conseguire dei vantaggi. La locuzione in epigrafe, sia pure nella forma Facite ammuina dai soliti disinformati e bugiardi storici postunitari si ritiene essere stato addirittura il titolo di un articolo di un preteso regolamento della marina borbonica del 1841, articolo nel quale si sarebbero indicati i vari modi di fare ammuina; si tratta chiaramente di una voluta sciocchezza tesa a denigrare l'organizzazione e la valentía della marineria di Francesco II Borbone... Per amor di completezza ricorderò che il predetto fantasioso articolo recitava: All'ordine “Facite Ammuina”: tutti chilli che stanno a prora vann' a poppa e chilli che stann' a poppa vann' a prora: chilli che stann' a destra vann' a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann' a destra: tutti chilli che stanno abbascio vann' ncoppa e chilli che stanno ncoppa
vann' bascio passann' tutti p'o stesso pertuso: chi nun tiene nient' a ffà, s' aremeni a ccà e a llà.
Ò trascritto l’articolo così come l’ò travato in rete,(con tutti gli orrori di ortografia etc.) stampato su di un evidentemente falso proclama reale recante lo stemma borbonico.
Non voglio soffermarmi piú di tanto sull’evidente falsità dell’articolo; mi limiterò ad osservare che essa si ricava già dal modo raffazzonato in cui è scritto; è evidente che il capo scarico che lo à vergato, mancava delle piú elementari cognizioni dell’idioma napoletano e l’abbia vergato a naso o per sentito dire: basti osservare in che modo errato sono scritti tutti i verbi, terminanti tutti con un assurdo segno d’apocope (‘) o di una ancora piú assurda elisione, in luogo della corretta vocale finale semimuta. A ciò si deve aggiungere l’incongruo, fantasioso congiuntivo esortativo che conclude l’articolo: s’aremeni, congiuntivo che è chiaramente preso a modello dal toscano, ma non appartiene alla lingua napoletana che usa ed avrebbe usato anche per il congiuntivo la voce s’aremena cosí come l’indicativo; infine non è ipotizzabile un monarca che, volendo codificare un regolamento in lingua napoletana, affinché fosse facilmente comprensibile alle proprie truppe incolte, si rivolgesse o fosse rivolto per farlo vergare a persona incapace o ignorante della lingua napoletana; ciò per dire che tutto l’evidentemente falso articolo fu pensato e vergato dal suo fantasioso autore, con ogni probabilità filosavoiardo in lingua italiana e poi, per cosí dire, tradotto seppure in modo sciatto ed approssimativo nell’idioma napoletano, cosa che si evince oltre che da tutto ciò che fin qui ò annotato dal fatto che nell’articolo (presunto napoletano) si parla di destra e sinistra, laddove è risaputo che i napoletani, anche i colti, usavano dire dritta e mancina.
Sistemata cosí la faccenda del Facite ammuina , torniamo alla parola ammuina e soffermiamoci sulla sua etimologia;
a prima vista si potrebbe ipotizzare, ma erroneamente che la parola ammoina sia stata forgiata sul toscano moina con tipico raddoppiamento consonantico iniziale ed agglutinazione dell’articolo la (‘a); ma a ciò osta il fatto che mentre il termine ammoina/ammuina sta, come detto, per chiasso, confusione, vociante baccano, la parola moina (dal basso latino movina(m)) sta ad indicare gesto, atto affettuoso, vezzo infantile; comportamento lezioso, sdolcinato, tutte cose evidentemente lontane dal chiasso e/o confusione che son propri dell’ ammoina/ammuina e lontane dal fastidio che da quel chiasso ne deriva all’adulto che, al contrario, è appagato e gratificato dalle moine infantili o talvolta da quelle femminili; sgombrato così il campo dirò che per approdare ad una accettabile etimologia di ammoina/ammuina occorre risalire proprio al fastidio, all’annoiare che il chiasso, la confusione, il vociante baccano procurano; tutte cose puntualmente rappresentate dal verbo spagnolo amohinar(infastidire, annoiare, addirittura rattristare) e convincersi che l’ ammoina/ammuina altro non sono che deverbali del verbo spagnolo.
4 TENÉ 'A NEVE DINT' Â SACCA.
Letteralmente: tenere la neve in tasca/nel sacco. Id est: avere o mostrar d'avere grandissima fretta quale quella che dovrebbe portare chi trasportasse della neve tenendola in tasca o piú esattamente in sacchi di iuta e volesse evitare di perderla; cosa - peraltro - impossibile giacché basta il calore del corpo per portare alla liquefazione della neve trasportata tenendola in una tasca dei vestiti.Storicamente però l’espressione si riferisce alla sollecitudine forzata di coloro che prelevate le nevi dai nevai sui monti dell’Irpinia o altre alture campane provvedevano a trasferirle nelle città per gli usi domestici, trasportandole a dorso di mulo stipate in sacchi di iuta.Ed in tal senso va inteso il termine sacca dell’espressione che in napoletano indica sia la tasca di un abito che i sacchi per asporto.
5 A LIETTO ASTRITTO, CÓCCATE 'MMIEZO.
Letteralmente: in un letto stretto, coricati in mezzo. Il consiglio della locuzione non è quello di sapersi adattare alle situazioni, quanto quello di ricercare in ogni occasione la soluzione migliore; in un letto stretto, perché piccolo o perché già occupato da altri, è consigliabile coricarsi al centro, il posto più sicuro, che può preservare da rovinose cadute laterali.
6 'O SCARPARO E 'O BANCARIELLO: NUN SE SAPE CHI À FATTO 'O PIRETO
Letteralmente: il calzolaio e il deschetto: non si sa chi à fatto il peto. Icastica espressione che viene usata allorché in una situazione che non presti il fianco a difficili interpretazioni, ci si trovi davanti a qualcuno che non voglia riconoscere le proprie responsabilità e mesti nel torbido per scaricare su altri le medesime, anche su chi - per legge di natura - è chiaramente impossibilitato a compiere ciò di cui si intende accusarlo come nel caso dell'espressione in epigrafe un deschetto che manca dello strumento necessario a produrre peti, per cui sarebbe sciocco addebitarli a lui in luogo del calzolaio.
7 'ARUTA OGNI MMALE STUTA.
Letteralmente: la ruta spegne ogni male. È pur vero che l'erba ruta fu, temporibus illis usata come panacea per un gran numero di mali dalla epistassi alla verminosi etc. etc., ma posto che con il termine aruta in napoletano si intende anche il danaro, è piú probabile che la locuzione voglia significare che con il danaro si posson sanare tutti i mali, sia fisici che morali
8 'E DITTE ANTICHE NUN FALLISCENO MAJE.
Narcisistica espressione con la quale si vuole intendere che la saggezza popolare espressa per il tramite dei proverbi antichi trova sempre il suo riscontro nella realtà dalla osservazione della quale i proverbi(id est: pro-bata verba =parole provate)prendono il via.
9 CHI VO’ BBENE Ô MARÍTO, VEVE 'NCOPP'A LL'ACÍTO.
Letteralmente: chi vuol bene al marito beve anche in presenza di una crisi di acidità gastrica.Id est: il bene coniugale fa superare ogni avversità, anche a costo di sacrificio quale è quello di bere in presenza di una crisi di stomaco con versamento acido.L'acíto di per sé sarebbe l'aceto di vino, ma nella locuzione sta ad indicare quel succo acre che prodotto dallo stomaco spesso a seguito di cattiva digestione, torna in gola e nelle fauci disturbando(e dunque piú correttamente dovrebbe leggersi àcito= acido e non acíto= aceto, ma leggendo àcito e non acíto verrebbe meno la rima con maríto, rima con cui il proverbio è stato tramandato (cosí come nella forma in epigrafe) operando una piccola forzatura di significato della voce acíto.
10 'E CUNTE A LLUONGHE ADDIVENTANO SIERPE.
Letteralmente: i conti che si protaggono diventano serpenti. Id est: i debiti a lunga scadenza diventano velenosi come i serpenti. La locuzione stigmatizza in modo conciso la piaga dell'usura. Chi ricorre a gli usurai per prestiti a lunga scadenza si rovinano ineluttabilmente.
11 DDIO NCE LIBBERA DÊ SIGNALATE.
Letteralmente: Dio ci liberi dai segnati. Id est: Il Cielo ci liberi dalle persone segnate da un difetto fisico ché son coloro che, magari per acrimonia o per un senso di rivalsa verso il mondo, son pronti a commettere, in danno del prossimo, azioni riprovevoli. La locuzione partenopea ripiglia ad un dipresso l'antico motto latino: Cave a signatis!(attenti ai segnati). brak
VARIE 16/412
1. AIZÀ ‘A MANO
Ad litteram: sollevare la mano; id est: perdonare, assolvere
L’ espressione che viene usata quando si voglia fare intendere che si è proclivi al perdono soprattutto di piccole mende, ricorda il gesto del sacerdote che al momento di assolvere i peccati , alza la mano per benedire e mandar perdonato il penitente pentito.
2. Ô TIEMPO ‘E PAPPACONE.
