A tavola non si invecchia: un piatto in meno ed una luce in piú.
Simpatico e veritiero proverbio che, in verità, non so bene se appartenga alla tradizione nazionale o a quella popolare partenopea; lo esamino per tentar di chiarirne l’autentico sotteso significato, spesso non compreso o travisato, anche da persone di età avanzata;
Una prima osservazione semantica ci può aiutare a comprender che forse si tratta di un proverbio napoletano, sebbene redatto non nel consueto verace idioma partenopeo, ma in un ibrido linguaggio solo apparentemente toscano: infatti il verbo invecchia è, per posizione e senso un congiuntivo esortativo che in pretto toscano (se si fosse trattato di un proverbio nazionale) sarebbe stato reso con un più corretto invecchi; è vero che in lingua napoletana non esiste il verbo invecchiare (che solitamente è reso con i verbi appassuliarse o staggiunarse) e la sua presenza nel proverbio potrebbe far pensare che ci troviamo a parlare di un proverbio nazional popolare, ma l’uso scorretto del congiuntivo reso con l’indicativo, mi fa invece pensare che si tratti di un proverbio popolare partenopeo; nella lingua napoletana, infatti, pur esistendo in grammatica il congiuntivo presente, nell’uso comune lo si sostituisce con l’indicativo presente.
Ciò detto, passo ad illustrarne il sotteso significato e prendendo in considerazione la seconda parte del proverbio chiarisco súbito che la luce in piú di cui si parla non è da intendersi, come pure erroneamente taluno fa, come riferimento ad un mezzo di illuminazione quale che sia; in realtà, come qui appresso chiarirò, la luce in piú è da intendersi come un giorno in piú..
Infatti il proverbio suggerendo, anzi consigliando di non invecchiare a tavola e cioè consigliando di non intrattenersi a lungamente (ed abbondantemente) banchettare, chiarisce che il rinunciare ad un piatto,
può portare il beneficio di allungare la vita, concetto reso con l’espressione una luce in piú id est:un giorno in piú.
Ci troviamo in somma davanti ad un proverbio che non si interessa di problemi energetici,auspicando che il desco sia bene illuminato, anche a discapito dell’abbondanza di vivande, ma molto piú opportunamente dètta una norma comportamentale salutare.Tuttavia debbo segnalare che molte persone anche tra quelle anziane, non conoscono il proverbio cosí come riportato in epigrafe, ma ne rammentono semplicemente la prima parte: A tavola non si invecchia e lo leggono edonisticamente, se non in senso epicureo, affermando che il proverbio consiglia, quando non invita a stare lungamente a tavola a cibarsi abbondandemente, stando in gioiosa compagnia con i commensali; le due cose aiuterebbero a mantenersi giovani e a non invecchiare... Dissento!
Raffaele Bracale
giovedì 28 febbraio 2008
ROTACISMO NAPOLETANO
Il fenomeno del rotacismo nella lingua napoletana.
Il passaggio di taluni originali suoni consonantici a quello di R si verifica spesso ed in varie lingue a cominciare dal latino classico dove la S intervocalica diventa R per es:ausosa diviene aurora; similmente avviene con il suono N in albanese e romeno . Non diversamente accade nella lingua napoletana dove il suono D può talvolta diventare R.
Per esempio il napoletano dice indifferentemente Madonna e Maronna. Talune volte capita poi che parole originariamente scritte con la d ànno poi prevalentemente, anzi quasi del tutto presa la forma con la r, come ad es.: annudo(nudo)che ora è sempre annuro , laddove molte altre parole presentano la doppia stesura, come ad es.: pere/pede.
Per converso poi può accadere, specie nel parlato dei ceti meno colti, che talune parole originariamente comportanti la consonante R, vengono rese- per quel fenomeno detto: ipercorrettismo – con la consonante D ad es.: dótto per rotto o peduno per per uno.
Il rotacismo napoletano però, non prende le mosse dal latino classico, bensì da un sostrato "mediterraneo/osco" antecedente all' indo-europeo del latino e delle lingue da esso discese.
Va infine chiarita una cosa:il napoletano è una lingua che , se si eccettua l'evanescenza delle vocali finali o talvolta pretoniche, è una lingua dicevo che si legge cosí come si scrive.Errano pertanto parecchi (e quanti ve ne sono, ahimé, tra gli esecutori delle canzoni napoletane!...) che, seppure napoletani da generazioni, avendo poca dimestichezza con la loro madre lingua leggono o cantano :rice là dove è scritto dice che non v'è ragione perché non conservi l'originale suono D.
Chi volesse in somma leggere e dire o cantare rice dovrebbe trovar scritto, o scrivere rice. Ogni altro atteggiamento diverso, davanti a questo fenomeno, risulterebbe arbitrario ed errato!
Raffaele Bracale
Il passaggio di taluni originali suoni consonantici a quello di R si verifica spesso ed in varie lingue a cominciare dal latino classico dove la S intervocalica diventa R per es:ausosa diviene aurora; similmente avviene con il suono N in albanese e romeno . Non diversamente accade nella lingua napoletana dove il suono D può talvolta diventare R.
Per esempio il napoletano dice indifferentemente Madonna e Maronna. Talune volte capita poi che parole originariamente scritte con la d ànno poi prevalentemente, anzi quasi del tutto presa la forma con la r, come ad es.: annudo(nudo)che ora è sempre annuro , laddove molte altre parole presentano la doppia stesura, come ad es.: pere/pede.
Per converso poi può accadere, specie nel parlato dei ceti meno colti, che talune parole originariamente comportanti la consonante R, vengono rese- per quel fenomeno detto: ipercorrettismo – con la consonante D ad es.: dótto per rotto o peduno per per uno.
Il rotacismo napoletano però, non prende le mosse dal latino classico, bensì da un sostrato "mediterraneo/osco" antecedente all' indo-europeo del latino e delle lingue da esso discese.
Va infine chiarita una cosa:il napoletano è una lingua che , se si eccettua l'evanescenza delle vocali finali o talvolta pretoniche, è una lingua dicevo che si legge cosí come si scrive.Errano pertanto parecchi (e quanti ve ne sono, ahimé, tra gli esecutori delle canzoni napoletane!...) che, seppure napoletani da generazioni, avendo poca dimestichezza con la loro madre lingua leggono o cantano :rice là dove è scritto dice che non v'è ragione perché non conservi l'originale suono D.
Chi volesse in somma leggere e dire o cantare rice dovrebbe trovar scritto, o scrivere rice. Ogni altro atteggiamento diverso, davanti a questo fenomeno, risulterebbe arbitrario ed errato!
Raffaele Bracale
I monosillabi SI nella lingua napoletana
Cominciamo con un esempio che penso ci potrà spianare la strada per illustrare ciò che è in epigrafe.
Prendiamo la seguente frase della lingua italiana:
“Se sei tu a dirmi di sí etc.”
Essa va resa in lingua napoletana con:
Si sî tu a dirme ‘e sí etc.
Va da sé che se la frase è letta o pronunciata i significati dei varî monosillabi si che si susseguono possono essere facilmente colti riconoscendo nel primo si la congiunzione italiana se, nel secondo la voce verbale che in italiano è sei e nell’ultimo si l’avv.bio affermativo sí; il problema si complica quando la frase napoletana bisogna metterla per iscritto; chi non è molto versato nella grafia della lingua napoletana (e quanti, ahimé, se ne annoverano anche tra coloro che si dicono napoletani e con baldanzosa sicumera usano a continuato sproposito la nostra lingua madre, per i loro sedicenti componimenti poetici e/o teatrali ) potrebbe incorrere nell’errore di usare una anonima sequela di si indistinti che metterebbe in forse il significato della intera frase.
Ed invece, tenendo presente una semplice regoletta grammaticale, che lo prescrive, occorrerà fare un esatto uso di diversi segni diacritici (distintivi) per ognuna delle parole ed a maggior ragione per quelle monosillabiche, omofone in modo da poterne far stabilire e cogliere d’acchito il reale valore e/o significato pur avulso dal contesto della frase.
Vediamo dunque che nella fattispecie avremo:
1) si scritto senza alcun segno diacritico, per rendere negli identici significati e medesime funzioni la congiunzione italiana se che vale: posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico); il si a margine è dal tardo lat. si(d), dall'incrocio del class. si 'se' col pron. quid 'che cosa';
2) sî scritto con il segno diacritico dell’accento circonflesso sulla i , per rendere negli identico significato e medesime funzioni la voce verbale italiana sei (2° pers. sing. ind. presente dell’infinito essere); il sî a margine può tanto essere scrittura contratta dell’italiano sei, quanto piú probabilmente derivato del sis (si(es)) (2° pers. sing. cong. presente dell’infinito lat. esse);
3) sí scritto con il segno diacritico dell’accento acuto sulla i , per rendere negli identico significato e medesime funzioni l’omografo ed omofono avverbio sí della lingua italiana che si usa (spesso contrapposto a no) nelle risposte come equivalente di un'intera frase affermativa; l’etimo di questo sí a margine è dal lat. sic 'cosí', forma abbr. della loc. sic est 'cosí è'. Rammento qui (per incidens) che la í accentata, cosí come la ú, essendo le vocali piú chiuse dei sette suoni vocalici noti, esigono, contrariamente a quanto disposto sulle tastiere in uso dei nostri computers, esigono – dicevo – l’accento acuto (chiuso) e non quello grave (aperto) che è di pertinenza delle vocali con suono aperto: à – è -ò.
E faccio punto qui convinto d’aver chiarito a sufficienza in quanti e quali modi son da scrivere i tre si della lingua napoletana e nella speranza di far qualche proselito fra chi si accosti da neofita alla scrittura della lingua partenopea.
Raffaele Bracale 28/02/08
Prendiamo la seguente frase della lingua italiana:
“Se sei tu a dirmi di sí etc.”
Essa va resa in lingua napoletana con:
Si sî tu a dirme ‘e sí etc.
Va da sé che se la frase è letta o pronunciata i significati dei varî monosillabi si che si susseguono possono essere facilmente colti riconoscendo nel primo si la congiunzione italiana se, nel secondo la voce verbale che in italiano è sei e nell’ultimo si l’avv.bio affermativo sí; il problema si complica quando la frase napoletana bisogna metterla per iscritto; chi non è molto versato nella grafia della lingua napoletana (e quanti, ahimé, se ne annoverano anche tra coloro che si dicono napoletani e con baldanzosa sicumera usano a continuato sproposito la nostra lingua madre, per i loro sedicenti componimenti poetici e/o teatrali ) potrebbe incorrere nell’errore di usare una anonima sequela di si indistinti che metterebbe in forse il significato della intera frase.
Ed invece, tenendo presente una semplice regoletta grammaticale, che lo prescrive, occorrerà fare un esatto uso di diversi segni diacritici (distintivi) per ognuna delle parole ed a maggior ragione per quelle monosillabiche, omofone in modo da poterne far stabilire e cogliere d’acchito il reale valore e/o significato pur avulso dal contesto della frase.
Vediamo dunque che nella fattispecie avremo:
1) si scritto senza alcun segno diacritico, per rendere negli identici significati e medesime funzioni la congiunzione italiana se che vale: posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico); il si a margine è dal tardo lat. si(d), dall'incrocio del class. si 'se' col pron. quid 'che cosa';
2) sî scritto con il segno diacritico dell’accento circonflesso sulla i , per rendere negli identico significato e medesime funzioni la voce verbale italiana sei (2° pers. sing. ind. presente dell’infinito essere); il sî a margine può tanto essere scrittura contratta dell’italiano sei, quanto piú probabilmente derivato del sis (si(es)) (2° pers. sing. cong. presente dell’infinito lat. esse);
3) sí scritto con il segno diacritico dell’accento acuto sulla i , per rendere negli identico significato e medesime funzioni l’omografo ed omofono avverbio sí della lingua italiana che si usa (spesso contrapposto a no) nelle risposte come equivalente di un'intera frase affermativa; l’etimo di questo sí a margine è dal lat. sic 'cosí', forma abbr. della loc. sic est 'cosí è'. Rammento qui (per incidens) che la í accentata, cosí come la ú, essendo le vocali piú chiuse dei sette suoni vocalici noti, esigono, contrariamente a quanto disposto sulle tastiere in uso dei nostri computers, esigono – dicevo – l’accento acuto (chiuso) e non quello grave (aperto) che è di pertinenza delle vocali con suono aperto: à – è -ò.
E faccio punto qui convinto d’aver chiarito a sufficienza in quanti e quali modi son da scrivere i tre si della lingua napoletana e nella speranza di far qualche proselito fra chi si accosti da neofita alla scrittura della lingua partenopea.
Raffaele Bracale 28/02/08
‘A sotto p’’e chiancarelle!
‘A sotto p’’e chiancarelle!
Ad litteram: Di sotto a causa dei panconcelli ma a senso: Attenti alla caduta dei panconcelli!
Locuzione esclamativa (in origine grido di avvertimento) con la quale si suole commentare tutti gli avvenimenti risultati o gravosi o pericolosi nel loro evolvere nella valenza di Accidenti!, Perbacco!; essa, come già accennato , prende l’avvio dal grido di avvertimento che erano soliti lanciare gli operai addetti alla demolizione di vecchi fabbricati affinché chi si trovasse a passare ponesse attenzione all’eventuale caduta dall’alto dei dissestati panconcelli.
‘a sotto = da/di sotto locuzione avverbiale e/o prepositiva formata da ‘a= da dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; o dal lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc. e da sotto avv. e preposiz. impropria = sotto dal lat. subtus, avv. deriv. di sub 'sotto';
chiancarelle = panconcelli, travicelli strette doghe di stagionato castagno, doghe che poste trasversalmente sulle travi portanti sorreggevano (nelle costruzioni di una volta) l’impiantito dei solai. la voce è il plurale di chiancarella che etimologicamente è un derivato (diminutivo : vedi suff. rella) del basso latino planca(m)=tavola lignea; dalla medesima planca(m)=tavola lignea il napoletano trasse chianca = macelleria, rivendita di carni macellate in quanto originariamente l’ esposizione e la sezionatura per la vendita al minuto delle carni avveniva tenendole appoggiate su di un tavolo ligneo; tipico e normale il passaggio del gruppo latino pl al napoletano chi (vedi plus>chiú=piú, platea>chiazza=piazza, plumbeum>chiummo=piombo etc.).
Raffaele Bracale
Ad litteram: Di sotto a causa dei panconcelli ma a senso: Attenti alla caduta dei panconcelli!
Locuzione esclamativa (in origine grido di avvertimento) con la quale si suole commentare tutti gli avvenimenti risultati o gravosi o pericolosi nel loro evolvere nella valenza di Accidenti!, Perbacco!; essa, come già accennato , prende l’avvio dal grido di avvertimento che erano soliti lanciare gli operai addetti alla demolizione di vecchi fabbricati affinché chi si trovasse a passare ponesse attenzione all’eventuale caduta dall’alto dei dissestati panconcelli.
‘a sotto = da/di sotto locuzione avverbiale e/o prepositiva formata da ‘a= da dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; o dal lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc. e da sotto avv. e preposiz. impropria = sotto dal lat. subtus, avv. deriv. di sub 'sotto';
chiancarelle = panconcelli, travicelli strette doghe di stagionato castagno, doghe che poste trasversalmente sulle travi portanti sorreggevano (nelle costruzioni di una volta) l’impiantito dei solai. la voce è il plurale di chiancarella che etimologicamente è un derivato (diminutivo : vedi suff. rella) del basso latino planca(m)=tavola lignea; dalla medesima planca(m)=tavola lignea il napoletano trasse chianca = macelleria, rivendita di carni macellate in quanto originariamente l’ esposizione e la sezionatura per la vendita al minuto delle carni avveniva tenendole appoggiate su di un tavolo ligneo; tipico e normale il passaggio del gruppo latino pl al napoletano chi (vedi plus>chiú=piú, platea>chiazza=piazza, plumbeum>chiummo=piombo etc.).
Raffaele Bracale
mercoledì 27 febbraio 2008
‘A MARONNA S’È VVISTA!
‘A Maronna s’è vvista!
Ad litteram: La Madonna (etimologicamente dal latino mea domina = mia signora; è titolo d’onore che un tempo si dava alle donne e che oggi è riservato esclusivamente alla Madre di Cristo; in Abruzzo e in taluni paesini del Piemonte è titolo di rispetto usato dal popolino ed in particolare dalle nuore rivolto alle suocere;) si è vista! Il termine in epigrafe in napoletano è usato indifferentemente sia con l’originaria D etimologica: ‘a Madonna che con la tipica rotacizzazione osco- mediterranea D>R: ‘a Maronna; segnalo qui che, essendo il napoletano (se si eccettuano le vocali finali o spesso pretoniche che sono semimute…) lingua che si legge cosí come si scrive, non v’à ragione per legger Maronna quando vi sia scritto Madonna, né rinto se vi è scritto dinto; purtroppo spesso i miei conterranei (e non se ne comprende il motivo…) incorrono in questo errore… Torniamo all’espressione in epigrafe;
essa non è un'espressione irriverente, ma una esclemazione liberatoria profferita nei confronti di qualcuno per significargli:Rassegnati! I nodi sono venuti al pettine!Non puoi più nasconderti!La verità si è miracolosamente appalesata! Siamo giunti al redde rationem, quasi che il Cielo (la Madonna) prodigiosamente manifestandosi, voglia proporsi quale attendibile testimone di situazioni che è ormai giocoforza esporre chiaramente e veritieramente, assumendosene ogni responsabilità.
Raffaele Bracale
Ad litteram: La Madonna (etimologicamente dal latino mea domina = mia signora; è titolo d’onore che un tempo si dava alle donne e che oggi è riservato esclusivamente alla Madre di Cristo; in Abruzzo e in taluni paesini del Piemonte è titolo di rispetto usato dal popolino ed in particolare dalle nuore rivolto alle suocere;) si è vista! Il termine in epigrafe in napoletano è usato indifferentemente sia con l’originaria D etimologica: ‘a Madonna che con la tipica rotacizzazione osco- mediterranea D>R: ‘a Maronna; segnalo qui che, essendo il napoletano (se si eccettuano le vocali finali o spesso pretoniche che sono semimute…) lingua che si legge cosí come si scrive, non v’à ragione per legger Maronna quando vi sia scritto Madonna, né rinto se vi è scritto dinto; purtroppo spesso i miei conterranei (e non se ne comprende il motivo…) incorrono in questo errore… Torniamo all’espressione in epigrafe;
essa non è un'espressione irriverente, ma una esclemazione liberatoria profferita nei confronti di qualcuno per significargli:Rassegnati! I nodi sono venuti al pettine!Non puoi più nasconderti!La verità si è miracolosamente appalesata! Siamo giunti al redde rationem, quasi che il Cielo (la Madonna) prodigiosamente manifestandosi, voglia proporsi quale attendibile testimone di situazioni che è ormai giocoforza esporre chiaramente e veritieramente, assumendosene ogni responsabilità.
Raffaele Bracale
'A CHIERECA 'O PATE ETC.
'A chiereca 'o pate 'a lassa ê figlie.
Ad litteram: La tonsura il padre la lascia (in eredità ) ai figli.
Id est: la professione, l'arte o mestiere esercitate da un genitore, solitamente passano dal padre ai figli che beneficiano anche della acquisita clientela del genitore, di talché quella professione, quell’arte o mestiere costituisce una vera e propria eredità. Di per sé la voce chierica (piccola rasatura tonda che i membri di alcuni ordini religiosi portano o meglio, portavano fino a poco tempo fa come segno del proprio stato in cima al capo) usata nel proverbio in epigrafe è la tonsura, ma qui adombra in quanto segno evidente una qualsiasi arte e/o mestiere, in ispecie quelle esercitate in piazza (barbieri, falegnami e simili) in bottega o, estensivamente, quelle professioni per le quali si conduce uno studio (medici, avvocati etc.); va da sé che la voce chiereca adombra qualsiasi altra professione, arte o mestiere esercitata non solo in proprio, ma anche alle dipendenze, specialmente quando un genitore riesce con i suoi buoni uffici ad indirizzare il proprio figliuolo sulla propria strada lavorativa (quante mezze cartucce di giornalisti imperversano nei e sui media solo perché figli di penne e/o microfoni!) Etimologicamente la voce chiereca deriva dal lat. eccl. clerica(m) (tonsionem) '(tonsura) dei chierici';
pate =padre, genitore ma estensivamente anche antenato etimologicamente dritto per dritto dal nominat. lat. pate(r);
lassa =lascia, voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito lassà= lasciare, smettere di tenere, di sostenere, di stringere, dare in eredità, dal lat. laxare 'allargare, sciogliere', deriv. di laxus 'largo, allentato';
ê figlie = ai figli (maschi o maschi e femmine); figlie è il plurale del masch. figlio; anche il femminile plurale della voce figlia è figlie,ma in unione all’articolo ‘e (le) o alla preposizione articolata ê (a+ ‘e= a+le=alle) comporta la geminazione della f iniziale dando ê ffiglie,(cosa che non avviene per il maschile ‘e/ ê figlie) per cui nella normale e tradizionale esposizione del proverbio in epigrafe si considerano ‘e figlie (i figli maschi o la totalità dei figliuoli, maschi e femmine); si fosse trovato scritto e detto ‘e ffiglie si sarebbe trattato esclusivamente delle figlie ( cioè delle femmine ); etimologicamente la voce figlio è dal lat. filiu(m), dalla stessa radice di fìmina 'femmina' e fecundus 'fecondo'.
Raffaele Bracale
Ad litteram: La tonsura il padre la lascia (in eredità ) ai figli.
Id est: la professione, l'arte o mestiere esercitate da un genitore, solitamente passano dal padre ai figli che beneficiano anche della acquisita clientela del genitore, di talché quella professione, quell’arte o mestiere costituisce una vera e propria eredità. Di per sé la voce chierica (piccola rasatura tonda che i membri di alcuni ordini religiosi portano o meglio, portavano fino a poco tempo fa come segno del proprio stato in cima al capo) usata nel proverbio in epigrafe è la tonsura, ma qui adombra in quanto segno evidente una qualsiasi arte e/o mestiere, in ispecie quelle esercitate in piazza (barbieri, falegnami e simili) in bottega o, estensivamente, quelle professioni per le quali si conduce uno studio (medici, avvocati etc.); va da sé che la voce chiereca adombra qualsiasi altra professione, arte o mestiere esercitata non solo in proprio, ma anche alle dipendenze, specialmente quando un genitore riesce con i suoi buoni uffici ad indirizzare il proprio figliuolo sulla propria strada lavorativa (quante mezze cartucce di giornalisti imperversano nei e sui media solo perché figli di penne e/o microfoni!) Etimologicamente la voce chiereca deriva dal lat. eccl. clerica(m) (tonsionem) '(tonsura) dei chierici';
pate =padre, genitore ma estensivamente anche antenato etimologicamente dritto per dritto dal nominat. lat. pate(r);
lassa =lascia, voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito lassà= lasciare, smettere di tenere, di sostenere, di stringere, dare in eredità, dal lat. laxare 'allargare, sciogliere', deriv. di laxus 'largo, allentato';
ê figlie = ai figli (maschi o maschi e femmine); figlie è il plurale del masch. figlio; anche il femminile plurale della voce figlia è figlie,ma in unione all’articolo ‘e (le) o alla preposizione articolata ê (a+ ‘e= a+le=alle) comporta la geminazione della f iniziale dando ê ffiglie,(cosa che non avviene per il maschile ‘e/ ê figlie) per cui nella normale e tradizionale esposizione del proverbio in epigrafe si considerano ‘e figlie (i figli maschi o la totalità dei figliuoli, maschi e femmine); si fosse trovato scritto e detto ‘e ffiglie si sarebbe trattato esclusivamente delle figlie ( cioè delle femmine ); etimologicamente la voce figlio è dal lat. filiu(m), dalla stessa radice di fìmina 'femmina' e fecundus 'fecondo'.
Raffaele Bracale
A CHI SE FA PUNTONE ETC.
- A chi se fa puntone, 'o cane lle piscia 'ncuollo
A chi si fa cantone di strada o angolo di palazzo, il cane (abituato a mingere sui muri…) gli minge indosso.
Id est: chi si fa troppo docile e remissivo, subirà le certe conseguenze del suo succubo atteggiamento.
puntone = cantone di strada o angolo di palazzo etimologicamente accrescitivo reso maschile di punta dal lat. tardo puncta(m) 'colpo inferto con una punta', deriv. di pungere 'pungere'; l'estremità assottigliata e aguzza di qualsiasi cosa o oggetto.
piscia = minge voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito piscià = mingere etimologicamente dal greco pytìzein che diede il latino *pitissare>pitsare>pisciare;
‘ncuollo letteralmente: in collo, sul collo e dunque indosso, addosso etimologicamente da un in illativo + cuollo (collo) dal latino collu(m) con successiva dittongazione popolare nella sillaba d’avvio: o>uo. Raffaele Bracale
A chi si fa cantone di strada o angolo di palazzo, il cane (abituato a mingere sui muri…) gli minge indosso.
Id est: chi si fa troppo docile e remissivo, subirà le certe conseguenze del suo succubo atteggiamento.
puntone = cantone di strada o angolo di palazzo etimologicamente accrescitivo reso maschile di punta dal lat. tardo puncta(m) 'colpo inferto con una punta', deriv. di pungere 'pungere'; l'estremità assottigliata e aguzza di qualsiasi cosa o oggetto.
piscia = minge voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito piscià = mingere etimologicamente dal greco pytìzein che diede il latino *pitissare>pitsare>pisciare;
‘ncuollo letteralmente: in collo, sul collo e dunque indosso, addosso etimologicamente da un in illativo + cuollo (collo) dal latino collu(m) con successiva dittongazione popolare nella sillaba d’avvio: o>uo. Raffaele Bracale
 ccaurara vecchia etc.
 ccaurara vecchia, vrognole e pertose,ma va sempe p’’a casa
Ad litteram: Sulla pentola vecchia,(ci sono) ammaccature e buchi, ma va sempre per casa(cioè continua ad essere usata). Al di là dell’ovvio e palese significato letterale, il proverbio ricorda che la salute delle persone vecchie è sempre malferma: i vecchi soffrono sempre di qualche piccolo o grosso malanno, alla stregua di una pentola vecchia che per essere stata usata molto, porta su di sé inevitabili tracce di usura e del tempo trascorso, ciononpertanto spesso essi vecchi pur malfermi in salute continuano a vivere a lungo tal quale una vecchia pentola che continua ad essere usata (e spesso la si preferisce ad altre magari nuove).
caurara = caldaia: grande recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa; etimologicamente dal tardo latino caldaria(m), deriv. di calidus 'caldo; normale l’esito del suffisso latino maschile arius nel femm. ara; tipico altresì il passaggio del lat. al al napoletano au come ad es. altus>auto/aveto= alto o anche alter>auto>ato= altro; come tipico è il passaggio mediterraneo d>r;
vrognole= ammaccature, bernoccoli, protuberanze o anche, ma altrove percosse; plurale di vrognola che è etimologicamente da un latino volgare bruniòla>brùnjola (forse da un acc. classico pìlulam eburneam= pallina biancastra donde per aferesi e metatesi eburneam>bruneam ed un diminutivo bruniòla con il nj>gn;
pertose plurale metatetico femm. del sing. maschile pertuso= buco, foro etimologicamente da un classico latino pertusus, part. pass. di pertundere 'bucare, forare', comp. di per 'attraverso' e tundere 'battere'
Raffaele Bracale
Ad litteram: Sulla pentola vecchia,(ci sono) ammaccature e buchi, ma va sempre per casa(cioè continua ad essere usata). Al di là dell’ovvio e palese significato letterale, il proverbio ricorda che la salute delle persone vecchie è sempre malferma: i vecchi soffrono sempre di qualche piccolo o grosso malanno, alla stregua di una pentola vecchia che per essere stata usata molto, porta su di sé inevitabili tracce di usura e del tempo trascorso, ciononpertanto spesso essi vecchi pur malfermi in salute continuano a vivere a lungo tal quale una vecchia pentola che continua ad essere usata (e spesso la si preferisce ad altre magari nuove).
caurara = caldaia: grande recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa; etimologicamente dal tardo latino caldaria(m), deriv. di calidus 'caldo; normale l’esito del suffisso latino maschile arius nel femm. ara; tipico altresì il passaggio del lat. al al napoletano au come ad es. altus>auto/aveto= alto o anche alter>auto>ato= altro; come tipico è il passaggio mediterraneo d>r;
vrognole= ammaccature, bernoccoli, protuberanze o anche, ma altrove percosse; plurale di vrognola che è etimologicamente da un latino volgare bruniòla>brùnjola (forse da un acc. classico pìlulam eburneam= pallina biancastra donde per aferesi e metatesi eburneam>bruneam ed un diminutivo bruniòla con il nj>gn;
pertose plurale metatetico femm. del sing. maschile pertuso= buco, foro etimologicamente da un classico latino pertusus, part. pass. di pertundere 'bucare, forare', comp. di per 'attraverso' e tundere 'battere'
Raffaele Bracale
'A CUCINA
‘A CUCINA
Questa volta voglio invitare chi mi leggerà, a seguirmi e venir meco in quell’ ampia stanza della mia casa della fanciullezza e giovinezza dove si preparavano e, col favore dell’ampiezza del locale, si ammannivano – su l’apparecchiato desco – i cibi; sto parlando d’ ‘a cucina ( da un tardo latino: cocina(m), variante di coquina(m), deriv. di coquere 'cuocere'); il primo elemento che, entrando in cucina dal passetto pensile (dall’ aggettivo latino: prensile(m) con sincope della erre intesa inutile), saltava agli occhi era ‘o fuculare (dal tardo latino foculare, deriv. di focus 'fuoco’ con l’aggiunta del consueto suffisso di pertinenza areus (aro) ). Esso non era, come generalmente altrove, la parte inferiore del camino, formata da un piano di pietra o di mattoni, sul quale si accende il fuoco (in casa mia non v’erano camini (latino: caminu(m), dal gr. káminos 'forno, fornello') di sorta, ma una sorta di grosso parallelepipedo di pietra, rivestito di policrome riggiole (da un latino volgare rubjòla (?) con il normale trasformarsi di jo in ggi+ vocale come succede per il classico habeo diventato tardo latino habjo e napoletano aggio;rubjola = rossiccia da un latino della decadenza dal classico ruber per indicare il tipico colore rosso proprio della terracotta, materiale con cui si costruiva l’originaria riggiola napoletana; quelle che rivestivano il focolare erano diverse le une dalle altre in quanto non acquistate ad hoc, ma risultate avanzate ad altra primaria destinazione (per solito pavimentazione delle stanze di casa); sulla faccia superiore d’ ‘o fuculare erano ricavati degli ampi fori circolari in piccolissima parte chiusi da una sorta di crocicchio di ghisa saldamente infisso ai bordi dei fori, crocicchio che serviva di appoggio alle pentole e/o tegami usati per la cottura dei cibi;perpendicolarmente ai fori ad una distanza di circa 40 cm. c’era il piano interno al cavo focolare, piano in mattoni refrattari, piano su cui era acceso il fuoco alimentato attraverso due congrui accessi, protetti da sportellini metallici posti sul davanti della faccia anteriore del focolare, con adeguate immissioni di pezzi di legno e pampuglie (vedi altrove) o gravone (attraverso metatesi dal lat. carbone(m) )e gravunelle (evidente diminitivo del precedente); dopo la combustione la risultante cenere non veniva dismessa, ma conservata per essere usata nei giorni di culata (che dal verbo colare/culare indicò il bucato napoletano) sistemata nel c.d. cennerale = ampio telo a trama larga che accoglieva la cenere affinché questa cedesse ai panni, al momento della colatura dell’acqua bollente, i benefici effetti sbiancanti della soda caustica presente nella cenere, telo posto alla sommità del mastello o tina contenente la biancheria da lavare;Mi son soffermato a parlare della culata e del cennerale, atteso che nel passetto pensile attiguo alla cucina esistette (fino a che non fu demolito nel corso di un ammodernamento della casa) un lavatoio o lavatore (da un basso latino:lavatoriu(m) che era la vasca di pietra nella quale una grassoccia ed attempata donna,che - se non ricordo male - rispondeva al nome di Nannina, dai muscolosi avambracci e dai grossi polpacci segnati da gonfie vene varicose, per poche lire, lavava settimanalmente la biancheria di casa, prima di sistemarla dentro la tina per procedere alla sbiancatura della colata,terminata la quale, poneva la biancheria così lavata in un capace cufenaturo (forgiato sul greco kóphinos= conca metallica) per trasferirla ‘ncopp’ a ll’asteco (che è dal greco óstrakon) = lastrico solare, loggia, dove la biancheria lavata era posta ad asciugarsi, adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra delle tre che limitavano il lastrico solare dove vento e sole la facevano da padroni; ma torniamo in cucina: al centro della stanza troneggiava un gran tavolo rettangolare(reso, come spesso in napoletano,per la sua ampiezza, femminile e perciò ‘a tavula cfr. ad es. alibi ‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo ) ), munito di quattro possenti zampe e di un piano in candido, ma qui e là venato di grigio, marmo bianco: ‘o marmulo (dal greco mormylos); la vasta superficie in marmo risultava quasi essenziale alla preparazione degli impasti per cavarne pasta alimentare (tagliatelle,tagliolini, lasagne, cannelloni e/o impasti dolci: pan di Spagna, pasta frolla,pasta sfoglia etc.; se non ci fosse stato il marmo, sarebbe occorso ricorrere ad un capace, rettangolare tagliere ligneo ( che però una volta imbrattato, risultava difficile da pulire, al contrario del marmo); il tagliere da noi non aveva, né à un nome particolare, laddove altrove (Bisaccia) in Campania à il nome di tumpagno ed è di forma circolare, né più, né meno che un fondo di botte che noi, figli di Partenope, usiamo dire appunto ‘o tumpagno (dal greco tympànion che sta giustappunto per chiusura); or ora ò detto che il tagliere non à, né aveva in napoletano un nome preciso; devo correggermi: in realtà per il tagliere, i napoletani usavano il generico termine di laganaturo (che è, come il sostantivo femminile lagana = sorta di larga fettuccina di pasta fresca ed estensivamente anche la intera sfoglia di pasta fresca da cui si ricavano le lagane o laganelle se più strette, su cui è forgiato - con il concorso di un suffisso turo (atto a, per) - dal greco làganon ma che i napoletani utilizzarono attraverso un neutro latinizzato lagana inteso femminile; per verità con il termine laganaturo si indicò un tempo ( ed ecco il motivo per cui l’ò detto: generico) alternativamente sia il tagliere, che il bastone cilindrico con cui si spianava la pasta per cavarne le lagane; tale bastone fu ed è quello che in toscano dovrebbe correttamente dirsi matterello (diminutivo di màttero che è da congiungersi al latino matéola= mazza, bastone), ma che qualcuno e segnatamente chi parla dalla televisione..., si ostina a dire, impropriamente, con voce romanesca mattarello. Atteso dunque che sia il tagliere che il matterello erano due strumenti utili alla produzione delle lagane, poco male che avessero il medesimo nome.
Il suddetto tavulo o tavula, qualche più anziano frequentatore di casa (nonni, vecchi zii) si ostinava a dirlo (dallo spagnolo bofeta, ‘a buffetta, ma era poco compreso da noi ragazzi che ritenevamo, sia pure errando, che il nonno o lo zio stesse confondendo, intendendosi riferire con quella loro buffetta non al tavolo, quanto al buffè altro mobile, di cui qui di sèguito parlerò.Nella cucina della mia casa d’antan, sulla parete opposta a quella su cui era ubicato ‘ ‘o fuculare (demolito assieme al lavaturo nel corso dell’ammodernamento cui ò accennato dianzi, per far posto ad una cucina a gas di città che, ad un certo punto invase appunto tutta la città, soppiantando ovunque il focolare con il suo corredo di legna, carbone e carbonelle; le prime lavatrici elettriche semiautomatiche avevan per parte loro, giustiziato lavaturi e culate con il cennerale e non so proprio la nostra vecchia Nannina cosa dovette ingegnarsi per lucrar qualche soldo…) era situata una bassa credenza (con due sportelli e due cassettini); tale mobile, come il suo simile detto contrabbuffè ( da contra =opposto + buffè: nella stanza da pranzo due mobili, sia pure di legno più pregiato e di miglior fattura, portavano il medesimo nome di buffè e contrabbuffè ed erano posti su pareti dirimpettaie, l’uno opposto all’altro)collocato al centro della parete adiacente quella su cui insisteva il buffè ( mo vi dico…) era in un vile legno di abete ed era laccato, all’esterno, di un color azzurro scuro, mentre i ripiani interni erano di un bianco calcina ); tale credenza con voce mutuata dal francese buffet si diceva bbuffè; su codesto buffè era montato un alto riquadro a mo’ di quadro svedese, su cui erano avvitati numerosi grossi crocchi = uncini (dal francese croc) a vvite ai quali erano sospesi pentole, tegami ed ogni altro pentolame da cucina che qui appresso elencherò con i nomi partenopei; tali stoviglie (forse da un lat. volg. testulia in quanto al principio prodotte esclusivamente in terracotta)in origine furono di luccicante rame adeguatamente stagnato sulla superficie che veniva a contatto con il cibo; poi a mano a mano le stoviglie di rame furono sostituite da quelle in alluminio, materiale che assicurava un ‘ottima conducibilità di calore, e che si puliva in maniera le mille volte piú rapida del rame che per esser pulito e poi reso lucente necessitava di gran lavoro ed il soccorso di scorze di limone e di rena ‘e vitrera cioè sabbia da vetrai ricca di silice atta al soffregamento abrasivo dei residui del cibo cucinato; vediamo dunque il pentolame(forse dal latino pendere in quanto in principio i vasi per cuocere i cibi, non erano poggiati, ma sospesi sul fuoco) in uso, olim, in un po’ tutte le cucine napoletane; avevamo: tiani/e e le più piccole tianelle, oltre a ruoti e rutielle, caccavi e ccaccavelle ed ovviamente tielle più o meno grandi; esaminiamo da vicino:tiano o tiana utilità simili se non uguali che si differenziavano secondo la grandezza della pentola, per solito usata per la lessatura di taluni cibi; etimologicamente dal greco tégano(n) collaterale di tàghenon; in questo caso – contrariamente al solito, il maschile tiano indicava una pentola più grande della femminile tiana; nella tiana si potevano preparare contenuti cibi lessi o da brasare, ma per preparare tronfie minestre vegetali fino alla ridondante menesta mmaretata(= minestra dal latino:minestra(m) maritata(denominale da un latino in + maritus)in quanto minestra vegetale unita, sposata, maritata con varî tipi di carni lesse) era giocoforza ricorrere al più vasto e capace tiano maschile;le tianelle diminutivo del precedente erano le più piccole e maneggevoli pentoline, provviste di un unico lungo manico saldato al bordo della pentolina attraverso tre corti chiuvette,brevi ma larghi chiodi in lega metallica che passando attraverso appositi fori circolari posti sulle pentole e la piastrina concava finale del manico quando fossero ben ribattuti, rinsaldavano il manico al tegame ed impedivano che il manico ciurlasse, assicurando cosí una sicura presa all’operatore, piú spesso operatrice, ai fuochi;ruoti ed i diminutivi rutielle etimologicamente da un basso latino maschile: rot(l)us , sincope di un rotulus forse da un classico femminile rota(m) furono i piú o meno ampi teglioni, che non avevano manici, ma un unico grosso anello metallico saldato con i soliti chiuvetti, teglioni (da non confondere con le teglie (tielle) che adesso vedremo) che potevano essere usati indifferentemente o sui fuochi o nel forno, e ce ne fu uno: ‘o ruoto niro che – per essere stato lungamente a contatto con le fiamme - si era estremamente brunito, acquistando la qualità di non fare attaccare i cibi, risultando l’involontario, ma esatto antesignano dell’antiaderenza chimica e perciò pericolosa! Esso ruoto niro quello usato per le lunghe fritture o rosolature di puparuole(=peperoni: alterazione fono-morfologica del latino piper donde anche pipere nome con cui a Napoli sono indicati un tipo di peperoni lunghi e conici) o papaccelle(peperone basso e plurilobato: da un basso latino pipericella>piparicella> paparicella>paparcella > papaccella,nonché sacicce(= salsicce: basso lat. salcicia da un salsicius= salato) e frijarielle (= particolari, tipici, squisiti broccoli (che è da sciocchi tentar di rendere in toscano con friggiarelli: ‘e frijarielle so’ frijarielle e basta; non ne è ammessa una sia pure adattata traduzione!) da friggere a crudo,etimologicamente ‘e frijarielle sono un deverbale di frijere dal lat. frìgere);caccavi e le diminutive, piú agevoli caccavelle; ‘o caccavo che è dal basso latino caccabu(m) era il piú grosso tiano che si potesse usare in cucina, ampia e larga pentola utile alla preparazione di ingenti quantitativi di minestre o brodi e dunque poco usato; in effetti a Napoli dicendo ‘o caccavo non ci si intendeva riferire a pentola domestica, quanto piuttosto ai grossi pentoloni in uso presso taluni monasteri che quotidianamente preparavano e distribuivano minestre per i poveri che le mendicassero; rammenterò il famosissimo gran caccavo ‘e Santa Maria ‘a Nova, monastero francescano posto in una centralissima piazza napoletana, monastero che cotidie era meta di poveri petenti; va da sé che con il termine caccavella si designò dal latino caccabella, neutro plurale, ma inteso femminile, di caccabellu(m) il diminutivo del pregresso caccavo, le pentoline più piccole e maneggevoli, sinonimo delle pregresse tianelle;concludiamo con tielle che è il plurale di tiella , propriamente il tegame, la padella, la teglia in cui o si frigge in olio basso, sugna etc. o si preparano i fondi per non troppo elaborati sughi piuttosto veloci; quelli di più elaborata e lunga preparazione, come il mitico rraù (= il famosissimo napoletano intingolo di carne di manzo e rosso pomodoro di cui quanto prima vorrò parlare; rraù: adattamento dal francese ragoût deverbale di ragoûter derivato da goût= gusto e dunque risvegliare il gusto! ), necessitano di un’adeguata