Ad litteram: Al tempo di Pappacoda Espressione usata a Napoli per dire che ciò di cui si sta parlando risale ad un tempo antichissimo, di cui si è quasi perso memoria e - tutto sommato - non vale la pena ricordarsene in quanto si tratterebbe di cose impossibili da riprodurre o riproporre; La parola Pappacone è - come già ricordato - corruzione del termine Pappacoda, antichissima e nobile famiglia napoletana che à lasciato sue numerose ed artistiche vestigia in parecchie strade di Napoli. E ciò valga a smentire l’inesatta affermazione di taluni sprovveduti di storia patria che ritengono (chiaramente a torto) che il Pappacone dell’espressione sia un adattamento del nome Pappagone, maschera teatrale, piuttosto recente (1966), creazione del famosissimo Peppino De Filippo(Napoli, 24 agosto 1903 –† Roma, 26 gennaio 1980). Essendo l’espressione in esame molto piú datata rispetto alla creazione del De Filippo se ne evince che non vi sia alcun collegamento se non una semplice assonanza tra Pappagone e Pappacone.
3. Ô TIEMPO D’’E CAZUNE A TERÒCCIOLE.
Ad litteram: Al tempo dei calzoni con le carrucole. Espressione analoga alla precedente , espressione con la quale si vuol significare che si sta richiamando alla memoria tempi lontani, anzi remoti quali quelli in cui le braghe erano sorrette da grosse bretelle di cuoio, regolate da piccole carrucole metalliche.
4. ACRUS EST E TE LL’HÊ ‘A VEVERE
Ad litteram : è acre, ma devi berlo
La locuzione è tipico esempio di frammistione tra un tardo latino improbabile ed un vernacolo pieno.
Cosí a Napoli si suole ripetere a chi non si voglia convincere della ineluttabilità di talune situazioni cui bisogna soggiacere, stante una forza maggiore. Narro qui di seguito la storiella donde prese vita la locuzione in epigrafe. Un anziano curato era in urto col proprio dispettoso sacrestano che sostituí il vino per la celebrazione della Messa con un acre aceto. Allorché il curato portò alle labbra il calice contenente l’aceto, se ne dolse con il sacrista dicendo: “Acrus est!” ed il dispettoso sacrestano di rimando : “te ll’hê ‘a vevere!” (Devi berlo Non puoi esimerti.)
il curato, minacciandolo:” Dopo la messa t’aspetto in sacrestia...”
il sacrista, concluse:” Hê ‘a vedé si me truove!” (Probabilmente non mi troverai...)
Oggi la locuzione non à bisogno di due interlocutori; viene pronunciata anche da uno solo, da chi tenti di convincere qualcun altro che debba soggiacere agli eventi e non se ne possa esimere.
5. AMMACCA E SSALA, AULIVE ‘E GAETA!
Ad litteram: Comprimi e sala, ulive di Gaeta Locuzione che nel richiamare il modo sbrigativo di conservare in apposite botticelle le ulive coltivate in quel di Gaeta,viene usata per redarguire e salacemente commentare tutte quelle azioni compiute in modo eccessivamente sbrigativo e perciò raffazzonato, senza porvi soverchia attenzione.
6. “ A LLU FRIJERE SIENTE LL’ADDORE” - “A LLU CAGNO, SIENTE ‘O CHIANTO”
Ad litteram: “Al momento di friggere, avvertirai il (vero) odore” _ Al momento di cambiarli, piangerai.”
Locuzione che riproponendo un veloce scambio di battute intercorse tra un venditore ed un compratore, viene usata quando si voglia far comprendere a qualcuno di non tentare di fare il furbo in una contrattazione usando metodi truffaldini,perché correrebbe il rischio d’esser ripagato allo stesso modo.
Un anziano curato, recatosi al mercato ad acquistare del pesce, si vide servito con merce non fresca, anzi quasi putrescente; accortosi della faccenda, ripagò il pescivendolo con moneta falsa, ma nell’allontanarsi sentí il pescivendolo che si gloriava di averlo gabbato e a mo’ di dileggio gli rivolgeva la prima frase della locuzione in epigrafe; e il curato, prontamente, gli rispose con la seconda frase.
7. ADDÓ ARRIVAMMO, LLA METTIMMO ‘O SPRUOCCOLO!
Ad litteram: Dove giungiamo là poniamo uno stecco! La locuzione è usata sia a mo’ di divertito commento di un’azione iniziata e non compiuta del tutto, sia per rassicurare qualcuno timoroso dell’intraprendere un quid ritenuto troppo gravoso da conseguirsi in tempi brevi; ebbene in tal caso gli si potrebbe dire:” Non temere: non dobbiamo fare tutto in un’unica soluzione; Noi cominciamo l’opera e la proseguiamo fino al momento che le forze ci sorreggono; giunti a quel punto, vi poniamo un metaforico stecco, segno da cui riprendere l’operazione per portarla successivamente a compimento.”
Spruoccolo s.m. = stecco, bastoncino, piccolo pezzo di legno di taglio irregolare dal b.lat. (e)xperoccolo←pedunculu(m) con sincope d’avvio, assimilazione regressiva nc→cc, dittongazione della ŏ→uo, nonché rotacizzazione osco mediterranea d→r.
8.COMME CUCOZZA ‘NTRONA, PASCA NUN VENE PE MMO.
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, Pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono, avvertí che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scoprí il ladruncolo.
Cucozza sv.vo f.le = zucca,pianta erbacea annua con larghe foglie pelose, fiori campanulati gialli, frutti commestibili di forma e dimensioni diverse secondo le varietà (fam. Cucurbitacee) | zucca barucca, varietà di zucca bitorzoluta che si cuoce al forno e si mangia a fette | semi di zucca, brustolini | fiori di zucca, vivanda costituita dai fiori della zucca,meglio della zucchina, fritti dopo essere stati immersi in una pastella di uova e farina. DIM. zucchina, zucchino (m.), zucchetto (m.), zucchettino (m.)
2 (estens.) il frutto commestibile della zucca: zucca fritta; minestrone con la zucca
3 (fig. scherz.) la testa: ( etimologicamentela voce napoletana cucozza nonché il suo diminutivo cucuzziello/pl. cucuzzielle è una diretta derivazione dall’acc. tardo latino cucutia(m), mentre la voce italiana zucca è derivata dal medesimo tardo lat. cucutia(m), con metatesi e aferesi della sillaba iniziale; con raddoppiamento espressivo della c cucutia(m)→(cu)cutiaca(m)→ziacca→zucca.
9. COMME PAGAZIO, ACCUSSÍ PITTAZIO
Ad litteram: Come sarò pagato, cosí dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata da F.S. Grue famosissimo artista noto per i suoi vasi di maiolica,su di un’antica albarella detta di san Brunone.
10. CAPURÀ È MMUORTO ‘ALIFANTE!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance,… non vantarti piú, torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli si vuol significare che non è piú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chiunque, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi di non essere piú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino boriosi e supponenti.
brak
VARIE 16/411
1 Chi tène cummedità e nun se ne serve, nun trova 'o prevete ca ll'assolve.
Letteralmente: Chi à comodità e non se ne serve, non trova un prete che l'assolva. Id est: chi à avuto, per sorte o meriti, delle comodità deve servirsene, in caso contrario commetterebbe non solo una sciocchezza autolesiva, ma addirittura un peccato cosí grave per la cui assoluzione non sarebbe bastevole un semplice prete, ma bisognerebbe far ricorso al penitenziere maggiore.
la parola prevete = sacerdote, prete è un sost. masch.le derivato dal lat. presbiter→prebite→prevete.
2 Quanno nun site scarpare, pecché rumpite 'o cacchio ê semmenzelle?
Letteralmente: giacché non siete ciabattino,calzolaio perché infastidite le semenze? La locuzione barocca, anzi rococò viene usata quando si voglia distogliere qualcuno dall'interessarsi di faccende che non gli competono non essendo supportate, né dal suo mestiere, né dalle sue capacità intellettive o morali. Le semenze sono i piccolissimi chiodini con cui i ciabattini sogliono sistemare la tomaia sulla forma di legno per procedere alla fattura di una scarpa.
3 'A riggina avette bisogno d''a vicina.
Letteralmente: la regina dovette ricorrere alla vicina. Iperbolica locuzione con la quale si sottolinea che nessuno è bastevole a se stesso: persino la regina ebbe bisogno della propria vicina, figurarsi tutti gli altri esseri umani: siamo una società dove nessun uomo è un'isola.
4 Senza ‘e fesse nun campano 'e deritte.
Letteralmente: senza gli sciocchi non vivono i furbi; id est: in tanto prosperano i furbi in quanto vi sono gli sciocchi che consentano loro di prosperare.
5 'O purpo s'à dda cocere cu ll'acqua soja.
Letteralmente: il polpo si deve cuocere con l'acqua propria.Id est: bisogna che si convinca da se medesimo, senza interventi esterni. La locuzione fa riferimento a tutte quelle persone che recedono da certe posizioni solo se si autoconvincono; con costoro è inutile ogni opera di convincimento, bisogna armarsi di pazienza ed attendere che si autoconvincano, cosí come un polpo che per cuocersi non necessita di aggiunta d'acqua, ma sfrutta quella di cui è composto.
6 Dà 'ncopp' ê recchie.
Letteralmente: dare sulle orecchie. La locuzione consiglia il modo di comportarsi nei confronti dei boriosi, dei supponenti, dei saccenti adusi ad andare in giro tronfi e pettoruti a testa elevata quasi fossero i signori del mondo. Nei loro confronti bisogna usare una sana violenza colpendoli, sia pure metaforicamente, sulle orecchie per fargliele abbassare.