tiana; torniamo a tiella la cui etimologia è dal latino tegella(m), diminutivo di tegula, con caduta della palatale g, suono di transizione j donde tejella > tjella e tiella; in origine quando ancora la tegella non era che una piccola tegula, altro non fu che una sorta di copertura di altri vasi in terracotta come i menzionati caccabum e caccabella anch’essi, come la tegella e la tegola in terracotta.Riprendiamo il racconto; nelle ante chiuse da sportelli del buffè e contrabbuffè trovavano posto innanzi tutto il vasellame da tavola: ‘e bbicchiere :etimologicamente da un latino: bacarium> bicarium da un greco bìkos= piccolo vaso per bere, ed i vitrei contenitori dei liquidi quali: fiasche plurale di fiasco che etimologicamente è da un basso latino: vasculum diminutivo di vas passando per vasc’lo> vlasco> flasco e fiasco, peretto ed il plurale’e perette: caraffe vitree di varia capacità in cui si poneva il vino per servirlo in tavola : etimologicamente per alcuni da ricollegarsi a pera di cui ricalcherebbe vagamente la forma; la cosa poco mi convince, ma non avendo altro da proporre, prendo per buono quella che piú che una etimologia, mi appare una frettolosa paretimologia, e mi riservo ulteriori indagini, atteso che a mia memoria ‘e perette ch’io conobbi non somigliavano ad una pera, né dritta, né capovolta, risultando essere dei cilindrici contenitori che per tutta la loro altezza mantenevano il medesimo passo e solo verso l’alto presentavano una contenuta strozzatura che costringeva il vaso a slargarsi in una imboccatura svasata, carrafe : più ampie – rispetto ai perette – caraffe usate solitamente per servire in tavola l’acqua da bere: etimologicamente dall’arabo garafa=vaso per attingere, giarre : vasi vitrei bassi e panciuti, provvisti di manico, vasi usati per bere birra o altre bevande fermentate, etimologicamente dall’arabo djarrah attraverso lo spagnolo jarra, ed ancora tazze, tazzine e tazzulelle tutte dall’arabo tas, tazze dette anche chicchere con voce dallo spagnolo jicara, tutti (tazze o chicchere) piccoli o medi vasi, di porcellana o di maiolica, forniti di un unico manico laterale ed usati per bere caffè, cioccolata o altre bevande per lo piú calde; esistettero anche delle chicchere a doppia ansa o manico, ma venivano usate solo in quelle famiglie aduse a servire in dette chicchere sofisticati consommé o ristretti brodini magari arricchiti da uova fresche e dette famiglie queste chicchere non le conservavano nel buffè di cucina, ma nella cristalliera (di per sé il mobile per riporvi il vasellame di cristallo, etimologicamente forgiato sulla parola cristallo che è dal greco krystallos= ghiaccio) annessa al buffè della stanza da pranzo, cristalliera o argentiera dove facevano bella mostra di sé accanto al vasellame in pregiata porcellana bavarese ed accanto ai bicchieri in cristallo molato, qualche elegante pezzo in argento magari inglese o tedesco; nelle famiglie medio-piccolo borghese, per servire il brodo s’usavano delle fonde scodelle: etimologicamente dal catalano escudella o delle capaci ciotole ampie e profonde tazze prive di manico, etimologicamente da una latina còtyla affine ad una cyàtula femm. di un cyàtulus diminutivo di cyàtus (greco: kýatos = bicchiere) quelle stesse ciotole che venivano usate all’occorrenza per servire semplici, ma gustose zuppe ‘e latte consistenti in una congrua tazza, ciotola o scodella di latte caldo o freddo, parsimoniosamente zuccherato e macchiato con poco caffè in cui erano posti ad imbimbirsi adegatamente piccoli cubi ricavati da tronfie fette di palatone (grosso filone di pane di circa due kg. così chiamato in quanto da solo occupava quasi del tutto la pala usata per infornarlo, palatelle: filoncini che secondo il peso: 250 o 500 gr. occupavano la metà o la quarta parte della pala) o panielle(pagnotte di forma tondeggiante, da panis + suff. diminutivo iello di buon fragante pane napoletano o cafone: biscotti, cornetti, crostatine, merendine ed affini erano ancora in mente Dei e di là da venire…Torniamo al vasellame; nei mobili della cucina accanto a quello menzionato trovavano ancòra posto con qualche residuale pentolame in coccio o creta cotta, pentolame che essendo troppo fragile non poteva esser tenuto all’esterno di mobili, insieme a quello di rame o alluminio, e doveva esser messo al riparo nel buffè e contrabbuffè insieme alle stoviglie in ceramica o porcellana quali piatte schiane e piatte accuppute nei quali erano ammanniti minestre, primi piatti e pietanze; esaminiamo:piatte = plurale di piatto etimologicamente dal greco platýs= largo, ampio;schiano = piano, livellato dal latino: planu(m) dove pl> chj=chi come in plenu(m)/plena(m) che danno chino/chiena;accupputo = fondo, cavo da collegarsi etimologicamente alla voce tardo latina cuppa(m)= incavata per la classica cupa(m); vedi anche il greco kýpe = cavità.Prima di fare punto, un rapidissimo accenno alle grosse posate usate in cucina, sia per rimestare i cibi in cottura, che per servirli nei suddetti piatti; quelle posate erano essenzialmente di due tipi: in lega metallica o completamente di legno; tra le prime rammenterò:‘o cuppino ed il diminutivo cuppeniello = ramaioli semisferici più o meno grossi, con lungo manico usati per rimestare e servire brodi o minestre brodose o conferire liquidi a cibi in cottura che dessero segni d’essersi troppo prosciugati, quanto alla etimologia da far risalire alle medesime voci di cui al precedente accupputo;‘o furchettone = evidente accrescitivo (stranamente maschile) della femminile furchetta dalla medesima etimologia dal francese fouchette con epentesi della erre e suffisso accrescitivo one = arnese a due o tre rebbi usato per rimestar verdure o infilzare e prelevare dai tegami pezzi di carne o altro;‘a votapesce = schiumarola forata di foggia piatta o concava usata per rigirare i cibi in cottura (pesci o carni) sgrondandoli in contemporanea dei grassi o liquidi di preparazione; ovvia l’etimologia che è dall’addizione del verbo vutà/votà= girare da un basso latino volvitare intensivo di volvere + il sostantivo pisce(m);e giungiamo infine alle posate lignee che sono essenzialmente due:‘a cucchiara ed il suo diminutivo cucchiarella che sono esattamente i più o meno grossi cucchiai atti a rimestare i cibi in cottura ed a prelevarne volta a volta piccole quantità; l’etimologia è latina da cochleària neutro plurale inteso femminile di cochleàrium e questo a sua volta da collegarsi al greco kochliàrion forma diminutiva di kochlìas = chiocciola o conchiglia in quanto strumento usato per prelevare e mangiare il frutto della chiocciola o conchiglia.Rammenterò, in chiusura, che un tempo le posate lignee cucchiare e cucchiarelle prodotte artigianalmente, venivano cortesemente fornite annualmente dagli zampognari abbruzzesi o avellinesi che, chiamati in casa, vi venivano a suonare la novena di Natale ed al momento del congedo solevano ricambiare con il dono di tali lignee cucchiaie, i dolci ed i liquori o casalinghi rosolî che venivano loro dati per sovrammercato del compenso pattuito per la novena; i rosolî casalinghi erano conservati o in bottiglie conservate ad hoc, una volta che fossero state vuotate degli originarî liquori industriali, ma – più spesso in scintillanti carrafine= panciutelle ampolline vitree o –meno spesso – di cristallo, fornite di manico, torto beccuccio e vitreo tappo, ampolline un po’ più grandi, ma – per la forma - in tutto simili a quelle usate in chiesa durante la celebrazione della S.Messa, per contenervi acqua e vino; etimologicamente anche la carrafina come la precedente carrafa di cui è diminutivo, viene dall’arabo garafa.
‘A CUCINA – aggiunta
Ò dimenticato di parlarvi di alcuni oggetti/utensili usati in cucina e conservati, accanto a quelli menzionati, nel bbuffè o nel contrabbuffè; provvedo ora col dirvene:
cepugno intraducibile ad litteram che fu un antico vaso oleario in terracotta della capacità di piú litri, che derivò il suo nome con ogni probabilità per esser di forma simile ad una grossa cipolla (cepa o coepa) con collo stretto in tutto simile a quello della cipolla che panciutella nel corpo si restringe verso l’alto a mo’ di collo. In detto cepugno veniva conservato l’olio che una volta era acquistato senza lesinare sulle quantitatà; in prosieguo di tempo il cepugno fu sostituito con lo
ziro ( dall’arabo zihr= orcio) anch’esso vaso oleario di gran capacità che poteva essere di terracotta come il cepugno ma piú spesso di banda stagnata. Avvicinandosi ai nostri dí anche nelle case piú facoltose son venuti meno e il cepugno e lo ziro sostituiti con micragnose bottiglie.
(butteglie) tra le quali appunto la unta e bisunta butteglia ‘e ll’uoglio da cui si prelevava il prezioso condimento per il tramite di un minuscolo mesuriello ‘e ll’uoglio = misurino dalla contenuta capienza di circa 1,5 decilitri :almeno così ricordo;
etimologie: butteglia = bottiglia : dal latino bu(t)ticula diminutivo di buttis= vaso, botte ma attraverso un francese bouteille, più che uno spagnolo botilla
uoglio: = olio: da un latino oleu(m) cfr. greco: élaion; il classico oleu(m) diede il volgare òliu(m) con li> gli donde oglio > uoglio;
mesuriello= misurino graduato in alluminio, diminutivo del francese mésure che è dal latino mensura dal part. pass. mensus del verbo metìri= misurare;
buccacce = congrui contenitori vitrei più larghi che alti dall’ampia bocca, turata da adeguati tappi ‘e suvero = sughero dal latino: subere(m) cfr. il greco: sýphar= pelle rugosa; in detti bbuccacce (il cui nome penso derivi dal fatto che fossero vasi, come detto, dall’ampia bocca e non, come qualcuno ritiene, dal latino baucale(m) che aveva dato il napoletano bucale in origine boccale per bere e poi sorta di portafiore ) erano opportunamente riposte paste secche dai minuscoli formati, (quali stelletelle, anellette, acene ‘e pepe, semmenze ‘e mellone, sturtine,rosamarina così chiamata in quanto formato di pasta avente la medesima forma degli aghi delle pianta di rosmarino etc.), nonché altri alimenti quali: ‘o zzuccaro= zucchero dall’arabo sukkar, ‘a farina dall’omonimo latino farina =farina che è da far = farro, grano janca = bianca dall’ ant. ted. blanch; detta farina bianca era detta anche ‘o sciore dal latino flos con consuento cambio fl>sci usando il medesimo termine che rende in napoletano il fiore (sciore) atteso che la farina bianca rapprenta appunto il fior fiore della macinazione dei cereali, ‘a farenella gialla = farina gialla di granturco (quella usata al nord per preparare polente) usata nella preparazione dei migliacci carnascialeschi che ebbero questo nome poi che in origine furono preparati usando una farina di miglio brillato (miglio in latino fu: mìlium donde l’aggettivo miliaceus da cui migliaccio, in bbuccacce più contenuti era conservato ‘o ccafè = il caffè, rigorosamente in chicchi che venivano , secondo l’occorrenza, frantumati e ridotti in polvere con un apposito utensile detto maceniello = maneggevole macinino meccanico, etimologicamente deverbale del latino machinare che è da machina = macìna; talora il caffè era acquistato senza che fosse tostato, ma ancòra verde e la tostatura necessaria prima di procedere alla macinazione, occorreva farla in cucina con l’apposito abbrustulaturo cilindrico utensile di ferro nero provvisto di manovella, di un vano in cui si immetteva il caffè da abbrustolire, protetto da uno sportellino con nottolino di chiusura, alloggiamento inferiore per porvi le braci di combusta carbonella; l’utensile derivava il suo nome da un basso latino: ambustulare frequentativo di amburere = bruciare ai lati; ancòra in altri più minuscoli bbuccaccielle (diminutivo dei pregressi bbuccacce) trovavano posto le spezie secche o in polvere, quali il pepe nero in grani che veniva ridotto in polvere con un altro deputato piccolo maceniello ovviamente diverso da quello usato per il caffè, ‘a cannella, la noce moscata, ‘e fenucchielle = semi di finocchio, ‘e chiuvetielle ‘e carofano (dal greco karyòphillon che dette prima carofalo e poi per dissimilazione l-r> r-n carofano )= chiodini di garofano che venivano buoni per qualche noioso mal di denti, arecheta (= origano ) forse dal latino: origanon incrociato con nepeta, gli aghi di rosamarina (=rosmarino) dal latino: ros (rugiada)+ marina(marina) così detto per i fiori cerulei della pianta; ricorderò infine conservata in un suo bbuccacciello a chiusura ermetica ‘a póvera ‘e cacavo ( dallo spagnolo cacao con epentesi eufonica della v) = polvere di cacao che veniva usato poche volte all’anno per preparare calde, saporite tazze di cioccolata in occasioni dei genetliaci dei componenti la famiglia; in un ultimo capace bbuccaccio era conservato il sale che veniva acquistato rigorosamente grosso, venduto non in tabaccheria, ma in talune remote drogherie e prelevato dal droghiere, da bianchi sacchetti, marchiati col simbolo del monopolio di stato, con una sassuolina, prima di pesarlo in una dondolante stadera (lat. statìra(m), dal gr. statêra, acc. di statér -êros 'statere', denominazione di un peso e di una moneta) e consegnarlo all’acquirente, rinchiuso in un cuoppo (= cartoccetto conico di carta doppia per lo più di color grigio chiaro) etimologicamente dalla già vista cuppa(m)<> cum-voljare> cummoljare>cummuljare>cummiglià fino a dare il nostro cummuoglio; torniamo alla salèra (che come altri utensili di cucina fu inizialmente in terracotta) ed al suo coperchio su cui a mo’ di pomello o maniglia si ergeva una caricaturale statuina riproducente un ridanciano omino: ll’ommo ‘ncopp’â salèra un omuncolo cioè simile ad un tal Tom Pouce, viaggiatore inglese, o secondo altra tesi: nanetto inglese che si esibiva in spettacoli circensi, venuto a Napoli sul finire del 1860, molto piccolo e ridicolo; fosse un viaggiatore o un pagliaccio, fu preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono per molti anni a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione paré ll’ommo ‘ncopp’â salèra venne riferita da allora, con tono di scherno, verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e/o moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto. La maniera più crismatica di raffinare in casa il sale grosso era quella che prevedeva l’uso d’ ‘o murtale (= mortaio dal latino mortariu(m) con dissimilazione r –l ampio vaso concavo di legno o ferro o ghisa, ma più spesso di marmo, dalle spesse pareti in cui si frantumano erbe o spezie e qui il sale grosso da raffinare, usando quel che in toscano è detto pestello ed in napoletano pesaturo con evidente sincope di una t di un originario pestaturo deverbale di pestare ( tardo latino pistare iterativo di pínsere con aggiunta del suffisso di scopo turo o alibi tore ).
Voglio rammentare – tra gli utensili conservati nel bbuffè o contrabbuffè – per ultimi, ma non ultimi ‘e vasette (dal latino vas con aggiunta del diminutivo etto)contenitori cilindrici in terracotta smaltata o invetriata, di diverse dimensioni, usati per conservare varî alimenti; detti vasi erano sempre privi di coperchio; una volta che fossero stati pieni, la copertura veniva assicurata da uno o più fogli di carta oleata o paraffinata, fogli poggiati sull’imboccatura, fatti debordare gli angoli con misura e trattenuti con uno o più giri di spago; per i vasetti più piccoli in luogo dello spago erano usati dei cedevoli elastici; avevamo ordunque
‘o vasetto d’’a ‘nzogna(= il vaso per la sugna, il gustosissimo condimento che per talune preparazioni veniva usato con o in sostituzione dell’olio;
Preciso súbito che la voce napoletana a margine (‘nzogna) che rende l’italiano sugna o strutto è voce che va scritta ‘nzogna con un congruo apice (‘) d’aferesi (e qui di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno d’aferesi, come purtroppo càpita di trovare scritto.
Ciò detto passiamo all’etimologia e sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, (non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns>nz, dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancòra ricca di grasso.
Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana ‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia>’nsoinia>’nzogna.
Ordunque la sugna ( che era essenzialmente di due specie: 1)‘nzogna ‘mpane(quella proveniente dal grasso sottocutaneo della groppa del maiale ed era un pannicolo interamente di grasso alto fino a tre dita); 2) lardiciello (quella proveniente dal grasso sottocutaneo della pancia del maiale ed era un pannicolo non interamente di grasso, striato di contenuti strati di carne ed alto non piú di un paio dita) era acquistata nel mese di dicembre, al tempo della macellazione dei maiali, in larghe falde in macelleria, tagliata in congrui cubi, messi poi a liquefare su di una fiamma dolce in un’ampia tiana, con poco sale fino, in compagnia di un paio di foglie di alloro, da noi detto giustamente lauro (forse da un latino: laurus / lau(da)re se non da un daurus che imiterebbe un greco drýs =quercia, pianta; lau(da)re si fa preferire rammentando che un tempo le foglie di lauro, piú che in cucina fossero usate per incoronare capitani, sacerdoti o atleti vittoriosi. Una volta ridotta allo stato liquido la sugna veniva fatta intiepidire un poco prima di esser versata in uno o più vasetti ed a temperatura ambiente la si lasciava raffreddare fino a che non acquistasse una consistenza cremosa; si recuperavano le foglie di lauro e le si poneva alla sommità del vasetto pieno, coprendo il tutto con i consueti fogli di carta oleata; i residui della liquefazione dei cubi di sugna, venivano raccolti con una schiumarola forata ed adeguatamente pressati con una schiacciapatate per ricavarne dei piccoli panetti circolari detti ‘e cicule (= avanzi appunto dei pezzetti del grasso di majale, dopo cavatone lo strutto o sugna; dal latino:insciciolu(m) Va da sé che i ciculi piú gustosi fossero quelli residui del lardiciello e non della ‘nzogna ‘mpane )Rammento qui che con la medesima voce: cicoli o ciccioli in salumeria o, ma meno spesso, in macelleria si vendono dei gustosissimi prodotti industriali che provengono non dai residui della liquefazione di cubi di sugna, ma dalla cottura a vapore di carni, grasso e cotenna provenienti in massima parte dal collo del maiale, opportunamente salati e pepati. Al termine della cottura a vapore il tutto viene opportunamente pressato in forme metalliche fino ad ottenere dei grossi pani cilindrici piú larghi ( circa50 cm.) che alti(circa 15 cm) , che raffreddati vengono venduti a taglio ed a peso nelle salumerie al banco dei salumi cui sono, sia pure impropriamente apparentati; la sugna che comunque si ricava da questa spremitura di carni, grasso e cotenne viene venduta ugualmente come condimento sia pure di seconda scelta. Ancóra in tema di sugna ricorderò che un tempo chi non provvedesse a prepararla in casa liquefacendo i pannicoli di ‘nzogna ‘mpane e/o lardiciello poteva acquistarla dal proprio macellaio di fiducia che sostituendosi alla massaia provvedeva alla bisogna e metteva in vendita la sugna approntata in consistenza di pomata conservata non in vasetto, ma nelle vesciche di maiale: ‘a vessica (dal lat. vesica(m)) ‘e ‘nzogna.che poteva essere acquistata per intera o piú spesso a peso.
Procediamo.
In altri vasetti più piccoli si conservavano sotto olio: filetti di alici salate opportunamente dissalati, eviscerati, lavati, ed asciugati superficialmente;in vasetti un po’ piú grandi, ugualmente sotto olio, ma previa bollitura in aceto aromatizzato, si conservavano fette di melanzane condite con aglio affettato sottilmente, origano, pezzetti di peperoncino piccante; con il medesimo condimento e previa identica bollitura in aceto, sempre sotto olio, in un abbastanza grande vasetto si conservava la c.d. cumposta (dal latino: composita p.p. femm. dal verbo componere: mettere insieme, unire) gustosissima miscellanea di piccole falde di peperoni, tocchetti di melanzane,carote tagliate a rondelle, ciuffi di cavolfiore, olive bianche e nere ed altri ortaggi come pezzetti di sedano, in napoletano accio (dal latino: apiu-m con il medesimo evolversi morfologico che à dato il napoletano saccio (so) dal latino: sapio.
Tale cumposta prelevata, secondo le necessità con una piccola schiumarola bucata, per manter costante il livello dell’olio nel vasetto, era usata o da sola come stimolante contorno a pietanze di carne o pesce, o come gustoso arricchimento di fresche insalate verdi!
E qui penso di poter far punto, non sovvenendomi altro da raccontarvi.