7 N' aggio scaurato strunze, ma tu me jesce cu 'e piede 'a fora...
Letteralmente: ne ò bolliti di stronzi, ma tu (sei cosí grosso)che non entri per intero nella pentola destinata all'uso. Id est: Ò avuto a che fare con tantissimi pessimi soggetti (stronzi), ma tu sei il peggiore di tutti, al segno che se ti dovessi bollire, eccederesti la misura d’ogni pentola destinata all’uso… Iperbolica e barocca locuzione-offesa usata nei confronti di chi si dimostri cosí esagerato pezzo di merda che se mai necessitasse di cottura, eccederebbe i limiti della pentola destinata alla bisogna rendendo cosí difficile, se non impossibile l’ipotetica l’operazione!
8 Tante galle a cantà nun schiara maje juorno.
Letteralmente: tanti galli a cantare non spunta mai il giorno. Id est: quando si è in tanti ad esprimere un parere intorno ad un argomento, a proporre una soluzione ad un problema, non si addiviene a nulla di concreto... Perché dunque farsi meraviglia se il parlamento italiano composto da un numero esorbitante di deputati e senatori, spesso in contrasto di idee solutive, pur nell’àmbito del medesimo partito o gruppo parlamentare…, non riesce mai a legiferare rapidamente e saggiamente: parlano in tanti...
9 Sí, sí quanno curre e 'mpizze...
Letteralmente: sí quando corri ed infili! Sarcastica locuzione che significa che qualcuno improvvidamente sta ponendo speranza in qualcosa che molto difficilmente si potrà avverare; la locuzione – come detto - è da intendersi in senso ironico, volendo dire: quel che tu ti auguri avvenga, non avverrà: ti mancano i mezzi e le capacità per farlo accadere!
La locuzione fa riferimento ad un'antica gara che si svolgeva sulle piazze di quasi tutti paesi meridionali. Si infiggeva nell'acciottolato della piazza del paese un'alta pertica con un anello metallico posto in punta ad essa pertica, libero però di dondolare al vento. I gareggianti dovevano, correndo a cavallo, far passare nell'anello la punta di una lancia, cosa difficilissima da farsi e pochi contendenti vi riuscivano...
10 Madonna mia, mantiene ll'acqua!
Letteralmente: Madanna mia reggi l'acqua. Id est: fa che la situazione non peggiori o non degeneri. L'invocazione viene usata quando ci si trovi davanti ad una situazione di contesa il cui esito si prospetti prossimo a degenerare per evidente cattiva volontà di uno o piú dei contendenti.
brak
VARIE 16/410
1 ‘A RAGGIONA S''A PIGLIANO 'E FESSE.
Letteralmente: la ragione se la prendono gli sciocchi. La locuzione con aria risentita viene profferita da chi si vede tacitato con vuote chiacchiere, in luogo delle attese concrete opere.
2 SE SO' STUTATE 'E LLAMPIUNCELLE.
Letteralmente: si sono spente le luminarie. Id est: siamo alla fine, non c'è piú rimedio, non c'è piú tempo per porre rimedio ad alcunché, la festa è finita.Da notare che la parola lampiuncelle è il plurale della voce femminile lampiuncella derivata dal fr. lampe, che è dal lat. lampada; e come tale se preceduta dall’articolo ‘e (le) va correttamente scritta con la geminazione della elle iniziale ‘e llampiuncelle esiste poi una voce simile maschile lampiunciello che al plurale fa lampiuncielle ma che preceduto dall’art. ‘e (i) non comporta geminazione della elle iniziale; pertanto in napoletano ‘e llampiuncelle (voce femminile) sono le luminarie,oggi elettriche ed anticamente a gas e/o petrolio, mentre ‘e lampiuncielle (voce maschile) sono i lampioncini di carta colorata
3 TRUÓVATE CHIUSO E PIÉRDETE CHISTO ACCUNTO.
Letteralmente: Tròvati chiuso e pèrditi questo cliente.La divertita locuzione viene usata in senso ironico a commento della situazione antipatica e fastidiosa in cui qualcuno abbia a che fare con persona pronta ad infastidire o a richiedere i maggior vantaggi da un quid senza voler conferire il giusto corrispettivo, come nel caso ad es. di un cliente che entri in negozio solo per curiosare e senza decidersi ad un acquisto o pretenda di accaparrarsi la miglior merce, ma sia restío a pagare il giusto prezzo dovuto.La voce accunto deriva dal latino: adcognitus →accognitus= ben conosciuto atteso che chi frequenti con continuità una bottega diventandone fisso cliente è ovviamente ben conosciuto.
4 FÀ TRE FICHE NOVE ROTELE.
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli. Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti sarcasticamente bollare i comportamenti o - meglio - il vaniloquio di chi borioso saccente esageri con le parole e si ammanti di meriti che non possiede, né può possedere. Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle Due Sicilie e corrispondeva in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario,ad 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammento che il rotolo, come unità di peso, è in uso ancora oggi a Malta che, prima di divenire colonia inglese, appartenne al Regno delle Due Sicilie. Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba RATE,trasformazione a sua volta della parola greca LITRA, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la LITRA divenne poi in epoca romana LIBRA (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
5 'A DISGRAZZIA D''O 'MBRELLO È QUANNO CHIOVE FINO FINO.
Letteralmente: la malasorte dell'ombrello è quando pioviggina lentamente. Va da sé che l'ombrello corre i maggiori rischi di rompersi allorché debba essere aperto e chiuso continuamente, non quando debba sopportare un unico, sia pure violento, scroscio temporalesco; cosí l'uomo(che nel proverbio è adombrato sotto il termine di 'mbrello) soffre di piú nel sopportare continuate piccole prove che non un solo , anche se pesante danno.
6 AVIMMO FATTO: CUPINTE, CUPINTE: 'E CAVÉRE 'A FORA E 'E FRIDDE 'A DINTO. Inutile come che non significante la traduzione letterale; in senso ampio la locuzione è usata per indicare l’incongruente azione di chi premi qualcuno oltre i propri meriti e al contrario lesini il plauso o il premio a chi invece spetterebbero; in senso piú strettamente letterale la locuzione si attaglia a quelle occasioni allorché spinti dalla cupidigia si siano concessi i favori di una donna a coloro che (freddi) non mostravano i necessarii requisiti fisici, e si siano erroneamente negati ai piú meritevoli caldi tenuti ingiustamente fuori sebbene mostrassero di essere adeguatamente... armati.
Letteralmente, di solito, in napoletano la parola cupínto sta per Cupído, miticologico nume dell’amore; ma penso che riferirsi a lui per la locuzione in epigrafe sarebbe errato, non esistendo un nesso tra il benevolo nume suddetto e l’errato, inesatto comportamento ricordato nella seconda parte della locuzione; ò reputato piú giusto pensare, nella fattispecie della locuzione, che il termine cupinte, oltre a fornire una adeguata rima con il termine dinto, sia stato usato come corruzione del termine cúpido: bramoso, agognante, desideroso, quella brama o desiderio che può spingere all’errore.
7 'A PECORA S'À DDA TUSÀ, NUN S'À DDA SCURTECÀ
Letteralmente: la pecora va tosata, ma non scorticata. Id est: est modus in rebus: non bisogna mai esagerare; nel caso : è giusto che una pecora venga tosata, non è corretto però scarnificarla; come è giusto pagare i tributi, ma questi non devono essere esosi.
8 - SI' PRE' 'O CAPPIELLO VA STUORTO... – ACCUSSÍ À DDA JÍ!
- Signor prete, il cappello va storto - Cosí deve andare. Simpatico duettare tra un gruppetto di monelli che - pensando di porre in ridicolo un prete - gli significavano che egli aveva indossato il suo cappello di sgimbescio, e si sentirono rispondere che quella era l'esatta maniera di portare il suddetto copricapo. La locuzione viene usata quando si voglia fare intendere che non si accettano consigli non richiesti soprattutto quando chi dovrebbe riceverli ha - per sua autorità - sufficiente autonomia di giudizio.
Faccio notare che nell’espressione, cosí come ci è giunta ed è riportata, è impropriamente usato il termine zi’ (apocope di zio che è dal basso lat. thíus modellato sul greco theîos); in realtà in origine l’espressione suonò Si' pre' 'o cappiello va stuorto... - Accussí à dda jí! ed in essa il si’ fu l’esatta apocope di si(gnore) derivato dal francese seigneur a sua volta marcato sul lat. seniore(m) comparativo di senex. Solo in prosieguo di tempo per corruzione popolare l’originaria Si' pre' 'o cappiello va stuorto... fu letta Zi' pre' 'o cappiello va stuorto...e cosí è giunta sino a noi, ma l’esatta lettura e significato devono intendersi Si' pre' 'o cappiello va stuorto...
9 DICETTE NUNZIATA: CE PONNO CCHIÚ LL'UOCCHIE CA 'E SCUPPETTATE!
Letteralmente: Disse Nunziata: Ànno piú potenza gli occhi (il malocchio) che le schioppettate.Il napoletano teme piú il danno che gli possa derivare dagli sguardi malevoli di taluno (iettatura), che il danno che possono arrecargli colpi di fucile: dalle ferite da arma da fuoco si può anche guarire,non è possibile sottrarsi ai nefasti influssi della iettatura.
10 'E MACCARUNE SE MAGNANO TENIÉNTE, TENIÉNTE.
Letteralmente: i maccheroni vanno mangiati molto al dente. La locuzione a Napoli oltre a compendiare un consiglio gastronomico ineludibile, viene usata anche per significare che gli affari devono esser conclusi sollecitamente, senza por troppe remore in mezzo.
la voce teniénte non è il sostantivo tenente (grado militare) ma è una voce verbale aggettivata e cioè il part. presente del verbo tené/tènere= mantenere, reggere (in questo caso la cottura...) verbo che deriva dritto per dritto dal lat. teníre, corradicale di tendere 'tendere'.
brak
venerdì 29 aprile 2016
VARIE 16/409
1. QUANNO 'A GALLINA SCACATEA, È SSIGNO CA À FATTO LL'UOVO.
Letteralmente: quando la gallina starnazza vuol dire che à fatto l'uovo. Id est: quando ci si scusa reiteratamente, significa che si è colpevoli.
2. QUANNO SI 'NCUNIA STATTE E QUANNO SI MARTIELLO VATTE
Letteralmente: quando sei incudine sta fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ti è favorevole.
3. MIÉTTELE NOMME PENNA! détto che letteralmente vale : Chiamala penna!;
La locuzione viene usata, quasi volendo consigliare e suggerire rassegnazione, allorchè si voglia far intendere a qualcuno che à irrimediabilmente perduto una cosa, un oggetto, divenuto quasi (penna) piuma d'uccello; La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, procurando un cattivo affare a chi à incautamente operato un prestito atteso che spesso sparisce un oggetto prestato a taluni che per solito non restituiscono ciò che ànno ottenuto in prestito.
miéttele nomme letteralmente mettigli nome e cioè chiamalo id est: ritienilo; miéttele= metti a lui, poni+gli voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito mettere=disporre, collocare, porre con etimo dal lat. mittere 'mandare' e successivamente 'porre, mettere'; nomme = nome; elemento linguistico che indica esseri viventi, oggetti, idee, fatti o sentimenti; denominazione, con etimo dal lat. nomen e tipico raddoppiamento espressivo della labiale m come avviene ad es. in ommo←hominem, ammore←amore(m), cammisa←camisia(m) etc.
Rammento che un tempo con la voce penna (dal lat. penna(m) 'ala' e pinna(m) 'penna, piuma', confluite in un'unica voce) a Napoli si indicò, oltre che la piuma d’un uccello, anche una vilissima moneta dal valore irrisorio, moneta che veniva spesa facilmente, senza alcuna remora o pentimento; tale moneta che valeva appena un sol carlino (nap. carrino) prese il nome di penna dal fatto che su di una faccia di tale moneta (davanti ) v’era raffigurata l’intiera scena dell’annunciazione a Maria Ss. mentre sul rovescio v’era raffigurato il particolare dell’arcangelo con un’ala (penna) dispiegata; ora sia che la penna in epigrafe indichi la piuma d’uccello, sia indichi la vilissima moneta, la sostanza dell’espressione non cambia, trattandosi di due cose: piuma o monetina che con facilità posson volar via e/o perdersi.
4. FÀ 'O FARENELLA.
Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli(Andria, 24 gennaio 1705 – † Bologna, 16 settembre 1782),, ma prende le mosse dall'àmbito teatrale dove le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo non era piú tanto giovane ed allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre piú che alla costosa cipria, alla piú economica farina.
5. À FATTO 'O PIRETO 'O CARDILLO.
Letteralmente: Il cardellino à fatto il peto. Commento salace ed immediato che il popolo napoletano usa quando voglia sottolineare la risibile performance di un insignificante e maldestro individuo che per sue limitate capacità ed efficienza non può produrre che cose di cui non può restar segno o memoria come accade appunto delle insignificanti flautolenze che può liberare un piccolo cardellino.
6. NUN LASSÀ 'A VIA VECCHIA P''A VIA NOVA, CA SAJE CHELLO CA LASSE E NUN SAJE CHELLO CA TRUOVE!
Letteralmente: Non lasciare la via vecchia per la nuova, perchè conosci ciò che lasci e ignori ciò che trovi. L'adagio consiglia cioè di non imboccare strade diverse da quelle note, ché, se cosí si facesse si andrebbe incontro all'ignoto, con conseguenze non facilmente valutabili e/o sopportabili.
7.PRUTUSINO, ÒGNE MENESTA.
Letteralmente: Prezzemolo in ogni minestra. Cosí è detto l'incallito presenzialista, che non si lascia sfuggire l'occasione di esser presente,di intromettersi in una discussione e dire la sua, quasi come il prezzemolo che si usa mettere in quasi tutte le pietanze o salse parttenopee. prutusino s.vo neutro = prezzemolo, come détto famosissima erba aromatica largamente presente nelle minestre della cucina partenopea; la voce prutusino è una lettura metatetica del tardo lat *petrosinu(m) che è dal gr. petrosélinon, comp. di pétra 'roccia, pietra' e sélinon 'sedano'; propr. 'sedano che cresce fra le pietre'.
8. ACQUA CA NUN CAMMINA, FA PANTANO E FÈTE.
Letteralmente: acqua che non corre, ristagna e puzza. Id est: chi fa le viste di zittire e non partecipare, è colui che trama nell'ombra e che all'improvviso si appaleserà con la sua puzza per il tuo danno!
9.'NFILA 'NU SPRUOCCOLO DINTO A 'NU PURTUSO!
Letteralmente: Infila uno stecco in un buco! La locuzione indica una perentoria esortazione a compiere l'operazione indicata che deve servire a farci rammentare l'accadimento di qualcosa di positivo, ma talmente raro da doversi tenere a mente mediante un segno ben visibile come l'immissione di un bastoncello in un buco di casa, per modo che passandovi innanzi e vedendolo ci si possa rammentare del rarissimo fatto che si è verificato. Per intenderci, l'espressione viene usata, a sapido commento allorchè, per esempio, un uomo politico mantiene una promessa, una donna è puntuale ad un appuntamento et similia.
10.ASTIPATE 'O MILO PE QUANNO TE VÈNE SETE.
Letteralmente:Conserva la mela, per quando avrai sete. Id est: Non bisogna essere impazienti; non si deve reagire súbito sia pure a cattive azioni ricevute;insomma la vendetta è un piatto da servire freddo, allorché se ne avvertirà maggiormente la necessità.
11.PUOZZ'AVÉ MEZ'ORA 'E PETRIATA DINTO A 'NU VICOLO ASTRITTO E CA NUN SPONTA, FARMACIE 'NCHIUSE E MIEDECE GUALLARUSE!
Imprecazione malevola rivolta contro un inveterato nemico cui si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subíta in un vicolo stretto e cieco, che non offra cioè possibilità di fuga e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte ed imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti al soccorso.
12.SI 'A MORTE TENESSE CRIANZA, ABBIASSE A CHI STA 'NNANZE.
Letteralmente: Se la morte avesse educazione porterebbe via per primi chi è piú innanzi, ossia è piú vecchio... Ma, come altrove si dice: ‘a morte nun tène crianza... (la morte non à educazione), per cui non è possibile tenere conti sulla priorità dei decessi.
13. PURE 'E CUFFIATE VANNO 'MPARAVISO.
Anche i corbellati vanno in Paradiso. Cosí vengono consolati o si autoconsolano i dileggiati prefigurando loro o auto prefigurandosi il premio eterno per ciò che son costretti a sopportare in vita. Il cuffiato è chiaramente il corbellato cioè il portatore di corbello (in arabo: quffa)
14. 'O PURPO SE COCE CU LL'ACQUA SOJA.
Letteralmente: il polpo si cuoce con la propria acqua, non à bisogno di aggiunta di liquidi. Id est: Con le persone di dura cervice o cocciute è inutile sprecare tempo e parole, occorre pazientare e attendere che si convincano da se medesime.
15.'A GATTA, PE GGHÍ 'E PRESSA, FACETTE 'E FIGLIE CECATE.
La gatta, per andar di fretta, partorí figli ciechi. La fretta è una cattiva consigliera. Bisogna sempre dar tempo al tempo, se si vuol portare a termine qualcosa in maniera esatta e confacente.
16. FÀ 'E CCOSE A CAPA 'E 'MBRELLO.
Agire a testa (manico) di ombrello. Il manico di ombrello è usato eufemisticamente in luogo di ben altre teste. La locuzione significa che si agisce con deplorevole pressappochismo, disordinatamente, grossolanamente, alla carlona.
17.CHI NUN SENTE A MMAMMA E PPATE, VA A MURÍ ADDÓ NUN È NNATO...
Letteralmente: chi non ascolta i genitori, finisce per morire esule. Id est: bisogna ascoltare e mettere in pratica i consigli ricevuti dai genitori e dalle persone che ti vogliono bene, per non incorrere in disavventure senza rimedio.
18.È GGHIUTA 'A MOSCA DINT'Ô VISCUVATO...