Raffaele Bracale 19/02/08
Questa volta voglio invitare chi mi leggerà, a seguirmi e venir meco in quell’ ampia stanza della mia casa della fanciullezza e giovinezza dove si preparavano e, col favore dell’ampiezza del locale, si ammannivano – su l’apparecchiato desco – i cibi; sto parlando d’ ‘a cucina ( da un tardo latino: cocina(m), variante di coquina(m), deriv. di coquere 'cuocere'); il primo elemento che, entrando in cucina dal passetto pensile (dall’ aggettivo latino: prensile(m) con sincope della erre intesa inutile), saltava agli occhi era ‘o fuculare (dal tardo latino foculare, deriv. di focus 'fuoco’ con l’aggiunta del consueto suffisso di pertinenza areus (aro) ). Esso non era, come generalmente altrove, la parte inferiore del camino, formata da un piano di pietra o di mattoni, sul quale si accende il fuoco (in casa mia non v’erano camini (latino: caminu(m), dal gr. káminos 'forno, fornello') di sorta, ma una sorta di grosso parallelepipedo di pietra, rivestito di policrome riggiole (da un latino volgare rubjòla (?) con il normale trasformarsi di jo in ggi+ vocale come succede per il classico habeo diventato tardo latino habjo e napoletano aggio;rubjola = rossiccia da un latino della decadenza dal classico ruber per indicare il tipico colore rosso proprio della terracotta, materiale con cui si costruiva l’originaria riggiola napoletana; quelle che rivestivano il focolare erano diverse le une dalle altre in quanto non acquistate ad hoc, ma risultate avanzate ad altra primaria destinazione (per solito pavimentazione delle stanze di casa); sulla faccia superiore d’ ‘o fuculare erano ricavati degli ampi fori circolari in piccolissima parte chiusi da una sorta di crocicchio di ghisa saldamente infisso ai bordi dei fori, crocicchio che serviva di appoggio alle pentole e/o tegami usati per la cottura dei cibi;perpendicolarmente ai fori ad una distanza di circa 40 cm. c’era il piano interno al cavo focolare, piano in mattoni refrattari, piano su cui era acceso il fuoco alimentato attraverso due congrui accessi, protetti da sportellini metallici posti sul davanti della faccia anteriore del focolare, con adeguate immissioni di pezzi di legno e pampuglie (vedi altrove) o gravone (attraverso metatesi dal lat. carbone(m) )e gravunelle (evidente diminitivo del precedente); dopo la combustione la risultante cenere non veniva dismessa, ma conservata per essere usata nei giorni di culata (che dal verbo colare/culare indicò il bucato napoletano) sistemata nel c.d. cennerale = ampio telo a trama larga che accoglieva la cenere affinché questa cedesse ai panni, al momento della colatura dell’acqua bollente, i benefici effetti sbiancanti della soda caustica presente nella cenere, telo posto alla sommità del mastello o tina contenente la biancheria da lavare;Mi son soffermato a parlare della culata e del cennerale, atteso che nel passetto pensile attiguo alla cucina esistette (fino a che non fu demolito nel corso di un ammodernamento della casa) un lavatoio o lavatore (da un basso latino:lavatoriu(m) che era la vasca di pietra nella quale una grassoccia ed attempata donna,che - se non ricordo male - rispondeva al nome di Nannina, dai muscolosi avambracci e dai grossi polpacci segnati da gonfie vene varicose, per poche lire, lavava settimanalmente la biancheria di casa, prima di sistemarla dentro la tina per procedere alla sbiancatura della colata,terminata la quale, poneva la biancheria così lavata in un capace cufenaturo (forgiato sul greco kóphinos= conca metallica) per trasferirla ‘ncopp’ a ll’asteco (che è dal greco óstrakon) = lastrico solare, loggia, dove la biancheria lavata era posta ad asciugarsi, adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra delle tre che limitavano il lastrico solare dove vento e sole la facevano da padroni; ma torniamo in cucina: al centro della stanza troneggiava un gran tavolo rettangolare(reso, come spesso in napoletano,per la sua ampiezza, femminile e perciò ‘a tavula cfr. ad es. alibi ‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo ) ), munito di quattro possenti zampe e di un piano in candido, ma qui e là venato di grigio, marmo bianco: ‘o marmulo (dal greco mormylos); la vasta superficie in marmo risultava quasi essenziale alla preparazione degli impasti per cavarne pasta alimentare (tagliatelle,tagliolini, lasagne, cannelloni e/o impasti dolci: pan di Spagna, pasta frolla,pasta sfoglia etc.; se non ci fosse stato il marmo, sarebbe occorso ricorrere ad un capace, rettangolare tagliere ligneo ( che però una volta imbrattato, risultava difficile da pulire, al contrario del marmo); il tagliere da noi non aveva, né à un nome particolare, laddove altrove (Bisaccia) in Campania à il nome di tumpagno ed è di forma circolare, né più, né meno che un fondo di botte che noi, figli di Partenope, usiamo dire appunto ‘o tumpagno (dal greco tympànion che sta giustappunto per chiusura); or ora ò detto che il tagliere non à, né aveva in napoletano un nome preciso; devo correggermi: in realtà per il tagliere, i napoletani usavano il generico termine di laganaturo (che è, come il sostantivo femminile lagana = sorta di larga fettuccina di pasta fresca ed estensivamente anche la intera sfoglia di pasta fresca da cui si ricavano le lagane o laganelle se più strette, su cui è forgiato - con il concorso di un suffisso turo (atto a, per) - dal greco làganon ma che i napoletani utilizzarono attraverso un neutro latinizzato lagana inteso femminile; per verità con il termine laganaturo si indicò un tempo ( ed ecco il motivo per cui l’ò detto: generico) alternativamente sia il tagliere, che il bastone cilindrico con cui si spianava la pasta per cavarne le lagane; tale bastone fu ed è quello che in toscano dovrebbe correttamente dirsi matterello (diminutivo di màttero che è da congiungersi al latino matéola= mazza, bastone), ma che qualcuno e segnatamente chi parla dalla televisione..., si ostina a dire, impropriamente, con voce romanesca mattarello. Atteso dunque che sia il tagliere che il matterello erano due strumenti utili alla produzione delle lagane, poco male che avessero il medesimo nome.
Il suddetto tavulo o tavula, qualche più anziano frequentatore di casa (nonni, vecchi zii) si ostinava a dirlo (dallo spagnolo bofeta, ‘a buffetta, ma era poco compreso da noi ragazzi che ritenevamo, sia pure errando, che il nonno o lo zio stesse confondendo, intendendosi riferire con quella loro buffetta non al tavolo, quanto al buffè altro mobile, di cui qui di sèguito parlerò.Nella cucina della mia casa d’antan, sulla parete opposta a quella su cui era ubicato ‘ ‘o fuculare (demolito assieme al lavaturo nel corso dell’ammodernamento cui ò accennato dianzi, per far posto ad una cucina a gas di città che, ad un certo punto invase appunto tutta la città, soppiantando ovunque il focolare con il suo corredo di legna, carbone e carbonelle; le prime lavatrici elettriche semiautomatiche avevan per parte loro, giustiziato lavaturi e culate con il cennerale e non so proprio la nostra vecchia Nannina cosa dovette ingegnarsi per lucrar qualche soldo…) era situata una bassa credenza (con due sportelli e due cassettini); tale mobile, come il suo simile detto contrabbuffè ( da contra =opposto + buffè: nella stanza da pranzo due mobili, sia pure di legno più pregiato e di miglior fattura, portavano il medesimo nome di buffè e contrabbuffè ed erano posti su pareti dirimpettaie, l’uno opposto all’altro)collocato al centro della parete adiacente quella su cui insisteva il buffè ( mo vi dico…) era in un vile legno di abete ed era laccato, all’esterno, di un color azzurro scuro, mentre i ripiani interni erano di un bianco calcina ); tale credenza con voce mutuata dal francese buffet si diceva bbuffè; su codesto buffè era montato un alto riquadro a mo’ di quadro svedese, su cui erano avvitati numerosi grossi crocchi = uncini (dal francese croc) a vvite ai quali erano sospesi pentole, tegami ed ogni altro pentolame da cucina che qui appresso elencherò con i nomi partenopei; tali stoviglie (forse da un lat. volg. testulia in quanto al principio prodotte esclusivamente in terracotta)in origine furono di luccicante rame adeguatamente stagnato sulla superficie che veniva a contatto con il cibo; poi a mano a mano le stoviglie di rame furono sostituite da quelle in alluminio, materiale che assicurava un ‘ottima conducibilità di calore, e che si puliva in maniera le mille volte piú rapida del rame che per esser pulito e poi reso lucente necessitava di gran lavoro ed il soccorso di scorze di limone e di rena ‘e vitrera cioè sabbia da vetrai ricca di silice atta al soffregamento abrasivo dei residui del cibo cucinato; vediamo dunque il pentolame(forse dal latino pendere in quanto in principio i vasi per cuocere i cibi, non erano poggiati, ma sospesi sul fuoco) in uso, olim, in un po’ tutte le cucine napoletane; avevamo: tiani/e e le più piccole tianelle, oltre a ruoti e rutielle, caccavi e ccaccavelle ed ovviamente tielle più o meno grandi; esaminiamo da vicino:tiano o tiana utilità simili se non uguali che si differenziavano secondo la grandezza della pentola, per solito usata per la lessatura di taluni cibi; etimologicamente dal greco tégano(n) collaterale di tàghenon; in questo caso – contrariamente al solito, il maschile tiano indicava una pentola più grande della femminile tiana; nella tiana si potevano preparare contenuti cibi lessi o da brasare, ma per preparare tronfie minestre vegetali fino alla ridondante menesta mmaretata(= minestra dal latino:minestra(m) maritata(denominale da un latino in + maritus)in quanto minestra vegetale unita, sposata, maritata con varî tipi di carni lesse) era giocoforza ricorrere al più vasto e capace tiano maschile;le tianelle diminutivo del precedente erano le più piccole e maneggevoli pentoline, provviste di un unico lungo manico saldato al bordo della pentolina attraverso tre corti chiuvette,brevi ma larghi chiodi in lega metallica che passando attraverso appositi fori circolari posti sulle pentole e la piastrina concava finale del manico quando fossero ben ribattuti, rinsaldavano il manico al tegame ed impedivano che il manico ciurlasse, assicurando cosí una sicura presa all’operatore, piú spesso operatrice, ai fuochi;ruoti ed i diminutivi rutielle etimologicamente da un basso latino maschile: rot(l)us , sincope di un rotulus forse da un classico femminile rota(m) furono i piú o meno ampi teglioni, che non avevano manici, ma un unico grosso anello metallico saldato con i soliti chiuvetti, teglioni (da non confondere con le teglie (tielle) che adesso vedremo) che potevano essere usati indifferentemente o sui fuochi o nel forno, e ce ne fu uno: ‘o ruoto niro che – per essere stato lungamente a contatto con le fiamme - si era estremamente brunito, acquistando la qualità di non fare attaccare i cibi, risultando l’involontario, ma esatto antesignano dell’antiaderenza chimica e perciò pericolosa! Esso ruoto niro quello usato per le lunghe fritture o rosolature di puparuole(=peperoni: alterazione fono-morfologica del latino piper donde anche pipere nome con cui a Napoli sono indicati un tipo di peperoni lunghi e conici) o papaccelle(peperone basso e plurilobato: da un basso latino pipericella>piparicella> paparicella>paparcella > papaccella,nonché sacicce(= salsicce: basso lat. salcicia da un salsicius= salato) e frijarielle (= particolari, tipici, squisiti broccoli (che è da sciocchi tentar di rendere in toscano con friggiarelli: ‘e frijarielle so’ frijarielle e basta; non ne è ammessa una sia pure adattata traduzione!) da friggere a crudo,etimologicamente ‘e frijarielle sono un deverbale di frijere dal lat. frìgere);caccavi e le diminutive, piú agevoli caccavelle; ‘o caccavo che è dal basso latino caccabu(m) era il piú grosso tiano che si potesse usare in cucina, ampia e larga pentola utile alla preparazione di ingenti quantitativi di minestre o brodi e dunque poco usato; in effetti a Napoli dicendo ‘o caccavo non ci si intendeva riferire a pentola domestica, quanto piuttosto ai grossi pentoloni in uso presso taluni monasteri che quotidianamente preparavano e distribuivano minestre per i poveri che le mendicassero; rammenterò il famosissimo gran caccavo ‘e Santa Maria ‘a Nova, monastero francescano posto in una centralissima piazza napoletana, monastero che cotidie era meta di poveri petenti; va da sé che con il termine caccavella si designò dal latino caccabella, neutro plurale, ma inteso femminile, di caccabellu(m) il diminutivo del pregresso caccavo, le pentoline più piccole e maneggevoli, sinonimo delle pregresse tianelle;concludiamo con tielle che è il plurale di tiella , propriamente il tegame, la padella, la teglia in cui o si frigge in olio basso, sugna etc. o si preparano i fondi per non troppo elaborati sughi piuttosto veloci; quelli di più elaborata e lunga preparazione, come il mitico rraù (= il famosissimo napoletano intingolo di carne di manzo e rosso pomodoro di cui quanto prima vorrò parlare; rraù: adattamento dal francese ragoût deverbale di ragoûter derivato da goût= gusto e dunque risvegliare il gusto! ), necessitano di un’adeguata tiana; torniamo a tiella la cui etimologia è dal latino tegella(m), diminutivo di tegula, con caduta della palatale g, suono di transizione j donde tejella > tjella e tiella; in origine quando ancora la tegella non era che una piccola tegula, altro non fu che una sorta di copertura di altri vasi in terracotta come i menzionati caccabum e caccabella anch’essi, come la tegella e la tegola in terracotta.Riprendiamo il racconto; nelle ante chiuse da sportelli del buffè e contrabbuffè trovavano posto innanzi tutto il vasellame da tavola: ‘e bbicchiere :etimologicamente da un latino: bacarium> bicarium da un greco bìkos= piccolo vaso per bere, ed i vitrei contenitori dei liquidi quali: fiasche plurale di fiasco che etimologicamente è da un basso latino: vasculum diminutivo di vas passando per vasc’lo> vlasco> flasco e fiasco, peretto ed il plurale’e perette: caraffe vitree di varia capacità in cui si poneva il vino per servirlo in tavola : etimologicamente per alcuni da ricollegarsi a pera di cui ricalcherebbe vagamente la forma; la cosa poco mi convince, ma non avendo altro da proporre, prendo per buono quella che piú che una etimologia, mi appare una frettolosa paretimologia, e mi riservo ulteriori indagini, atteso che a mia memoria ‘e perette ch’io conobbi non somigliavano ad una pera, né dritta, né capovolta, risultando essere dei cilindrici contenitori che per tutta la loro altezza mantenevano il medesimo passo e solo verso l’alto presentavano una contenuta strozzatura che costringeva il vaso a slargarsi in una imboccatura svasata, carrafe : più ampie – rispetto ai perette – caraffe usate solitamente per servire in tavola l’acqua da bere: etimologicamente dall’arabo garafa=vaso per attingere, giarre : vasi vitrei bassi e panciuti, provvisti di manico, vasi usati per bere birra o altre bevande fermentate, etimologicamente dall’arabo djarrah attraverso lo spagnolo jarra, ed ancora tazze, tazzine e tazzulelle tutte dall’arabo tas, tazze dette anche chicchere con voce dallo spagnolo jicara, tutti (tazze o chicchere) piccoli o medi vasi, di porcellana o di maiolica, forniti di un unico manico laterale ed usati per bere caffè, cioccolata o altre bevande per lo piú calde; esistettero anche delle chicchere a doppia ansa o manico, ma venivano usate solo in quelle famiglie aduse a servire in dette chicchere sofisticati consommé o ristretti brodini magari arricchiti da uova fresche e dette famiglie queste chicchere non le conservavano nel buffè di cucina, ma nella cristalliera (di per sé il mobile per riporvi il vasellame di cristallo, etimologicamente forgiato sulla parola cristallo che è dal greco krystallos= ghiaccio) annessa al buffè della stanza da pranzo, cristalliera o argentiera dove facevano bella mostra di sé accanto al vasellame in pregiata porcellana bavarese ed accanto ai bicchieri in cristallo molato, qualche elegante pezzo in argento magari inglese o tedesco; nelle famiglie medio-piccolo borghese, per servire il brodo s’usavano delle fonde scodelle: etimologicamente dal catalano escudella o delle capaci ciotole ampie e profonde tazze prive di manico, etimologicamente da una latina còtyla affine ad una cyàtula femm. di un cyàtulus diminutivo di cyàtus (greco: kýatos = bicchiere) quelle stesse ciotole che venivano usate all’occorrenza per servire semplici, ma gustose zuppe ‘e latte consistenti in una congrua tazza, ciotola o scodella di latte caldo o freddo, parsimoniosamente zuccherato e macchiato con poco caffè in cui erano posti ad imbimbirsi adegatamente piccoli cubi ricavati da tronfie fette di palatone (grosso filone di pane di circa due kg. così chiamato in quanto da solo occupava quasi del tutto la pala usata per infornarlo, palatelle: filoncini che secondo il peso: 250 o 500 gr. occupavano la metà o la quarta parte della pala) o panielle(pagnotte di forma tondeggiante, da panis + suff. diminutivo iello di buon fragante pane napoletano o cafone: biscotti, cornetti, crostatine, merendine ed affini erano ancora in mente Dei e di là da venire…Torniamo al vasellame; nei mobili della cucina accanto a quello menzionato trovavano ancòra posto con qualche residuale pentolame in coccio o creta cotta, pentolame che essendo troppo fragile non poteva esser tenuto all’esterno di mobili, insieme a quello di rame o alluminio, e doveva esser messo al riparo nel buffè e contrabbuffè insieme alle stoviglie in ceramica o porcellana quali piatte schiane e piatte accuppute nei quali erano ammanniti minestre, primi piatti e pietanze; esaminiamo:piatte = plurale di piatto etimologicamente dal greco platýs= largo, ampio;schiano = piano, livellato dal latino: planu(m) dove pl> chj=chi come in plenu(m)/plena(m) che danno chino/chiena;accupputo = fondo, cavo da collegarsi etimologicamente alla voce tardo latina cuppa(m)= incavata per la classica cupa(m); vedi anche il greco kýpe = cavità.Prima di fare punto, un rapidissimo accenno alle grosse posate usate in cucina, sia per rimestare i cibi in cottura, che per servirli nei suddetti piatti; quelle posate erano essenzialmente di due tipi: in lega metallica o completamente di legno; tra le prime rammenterò:‘o cuppino ed il diminutivo cuppeniello = ramaioli semisferici più o meno grossi, con lungo manico usati per rimestare e servire brodi o minestre brodose o conferire liquidi a cibi in cottura che dessero segni d’essersi troppo prosciugati, quanto alla etimologia da far risalire alle medesime voci di cui al precedente accupputo;‘o furchettone = evidente accrescitivo (stranamente maschile) della femminile furchetta dalla medesima etimologia dal francese fouchette con epentesi della erre e suffisso accrescitivo one = arnese a due o tre rebbi usato per rimestar verdure o infilzare e prelevare dai tegami pezzi di carne o altro;‘a votapesce = schiumarola forata di foggia piatta o concava usata per rigirare i cibi in cottura (pesci o carni) sgrondandoli in contemporanea dei grassi o liquidi di preparazione; ovvia l’etimologia che è dall’addizione del verbo vutà/votà= girare da un basso latino volvitare intensivo di volvere + il sostantivo pisce(m);e giungiamo infine alle posate lignee che sono essenzialmente due:‘a cucchiara ed il suo diminutivo cucchiarella che sono esattamente i più o meno grossi cucchiai atti a rimestare i cibi in cottura ed a prelevarne volta a volta piccole quantità; l’etimologia è latina da cochleària neutro plurale inteso femminile di cochleàrium e questo a sua volta da collegarsi al greco kochliàrion forma diminutiva di kochlìas = chiocciola o conchiglia in quanto strumento usato per prelevare e mangiare il frutto della chiocciola o conchiglia.Rammenterò, in chiusura, che un tempo le posate lignee cucchiare e cucchiarelle prodotte artigianalmente, venivano cortesemente fornite annualmente dagli zampognari abbruzzesi o avellinesi che, chiamati in casa, vi venivano a suonare la novena di Natale ed al momento del congedo solevano ricambiare con il dono di tali lignee cucchiaie, i dolci ed i liquori o casalinghi rosolî che venivano loro dati per sovrammercato del compenso pattuito per la novena; i rosolî casalinghi erano conservati o in bottiglie conservate ad hoc, una volta che fossero state vuotate degli originarî liquori industriali, ma – più spesso in scintillanti carrafine= panciutelle ampolline vitree o –meno spesso – di cristallo, fornite di manico, torto beccuccio e vitreo tappo, ampolline un po’ più grandi, ma – per la forma - in tutto simili a quelle usate in chiesa durante la celebrazione della S.Messa, per contenervi acqua e vino; etimologicamente anche la carrafina come la precedente carrafa di cui è diminutivo, viene dall’arabo garafa.
‘A CUCINA – aggiunta
Ò dimenticato di parlarvi di alcuni oggetti/utensili usati in cucina e conservati, accanto a quelli menzionati, nel bbuffè o nel contrabbuffè; provvedo ora col dirvene:
cepugno intraducibile ad litteram che fu un antico vaso oleario in terracotta della capacità di piú litri, che derivò il suo nome con ogni probabilità per esser di forma simile ad una grossa cipolla (cepa o coepa) con collo stretto in tutto simile a quello della cipolla che panciutella nel corpo si restringe verso l’alto a mo’ di collo. In detto cepugno veniva conservato l’olio che una volta era acquistato senza lesinare sulle quantitatà; in prosieguo di tempo il cepugno fu sostituito con lo
ziro ( dall’arabo zihr= orcio) anch’esso vaso oleario di gran capacità che poteva essere di terracotta come il cepugno ma piú spesso di banda stagnata. Avvicinandosi ai nostri dí anche nelle case piú facoltose son venuti meno e il cepugno e lo ziro sostituiti con micragnose bottiglie.