Letteralmente: È finita la mosca nella Cattedrale. È l'icastico commento profferito da chi si lamenta d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli à tolto la fameIn effetti un boccone nello stomaco, si sperde, quasi come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione è usata ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese...
19. CU 'NU SÍ TE 'MPICCE E CU 'NU NO TE SPICCE.
Letteralmente: dicendo di sí ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti.
20. TENÉ'A SALUTE D' 'A CARRAFA 'E ZECCA.
Letteralmente:avere la consistenza della caraffa della Zecca. Ossia essere gracilissimo e cagionevole di salute quasi come l'ampolla di quasi un litro usata per le tarature, esistente presso la Zecca di Napoli che era di sottilissimo vetro e perciò fragilissima.
21. TENGO 'E LAPPESE A QUADRIGLIÈ, CA M'ABBALLANO PE CCAPA.
Letteralmente: Ò le matite a quadretti che mi ballano in testa. Presa alla lettera la locuzione non significherebbe niente. In realtà "lappese a quadrigliè" è la corruzione dell'espressione latina lapis quadratus→ quadrellatus, seu opus reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l'esterno, ed il vertice verso l'interno, piccole piramidi di tufo o altra pietra, per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente. Questa costruzione richiedeva notevole precisione ed attenzione con conseguente applicazione mentale tale da procurare nervosismo ed agitazione. È leggenda metropolitana o pura inesatta fantasia l’idea che l’espressione in esame si riferisca ad una pubblicità di matite da disegno laccate a quadretti bianchi e neri, matite poste a mo’ di capelli rizzati su di un buffo volto e ciò perché l’espressione risaliva ad una data molto antecedente a quella del cartello pubblicitario di matite da disegno (1750 circa).
Brak
VARIE 16/408
1.BBUONO PE SCERIÀ ‘A RAMMA
Ad litteram: buono per soffregare le stoviglie di rame
Un tempo, quando la chimica non aveva ancóra prodotto tutti i detergenti o detersivi che, aiutando la massaia, inquinano il mondo, e quando l’acciaio 18/10
non era entrato ancóra in cucina sotto forma di stoviglie, queste erano di lucente rame opportunamente, per le parti che venivano a contatto con il cibo, ricoperte di stagno .Per procedere alla pulizia delle stoviglie di rame si usavano due ingredienti naturali: sabbia ‘e vitrera (sabbia da vetrai, ricca di silice) e limoni ; orbene quegli agrumi non edibili perché o di sapore eccessivamente aspro o perché carenti di succo, erano destinati allo scopo di pulire e rendere luccicanti le stoviglie; per cui di essi frutti si diceva che erano bbuone pe scerià ‘a ramma. Per traslato, oggi di chi, uomo o cosa, manchi alla sua primaria destinazione, si dice ironicamente che è buono etc. il verbo scerià id est: soffregare, nettare, lucidare viene da un tardo latino: flicare da cui felericare e poi flericare, donde scericare e infine scerià tutti con il significato di soffregare.
2. ACCUNCIARSE QUATT' OVE DINTO A 'NU PIATTO.
Ad litteram:Sistemarsi quattro uova in un piatto - cioè:assicurarsi una comoda rendita di posizione, magari a danno di altra persona (per solito la porzione canonica di uova è in numero di due...tutte quelle che eccedono sono state sottratte ad altri).
3. BBUONO P’APARÀ ‘O MASTRILLO
Ad litteram: buono per armare la trappolina id est: appena sufficiente a predisporre l’esca di una trappolina. La locuzione si usa nei confronti di qualcosa, soprattutto edibile, che sia cosí parva res da non poter soddisfare un sia pur modesto appetito, ma appena appena sufficiente a far da esca; per traslato la locuzione è usata nei confronti di tutto ciò che sia palesemente piccolo e/o modesto.
Mastrillo s.m. = trappolina per topi dal lat. mustriculu(m).
4. BENE IN SALUTE E SCARZO A DDENARE
Ad litteram:Bene in salute, ma poco provvisto di danaro.
Spesso alla semplice, spontanea domanda : “Come state?” fatta da un conoscente incontrato per caso, a Napoli si suole rispondere con la locuzione in epigrafe con la quale ci si vuol mettere al riparo da eventuali sorprese, volendo quasi dire: “Se la tua domanda è stata fatta con la semplice intenzione di informarti sul mio stato di salute, sappi che sto bene; ma se la domanda era propedeutica ad una richiesta di prestito, sappi allora che le mie condizioni economiche attuali, non mi permettono di fare prestiti o elargizioni; evita perciò di farmene richiesta!”La locuzione è divenuta col tempo, quasi una frase idiomatica e viene usata sempre in risposta alla domanda de quo, indipendentemente se esistano o meno condizioni economiche precarie.
5. CACCIÀ ‘E CCARTE
Ad litteram: tirar fuori le carte Non si tratta però, chiaramente di tra fuori da un cassetto le 40 carte di cui è formato il mazzo napoletano di carte da giuoco per principiare una partita.
Si tratta, invece, di procurarsi le necessarie documentazioni burocratiche per avviare una certa pratica o per portarla a compimento.In particolare la locuzione in epigrafe è usata dai promessi sposi che, intendendo contrarre il loro matrimonio, devono sobbarcarsi all’impresa di procurarsi presso uffici pubblici e/o luoghi di culto le prescritte documentazioni, dette in maniera onnicomprensiva: carte, senza le quali, non è possibile pervenire alla celebrazione delle nozze. Va da sè che quasi tutti i negozi giuridici necessitano di ineludibili carte da procacciare e ciò à dato modo a taluni napoletani, disperatamente senza lavoro, di inventarsi un mestiere: quello di procacciatore di carte; questo utilissimo individuo, per poche lire si accolla l’onere di fare lunghissime file davanti agli sportelli degli uffici dell’anagrafe pubblica, o si accolla la fatica di raggiungere posti lontani e impervi da raggiungere per procurare al richiedente le carte necessarie.
6. CHISTO È N'ATO D''A PASTA FINA.
Letteralmente: Costui è un altro della pasta fine. Id est: anche questo fa parte di un gruppo di brutti ceffi, di cui diffidare. La locuzione nacque allorché, alla fine del '800, in Napoli alcuni comorristi erano soliti riunirsi in una bettola tenuta da un tal Pastafina. Lètta tenendo presente questa annotazione, la locuzione assume una sua valenza di grande offesa.
7. CADÉ ‘A COPP’Ô PÈRE ‘E PUTRUSINO.
Ad litteram: cadere dalla pianta di prezzemolo; id est ammalarsi , anche se di affezioni non importanti, ma reiterate; la locuzione è usata soprattutto per commentare lo stato di malferma salute delle persone anziane che son solite ammalarsi di piccole affezioni che, se per la loro non eccessiva virulenza e/o importanza, non destano particolari preoccupazioni, pur tuttavia son di gran fastidio per gli anziani che subiscono tali affezioni paragonate nella locuzione in epigrafe alle cadute da una pianta di prezzemolo, cadute che poiché avvengono da una pianta molto bassa non son pericolose, anche se - altrove si consiglia di evitare cadute vasce (cadute basse) in quanto pericolose.
8. CAMPÀ ANNASCUSO DÔ PATATERNO.
Ad litteram: Vivere nascondendosi all’ Eterno Padre; id est: vivere non dando contezza di sè nemmeno al Cielo, quasi di soppiatto, clandestinamente se non addirittura a dispetto ed in barba di tutti gli altri.A Napoli la locuzione è usata quando si voglia dare ad intendere che sia impossibile conoscere da cosa o chi taluno tragga i propri mezzi di sostentamento, posto che il suo tenore di vita eccede le di lui conclamate possibilità economiche.
9. CCA NISCIUNO È FFESSO!
Ad litteram: Qui nessuno è sciocco! Affermazione perentoria fatta nei confronti di chi era aduso a ritenere che gli abitanti del Sud dello stivale fossero degli sciocchi, per significare che, invece era ed è in errore chi ritenesse o ancóra ritenga vera una cosa simile .La locuzione, divenuta una sorta di monito, è passata poi a significare:bada che non ci casco, attento ché non riuscirai a prenderti gioco di me,bada bene che son pronto a render pan per focaccia giacché sono tutt’altro che fesso, come chiunque altro viva in questi luoghi.
cca avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che in lingua napoletana (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; in lingua napoletana esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = (che), pronome e congiunzione che però si rendono con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti scrittori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’con un pleonastico erroneo segno (‘) d’apocope atteso che non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico !
10. CCA SSOTTO NUN CE CHIOVE
Ad litteram: Qui sotto non ci piove
L’espressione (che viene pronunciata usando il dito indice della mano destra tenendolo ben teso puntato contro il palmo rovesciato della mano sinistra) viene usata, a mo’ di risentito avvertimento , nei confronti di chi - dopo di aver promesso un aiuto o una liberalità - sia venuto meno clamorosamente a quanto promesso, nell’intento di fargli capire che non si è piú disposti a sopportare una simile mancanza di parola data e, per converso, si è pronti a restituire pan per focaccia; l’espressione talora è usata nelle medesime accezioni della precedente.