(butteglie) tra le quali appunto la unta e bisunta butteglia ‘e ll’uoglio da cui si prelevava il prezioso condimento per il tramite di un minuscolo mesuriello ‘e ll’uoglio = misurino dalla contenuta capienza di circa 1,5 decilitri :almeno così ricordo;
etimologie: butteglia = bottiglia : dal latino bu(t)ticula diminutivo di buttis= vaso, botte ma attraverso un francese bouteille, più che uno spagnolo botilla
uoglio: = olio: da un latino oleu(m) cfr. greco: élaion; il classico oleu(m) diede il volgare òliu(m) con li> gli donde oglio > uoglio;
mesuriello= misurino graduato in alluminio, diminutivo del francese mésure che è dal latino mensura dal part. pass. mensus del verbo metìri= misurare;
buccacce = congrui contenitori vitrei più larghi che alti dall’ampia bocca, turata da adeguati tappi ‘e suvero = sughero dal latino: subere(m) cfr. il greco: sýphar= pelle rugosa; in detti bbuccacce (il cui nome penso derivi dal fatto che fossero vasi, come detto, dall’ampia bocca e non, come qualcuno ritiene, dal latino baucale(m) che aveva dato il napoletano bucale in origine boccale per bere e poi sorta di portafiore ) erano opportunamente riposte paste secche dai minuscoli formati, (quali stelletelle, anellette, acene ‘e pepe, semmenze ‘e mellone, sturtine,rosamarina così chiamata in quanto formato di pasta avente la medesima forma degli aghi delle pianta di rosmarino etc.), nonché altri alimenti quali: ‘o zzuccaro= zucchero dall’arabo sukkar, ‘a farina dall’omonimo latino farina =farina che è da far = farro, grano janca = bianca dall’ ant. ted. blanch; detta farina bianca era detta anche ‘o sciore dal latino flos con consuento cambio fl>sci usando il medesimo termine che rende in napoletano il fiore (sciore) atteso che la farina bianca rapprenta appunto il fior fiore della macinazione dei cereali, ‘a farenella gialla = farina gialla di granturco (quella usata al nord per preparare polente) usata nella preparazione dei migliacci carnascialeschi che ebbero questo nome poi che in origine furono preparati usando una farina di miglio brillato (miglio in latino fu: mìlium donde l’aggettivo miliaceus da cui migliaccio, in bbuccacce più contenuti era conservato ‘o ccafè = il caffè, rigorosamente in chicchi che venivano , secondo l’occorrenza, frantumati e ridotti in polvere con un apposito utensile detto maceniello = maneggevole macinino meccanico, etimologicamente deverbale del latino machinare che è da machina = macìna; talora il caffè era acquistato senza che fosse tostato, ma ancòra verde e la tostatura necessaria prima di procedere alla macinazione, occorreva farla in cucina con l’apposito abbrustulaturo cilindrico utensile di ferro nero provvisto di manovella, di un vano in cui si immetteva il caffè da abbrustolire, protetto da uno sportellino con nottolino di chiusura, alloggiamento inferiore per porvi le braci di combusta carbonella; l’utensile derivava il suo nome da un basso latino: ambustulare frequentativo di amburere = bruciare ai lati; ancòra in altri più minuscoli bbuccaccielle (diminutivo dei pregressi bbuccacce) trovavano posto le spezie secche o in polvere, quali il pepe nero in grani che veniva ridotto in polvere con un altro deputato piccolo maceniello ovviamente diverso da quello usato per il caffè, ‘a cannella, la noce moscata, ‘e fenucchielle = semi di finocchio, ‘e chiuvetielle ‘e carofano (dal greco karyòphillon che dette prima carofalo e poi per dissimilazione l-r> r-n carofano )= chiodini di garofano che venivano buoni per qualche noioso mal di denti, arecheta (= origano ) forse dal latino: origanon incrociato con nepeta, gli aghi di rosamarina (=rosmarino) dal latino: ros (rugiada)+ marina(marina) così detto per i fiori cerulei della pianta; ricorderò infine conservata in un suo bbuccacciello a chiusura ermetica ‘a póvera ‘e cacavo ( dallo spagnolo cacao con epentesi eufonica della v) = polvere di cacao che veniva usato poche volte all’anno per preparare calde, saporite tazze di cioccolata in occasioni dei genetliaci dei componenti la famiglia; in un ultimo capace bbuccaccio era conservato il sale che veniva acquistato rigorosamente grosso, venduto non in tabaccheria, ma in talune remote drogherie e prelevato dal droghiere, da bianchi sacchetti, marchiati col simbolo del monopolio di stato, con una sassuolina, prima di pesarlo in una dondolante stadera (lat. statìra(m), dal gr. statêra, acc. di statér -êros 'statere', denominazione di un peso e di una moneta) e consegnarlo all’acquirente, rinchiuso in un cuoppo (= cartoccetto conico di carta doppia per lo più di color grigio chiaro) etimologicamente dalla già vista cuppa(m)<> cum-voljare> cummoljare>cummuljare>cummiglià fino a dare il nostro cummuoglio; torniamo alla salèra (che come altri utensili di cucina fu inizialmente in terracotta) ed al suo coperchio su cui a mo’ di pomello o maniglia si ergeva una caricaturale statuina riproducente un ridanciano omino: ll’ommo ‘ncopp’â salèra un omuncolo cioè simile ad un tal Tom Pouce, viaggiatore inglese, o secondo altra tesi: nanetto inglese che si esibiva in spettacoli circensi, venuto a Napoli sul finire del 1860, molto piccolo e ridicolo; fosse un viaggiatore o un pagliaccio, fu preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono per molti anni a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione paré ll’ommo ‘ncopp’â salèra venne riferita da allora, con tono di scherno, verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e/o moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto. La maniera più crismatica di raffinare in casa il sale grosso era quella che prevedeva l’uso d’ ‘o murtale (= mortaio dal latino mortariu(m) con dissimilazione r –l ampio vaso concavo di legno o ferro o ghisa, ma più spesso di marmo, dalle spesse pareti in cui si frantumano erbe o spezie e qui il sale grosso da raffinare, usando quel che in toscano è detto pestello ed in napoletano pesaturo con evidente sincope di una t di un originario pestaturo deverbale di pestare ( tardo latino pistare iterativo di pínsere con aggiunta del suffisso di scopo turo o alibi tore ).
Voglio rammentare – tra gli utensili conservati nel bbuffè o contrabbuffè – per ultimi, ma non ultimi ‘e vasette (dal latino vas con aggiunta del diminutivo etto)contenitori cilindrici in terracotta smaltata o invetriata, di diverse dimensioni, usati per conservare varî alimenti; detti vasi erano sempre privi di coperchio; una volta che fossero stati pieni, la copertura veniva assicurata da uno o più fogli di carta oleata o paraffinata, fogli poggiati sull’imboccatura, fatti debordare gli angoli con misura e trattenuti con uno o più giri di spago; per i vasetti più piccoli in luogo dello spago erano usati dei cedevoli elastici; avevamo ordunque
‘o vasetto d’’a ‘nzogna(= il vaso per la sugna, il gustosissimo condimento che per talune preparazioni veniva usato con o in sostituzione dell’olio;
Preciso súbito che la voce napoletana a margine (‘nzogna) che rende l’italiano sugna o strutto è voce che va scritta ‘nzogna con un congruo apice (‘) d’aferesi (e qui di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno d’aferesi, come purtroppo càpita di trovare scritto.
Ciò detto passiamo all’etimologia e sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, (non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns>nz, dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancòra ricca di grasso.
Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana ‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia>’nsoinia>’nzogna.
Ordunque la sugna ( che era essenzialmente di due specie: 1)‘nzogna ‘mpane(quella proveniente dal grasso sottocutaneo della groppa del maiale ed era un pannicolo interamente di grasso alto fino a tre dita); 2) lardiciello (quella proveniente dal grasso sottocutaneo della pancia del maiale ed era un pannicolo non interamente di grasso, striato di contenuti strati di carne ed alto non piú di un paio dita) era acquistata nel mese di dicembre, al tempo della macellazione dei maiali, in larghe falde in macelleria, tagliata in congrui cubi, messi poi a liquefare su di una fiamma dolce in un’ampia tiana, con poco sale fino, in compagnia di un paio di foglie di alloro, da noi detto giustamente lauro (forse da un latino: laurus / lau(da)re se non da un daurus che imiterebbe un greco drýs =quercia, pianta; lau(da)re si fa preferire rammentando che un tempo le foglie di lauro, piú che in cucina fossero usate per incoronare capitani, sacerdoti o atleti vittoriosi. Una volta ridotta allo stato liquido la sugna veniva fatta intiepidire un poco prima di esser versata in uno o più vasetti ed a temperatura ambiente la si lasciava raffreddare fino a che non acquistasse una consistenza cremosa; si recuperavano le foglie di lauro e le si poneva alla sommità del vasetto pieno, coprendo il tutto con i consueti fogli di carta oleata; i residui della liquefazione dei cubi di sugna, venivano raccolti con una schiumarola forata ed adeguatamente pressati con una schiacciapatate per ricavarne dei piccoli panetti circolari detti ‘e cicule (= avanzi appunto dei pezzetti del grasso di majale, dopo cavatone lo strutto o sugna; dal latino:insciciolu(m) Va da sé che i ciculi piú gustosi fossero quelli residui del lardiciello e non della ‘nzogna ‘mpane )Rammento qui che con la medesima voce: cicoli o ciccioli in salumeria o, ma meno spesso, in macelleria si vendono dei gustosissimi prodotti industriali che provengono non dai residui della liquefazione di cubi di sugna, ma dalla cottura a vapore di carni, grasso e cotenna provenienti in massima parte dal collo del maiale, opportunamente salati e pepati. Al termine della cottura a vapore il tutto viene opportunamente pressato in forme metalliche fino ad ottenere dei grossi pani cilindrici piú larghi ( circa50 cm.) che alti(circa 15 cm) , che raffreddati vengono venduti a taglio ed a peso nelle salumerie al banco dei salumi cui sono, sia pure impropriamente apparentati; la sugna che comunque si ricava da questa spremitura di carni, grasso e cotenne viene venduta ugualmente come condimento sia pure di seconda scelta. Ancóra in tema di sugna ricorderò che un tempo chi non provvedesse a prepararla in casa liquefacendo i pannicoli di ‘nzogna ‘mpane e/o lardiciello poteva acquistarla dal proprio macellaio di fiducia che sostituendosi alla massaia provvedeva alla bisogna e metteva in vendita la sugna approntata in consistenza di pomata conservata non in vasetto, ma nelle vesciche di maiale: ‘a vessica (dal lat. vesica(m)) ‘e ‘nzogna.che poteva essere acquistata per intera o piú spesso a peso.
Procediamo.
In altri vasetti più piccoli si conservavano sotto olio: filetti di alici salate opportunamente dissalati, eviscerati, lavati, ed asciugati superficialmente;in vasetti un po’ piú grandi, ugualmente sotto olio, ma previa bollitura in aceto aromatizzato, si conservavano fette di melanzane condite con aglio affettato sottilmente, origano, pezzetti di peperoncino piccante; con il medesimo condimento e previa identica bollitura in aceto, sempre sotto olio, in un abbastanza grande vasetto si conservava la c.d. cumposta (dal latino: composita p.p. femm. dal verbo componere: mettere insieme, unire) gustosissima miscellanea di piccole falde di peperoni, tocchetti di melanzane,carote tagliate a rondelle, ciuffi di cavolfiore, olive bianche e nere ed altri ortaggi come pezzetti di sedano, in napoletano accio (dal latino: apiu-m con il medesimo evolversi morfologico che à dato il napoletano saccio (so) dal latino: sapio.
Tale cumposta prelevata, secondo le necessità con una piccola schiumarola bucata, per manter costante il livello dell’olio nel vasetto, era usata o da sola come stimolante contorno a pietanze di carne o pesce, o come gustoso arricchimento di fresche insalate verdi!
E qui penso di poter far punto, non sovvenendomi altro da raccontarvi.
Raffaele Bracale 19/02/08
GOBBA E DISTINZIONI
GOBBA E DISTINZIONI
Nel napoletano, per indicare la gobba abbiamo a dir poco, tre vocaboli; e sono: baúglio, scartiello e contrapanzetta
Ma non son vocaboli da usarsi indifferentemente; infatti con il termine baúglio modellato sul latino: baulus si intende la gobba anteriore, quella che insiste sullo sterno e viene così chiamata perché con il termine baule si intendeva quel contenitore, piccolo o meno, per asporto, provvisto di maniglie laterali, contenitore che veniva sollevato e trasportato tenendolo poggiato sulla parte anteriore del corpo;
con il termine scartiello si intende invece la gobba posteriore, presente sulle spalle o tra le scapole; il termine scartiello proviene da un antico latino: cartellus (cesta/ gerla che erano portate, proprio come una gobba posteriore, sulle spalle.C'è infine il termine contrapanzetta che indica - anche se in maniera divertita - la medesima gobba posteriore prominenza ritenuta opposta (contra) alla normale prominenza della pancia (panzetta).
In conclusione rammento a proposito del bauglio =gobba anteriore, un icastico detto partenopeo che prendendo spunto dall’osservazione della realtà, afferma: Chi tene ‘o bauglio, nun vasa né fotte id est: chi à la gobba anteriore non bacia né coisce atteso che la detta gobba è d’intralcio ad ambedue le azioni.
Raffaele Bracale
Nel napoletano, per indicare la gobba abbiamo a dir poco, tre vocaboli; e sono: baúglio, scartiello e contrapanzetta
Ma non son vocaboli da usarsi indifferentemente; infatti con il termine baúglio modellato sul latino: baulus si intende la gobba anteriore, quella che insiste sullo sterno e viene così chiamata perché con il termine baule si intendeva quel contenitore, piccolo o meno, per asporto, provvisto di maniglie laterali, contenitore che veniva sollevato e trasportato tenendolo poggiato sulla parte anteriore del corpo;
con il termine scartiello si intende invece la gobba posteriore, presente sulle spalle o tra le scapole; il termine scartiello proviene da un antico latino: cartellus (cesta/ gerla che erano portate, proprio come una gobba posteriore, sulle spalle.C'è infine il termine contrapanzetta che indica - anche se in maniera divertita - la medesima gobba posteriore prominenza ritenuta opposta (contra) alla normale prominenza della pancia (panzetta).
In conclusione rammento a proposito del bauglio =gobba anteriore, un icastico detto partenopeo che prendendo spunto dall’osservazione della realtà, afferma: Chi tene ‘o bauglio, nun vasa né fotte id est: chi à la gobba anteriore non bacia né coisce atteso che la detta gobba è d’intralcio ad ambedue le azioni.
Raffaele Bracale
LEMME LEMME
LEMME LEMME
La locuzione avverbiale italiana in epigrafe lemme lemme è usata nel significato di pian piano, con molta flemma, quasi con circospezione (spec. riferito ad andatura): camminare, avviarsi lemme lemme;estensivamente vale: tranquillamente, senza scosse.
Per ciò che riguarda l’etimo la scuola di pensiero piú seguíta vi vede alla base un lat. (sol)lemne(m) 'solenne' con aferesi della sillaba d’avvio ed assimilazione progressiva mn>mm, etimo spiegato semanticamente col fatto che un’andatura solenne quale quella degli ecclesiasti durante le funzioni religiose, è un’ andatura lenta, a passi misurati, quasi circospetta.
A mio avviso invece penso che l’etimo di l’italiano lemme lemme si possa piú opportunamente ricondurre, sia morfologicamente che semanticamente, ad un antico tedesco lam>lahme= zoppo, storpio la cui andatura claudicante richiama il piano, piano, con molta flemma, quasi con circospezione che son nel significato della loc. avv.le in epigrafe.
E passiamo ai modi partenopei di rendere il lemme lemme dell’italiano dell’epigrafe.
Abbiamo:
1) cuóveto - cuóveto
2) cuccio – cuccio
3) gnèmme-gnèmme
4) muchio-muchio
5) ruglio-ruglio
6) sciacquo-sciacquo
7) sòpio-sòpio.
Tutte le locuzioni avv.li napoletane sono formate con l’iterazione di un aggettivo di grado positivo, iterazione che di solito serve a formare il superlativo di un aggettivo. Esaminiamo le singole locuzioni:
- cuóveto – cuóveto = tranquillamente, silenziosamente (per prudenza, paura etc.,chiotto chiotto); locuzione formata con l’iterazione dell’aggettivo cuóveto che di per sé quale part. pass. di cogliere( dal lat. colligere, comp. di cum 'con' e legere 'raccogliere') varrebbe còlto, colpito, preso alla sprovvista e perciò costretto a comportamento tranquillo, silenzioso, prudente e timoroso.
- cuccio – cuccio = umilmente, dimessamente, con circospezione;
locuzione formata con l’iterazione dell’aggettivo cuccio che di per sé quale deverbale di cuccià vale umile, tranquillo, tal quale un cane che una volta che sia entrato nella sua cuccia (deverbale del francese coucher= mettersi a letto) si cheta e si mette tranquillo.
- gnèmme-gnèmme = con estrema lentezza, con circospezione esagerata, ma anche con studiata leziosità quasi femminea; locuzione formata non con l’iterazione di un aggettivo, ma di una voce espressiva, marcata su l’aggettivo gnagnolla= lenta che à affinità con la voce lucchese gnègnora e la genovese gnagna tutte: la genovese, la lucchese e la napoletana da riferire allo spagnolo ñoño= lento, impacciato.
- muchio-muchio = mogio mogio, piano piano, quatto quatto, silenziosamente; locuzione il cui etimo è molto controverso, andando da una provenienza veneta però non meglio spiegata, ad una emiliana dove un muci(che è dal serbo-crato muci) vale zitto legato a muk= silenzio; atteso però che - a meno di clamorosi errori – non mi risultano frequentazioni partenopee con veneti o emiliani o serbo-croati, frequentazioni tali da generare derivazioni linguistiche, preferisco collegare la locuzione a margine alla voce mucio = gatto che risente dell’influenza dello spagnolo mucho collegamento che spiegherebbe anche in chiave semantica la locuzione ove si pensi che è proprio del gatto il muoversi piano piano, quatto quatto, silenziosamente.
A margine ricorderò che in napoletano esiste anche la voce muchiosurdo che non indica come si potrebbe erroneamente pensare (e qualcuno lo pensa!...) il sordomuto, ma viene riferita a persona che agisca furbescamente, con circospezione e fare sornione (tal quale un gatto che ad abundantiam, si avvalga di una eventuale... sordità per tenere un comportamento coperto e dissimulato).
ruglio-ruglio = mogio mogio, piano piano,ovvero lentamente, quasi contando i passi, come chi sia pieno, zeppo, stipato di cibo e dunque sia costretto a muoversi lentamente, mogio mogio. Vale la pena di ricordare che l’espressione ruglio ruglio, nella sua reiterazione dell’aggettivo di grado positivo ne sostanzia il superlativo che, al solito, in napoletano non à la forma del suffisso in issimo, ma usa reiterare l’aggettivo di grado positivo come avviene p. es. con chiatto chiatto o luongo luongo o ancora curto curto che rispettivamente stanno per grassissimo,altissimo (o lunghissimo), bassissimo etc. e dunque ruglio ruglio sta per pienissimo, ma vale la loc. avv.le piano piano, lentamente; etimologicamente la parola ruglio è un chiaro deverbale forgiato sul verbo latino: turgulare frequentativo di turgere: inturgidire;
E, a mo’ di completamento rammenterò che sia in calabrese che in napoletano d’antan esiste il verbo ‘ntrugliare = ingrossare forgiato ugualmente sui verbi latini di cui sopra.
sciacquo-sciacquo = lento lento, molle molle, senza vigore o decisione; locuzione formata con l’iterazione dell’aggettivo sciacquo aggettivo che deverbale di sciacquà= sciacquare (dal tardo lat. (e)xacquare per il classico (e)xaquare è usato per significareimpotenza, difettosità come nel caso che riferito ad es. ad un uovo non del tutto sviluppato, ne indica la incompletezza e dunque sia un uovo lento, molle e senza vigore; alla medesima stregua l’aggettivo sciacquo riferito ad un uomo lo significa difettoso, impotente, privo di vigore tal quale un vino allungato con troppa acqua, e come tale costretto ad un’azione lenta, molle, senza vigore e/o decisione.
sòpio-sòpio o anche sòpia-sòpia = lentissimamente, senza vigore, con indecisione, circospettamente ; locuzione formata con l’iterazione dell’aggettivo sòpio aggettivo che nella locuzione è usato anche declinato al femminile (forse perché la mancanza di vigore, l’indecisione, la circospezione sono di quasi esclusiva pertinenza femminile...) etimologicamente la voce sòpio è da ricondursi ad un olandese so(m)pe che però puó forsi collegarsi ad un tardo latino zoppus= zoppo; la zoppÍa spiegherebbe semantimente un’andatura lentissima, senza vigore, indecisa e circospetta quella indicata con la locuzione sòpio-sòpio o anche sòpia-sòpia.
raffaele bracale 27/02/08
La locuzione avverbiale italiana in epigrafe lemme lemme è usata nel significato di pian piano, con molta flemma, quasi con circospezione (spec. riferito ad andatura): camminare, avviarsi lemme lemme;estensivamente vale: tranquillamente, senza scosse.
Per ciò che riguarda l’etimo la scuola di pensiero piú seguíta vi vede alla base un lat. (sol)lemne(m) 'solenne' con aferesi della sillaba d’avvio ed assimilazione progressiva mn>mm, etimo spiegato semanticamente col fatto che un’andatura solenne quale quella degli ecclesiasti durante le funzioni religiose, è un’ andatura lenta, a passi misurati, quasi circospetta.
A mio avviso invece penso che l’etimo di l’italiano lemme lemme si possa piú opportunamente ricondurre, sia morfologicamente che semanticamente, ad un antico tedesco lam>lahme= zoppo, storpio la cui andatura claudicante richiama il piano, piano, con molta flemma, quasi con circospezione che son nel significato della loc. avv.le in epigrafe.
E passiamo ai modi partenopei di rendere il lemme lemme dell’italiano dell’epigrafe.
Abbiamo:
1) cuóveto - cuóveto
2) cuccio – cuccio
3) gnèmme-gnèmme
4) muchio-muchio
5) ruglio-ruglio
6) sciacquo-sciacquo
7) sòpio-sòpio.
Tutte le locuzioni avv.li napoletane sono formate con l’iterazione di un aggettivo di grado positivo, iterazione che di solito serve a formare il superlativo di un aggettivo. Esaminiamo le singole locuzioni:
- cuóveto – cuóveto = tranquillamente, silenziosamente (per prudenza, paura etc.,chiotto chiotto); locuzione formata con l’iterazione dell’aggettivo cuóveto che di per sé quale part. pass. di cogliere( dal lat. colligere, comp. di cum 'con' e legere 'raccogliere') varrebbe còlto, colpito, preso alla sprovvista e perciò costretto a comportamento tranquillo, silenzioso, prudente e timoroso.
- cuccio – cuccio = umilmente, dimessamente, con circospezione;
locuzione formata con l’iterazione dell’aggettivo cuccio che di per sé quale deverbale di cuccià vale umile, tranquillo, tal quale un cane che una volta che sia entrato nella sua cuccia (deverbale del francese coucher= mettersi a letto) si cheta e si mette tranquillo.
- gnèmme-gnèmme = con estrema lentezza, con circospezione esagerata, ma anche con studiata leziosità quasi femminea; locuzione formata non con l’iterazione di un aggettivo, ma di una voce espressiva, marcata su l’aggettivo gnagnolla= lenta che à affinità con la voce lucchese gnègnora e la genovese gnagna tutte: la genovese, la lucchese e la napoletana da riferire allo spagnolo ñoño= lento, impacciato.
- muchio-muchio = mogio mogio, piano piano, quatto quatto, silenziosamente; locuzione il cui etimo è molto controverso, andando da una provenienza veneta però non meglio spiegata, ad una emiliana dove un muci(che è dal serbo-crato muci) vale zitto legato a muk= silenzio; atteso però che - a meno di clamorosi errori – non mi risultano frequentazioni partenopee con veneti o emiliani o serbo-croati, frequentazioni tali da generare derivazioni linguistiche, preferisco collegare la locuzione a margine alla voce mucio = gatto che risente dell’influenza dello spagnolo mucho collegamento che spiegherebbe anche in chiave semantica la locuzione ove si pensi che è proprio del gatto il muoversi piano piano, quatto quatto, silenziosamente.
A margine ricorderò che in napoletano esiste anche la voce muchiosurdo che non indica come si potrebbe erroneamente pensare (e qualcuno lo pensa!...) il sordomuto, ma viene riferita a persona che agisca furbescamente, con circospezione e fare sornione (tal quale un gatto che ad abundantiam, si avvalga di una eventuale... sordità per tenere un comportamento coperto e dissimulato).
ruglio-ruglio = mogio mogio, piano piano,ovvero lentamente, quasi contando i passi, come chi sia pieno, zeppo, stipato di cibo e dunque sia costretto a muoversi lentamente, mogio mogio. Vale la pena di ricordare che l’espressione ruglio ruglio, nella sua reiterazione dell’aggettivo di grado positivo ne sostanzia il superlativo che, al solito, in napoletano non à la forma del suffisso in issimo, ma usa reiterare l’aggettivo di grado positivo come avviene p. es. con chiatto chiatto o luongo luongo o ancora curto curto che rispettivamente stanno per grassissimo,altissimo (o lunghissimo), bassissimo etc. e dunque ruglio ruglio sta per pienissimo, ma vale la loc. avv.le piano piano, lentamente; etimologicamente la parola ruglio è un chiaro deverbale forgiato sul verbo latino: turgulare frequentativo di turgere: inturgidire;
E, a mo’ di completamento rammenterò che sia in calabrese che in napoletano d’antan esiste il verbo ‘ntrugliare = ingrossare forgiato ugualmente sui verbi latini di cui sopra.
sciacquo-sciacquo = lento lento, molle molle, senza vigore o decisione; locuzione formata con l’iterazione dell’aggettivo sciacquo aggettivo che deverbale di sciacquà= sciacquare (dal tardo lat. (e)xacquare per il classico (e)xaquare è usato per significareimpotenza, difettosità come nel caso che riferito ad es. ad un uovo non del tutto sviluppato, ne indica la incompletezza e dunque sia un uovo lento, molle e senza vigore; alla medesima stregua l’aggettivo sciacquo riferito ad un uomo lo significa difettoso, impotente, privo di vigore tal quale un vino allungato con troppa acqua, e come tale costretto ad un’azione lenta, molle, senza vigore e/o decisione.
sòpio-sòpio o anche sòpia-sòpia = lentissimamente, senza vigore, con indecisione, circospettamente ; locuzione formata con l’iterazione dell’aggettivo sòpio aggettivo che nella locuzione è usato anche declinato al femminile (forse perché la mancanza di vigore, l’indecisione, la circospezione sono di quasi esclusiva pertinenza femminile...) etimologicamente la voce sòpio è da ricondursi ad un olandese so(m)pe che però puó forsi collegarsi ad un tardo latino zoppus= zoppo; la zoppÍa spiegherebbe semantimente un’andatura lentissima, senza vigore, indecisa e circospetta quella indicata con la locuzione sòpio-sòpio o anche sòpia-sòpia.
raffaele bracale 27/02/08
martedì 26 febbraio 2008
STRELLAZZÈRA
STRELLAZZÈRA
Numerose son le aggettivazioni che la lingua toscana usa per indicare il tipo di donna che susciti ripugnanza o anche solo fastidio per i suoi atteggiamenti o comportamenti non consoni, che volta a volta è chiamata: becera, ciana,triviale, cafona, laida, zotica, urlona etc.
Esamino qui di seguito le singole espressioni:
Becera: persona, ma soprattutto donna dai modi volgari e/o triviali, chiassosa, maleducata ed insolente brutta e sciatta; voce probabilmente alterata di pècoro (dal lat. pecus), ma forse più esattamente forgiata sul lat. vocilare atteso il comportamento chiassoso della becera.
Ciana: donna del popolo pettegola e sguaiata, donna vile e malcreata dell’infima plebe fiorentina; alcuni ritengon la voce forma alterata di cionna(appunto donna vile e plebea) che a sua volta è corruzione di cionca p.p. del verbo cioncare nel senso di bere smodatamente ubriacandosi con conseguenti atteggiamenti non consoni; altri la riallacciano, ma non so con quanta esattezza allo spagnolo chanela (pianella); reputo che molto più verosimilmente la voce sia solo l’abbreviazione del nome Luciana da legare al nome della protagonista, plebea pettegola e ciarliera, del melodramma Madama Ciana
( appunto abbreviazione di Luciana) di un tal A. Valle (1738);
salto il termine cafona che già illustrai altrove e passo a
Laida: donna atta a suscitar ribrezzo e fastidio e più estensivamente: oscena, sporca, turpe e ripugnante; voce etimologicamente derivante
dal provenz. ant. laid 'sgradevole', di orig. Francona;
Zotica: donna rozza e villana dai modi esuberantemente arruffoni; voce forse dal greco zo- tikòs: pieno di vita, ma più probabilmente dal lat.:ex-oticus: forestiero e quindi ignaro dei giusti usi e costumi di un luogo.
Tutte queste voci, in napoletano vengon rese con un unico termine(un aggettivo, usato però quasi sempre in maniera sostantivata) che racchiude in sé tutte quante le varie accezioni esaminate; esso termine è Strellazzèra che è appunto la donna becera, ciana, zotica e villana quando non laida che fa dell’urlare e del proporsi chiassosamente la sua costante divisa; pacifica la sua etimologia in quanto deverbale forgiato sul b. latino:stridulare (dal classico stridulus) con aggiunta d’un suffisso peggiorativo: era.
Talvolta la voce strellazzèra, in luogo d’essere usata quale aggettivo sostantivato, riprende la sua originaria funzione d’aggettivo in accompagnamento – per designare un po’ tutte le evenienze summenzionate – con il sostantivo vajassa che sta in origine ad indicare la fantesca, la serva ed estensivamente la donna di bassa condizione sociale e quindi vile e plebea, se non rozza, villana, dai modi ineducati; ed a maggior ragione quando la vajassa sia anche strellazzèra.
Etimologicamente il termine vajassa è dalla voce araba baassa pervenutoci attraverso il francese bajasse: fantesca, donna rozza e un po’ sporca, ed estensivamente donna del popolo villana e gridanciana.
Per incidens rammenterò che dalle medesime voci arabo-francesi, il toscano à tratto il termine bagascia nel significato di meretrice, significato presente anche nel napoletano nell’espressione: essere ‘na vajassa d’’o rre ‘e Francia e cioè: esser fantesca del re di Francia, id est: meretrice contaminata dalla sifilide o tabe, rammentando che tale affezione venerea fu detta dai napoletani mal francese (ritenendosi malattia trasmessa ai napoletani, attraverso le meretrici locali, dai soldati francesi di Carlo VIII (1470 - 1498), mentre per converso, in Francia fu malattia detta mal di Napoli). Raffaele Bracale
Numerose son le aggettivazioni che la lingua toscana usa per indicare il tipo di donna che susciti ripugnanza o anche solo fastidio per i suoi atteggiamenti o comportamenti non consoni, che volta a volta è chiamata: becera, ciana,triviale, cafona, laida, zotica, urlona etc.
Esamino qui di seguito le singole espressioni:
Becera: persona, ma soprattutto donna dai modi volgari e/o triviali, chiassosa, maleducata ed insolente brutta e sciatta; voce probabilmente alterata di pècoro (dal lat. pecus), ma forse più esattamente forgiata sul lat. vocilare atteso il comportamento chiassoso della becera.
Ciana: donna del popolo pettegola e sguaiata, donna vile e malcreata dell’infima plebe fiorentina; alcuni ritengon la voce forma alterata di cionna(appunto donna vile e plebea) che a sua volta è corruzione di cionca p.p. del verbo cioncare nel senso di bere smodatamente ubriacandosi con conseguenti atteggiamenti non consoni; altri la riallacciano, ma non so con quanta esattezza allo spagnolo chanela (pianella); reputo che molto più verosimilmente la voce sia solo l’abbreviazione del nome Luciana da legare al nome della protagonista, plebea pettegola e ciarliera, del melodramma Madama Ciana
( appunto abbreviazione di Luciana) di un tal A. Valle (1738);
salto il termine cafona che già illustrai altrove e passo a
Laida: donna atta a suscitar ribrezzo e fastidio e più estensivamente: oscena, sporca, turpe e ripugnante; voce etimologicamente derivante
dal provenz. ant. laid 'sgradevole', di orig. Francona;
Zotica: donna rozza e villana dai modi esuberantemente arruffoni; voce forse dal greco zo- tikòs: pieno di vita, ma più probabilmente dal lat.:ex-oticus: forestiero e quindi ignaro dei giusti usi e costumi di un luogo.
Tutte queste voci, in napoletano vengon rese con un unico termine(un aggettivo, usato però quasi sempre in maniera sostantivata) che racchiude in sé tutte quante le varie accezioni esaminate; esso termine è Strellazzèra che è appunto la donna becera, ciana, zotica e villana quando non laida che fa dell’urlare e del proporsi chiassosamente la sua costante divisa; pacifica la sua etimologia in quanto deverbale forgiato sul b. latino:stridulare (dal classico stridulus) con aggiunta d’un suffisso peggiorativo: era.
Talvolta la voce strellazzèra, in luogo d’essere usata quale aggettivo sostantivato, riprende la sua originaria funzione d’aggettivo in accompagnamento – per designare un po’ tutte le evenienze summenzionate – con il sostantivo vajassa che sta in origine ad indicare la fantesca, la serva ed estensivamente la donna di bassa condizione sociale e quindi vile e plebea, se non rozza, villana, dai modi ineducati; ed a maggior ragione quando la vajassa sia anche strellazzèra.
Etimologicamente il termine vajassa è dalla voce araba baassa pervenutoci attraverso il francese bajasse: fantesca, donna rozza e un po’ sporca, ed estensivamente donna del popolo villana e gridanciana.
Per incidens rammenterò che dalle medesime voci arabo-francesi, il toscano à tratto il termine bagascia nel significato di meretrice, significato presente anche nel napoletano nell’espressione: essere ‘na vajassa d’’o rre ‘e Francia e cioè: esser fantesca del re di Francia, id est: meretrice contaminata dalla sifilide o tabe, rammentando che tale affezione venerea fu detta dai napoletani mal francese (ritenendosi malattia trasmessa ai napoletani, attraverso le meretrici locali, dai soldati francesi di Carlo VIII (1470 - 1498), mentre per converso, in Francia fu malattia detta mal di Napoli). Raffaele Bracale
CIENTO MESURE E UNU TAGLIO
Fà ciento mesure e unu taglio.
Ad litteram: fare cento misurazioni ed un sol taglio; id est: fare numerosi e forse eccessivi atti preparatori, prima di disporsi all’azione. Caustica espressione ricavata dall’osservazione del comportamento dei sarti che per non sciupare con un errato taglio della costosa stoffa, son soliti misurarla piú e piú volte ed attentamente, segnando con il gesso gli esatti contorni dei pezzi dell’abito in lavorazione, prima di intervenire con le forbici; cosí son parimenti soliti comportarsi i timorosi e gli indecisi che prima di agire, preparano e provano i proprî comportamenti , nella - ma il piú delle volte vana ed errata - convinzione di non lasciarsi cogliere sprovvisti ed impreparati nelle evenienze che li occupino.
- mesura= misura, misurazione: rapporto fra una grandezza e un'altra a essa omogenea, scelta convenzionalmente come unità (dal lat. mensura(m), deriv. di mínsus, part. pass. di metiri 'misurare'con tipica sincope della n come in mese che è da mi(n)sem);
- taglio = taglio: l’operazione ed il risultato del tagliare cioè del fendere, dividere un oggetto o un corpo in piú parti o pezzi per mezzo di una lama o di un altro strumento affilato; etimologicamente la parola taglio, sia in italiano che nel napoletano risulta essere un deverbale dal tardo lat. taliare, deriv. del class. talea 'piantone, bastoncino'; la voce taglio, in napoletano à piú numerose accezioni rispetto a quella italiana indicate a margine; in napoletano taglio può indicare, volta a volta: parte di un pezzo di carne, sponda laterale di letto,ferita inferta con il coltello o lama di altra arma bianca, metraggio completo di stoffa per confezionare abiti.
Rammento ora alcune espressioni nelle quali viene usata la voce taglio con alcune particolari accezioni ora ora rammentate, o nuove:
avé o capità a ttaglio: prendere o trovare qualcuno o qualcosa a portata di mano;
t’aggi’ ‘a avé a ttaglio: ad litteram: devo averti a portata di mano o tra le mani; espressione minacciosa usata da chi voglia fare intendere a qualcuno di avere in animo di pesantemente percuoterlo, se solo potrà incontrarlo o, addirittura, afferrare;
tené ‘nu bbuono taglio: detto di sarto valente che confezioni abiti, specie per uomini, di buona, anzi ottima fattura;
pesce ‘e taglio: detto di pesce abbastanza grosso tale da doversi cucinare e consumarsi, non intero, ma tagliato in tranci;
‘o primmo taglio: il miglior pezzo di qualcosa, detto soprattutto della carne: ‘o primmo taglio ‘e carne; si usa anche in senso traslato e furbesco ( es.: ‘o primmo taglio ‘e tutt’’e malandrine per indicare il peggiore tra tutti i cattivi soggetti;)
malandrino= persona malvagia, priva di scrupoli dai modi spavaldi ed aggressivi;etimo:forse composto di malo e *landrino, affine all'ant. landrone 'mascalzone'(persona capace di azioni spregevoli o disoneste con etimo forse per alterazione di manescalco = garzone di stalla); landrino/landrone son derivati del medio alto ted. landern 'vagabondare,) ma, a mio avviso , non dovrebbe poter loro essere estraneo un connubio latino- greco malus (cattivo) ed aner-andros (uomo), ma si tratta solo di un’ipotesi non supportata; RaffaeleBracale
Ad litteram: fare cento misurazioni ed un sol taglio; id est: fare numerosi e forse eccessivi atti preparatori, prima di disporsi all’azione. Caustica espressione ricavata dall’osservazione del comportamento dei sarti che per non sciupare con un errato taglio della costosa stoffa, son soliti misurarla piú e piú volte ed attentamente, segnando con il gesso gli esatti contorni dei pezzi dell’abito in lavorazione, prima di intervenire con le forbici; cosí son parimenti soliti comportarsi i timorosi e gli indecisi che prima di agire, preparano e provano i proprî comportamenti , nella - ma il piú delle volte vana ed errata - convinzione di non lasciarsi cogliere sprovvisti ed impreparati nelle evenienze che li occupino.
- mesura= misura, misurazione: rapporto fra una grandezza e un'altra a essa omogenea, scelta convenzionalmente come unità (dal lat. mensura(m), deriv. di mínsus, part. pass. di metiri 'misurare'con tipica sincope della n come in mese che è da mi(n)sem);
- taglio = taglio: l’operazione ed il risultato del tagliare cioè del fendere, dividere un oggetto o un corpo in piú parti o pezzi per mezzo di una lama o di un altro strumento affilato; etimologicamente la parola taglio, sia in italiano che nel napoletano risulta essere un deverbale dal tardo lat. taliare, deriv. del class. talea 'piantone, bastoncino'; la voce taglio, in napoletano à piú numerose accezioni rispetto a quella italiana indicate a margine; in napoletano taglio può indicare, volta a volta: parte di un pezzo di carne, sponda laterale di letto,ferita inferta con il coltello o lama di altra arma bianca, metraggio completo di stoffa per confezionare abiti.
Rammento ora alcune espressioni nelle quali viene usata la voce taglio con alcune particolari accezioni ora ora rammentate, o nuove:
avé o capità a ttaglio: prendere o trovare qualcuno o qualcosa a portata di mano;
t’aggi’ ‘a avé a ttaglio: ad litteram: devo averti a portata di mano o tra le mani; espressione minacciosa usata da chi voglia fare intendere a qualcuno di avere in animo di pesantemente percuoterlo, se solo potrà incontrarlo o, addirittura, afferrare;
tené ‘nu bbuono taglio: detto di sarto valente che confezioni abiti, specie per uomini, di buona, anzi ottima fattura;
pesce ‘e taglio: detto di pesce abbastanza grosso tale da doversi cucinare e consumarsi, non intero, ma tagliato in tranci;
‘o primmo taglio: il miglior pezzo di qualcosa, detto soprattutto della carne: ‘o primmo taglio ‘e carne; si usa anche in senso traslato e furbesco ( es.: ‘o primmo taglio ‘e tutt’’e malandrine per indicare il peggiore tra tutti i cattivi soggetti;)
malandrino= persona malvagia, priva di scrupoli dai modi spavaldi ed aggressivi;etimo:forse composto di malo e *landrino, affine all'ant. landrone 'mascalzone'(persona capace di azioni spregevoli o disoneste con etimo forse per alterazione di manescalco = garzone di stalla); landrino/landrone son derivati del medio alto ted. landern 'vagabondare,) ma, a mio avviso , non dovrebbe poter loro essere estraneo un connubio latino- greco malus (cattivo) ed aner-andros (uomo), ma si tratta solo di un’ipotesi non supportata; RaffaeleBracale
USCIOLA/VUSCIOLA
ÚSCIOLA o VÚSCIOLA e dintorni
In lingua napoletana con alternativamente le parole úsciola o vúsciola,con derivazione - per ambedue- dal basso latino búxula forgiata su buxus(bosso il legno da cui si ricavavano le scatole o i vasi ch’erano- in origine - appunto le buxulǽ), si traduce il toscano bússola che à il medesimo etimo; le parole napoletane però, a differenza di quella italiana che indica solo l’oggetto che qui in appresso elenco sub a) o, tutt’al piú, un paravento fisso, di legno o altro materiale, munito di porta, che crea uno spazio intermedio oltre la normale porta d'ingresso, spec. nei locali pubblici, per riparare dalle correnti d'aria, o anche le porte interne che dividono gli ambienti di un appartamento, porte che ànno forma di scatola con due usci l’uno opposto all’altro e spazio intermedio, rivestito di legno, indicano piú oggetti:a) la bussola e cioè lo strumento che l’amalfitano Flavio Gioia mutuò, perfezionandolo, dai naviganti arabi, strumento costituito appunto da una piccola scatola in cui è collocato un ago magnetico che, orizzontandosi sempre al nord, è di ausilio, in luogo della stella polare, a tutti i naviganti; b) ogni urna, ma per lo piú lignea, atta a contenere i piú disparati oggetti dalle schede elettorali,alle elemosine; tra queste urne si annovera soprattutto quella piccola a forma di parallelepipedo, sulla cui faccia superiore v’è incisa una piccola feritoia, mentre alla faccia maggiore posteriore è avvitata una maniglietta per il trasporto; tale piccola urna un tempo veniva usata dai c.d. monaci cercanti per raccogliere in giro, specie nei quartieri popolari della città vecchia, elemosine in cambio di immaginette sacre; c) quel sacchetto di tela, munito sulla bocca di un piattello metallico con feritoia centrale, circondato di un anello pur’esso metallico con cui è fissato ad un’asta lignea, sacchetto usato in sostituzione della primordiale guantiera e cioè il vassoietto usato per raccoglier le offerte dei fedeli durante le celebrazioni liturgiche: poiché usando il vassoietto o la primitiva úsciola lignea a forma di parallelepipedo, il sacrista o chi fosse, per raccoglier le offerte doveva accostarsi molto all’offerente e spesso ciò era impossibile, si escogitò quest’urna di stoffa montata in cima ad una pertica con la quale era possibile operare la questua tenendosi ad adeguata distanza.