11. CE MANCANO DICIANNOVE SORDE P’APPARÀ ‘A LIRA.
Ad litteram:ci mancano (ben) diciannove soldi per raggranellare una lira. Poiché la lira de quo contava venti soldi il fatto che, come affermato in epigrafe, mancassero diciannove soldi, significava che ci si trovava in gran carenza di mezzi e la locuzione, riferita ad una azione principiata con tal carenza voleva significare che, con ogni probabilità, non si sarebbe potuto portare a compimento il principiato e che, forse, sarebbe stato piú opportuno il desistere.
12. CE MANCANO QUATTO LASTE I ‘O LAMPARULO.
Ad litteram: mancano i quattro vetri e il reggimoccolo Locuzione di portata simile alla precedente; in questa, in luogo della lira, il riferimento è fatto ad una ipotetica lanterna che è stata costruita in maniera raffazzonata di talché non è adatta allo scopo per cui è stata costruita e non potrà produrre vantaggi a chi se ne dovesse servire, posto che essa lanterna manca dei quattro vetri che ne costituiscono le pareti e manca addirittura del reggimoccolo centrale: un simile oggetto non potrà mai servire ad illuminare.
13. CURAGGIO NE TÈNE, MA È ‘A PAURA CA ‘O FOTTE. Ad litteram: à coraggio, ma la paura lo sconfigge.
Ironica locuzione usata per deridere chi, a parole, si dichiari coraggioso, ma poi all’atto pratico si dimostri codardo, pauroso, pavido, timoroso, vigliacco, vile.
Brak
VARIE 16/407
1 NÈ FFEMMENA, NÈ TTELA A LLUME DE CANNELA.
Letteralmente: Né donne, né tessuti alla luce artificiale. Id est: la luce artificiale può nascondere parecchi difetti, che - invece - alla luce del sole - vengono in risalto e ciò vale sia per la consistenza dei tessuti, sia - a maggior ragione - per la bellezza muliebre.
2 MEGLIO 'NU CANTÀRO 'NCAPA CA N'ONZA 'NCULO!
Letteralmente: Meglio un quintale in testa che un'oncia nel sedere! Id est: meglio patire un danno fisico, che sopportarne uno morale. In pratica gli effetti del danno fisico, prima o poi svaniscono o si leniscono, quelli di un danno morale perdurano sine die.
La voce cantàro (dall’arabo quintar) significa quintale; qualche sprovveduto ritraendo l’accento la legge càntaro (che è dal lat. cantharu(m) a sua volta dal greco kàntharos)e significa pitale) rovinando il significato dell’espressione nella quale in origine si pongono giustamente a paragone due pesi: cantàro (quintale) ed onza (oncia), mentre nella lettura stravolta si porrebbero a paragone due entità incongruenti: un peso(oncia) ed un pitale
3 CHI TÈNE BBELLI DENARE SEMPE CONTA, CHI TÈNE 'NA BBELLA MUGLIERA SEMPE CANTA.
Letteralmente: chi à bei soldi conta sempre, chi à una bella moglie canta sempre. Id est: il denaro, per quanto molto che ne sia non ti dà la felicità, che si può ottenere invece avendo una bella moglie.
4 DICETTE 'O PUORCO 'NFACCI' Ô CIUCCIO: MANTENIMMOCE PULITE!
Letteralmente: Disse il porco all' asino: Manteniamoci puliti. È l'icastico commento che si suole fare allorché ci si imbatta in un individuo che con protervia continui a criticare la pagliuzza nell'occhio altrui e faccia le viste di dimenticarsi della trave che occupa il proprio occhio.A simile individuo si suole rammentare: Cumparié nun facimmo comme 'o puorco...(Amico non comportiamoci come il porco che disse all'asino etc. etc.)
5 DICETTE PULICENELLA: NCE SO' CCHIÚ GGHIUORNE CA SACICCE.
Disse Pulcinella: ci sono piú giorni che salcicce. È l'amara considerazione fatta dal popolo, ma messa sulla bocca di Pulcinella, della cronica mancanza di sostentamento e per contro della necessità quotidiana della difficile ricerca dei mezzi di sussistenza.
6 CHI 'A FA CCHIÚ SPORCA È PPRIORE.
Letteralmente: chi la fa piú sporca diventa priore. Id est: chi si comporta peggio è gratificato con il massimo premio. L'esperienza popolare insegna che spesso si è premiati oltre i propri meriti.
7 DICETTE PULICENELLA: I' NUN SO' FESSO, MA AGGI' 'A FÀ 'O FESSO, PECCHÉ FACENNO 'O FESSO, VE POZZO FÀ FESSE!
Letteralmente: Disse Pulcinella: Io non sono stupido, ma devo fare lo stupido, perché facendo lo stupido, vi posso gabbare (e posso ottenere ciò che voglio, cosa che se non mi comportassi da stupido non potrei ottenere). La locuzione in epigrafe è uno dei cardini comportamentali della filosofia popolare napoletana che parte da un principio assiomatico che afferma: Cca nisciuno è ffesso! Id est: Qui (fra i napoletani) non v'è alcuno stupido!
8 MONECA 'E CASA: DIAVULO ESCE E TTRASE, MONECA 'E CUNVENTO: DIAVULO OGNI MMUMENTO.
Letteralmente: monaca di casa: diavolo entra ed esce, monaca di convento: diavolo ogni momento. La locuzione, con una punta di irriverenza, viene usata, quando si voglia eccepire qualcosa sul comportamento di chi, invece, istituzionalmente dovrebbe avere un comportamento irreprensibile. La monaca di casa era a Napoli una di quelle attempate signorine che, per non essere tacciate di zitellaggio, facevano le viste di dedicarsi alla cura di qualche parente anziano o prete. Va da sé che il diavolo della locuzione è usato eufemisticamente per indicare il medesimo diavolo di talune novelle del Boccaccio; per ciò che attiene il convento è facile pensare che la locuzione faccia riferimento a quel covento di sant'Arcangelo a Baiano in Napoli, finito nelle cronache dell'epoca e successive per i comportamenti decisamente libertini tenuti da talune suore ivi ospitate.
9.FRIJERE 'O PESCE CU LL' ACQUA.
Letteralmente: friggere il pesce con l'acqua. La locuzione stigmatizza il comportamento insulso o quanto meno eccessivamente parsimonioso di chi tenti di raggiungere un risultato apprezzabile senza averne i mezzi occorrenti e necessari in mancanza dei quali si va certamente incontro a risultati errati o di risibile efficacia.
10. MEGLIO 'NA MALA JURNATA, CA 'NA MALA VICINA.
Meglio una cattiva giornata che una cattiva vicina. Ed il perché è facile da comprendersi: una giornata cattiva, prima o poi passa e con essa i suoi effetti negativi, ma una cattiva vicina, perdurante la sua stabile vicinanza, di giornate cattive ne può procurare parecchie...
11.CU CHESTU LIGNAMMO SE FANNO 'E STROMMOLE.
Letteralmente: con questo legno si fanno le trottoline. Id est: Non attendetevi risultati migliori, perché con quel materiale che ci conferite non possiamo che fornirvi cose senza importanza e non altro! In una seconda valenza la locuzione sta a significare: badate che ciò che ci avete richiesto si fa con questo (scadente) materiale, non con altro piú pregiato...
12.NAPULE FA 'E PECCATE E 'A TORRE 'E SCONTA.
Letteralmente: Napoli pecca e Torre del Greco è punita. La locuzione è usata a significare l'incresciosa situazione di chi paga il fio delle colpe altrui. Nel merito della locuzione: per mera posizione geografica e a causa dei venti e delle correnti marine, i liquami che Napoli scaricava nel proprio mare finivano, inopinatamente, sulla costa di Torre del Greco, ridente località confinante col capolugo campano.
13. A - COMME PAVAZIO, ACCUSSÍ PITTAZIO.
B - POCU PPANE, POCU SANT'ANTONIO.
Letteralmente: A - Come pagherai, cosí dipingerò. B - Poco pane, poco sant'Antonio. Ambedue le locuzioni adombrano il principio di reciprocità insito nel sinallagma contrattuale, per il quale il do è commisurato al des; id est: non si può pretendere un corrispettivo superiore alla retribuzione. La locuzione sub A ricorda l'iscrizione posta da tale F. A. S. GRUE dietro il celebre albarello di san Brunone; mentre quella sub B ripropone la risposta data da un pittore a certi frati che gli avevano commissionato un quadro raffigurante sant'Antonio. Alle rimostranze dei frati che si dolevano della lentezza del pittore nel portare innanzi l'opera commissionata, il pittore rispose con la frase in epigrafe (sub B)dolendosi a sua volta dell'esiguità della remunerazione.
albarello o alberello o anche albarella è un vaso cilindrico, per lo piú di maiolica,variamente decorato usato nelle vecchie farmacie ed il nome gli deriva dal fatto
14. S' È FFATTA NOTTE Ô PAGLIARO.
Letteralmente: E' calata la notte sul fienile. La locuzione viene usata a mo' di incitamento all'operosità verso colui che procrastini sine die il compimento di un lavoro per il quale - magari - à già ricevuto la propria mercede; tanto è vero che si suole commentare: chi pava primma è male servuto (chi paga in anticipo è malamente servito...)
15.QUANTO È BBELLO E 'O PATRONE S''O VENNE!
Letteralmente: Quanto è bello, eppure il padrone lo vende. Era la frase che a mo' di imbonimento pronunciava un robivecchi portando in giro, per venderla al migliore offerente, la statua di un santo presentata sotto una campana di vetro. Con tale espressione ci si prende gioco di chi si pavoneggia, millantando una bellezza fisica che non corrisponde assolutamente alla realtà.