Ciò detto, rammenterò una espressione idiomatica usata spesso nel fiorito discorrere partenopeo; essa è: S’è ‘mbriacata ‘a úsciola! L’espressione, che ad litteram andrebbe tradotta: S’è ubriacata la bussola! , piú chiaramente e fuor de ‘l velame de li versi strani sta per:si è complicata la faccenda, il fatto non è piú chiaro, viene usata a dispiaciuto, dolente commento di quelle situazioni che, per ignavia, cattiva volontà di qualcuno dei partecipanti, si siano complicate e minaccino di non risolversi positivamente; va da sé che l’espressione idiomatica si possa usare sia considerando la úsciola quale strumento dei naviganti, sia considerandola quale urna delle offerte; infatti, chiarito che ‘mbriacata non è da intendersi in senso reale di ubriacatura da alcool, ma in quello estensivo di sconvolto, stravolto, irrazionale, tal quale è chi è in preda ai fumi del vino o altre bevande alcooliche, è facile comprendere che una bussola dei naviganti se a causa di una tempesta magnetica o altro perde la sua capacità di indicare il nord, diventa inutile ed inservibile almeno momentaneamente; come l’urna delle offerte che si ubriacasse, ossia si rovesciasse non sarebbe piú atta a contener le offerte ed occorrerebbe ridarle la primitiva forma se la si volesse continuare ad usare.
RaffaeleBracale
In lingua napoletana con alternativamente le parole úsciola o vúsciola,con derivazione - per ambedue- dal basso latino búxula forgiata su buxus(bosso il legno da cui si ricavavano le scatole o i vasi ch’erano- in origine - appunto le buxulǽ), si traduce il toscano bússola che à il medesimo etimo; le parole napoletane però, a differenza di quella italiana che indica solo l’oggetto che qui in appresso elenco sub a) o, tutt’al piú, un paravento fisso, di legno o altro materiale, munito di porta, che crea uno spazio intermedio oltre la normale porta d'ingresso, spec. nei locali pubblici, per riparare dalle correnti d'aria, o anche le porte interne che dividono gli ambienti di un appartamento, porte che ànno forma di scatola con due usci l’uno opposto all’altro e spazio intermedio, rivestito di legno, indicano piú oggetti:a) la bussola e cioè lo strumento che l’amalfitano Flavio Gioia mutuò, perfezionandolo, dai naviganti arabi, strumento costituito appunto da una piccola scatola in cui è collocato un ago magnetico che, orizzontandosi sempre al nord, è di ausilio, in luogo della stella polare, a tutti i naviganti; b) ogni urna, ma per lo piú lignea, atta a contenere i piú disparati oggetti dalle schede elettorali,alle elemosine; tra queste urne si annovera soprattutto quella piccola a forma di parallelepipedo, sulla cui faccia superiore v’è incisa una piccola feritoia, mentre alla faccia maggiore posteriore è avvitata una maniglietta per il trasporto; tale piccola urna un tempo veniva usata dai c.d. monaci cercanti per raccogliere in giro, specie nei quartieri popolari della città vecchia, elemosine in cambio di immaginette sacre; c) quel sacchetto di tela, munito sulla bocca di un piattello metallico con feritoia centrale, circondato di un anello pur’esso metallico con cui è fissato ad un’asta lignea, sacchetto usato in sostituzione della primordiale guantiera e cioè il vassoietto usato per raccoglier le offerte dei fedeli durante le celebrazioni liturgiche: poiché usando il vassoietto o la primitiva úsciola lignea a forma di parallelepipedo, il sacrista o chi fosse, per raccoglier le offerte doveva accostarsi molto all’offerente e spesso ciò era impossibile, si escogitò quest’urna di stoffa montata in cima ad una pertica con la quale era possibile operare la questua tenendosi ad adeguata distanza.
Ciò detto, rammenterò una espressione idiomatica usata spesso nel fiorito discorrere partenopeo; essa è: S’è ‘mbriacata ‘a úsciola! L’espressione, che ad litteram andrebbe tradotta: S’è ubriacata la bussola! , piú chiaramente e fuor de ‘l velame de li versi strani sta per:si è complicata la faccenda, il fatto non è piú chiaro, viene usata a dispiaciuto, dolente commento di quelle situazioni che, per ignavia, cattiva volontà di qualcuno dei partecipanti, si siano complicate e minaccino di non risolversi positivamente; va da sé che l’espressione idiomatica si possa usare sia considerando la úsciola quale strumento dei naviganti, sia considerandola quale urna delle offerte; infatti, chiarito che ‘mbriacata non è da intendersi in senso reale di ubriacatura da alcool, ma in quello estensivo di sconvolto, stravolto, irrazionale, tal quale è chi è in preda ai fumi del vino o altre bevande alcooliche, è facile comprendere che una bussola dei naviganti se a causa di una tempesta magnetica o altro perde la sua capacità di indicare il nord, diventa inutile ed inservibile almeno momentaneamente; come l’urna delle offerte che si ubriacasse, ossia si rovesciasse non sarebbe piú atta a contener le offerte ed occorrerebbe ridarle la primitiva forma se la si volesse continuare ad usare.
RaffaeleBracale
lunedì 25 febbraio 2008
PAGLIOCCA - PAGLIOCCOLA
PAGLIOCCA – PAGLIOCCOLA
Nel lessico domestico degli anni intorno al 1950 i termini in epigrafe risuonavano spesso in ogni cucina napoletana ove si approntasse una polentina o – piú spesso – una crema pasticciera se non un sacramentale sanguinaccio carnevalesco e si paventasse il pericolo che nel confezionamento si formassero dei grumi sferici detti alternativamente pagliocche o paglioccole, grumi che compromettevano definitavamente la preparazione culinaria, per cui spesso si poteva udire la piú esperta donna, rivolgersi alle meno esperte donne di casa cui fosse stato demandato di seguire le fasi di cottura e raccomandar loro: “Stateve accorte a nun fà fà paglioccole” e cioè:”State attente a non far formar grumi”
Etimologicamente, trattandosi di grumi sferici, penso che i due termini prendano l’avvio dalla parola palla con successiva trasformazione di ll in gli(come ad es. Cogliere da collegere) + il suffisso dispregiativo occo/occa o il diminutivo occola.
È da notare come in regioni limitrofe e/o prossime come Lazio e Marche i medesimi grumi sono indicati con il termine pallocche o con il diminutivo pallocchette; per traslato con il termine pallocca o pallocchetta è indicata una giovane donna piuttosto paffuta e formosa, mentre a Napoli tale ragazza si indicherebbe con il più tranquillo diminutivo vezzeggiativo: palluccella.
Raffaele Bracale
Nel lessico domestico degli anni intorno al 1950 i termini in epigrafe risuonavano spesso in ogni cucina napoletana ove si approntasse una polentina o – piú spesso – una crema pasticciera se non un sacramentale sanguinaccio carnevalesco e si paventasse il pericolo che nel confezionamento si formassero dei grumi sferici detti alternativamente pagliocche o paglioccole, grumi che compromettevano definitavamente la preparazione culinaria, per cui spesso si poteva udire la piú esperta donna, rivolgersi alle meno esperte donne di casa cui fosse stato demandato di seguire le fasi di cottura e raccomandar loro: “Stateve accorte a nun fà fà paglioccole” e cioè:”State attente a non far formar grumi”
Etimologicamente, trattandosi di grumi sferici, penso che i due termini prendano l’avvio dalla parola palla con successiva trasformazione di ll in gli(come ad es. Cogliere da collegere) + il suffisso dispregiativo occo/occa o il diminutivo occola.
È da notare come in regioni limitrofe e/o prossime come Lazio e Marche i medesimi grumi sono indicati con il termine pallocche o con il diminutivo pallocchette; per traslato con il termine pallocca o pallocchetta è indicata una giovane donna piuttosto paffuta e formosa, mentre a Napoli tale ragazza si indicherebbe con il più tranquillo diminutivo vezzeggiativo: palluccella.
Raffaele Bracale
IMBRANATO
Il termine imbranato
Il termine imbranato è voce che pur presente nel dizionario della lingua italiana, è essenzialmente dialettale, usata spessissimo nel linguaggio giovanile e rende in italiano gli omologhi impacciato, goffo, maldestro ed estensivamente sciocco, stupido; tale voce pare proprio, secondo la maggioranza dei lessicografi, che sia pervenuto nei calepini della lingua italiana partendo da un voce verbale del dialetto veneto: imbrenà 'imbrigliare ' (da brena 'briglia'); quindi 'impacciato';
la lingua napoletana per indicare chi sia impacciato, goffo, maldestro ed estensivamente sciocco, stupido non usa la voce ‘mbranato voce aferetica di imbranato; ed in effetti tale eventuale ‘mbranato non è riportato in nessun dizionario della lingua napoletana né antico, né moderno; il napoletano per significare tutto quanto qui indicato: impacciato, goffo, maldestro ed estensivamente sciocco, stupido à tre o quattro termini particolari, ognuno con la sua esatta, particolare destinazione d’uso; essi sono:
1) gnogno sost. masch.le che indica esattamente lo stupido e cioè lo stupíto, l’attonito, lo sbalordito che abbia perciò un comportamento maldestro; l’etimo della voce a margine è dalla spagnolo ñoño di medesimo significato;
2) scuonceco = dal fisico sconciato, guastato, disfatto sost. masch.le che indica esattamente il goffo, il maldestro a causa di carenze fisiche che gli impediscono un comportamento lineare;l’etimo è dal basso lat. *exconciare;
3) zaffio/zaffo= rozzo, impacciato ed estensivamente anche zotico, villano fino ad arrivare a violento, sbirro sost. masch.le che indica esattamente il goffo, il maldestro, di limitate capacità intellettive cui sopperisce con la villanía e la violenza; l’etimo è probabilmente da ricercare nell’arabo sāyf. o piú probabilmente nell’iberico zafio.
Infine talvolta per indicare un imbambolato, sciocco, inesperto e credulone si usa un aggettivo, spesso sostantivato e cioè 4) zallo
che appunto è lo sciocco,l’inesperto,il maldestro credulone in ispecie se anche innamorato di una donna di piccola virtú;
per quanto riguarda la voce zallo penso che essa sia o possa essere corruzione di tallo (che è dal lat. thallus, forgiato sul greco tallòs; di per sé il tallo è il germoglio, la talea, la giovane foglia tenera , il virgulto che semanticamente ben potrebbe, per traslato, indicare con la sua tenera inconsistenza, la accondiscendenza credula dell’inesperto zallo;
tuttavia mi sento di poter formulare anche un’altra ipotesi per la voce zallo ipotesi che espongo qui di sèguito.
Atteso che con il termine zallo (aggettivo sostantivato) in lingua napoletana si intese ed ancóra si intende il babbeo, l’allocco, lo stupido credulone, occorre rammentare che le medesime accezioni le à la voce zanno che ripete in napoletano il termine italiano zanni equivalente di Giovanni famoso personaggio della commedia cinquecentesca bergamasca dove lo zanni/Giovanni era il servo sciocco e credulone; di talché non è azzardato ipotizzare una rilettura popolare di zanno diventato zallo con sostituzione (magari a dispetto di qualche norma che presiede la linguistica!) delle nasali nn con le piú comode ll.
Ultimissima ipotesi è che zallo (=babbeo, allocco, stupido credulone) usato spessissimo in riferimento (cfr. R. Viviani) ad un graduato tutore della legge, ad uno sbirro intesi sempre sciocchi, stupidi e creduloni (ibidem: ‘o zallo s’ammocca= lo sciocco prende per buona… una fandonia ), possa essere corruzione di comodo di un originario zaffio o zaffo che con derivazione dall’iberico zafio vale uomo violento, sbirro come già detto.
Da zaffo a zallo il passo non è lungo, come potrebbe non esserlo (con buona pace dei linguisti) quello da zanno a zallo!
raffaele bracale
Il termine imbranato è voce che pur presente nel dizionario della lingua italiana, è essenzialmente dialettale, usata spessissimo nel linguaggio giovanile e rende in italiano gli omologhi impacciato, goffo, maldestro ed estensivamente sciocco, stupido; tale voce pare proprio, secondo la maggioranza dei lessicografi, che sia pervenuto nei calepini della lingua italiana partendo da un voce verbale del dialetto veneto: imbrenà 'imbrigliare ' (da brena 'briglia'); quindi 'impacciato';
la lingua napoletana per indicare chi sia impacciato, goffo, maldestro ed estensivamente sciocco, stupido non usa la voce ‘mbranato voce aferetica di imbranato; ed in effetti tale eventuale ‘mbranato non è riportato in nessun dizionario della lingua napoletana né antico, né moderno; il napoletano per significare tutto quanto qui indicato: impacciato, goffo, maldestro ed estensivamente sciocco, stupido à tre o quattro termini particolari, ognuno con la sua esatta, particolare destinazione d’uso; essi sono:
1) gnogno sost. masch.le che indica esattamente lo stupido e cioè lo stupíto, l’attonito, lo sbalordito che abbia perciò un comportamento maldestro; l’etimo della voce a margine è dalla spagnolo ñoño di medesimo significato;
2) scuonceco = dal fisico sconciato, guastato, disfatto sost. masch.le che indica esattamente il goffo, il maldestro a causa di carenze fisiche che gli impediscono un comportamento lineare;l’etimo è dal basso lat. *exconciare;
3) zaffio/zaffo= rozzo, impacciato ed estensivamente anche zotico, villano fino ad arrivare a violento, sbirro sost. masch.le che indica esattamente il goffo, il maldestro, di limitate capacità intellettive cui sopperisce con la villanía e la violenza; l’etimo è probabilmente da ricercare nell’arabo sāyf. o piú probabilmente nell’iberico zafio.
Infine talvolta per indicare un imbambolato, sciocco, inesperto e credulone si usa un aggettivo, spesso sostantivato e cioè 4) zallo
che appunto è lo sciocco,l’inesperto,il maldestro credulone in ispecie se anche innamorato di una donna di piccola virtú;
per quanto riguarda la voce zallo penso che essa sia o possa essere corruzione di tallo (che è dal lat. thallus, forgiato sul greco tallòs; di per sé il tallo è il germoglio, la talea, la giovane foglia tenera , il virgulto che semanticamente ben potrebbe, per traslato, indicare con la sua tenera inconsistenza, la accondiscendenza credula dell’inesperto zallo;
tuttavia mi sento di poter formulare anche un’altra ipotesi per la voce zallo ipotesi che espongo qui di sèguito.
Atteso che con il termine zallo (aggettivo sostantivato) in lingua napoletana si intese ed ancóra si intende il babbeo, l’allocco, lo stupido credulone, occorre rammentare che le medesime accezioni le à la voce zanno che ripete in napoletano il termine italiano zanni equivalente di Giovanni famoso personaggio della commedia cinquecentesca bergamasca dove lo zanni/Giovanni era il servo sciocco e credulone; di talché non è azzardato ipotizzare una rilettura popolare di zanno diventato zallo con sostituzione (magari a dispetto di qualche norma che presiede la linguistica!) delle nasali nn con le piú comode ll.
Ultimissima ipotesi è che zallo (=babbeo, allocco, stupido credulone) usato spessissimo in riferimento (cfr. R. Viviani) ad un graduato tutore della legge, ad uno sbirro intesi sempre sciocchi, stupidi e creduloni (ibidem: ‘o zallo s’ammocca= lo sciocco prende per buona… una fandonia ), possa essere corruzione di comodo di un originario zaffio o zaffo che con derivazione dall’iberico zafio vale uomo violento, sbirro come già detto.
Da zaffo a zallo il passo non è lungo, come potrebbe non esserlo (con buona pace dei linguisti) quello da zanno a zallo!
raffaele bracale
'O SCARPARO E 'O BANCARIELLO ETC.
'O scarparo e 'o bancariello: nun se sape chi à fatto 'o pireto Letteralmente: il calzolaio e il deschetto: non si sa chi à fatto il peto.
Icastica espressione che viene usata con intento chiaramente canzonatorio allorché in una situazione che non presterebbe il fianco a difficili interpretazioni, ci si trovi ad avere come contraddittore qualcuno che, non volendo riconoscere la propria responsabilità, mesta nel torbido per scaricare su altri la medesima, anche su chi - per legge di natura - è chiaramente impossibilitato a compiere ciò di cui si intende accusarlo come nel caso dell'espressione in epigrafe un deschetto che manca dello strumento necessario a produrre peti, per cui sarebbe sciocco addebitarli a lui in luogo del calzolaio, l’unico nella fattispecie provvisto dell’organo atto a produrre peti.
- scarparo = letteralmente è il fabbricante di scarpe, con etimo da un acc. tardo latino scarpariu(m) derivato di scarpa (che a sua volta è da un antico tedesco skarpa = tasca di pelle) addizionato del suff. di pertinenza arius>aro, ma in napoletano – per consuetudine – con la voce a margine s’indica non il fabbricante di carpe, ma il calzolaio, il ciabattino = colui che ripara scarpe; però costui piú acconciamente, in napoletano è detto: solachianiéllo (da sòla voce verbale di suolare + chianèlla = pianella e cioè scarpa bassa e piana (composto dal lat. planum; normale il passaggio di pl>chi);
- bancariello = letteralmente è un piccolo banco (con etimo dal longobardo bank); nella fattispecie è quello che viene detto in italiano deschetto che è il tavolino da lavoro del calzolaio; deschetto è il diminutivo di desco che è dal lat. discu(m) 'disco', per la forma circolare abituale della mensa che è il significato primo di desco;
pireto = peto sost. masch.le emissione rumorosa, ma non puzzolenta (vedi albi loffa= emissione non rumorosa, ma grandemente puzzolenta con etimo dal tedesco luft) di gas intestinali; l’etimo di pireto è dal lat. peditu(m) con tipica sostituzione osca-mediterranea della d con la r. Rammento che la lingua napoletana per indicare la medesima emissione rumorosa, ma non puzzolenta di gas intestinali, à anche una voce femminile marcata con consueti adattamenti metafonetici sul maschile pireto ed è la voce pereta benché quest’ultima voce sia piú usata in senso traslato riferita ad una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,ad una donna di malaffare o anche solo a chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale. Va da sé che una donna che le sue pessime qualità le strombazzi senza alcuna reticenza, si comporta ad un dipresso alla medesima stregua di un peto, manifestando rumorosamente la sua presenza e ben si può meritare con icastico, seppur crudo linguaggio, l’appellativo di pereta.
raffaele bracale
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Icastica espressione che viene usata con intento chiaramente canzonatorio allorché in una situazione che non presterebbe il fianco a difficili interpretazioni, ci si trovi ad avere come contraddittore qualcuno che, non volendo riconoscere la propria responsabilità, mesta nel torbido per scaricare su altri la medesima, anche su chi - per legge di natura - è chiaramente impossibilitato a compiere ciò di cui si intende accusarlo come nel caso dell'espressione in epigrafe un deschetto che manca dello strumento necessario a produrre peti, per cui sarebbe sciocco addebitarli a lui in luogo del calzolaio, l’unico nella fattispecie provvisto dell’organo atto a produrre peti.
- scarparo = letteralmente è il fabbricante di scarpe, con etimo da un acc. tardo latino scarpariu(m) derivato di scarpa (che a sua volta è da un antico tedesco skarpa = tasca di pelle) addizionato del suff. di pertinenza arius>aro, ma in napoletano – per consuetudine – con la voce a margine s’indica non il fabbricante di carpe, ma il calzolaio, il ciabattino = colui che ripara scarpe; però costui piú acconciamente, in napoletano è detto: solachianiéllo (da sòla voce verbale di suolare + chianèlla = pianella e cioè scarpa bassa e piana (composto dal lat. planum; normale il passaggio di pl>chi);
- bancariello = letteralmente è un piccolo banco (con etimo dal longobardo bank); nella fattispecie è quello che viene detto in italiano deschetto che è il tavolino da lavoro del calzolaio; deschetto è il diminutivo di desco che è dal lat. discu(m) 'disco', per la forma circolare abituale della mensa che è il significato primo di desco;
pireto = peto sost. masch.le emissione rumorosa, ma non puzzolenta (vedi albi loffa= emissione non rumorosa, ma grandemente puzzolenta con etimo dal tedesco luft) di gas intestinali; l’etimo di pireto è dal lat. peditu(m) con tipica sostituzione osca-mediterranea della d con la r. Rammento che la lingua napoletana per indicare la medesima emissione rumorosa, ma non puzzolenta di gas intestinali, à anche una voce femminile marcata con consueti adattamenti metafonetici sul maschile pireto ed è la voce pereta benché quest’ultima voce sia piú usata in senso traslato riferita ad una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,ad una donna di malaffare o anche solo a chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale. Va da sé che una donna che le sue pessime qualità le strombazzi senza alcuna reticenza, si comporta ad un dipresso alla medesima stregua di un peto, manifestando rumorosamente la sua presenza e ben si può meritare con icastico, seppur crudo linguaggio, l’appellativo di pereta.
raffaele bracale
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sabato 23 febbraio 2008
ESSERE 'A TINA 'E MIEZO
ESSERE ‘A TINA ‘E MIEZOLetteralmente: essere il tino di mezzo. Id est: essere la massima somma di quanto piú sporco, piú laido, piú lercio possa esistere. Offesa gravissima che si rivolge a persona ritenuta cosí massimamente sporca, laida e lercia (sia dal punto di vista fisico che – ancor di piú - da quello morale) da essere paragonata al grosso tino di legno posto al centro del carro per la raccolta dei liquami da usare come fertilizzanti, nel quale tino venivano versati i liquami raccolti con due tini piú piccoli posti ai lati del tino di mezzo dove veniva riposto il letame raccolto. Tale raccolta oggi pressocché desueta, era tipica dei paesi campestri napoletani.
tina sost. femm.le = tino: grande recipiente di legno a doghe che serve in primis per la pigiatura dell'uva e la fermentazione del vino; nome di recipienti di forma simile, usati per altre operazioni sia artigianali che industriali in tintoria, vasca con una parete alquanto inclinata su cui viene deposto il tessuto contemporaneamente all'immissione del bagno di tintura; l’etimo di tino è dal tardo lat. tinu(m), affine a tina 'bottiglia', di orig. greca; la voce napoletana tina è voce ricalcata sul masch. tino ed è stata resa femm.le in quanto con il femm.l, in napoletano si indicano oggetti piú grandi dei corrispondenti maschili (vedi alibi: cucchiara piú grande di cucchiaro, tammorra piú grande di tammurro etc.).