16. 16.FÀ SPINGULE SPINGULE
nell’espressione 16.FÀ SPINGULE SPINGULE
nell’espressione Fà ‘a casa spingule spingule
Ad litteram: Fare spillo spillo nell’espressione Fare la casa spillo spillo. Iperbolica espressione usata per fotografare l’incresciosa situazione di chi avendo smarrito, presumibilmente in casa, un oggetto o alcunché o non ricordando dove l’abbia riposto e/o nascosto è costretto ad affannarsi in una ricerca costante, incessante, ininterrotta, persistente, reiterata, compulsiva quasi angosciosa, ossessiva, ossessionante ispezionando e rovistando in ogni dove sino a frugare iperbolicamente tra spillo e spillo alla ricerca spesso vana, dell’oggetto perso o riposto e/o nascosto, perdendolo di vista o non ricordandone più l’ubicazione. Fà ‘a casa spingule spingule
Ad litteram: Fare spillo spillo nell’espressione Fare la casa spillo spillo. Iperbolica espressione usata per fotografare l’incresciosa situazione di chi avendo smarrito, presumibilmente in casa, un oggetto o alcunché o non ricordando dove l’abbia riposto e/o nascosto è costretto ad affannarsi in una ricerca costante, incessante, ininterrotta, persistente, reiterata, compulsiva quasi angosciosa, ossessiva, ossessionante ispezionando e rovistando in ogni dove sino a frugare iperbolicamente tra spillo e spillo alla ricerca spesso vana, dell’oggetto perso o riposto e/o nascosto, perdendolo di vista o non ricordandone più l’ubicazione.
brak
VARIE 16/406
1 ESSERE A LL'ABBLATIVO.
Letteralmente: essere all'ablativo. Id est: essere ormai alla fine, ineluttabilmente alla conclusione dell’opera intrapresa; si è fatto tutto ciò che che si poteva fare; per traslato, trovarsi nella condizione di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'ablativo della locuzione è appunto l'ultimo caso delle declinazioni latine.
2 ESSERE MURO E MMURO CU 'A VICARIA.
Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti. La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 in poi ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco.
3 CU 'O TIEMPO E CU 'A PAGLIA...
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti.
4 SÎ ARRIVATO Â MONACA ‘E LIGNAMMO.
Letteralmente: sei giunto presso la monaca di legno. Id est: sei prossimo alla pazzia. Anticamente la frase in epigrafe veniva rivolta a coloro che davano segni di pazzia o davano ripetutamente in escandescenze. La monaca di legno dell’epigrafe altro non era che una statua lignea raffigurante una suora nell’atto di elemosinare . Detta statua era situata sulla soglia del monastero delle Pentite presso l’Ospedale Incurabili di Napoli, ospedale dove fin dal 1600 si curavano le malattie mentali e dove prestava servizio il famoso Giorgio Cattaneo, da cui il s.vo mastuggiorgio (cfr. alibi) .
5 STAMMO A LL'ERVA.
Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente détta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.
6 HÊ SCIUPATO ‘NU SANGRADALE.
Letteralmente: Ài sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri.
7 FATTE CAPITANO E MMAGNE GALLINE.
Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa’ le viste di essere un capitano e godine i benefici.
8 CHI NASCE TUNNO NUN PO’ MMURÍ QUATRO.
Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
9 A CCHI PARLA ARRETO, 'O CULO LLE RISPONNE.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salve di peti.
10 A CCRAJE A CCRAJE COMME Â CURNACCHIA.
Letteralmente: a cra, a cra come una cornacchia. La locuzione, che si usa per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso della cornacchia [cra-cra] e la parola latina cras che in napoletano è resa con craje e che significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non abbia seria intenzione di lavorare .
11 CHELLO CA NUN SE FA NUN SE SAPE.
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.
12 'O PESCE GRUOSSO, MAGNA Ô PICCERILLO.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande.
13 'O PUORCO SE 'NGRASSA PE NNE FÀ SACICCE.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
14 JÍ METTENNO 'A FUNA 'E NOTTE.
Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
15 SE SO' RUTTE 'E TIEMPE, BAGNAJUÓ.
Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti ed i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione è usata a mo’ d’avvertimento quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
16 PARLA QUANNO PISCIA ‘A GALLINA!
Letteralmente: parla quando orina la gallina.Id est: Zittisci! Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini e/o magari gratuite cattiverie. Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che debba tacere sempre.
17 PUOZZE PASSÀ P''A LOGGIA.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). E' come a dire: Possa tu morire. Per la zona della Loggia di Genova, infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro storico e diretti al Camposanto.
18 CORE CUNTENTO Â LOGGIA.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi.
19 CESSO A VVIENTO!
Letteralmente: gabinetto aperto. Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente che viene equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti, per consentire un agevole ricambio d'aria, sia in alto che in basso.
20 'A MALORA 'E CHIAJA.
Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Cosí a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri piú eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un borgo molto prossimo al mare ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleodoranti dei grossi pitali nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora.
21 FARNE UNA CCHIÚ 'E CATUCCIO.
Letteralmente: compierne una piú di Catuccio. Id est: farne di tutti i colori, compiere infamie e scelleratezze tali da sorpassare quelle compiute in Francia dal settecentesco Louis Philippe Bourguignon (La Courtille, Belleville, 1693 -† Parigi 1721).Costui, figlio d'un bottaio, lasciò gli studi intrapresi presso i gesuiti, per darsi alla malavita e divenne protagonista, durante una dozzina d'anni, di furti e avventure d'ogni sorta, che resero la sua biografia popolare in tutta Europa . Questo celebre brigante venne soprannominato Cartouche, nome corrotto in napoletano con il termine Catuccio. Arrestato, fu giustiziato nella piazza di Grève. La locuzione viene usata per bollare il comportamento non raccomandabile di chi agisce procurando danno a terzi, ma iperbolicamente anche per sottolineare il comportamento un po' troppo vivace dei ragazzi.
22 ESSERE PASSATA 'E CÒVETA O 'E CUTTURA.
Letteralmente: essere passata di raccolta cioè già sfiorita sull'albero perché abbondandemente maturata oppure essere oramai passata di cottura cioè bruciacchiata perchè troppo cotta. Ambedue le espressioni fanno furbescamente riferimento ad una donna piuttosto in avanti con gli anni perciò sfiorita e non piú degna di attenzioni galanti alla medesima stregua o di un frutto lasciato sul ramo troppo tempo dopo la maturazione o come un cibo lasciato sul fuoco oltre il tempo necessario, facendolo quasi bruciare.
23 QUANNO 'O DIAVULO T'ACCAREZZA È SSIGNO CA VO’ LL'ANEMA.
Letteralmente : quando il diavolo ti carezza, significa che vuole l'anima. Lo si afferma a commento delle azioni degli adulatori o di coloro che godono di cattiva fame; se uno di costoro ti blandisce, offrendoti servigi o opere gratuite, bisogna non fidarsi, giacché nel loro operare c'è nascosta la richiesta di qualcosa molto piú importante della prestazione offerta.
24 È GGHIUTO 'O CCASO 'A SOTTO I 'E MACCARUNE 'A COPPA.
Letteralmente: È finito il cacio sotto ed i maccheroni sopra. La locuzione la si usa per commentare con disappunto una situazione che non si sia evoluta secondo i principi logici ed esatti e codificati. In effetti, secondo logica si vorrebbe che il formaggio guarnisse dal di sopra un piatto di maccheroni, non che facesse loro da strame. Id est: maledizione! Il mondo va alla rovescia!
25 DOPPO MUORTO, BUZZARATO.
Letteralmente: dopo morto, buggerato; dopo aver subito la morte, sopportare anche il vilipendio. La locuzione corrisponde, anche se in maniera un po' piú dura al toscano: il danno e la beffa. Essa fu usata nel corposo linguaggio partenopeo da un anonimo prelato napoletano che assistette al consueto percuotimento del capo del defunto papa PIO XII, con il previsto martelletto d'argento operato dal cardinale camerlengo, per accertarsi che il pontefice non reagisse dimostrando cosí d'essere effettivamente morto.
26 TROPPI GALLE A CCANTÀ NUN SCHIARA MAJE JUORNO.
Letteralmente: troppi galli a cantare, non spunta mai il giorno. Id est: quando ci sono troppe persone ad esprimere un'opinione, un parere, non si arriva mai ad una conclusione; ed in effetti tenendo presente l'antico adagio latino: tot capita, tot sententiae: tante teste, tanti pareri, sarà ben difficile, anzi sarà impossibile trovarne di collimanti per modo che si possa finalmente giungere ad una conclusione.
27 NUN C'È PRERECA SENZA SANT' AUSTINO.
Letteralmente: Non v'è predica senza sant'Agostino. Come si sa, sant'Agostino, vescovo d' Ippona, è uno dei piú famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non usi citare gli scritti del santo vescovo. L'espressione in epigrafe viene usata a mo' di risentimento da chi si senta chiamato in causa - soprattutto ingiustamente - e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò non desiderate.
28 TENÉ DDOJE FACCE, COMME A SAN MATTEO
Con questa espressione s’usa riferirsi ad una persona ipocrita o dalla doppia vita.Per il vero nessun testo biblico attesta che il santo evangelista fósse un ipocrita o dalla doppia vita, se si esclude il fatto che Levi [questo era il nome di Matteo allorché svolgeva la professione di pubblicano] chiamato dal Signore abbandonò la propria attività per seguire il Cristo cambiando vita e nome; questa evenienza altamente positiva non può aver ispirato l’espressione chiaramente negativa. Il bandolo della matassa sta nel fatto che il san Matteo, a cui si fa riferimento nell’espressione, è quello realizzato da Michelangelo Naccherino(Firenze 1550 - †Napoli 1622).[ Allievo a Firenze del Giambologna, ne trascrisse i moduli in un'ampia produzione per la quale si avvalse anche di una operosa bottega. Nel 1573, dopo una permanenza in Sicilia, si stabilì a Napoli, dove, nominato scultore di corte, scolpí con grazia decorativa monumenti funebri (tomba Pignatelli in S. Maria dei Pellegrini; tomba Caniglia in S. Giacomo degli Spagnoli) e statue (Madonna delle Grazie in S. Giovanni a Carbonara etc.]. La statua del san Matteo, tuttora conservato sull’altare della cripta del Duomo di Salerno, è stranamente bifronte e la si può vedere da entrambi i lati dell’altare e non è peregrina l’idea che lo scultore nel realizzarla abbia utilizzato una precedente opera di bottega raffigurante un Giano bifronte.
Brak
VARIE 16/405
1 CHILLO SE ‘MPIZZA 'E DDETE 'NCULO E CACCIA 'ANIELLE.
Ad litteram: Quello si ficca le dita nel sedere e tira fuori anelli. Id est: la fortuna di quell'essere è cosí grande che, a mo’ di un prestidigitatore, è capace di procurarsi beni e ricchezze anche nei modi meno ortodossi o possibili.
2 AVIMMO PERDUTO 'APARATURA E 'E CENTRELLE.
Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini. Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali addobbi erano chiamati aparature; accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto mal tempo, il vento e la pioggia scompigliasse, fino a distruggere gli addobbi ed a svellere drappi e chiodini usati per sostenerli; la locuzione attualmente viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano distrutti o vanificati tuttti gli sforzi operati per raggiungere un alcunché.
aparature s.vo fle pl. di aparatura = addobbo; voce deverbale dal part.pass. dello spagnolo aparar che è dal lat. parare=preparare seguendo il percorso a (prefisso intensivo)+ paratu(m) + il suff. di pertinenza ura;
centrelle s.vo fle pl. di centrella = chiodino;
la voce centrella è un diminutivo del greco kéntron= chiodo.
3 'A FEMMENA È CCOMME Â CAMPANA: SI NUN 'A TUCULIJE, NUN SONA.
Ad litteram: la donna è come una campana: se non l'agiti non suona; id est: la donna à bisogno di esser sollecitata per tirar fuori i propri sentimenti, ma pure i propri istinti.
4 'A FEMMENA BBONA SI - TENTATA - RESTA ONESTA, NUN È STATA BUONO TENTATA.
Ad litteram: una donna procace, se - una volta che venga tentata –(non cede e) resta onesta, significa che non è stata tentata a sufficienza. Lo si dice intendendo affermare che qualsiasi donna, in ispecie quelle procaci si lasciano cadere in tentazione; e se non lo fanno è perché... il tentatore non è stato all'altezza del compito...
5 TRE CCOSE NCE VONNO P''E PICCERILLE: MAZZE, CARIZZE E ZIZZE!
Ad litteram: tre son le cose che necessitano ai bimbi:mazze (cioè busse), carezze e tette. Id est: per bene allevare i bimbi occorrono tre cose il sano nutrimento(le tette), busse quando occorra punirli per gli errori compiuti, premi (carezze)per gratificarli quando si comportano bene.
6 'E PEJE JUORNE SO' CCHILLE D''A VICCHIAIA.
Ad litteram: i peggiori giorni son quelli della vecchiaia; il detto riecheggia l'antico brocardo latino: senectus ipsa morbus est; per solito, in vecchiaia non si hanno piú affetti da coltivare o lavori cui attendere, per cui i giorni sono duri da portare avanti e da sopportare specie se sono corredati di malattie che, del resto, in vecchiaia non mancano mai...
7 DIMMÉNNE N'ATA, CA CHESTA GGIÀ 'A SAPEVO.
Ad litteram: raccóntamene un'altra perché questa già la conoscevo; id est: se (come pare) ài intenzione di truffarmi o farmi del male, adopera altro sistema, giacché questo che stai usando mi è noto e conosco il modo di difendermi, vanificando il tuo operato.
8 DENARO 'E STOLA, SCIOSCIA CA VOLA.
Ad litteram: denaro di stola, soffia ché vola via. Id est: il danaro ricevuto o in eredità, o in omaggio da un parente prete, si disperde facilmente, con la stessa facilità con cui se ne è venuto in possesso.
9. FATTE CAPITANO E MAGNE GALLINE.
Ad litteram: diventa capitano e mangerai galline: infatti chi sale di grado migliora il suo tenore di vita, per cui, al di là della lettera, il proverbio può intendersi:(anche se non è veramente accaduto), fa' le viste di esser salito di grado, cosí vedrai migliorato il tuo tenore di vita.
10.'E MARIUOLE CU 'A SCIAMMERIA 'NCUOLLO, SO' PPEJE 'E LL' ATE.
Ad litteram: i ladri eleganti e ben vestiti sono peggiori degli altri. Id est: i gentiluomini che rubano sono peggiori e fanno piú paura dei poveri che rubano magari per fame o necessità.
mariuole s.vo m.le pl. di mariuolo = ladro, il mariolo, ed estensivamente la persona in genere disonesta anche quando non sia dedita al furto continuato; per ciò che attiene all’etimologia del termine mariuolo non c’è uniformità di vedute; taluno si trincera dietro un etimo incerto, qualche altro (D.E.I.) propende per un antico aggettivo francese mariol = furbacchione,forse da collegare ad un’origine orientale (turca) donde forse anche il greco mod. margiólos= astuto, furbo etc. qualche altro ancóra lo legherebbe allo spagnolo marraio e marrullero = imbroglione, monello;la proposta del D.E.I.sarebbe interessante se si fermasse al francese mariol e non chiamasse in causa (senza specificarla!) un’origine turca, ma Carlo Battisti che si prese la responsabilità della lettera M evita di chiarire o precisare e con la sua proposta non mi convince per cui non mi sento di accoglierla, come non posso accogliere l’idea dello spagnolo marraio o marrullero morfologicamente troppo lontana da mariuolo e non chiarita nel percorso morfologico da seguire per pervenirvi; trovo invece molto interessante la scuola di pensiero (C. Iandolo) che fa risalire la voce mariuolo ad un acc. latino malevolu(m)→marevolu(m)→marevuolo con sincope definitiva della v donde mareólo→ mareuólo e mariuólo
quantunque nel napoletano siano rintracciabili piú frequentemente delle epentesi consonantiche eufoniche ( n, v) infisse a mezzo dittonghi o iati, che delle sincopi.
sciammeria s.vo f.le = giacca elegante con falde lunghe, tipica delle cerimonie o ricorrenze importanti, con esclusione dei matrimoni eleganti nei quali sia previsto il tight (detto giocosamente a Napoli: cafè a ddoje porte) in senso traslato e giocoso vale coito.Etimologicamente la sciammeria probabilmente non è un denominale forgiato sul francese chambre, ma molto piú probabilmente è derivato direttamente dallo spagnolo chamberga sempre che non derivi dal nome del duca di Schönberg (17° sec.) che volle che le sue truppe fossero equipaggiate con una lunga palandrana che, dal nome del duca, fu resa in italiano col termine giamberga da cui non è lontana sciammeria; personalmente trovo però piú convincente l’ipotesi ispanica che piú si presta ad approdare a sciammeria attraverso la napoletanissima, solita prostesi di una s intensiva all’originario cia (ch) spagnolo, assimilazione regressiva della b, sincope del gruppo rg sostituito da un ri con una i atona;
come ò accennato si tratta di una giacca molto ampia che inviluppa quasi chi l’indossa al segno che, ripeto, per traslato giocoso e furbesco con il termine sciammeria si intende anche il coito, in particolare quello in cui l’uomo assume una posizione tale che copra del tutto la donna col proprio corpo ed al proposito rammento che con molta probabilità quando i napoletani accennano ad una sciammeria onirica (nella smorfia napoletana è codificata al numero 64), è al coito e non alla giacca che intendono riferirsi, giacché probabilmente la loro fantasia notturna fu accesa dalla scena d’una unione sessuale, piuttosto che dalla visione d’una giacca da cerimonia!
11.FA’ ‘NA COSA ‘E JUORNO.
Ad litteram: fa’ una cosa di giorno! Id est: Agisci rapidamente!
Perentorio invito rivolto ad un artiere o a chiunque si stia dedicando ad un’attività, affinché porti a termine il lavoro o l’intrapreso in maniera rapida, sollecita esaurendo l’attività nel lasso di un giorno ed evitando di protrarre l’operare fino alle ore notturne che son le meno proficue.
Brak