‘e miezo = di mezzo, posto al centro; l’etimo di miezo è dal lat. mediu(m) con normale dittongazione nella sillaba d’avvio.
raffaele bracale
tina sost. femm.le = tino: grande recipiente di legno a doghe che serve in primis per la pigiatura dell'uva e la fermentazione del vino; nome di recipienti di forma simile, usati per altre operazioni sia artigianali che industriali in tintoria, vasca con una parete alquanto inclinata su cui viene deposto il tessuto contemporaneamente all'immissione del bagno di tintura; l’etimo di tino è dal tardo lat. tinu(m), affine a tina 'bottiglia', di orig. greca; la voce napoletana tina è voce ricalcata sul masch. tino ed è stata resa femm.le in quanto con il femm.l, in napoletano si indicano oggetti piú grandi dei corrispondenti maschili (vedi alibi: cucchiara piú grande di cucchiaro, tammorra piú grande di tammurro etc.).
‘e miezo = di mezzo, posto al centro; l’etimo di miezo è dal lat. mediu(m) con normale dittongazione nella sillaba d’avvio.
raffaele bracale
'Sta casa me pare Resína etc.
'Sta casa me pare Resína*: cirche 'na mallarda** e truove 'na mappína***Ad litteram: Questa casa sembra Resína: cerchi un cappello e trovi uno straccio! Divertente espressione partenopea usata per descrivere icasticamente la insopportabile situazione di una casa dove - per ignavia di coloro che vi vivono - regni il piú grosso disordine e /o caos al segno da poter far paragonare detta casa al corso Resína della città di ERCOLANO dove si tiene quotidianamente mercato di abiti usati e dismessi nonché di altri capi di abbigliamento usato, mercato caotico e variopinto, dove per trovare il voluto, occorre cercare tra la piú varia mercanzia affastellata sui banchetti di vendita senza ordine o sistematicità.
*RESÍNA fu l'antico nome della cittadina sorta sull'area della città di Ercolano all'indomani dell'eruzione del Vesuvio del 79 d.c. che seppellí le città di Pompei, Stabia ed Ercolano. Nel 1969 la città di Resína riprese il primitivo nome di Ercolano assegnando al Corso principale il nome di Resína; è su questo corso che aprono bottega i commercianti di abiti usati.
**Mallarda = dal franc. malart è in primis il nome con cui in napoletano si indica una grossa anitra; per traslato poi si indica un vasto ed ingombrante, seppur desueto cappello da donna.Da ricordare che il poeta- giornalista napoletano Ugo Ricci (detto: Triplepatte) usava, nei suoi componimenti indicare con il nome di "mallardine " le signorine della media borghesia aduse ad indossare le c.d. mallarde.
*** Mappina diminut. derivato dal lat. mappa= cencio, straccio: è parola che anche con altra desinenza (la: mappila), ma con identico significato si trova in altri dialetti centro-meridionali.
raffaele bracale
*RESÍNA fu l'antico nome della cittadina sorta sull'area della città di Ercolano all'indomani dell'eruzione del Vesuvio del 79 d.c. che seppellí le città di Pompei, Stabia ed Ercolano. Nel 1969 la città di Resína riprese il primitivo nome di Ercolano assegnando al Corso principale il nome di Resína; è su questo corso che aprono bottega i commercianti di abiti usati.
**Mallarda = dal franc. malart è in primis il nome con cui in napoletano si indica una grossa anitra; per traslato poi si indica un vasto ed ingombrante, seppur desueto cappello da donna.Da ricordare che il poeta- giornalista napoletano Ugo Ricci (detto: Triplepatte) usava, nei suoi componimenti indicare con il nome di "mallardine " le signorine della media borghesia aduse ad indossare le c.d. mallarde.
*** Mappina diminut. derivato dal lat. mappa= cencio, straccio: è parola che anche con altra desinenza (la: mappila), ma con identico significato si trova in altri dialetti centro-meridionali.
raffaele bracale
venerdì 22 febbraio 2008
Jì ‘e renza e gghì ‘e sguincio.
7 - Jì ‘e renza e gghì ‘e sguincio.
Le due locuzioni in epigrafe parrebbe, a prima vista, dicano la medesima cosa
riferendosi ambedue ad un modo strano, non corretto di camminare. Non è così.
C’è una differenza sostanziale tra le due locuzioni;infatti jì ‘e renza si riferisce effettivamente ad un modo di camminare identificandolo nel procedere in modo obliquo, quasi inclinati su di un lato; diverso il gghì ‘e sguincio che attiene ad un modo di camminare e propriamente a quel modo che comporta un’andatura di sghimbescio, tortuosa, e mentre la prima locuzione è usata solo in riferimento al modo di camminare, la seconda è riferita non solo ad un modo di procedere, ma anche ad un modo comportamentale che sia scorretto, subdolo, non lineare, in una parola: sleale. Il termine sguincio viene dal francese guenchir(procedere di sbieco) cui è premessa una S rafforzativa, mentre il termine renza viene dal participio presente del verbo latino haerere= aderire; in napoletano infatti si dice pure tirarse ‘na renza cioè prendere un’abitudine, aderire ad un modo di fare.
Le due locuzioni in epigrafe parrebbe, a prima vista, dicano la medesima cosa
riferendosi ambedue ad un modo strano, non corretto di camminare. Non è così.
C’è una differenza sostanziale tra le due locuzioni;infatti jì ‘e renza si riferisce effettivamente ad un modo di camminare identificandolo nel procedere in modo obliquo, quasi inclinati su di un lato; diverso il gghì ‘e sguincio che attiene ad un modo di camminare e propriamente a quel modo che comporta un’andatura di sghimbescio, tortuosa, e mentre la prima locuzione è usata solo in riferimento al modo di camminare, la seconda è riferita non solo ad un modo di procedere, ma anche ad un modo comportamentale che sia scorretto, subdolo, non lineare, in una parola: sleale. Il termine sguincio viene dal francese guenchir(procedere di sbieco) cui è premessa una S rafforzativa, mentre il termine renza viene dal participio presente del verbo latino haerere= aderire; in napoletano infatti si dice pure tirarse ‘na renza cioè prendere un’abitudine, aderire ad un modo di fare.
FETECCHIA
Il termine napoletano fetecchia: significato ed etimologia.
I l termine in epigrafe ha un variegato ventaglio di significati nella lingua napoletana, ma tutti riconducibili al primario significato di vescia, scorreggia non rumorosa, scoppio silenzioso simile a quello del fungo che giunto a maturazione esplode silenziosamente emettendo le spore; col termine fetecchia , restando nell’ambito della silenziosità,viene indicato altresì lo scppio non riuscito di un fuoco d’artificio, e più in generale un qualsiasi fallimento o fiasco di un’operazione non giunta a buon fine
Pèer ciò che attiene l’etimologia, tutti concordemente la fanno risalire al latino foetere nel suo significato di puzzare – tenendo prersente il primario significato di fetecchia, ma anche negli altri significati c’è una sorta di non olezzo che pervade la parola.e la riconduce al foetere latino.
Raffaele Bracale
I l termine in epigrafe ha un variegato ventaglio di significati nella lingua napoletana, ma tutti riconducibili al primario significato di vescia, scorreggia non rumorosa, scoppio silenzioso simile a quello del fungo che giunto a maturazione esplode silenziosamente emettendo le spore; col termine fetecchia , restando nell’ambito della silenziosità,viene indicato altresì lo scppio non riuscito di un fuoco d’artificio, e più in generale un qualsiasi fallimento o fiasco di un’operazione non giunta a buon fine
Pèer ciò che attiene l’etimologia, tutti concordemente la fanno risalire al latino foetere nel suo significato di puzzare – tenendo prersente il primario significato di fetecchia, ma anche negli altri significati c’è una sorta di non olezzo che pervade la parola.e la riconduce al foetere latino.
Raffaele Bracale
E BRAVO Ô FESSO!
E bravo ô fesso! Letteralmente: E bravo allo sciocco! La frase in epigrafe la si usa sempre quando si voglia ironicamente plaudire all'operato di chi pretende, da saccente e supponente, con la propria azione o spessissimo con le sole chiacchiere, di dimostrare la propria valentia nei confronti di qualcuno a cui non riesca di agire alla medesima stregua. Piú chiaramente, la locuzione è usata a mo' di presa in giro di coloro che fanno le viste di ritenersi superiori agli altri e in realtà se lo sono non è per maggiori capacità fisiche e/o morali, ma solo per fortunose o ovvie transeunti ragioni. Per meglio chiarire mi spiego con un esempio.
Poniamo che vi sia un uomo infortunato alle gambe il quale abbia difficoltà ad ascendere una scala a piuoli. Si presenta uno sciocco che, essendo pienamente integro nella sua salute, con irrisoria facilità ascende la scala e commenta con aria saccente: "Visto come è facile?". La risposta che si merita codesto sciocco è quella in epigrafe, che nel caso dell'esempio starebbe a significare: Sei cosí stupido da non renderti conto che se anche io fossi nella mia integrità fisica, non avrei difficoltà a fare ciò che ài fatto tu!
Note linguistiche.
Talvolta mi è occorso di trovare la frase in epigrafe scritta come E bravo ‘o fesso! in luogo del corretto E bravo ô fesso!
E bravo ‘o fesso! è una grafia errata in quanto tale frase va tradotta E bravo il fesso! laddove la frase corretta E bravo ô fesso! esige la traduzione: E bravo allo sciocco! dove allo riproduce esattamente la valenza di dativo etico contenuto nella frase d’epigrafe, ed in napoletano corretto allo va scritto a ‘o o piú correttamente ô che è la contrazione di (a + ‘o)= a +il,lo mentre ‘o è il semplice art. determinativo maschile che non può avere ovviamente la funzione di preposizione articolata svolta da ô = al, allo come altrove â è scrittura contratta di a + ‘a e sta per alla ed ancora sempre altrove ê è scrittura contratta di a + ‘e e sta o per alle o per a gli.
bravo = agg.vo chi è abile ed esperto in ciò che fa (in napoletano è usato spessissimo - come nel caso in esame – in senso ironico e talora antifrastico. l’etimo è incerto; forse dal lat. barbaru(m) 'barbaro, selvaggio', o da pravu(m) 'pravo, malvagio', usato talora anche con significato positivo.
fesso = agg.vo lett. vale spaccato, tagliato per lungo; ma qui vale per traslato sciocco, balordo; l’etimo è dritto per dritto dal lat. fissu(m), part. pass. di findere 'fendere'.
raffaele bracale
Poniamo che vi sia un uomo infortunato alle gambe il quale abbia difficoltà ad ascendere una scala a piuoli. Si presenta uno sciocco che, essendo pienamente integro nella sua salute, con irrisoria facilità ascende la scala e commenta con aria saccente: "Visto come è facile?". La risposta che si merita codesto sciocco è quella in epigrafe, che nel caso dell'esempio starebbe a significare: Sei cosí stupido da non renderti conto che se anche io fossi nella mia integrità fisica, non avrei difficoltà a fare ciò che ài fatto tu!
Note linguistiche.
Talvolta mi è occorso di trovare la frase in epigrafe scritta come E bravo ‘o fesso! in luogo del corretto E bravo ô fesso!
E bravo ‘o fesso! è una grafia errata in quanto tale frase va tradotta E bravo il fesso! laddove la frase corretta E bravo ô fesso! esige la traduzione: E bravo allo sciocco! dove allo riproduce esattamente la valenza di dativo etico contenuto nella frase d’epigrafe, ed in napoletano corretto allo va scritto a ‘o o piú correttamente ô che è la contrazione di (a + ‘o)= a +il,lo mentre ‘o è il semplice art. determinativo maschile che non può avere ovviamente la funzione di preposizione articolata svolta da ô = al, allo come altrove â è scrittura contratta di a + ‘a e sta per alla ed ancora sempre altrove ê è scrittura contratta di a + ‘e e sta o per alle o per a gli.
bravo = agg.vo chi è abile ed esperto in ciò che fa (in napoletano è usato spessissimo - come nel caso in esame – in senso ironico e talora antifrastico. l’etimo è incerto; forse dal lat. barbaru(m) 'barbaro, selvaggio', o da pravu(m) 'pravo, malvagio', usato talora anche con significato positivo.
fesso = agg.vo lett. vale spaccato, tagliato per lungo; ma qui vale per traslato sciocco, balordo; l’etimo è dritto per dritto dal lat. fissu(m), part. pass. di findere 'fendere'.
raffaele bracale
giovedì 21 febbraio 2008
FETTIARE - FITTIARE
FETTIARE o FITTIARE significato ed etimologia.
I verbi in epigrafe(per l’esattezza, però si tratta di un solo verbo, scritto con due grafie leggermente diverse) sono caduti completamente in disuso tanto da non esser riportati da alcun dizionario, ma fino agli anni ’60 dello scorso secolo ebbero un loro uso continuato soprattutto fra i giovani napoletani.
Essi verbi servirono ad identificare un’azione ben precisa: quella di sogguardare insistentemente una persona o anche solo un quid, in maniera però concupiscente fino a determinare fastidio nella persona guardata; in particolare i giovanotti che si fossero messi sulle piste di un’avvenente ragazza insistentemente se la fettiavano
fino a che la ragazza infastidita, o non cedeva alle non dichiarate, ma chiaramente sottintese, avances o non chiamasse a propria difesa un fratello, un cugino un fidato amico che convinceva con le buone o le tristi il disturbatore esortato a fettiare altrove.Il verbo veniva usato anche nei riguardi di cose desiderate, ma – per mancanza di soldi – mai conquistate,; a mo’ d’es. diremo che in quegli anni se fittiavano un abito, un paio di scarpe, una cravatta, o anche l’intera vetrina di una pasticceria o trattoria
Finita l’epoca della ritrosia delle donne, avendo raggiunta un po’ tutti una certa disponibilità economica e diventate, le ragazze, prede di facile caccia, è venuta meno la necessità di fettiare e con l’azione son caduti in disuso e nel dimenticatoio i verbi che la rappresentavano.
E passiamo all’etimologia; tenendo presente che in napoletano conserva anche il vocabolo fettìglie con il significato di noie, molestie e consimili, penso che sia per il sostantivo che per i due verbi in epigrafe si possa risalire al latino figere (colpire di lontano).giacché, specie per i due verbi la molestia si traduce solo nell’insistente sogguardare di lontano, non seguito da altre più prossime azioni.
Raffaele Bracale
I verbi in epigrafe(per l’esattezza, però si tratta di un solo verbo, scritto con due grafie leggermente diverse) sono caduti completamente in disuso tanto da non esser riportati da alcun dizionario, ma fino agli anni ’60 dello scorso secolo ebbero un loro uso continuato soprattutto fra i giovani napoletani.
Essi verbi servirono ad identificare un’azione ben precisa: quella di sogguardare insistentemente una persona o anche solo un quid, in maniera però concupiscente fino a determinare fastidio nella persona guardata; in particolare i giovanotti che si fossero messi sulle piste di un’avvenente ragazza insistentemente se la fettiavano
fino a che la ragazza infastidita, o non cedeva alle non dichiarate, ma chiaramente sottintese, avances o non chiamasse a propria difesa un fratello, un cugino un fidato amico che convinceva con le buone o le tristi il disturbatore esortato a fettiare altrove.Il verbo veniva usato anche nei riguardi di cose desiderate, ma – per mancanza di soldi – mai conquistate,; a mo’ d’es. diremo che in quegli anni se fittiavano un abito, un paio di scarpe, una cravatta, o anche l’intera vetrina di una pasticceria o trattoria
Finita l’epoca della ritrosia delle donne, avendo raggiunta un po’ tutti una certa disponibilità economica e diventate, le ragazze, prede di facile caccia, è venuta meno la necessità di fettiare e con l’azione son caduti in disuso e nel dimenticatoio i verbi che la rappresentavano.
E passiamo all’etimologia; tenendo presente che in napoletano conserva anche il vocabolo fettìglie con il significato di noie, molestie e consimili, penso che sia per il sostantivo che per i due verbi in epigrafe si possa risalire al latino figere (colpire di lontano).giacché, specie per i due verbi la molestia si traduce solo nell’insistente sogguardare di lontano, non seguito da altre più prossime azioni.
Raffaele Bracale
RIGGIOLA
Il termine RIGGIOLA – significato ed ipotesi etimologica
Con la parola riggiola modernamente si intende la piastrella – maiolicata o meno che per solito concorre a formare la pavimentazione esterna o interna di un edificio; ma anticamente con il termine riggiola i napoletani intendevano propriamente la piastrella in cotto grezzo. E’ importante tener presente questa distinzione storica quando si affronta il problema etimologico.
Una prima veloce lettura della voce vorrebbe che essa sia un deverbale dedotto dal verbo reggere. La prima osservazione da farsi però è che la voce napoletana non corrisponde ad un’ipotetica reggiola dell’italiano che indicherebbe la mensola o altro supporto atto a reggere libri o altro, un palchetto di scaffale insomma . A parte ciò è da rammentare che in napoletano non esiste il verbo reggere; esiste – al massimo – rejere e da esso potrebbe tutto al più discendere rejola, non riggiola.
Altra ipotesi etimologica proposta è quella che legherebbe la riggiola napoletana alla rejuela spagnola, che però significa piccola inferriata che non ha nulla a che vedere con la riggiola che è invece qualcosa di atto a piastrellare un pavimento.
Scartate ambedue le ipotesi etimologiche per i motivi esposti propongo che la riggiola derivi da un latino volgare rubjòla (?) con il normale trasformarsi di jo in ggi+ vocale come succede per il classico habeo diventato tardo latino habjo e napoletano aggio;rubjola = rossiccia da un latino della decadenza dal classico ruber per indicare il tipico colore rosso proprio della terracotta, materiale con cui si costruiva l’originaria riggiola napoletana. S. e&o.
Raffaele Bracale
Con la parola riggiola modernamente si intende la piastrella – maiolicata o meno che per solito concorre a formare la pavimentazione esterna o interna di un edificio; ma anticamente con il termine riggiola i napoletani intendevano propriamente la piastrella in cotto grezzo. E’ importante tener presente questa distinzione storica quando si affronta il problema etimologico.
Una prima veloce lettura della voce vorrebbe che essa sia un deverbale dedotto dal verbo reggere. La prima osservazione da farsi però è che la voce napoletana non corrisponde ad un’ipotetica reggiola dell’italiano che indicherebbe la mensola o altro supporto atto a reggere libri o altro, un palchetto di scaffale insomma . A parte ciò è da rammentare che in napoletano non esiste il verbo reggere; esiste – al massimo – rejere e da esso potrebbe tutto al più discendere rejola, non riggiola.
Altra ipotesi etimologica proposta è quella che legherebbe la riggiola napoletana alla rejuela spagnola, che però significa piccola inferriata che non ha nulla a che vedere con la riggiola che è invece qualcosa di atto a piastrellare un pavimento.
Scartate ambedue le ipotesi etimologiche per i motivi esposti propongo che la riggiola derivi da un latino volgare rubjòla (?) con il normale trasformarsi di jo in ggi+ vocale come succede per il classico habeo diventato tardo latino habjo e napoletano aggio;rubjola = rossiccia da un latino della decadenza dal classico ruber per indicare il tipico colore rosso proprio della terracotta, materiale con cui si costruiva l’originaria riggiola napoletana. S. e&o.
Raffaele Bracale
domenica 17 febbraio 2008
LA PREPOSIZIONE "A" NELLA LINGUA NAPOLETANA
LA PREPOSIZIONE A
NELLA LINGUA NAPOLETANA.
la preposizione semplice a della lingua napoletana (con identico etimo dal latino ad) ripete la preposizione a della lingua italiana dove vale: verso, a, con valore di avvicinamento verso qualcosa/qualcuno, ma anche con valore di attribuzione,relazione,tempo e causa; quando è congiunzione, se seguìta da un verbo all’infinito introduce proposizioni finali, condizionali o causali; la preposizione a della lingua napoletana è innanzitutto preposizione di stato e di moto a luogo; introduce altresì i complementi (o, come s’usa dire oggi, le estensioni di tempo, di termine, modo etc. per solito comportando la geminazione della consonante iniziale della parola successiva (es.: sto’ a Nnapule = sto a Napoli, vaco a mmare= vado a mare, stamme a ssentí (oppure ‘ssèntere’) = ascoltami); come congiunzione è usata altresí, seguìta da un infinito, in funzione introduttiva di proposizioni finali (vaco a vedé = vado a (per) vedere), temporali o causali (facette male a parlà= sbagliai/sbagliò quando o giacché parlai/parlò).
In napoletano la preposizione A è usata anche per introdurre, quasi in maniera indiretta, un complemento oggetto quando però tale complemento sia una persona o essere animato, mai un oggetto (es.: aggiu visto a pàteto= ò visto tuo padre; aggiu ‘ntiso ô cane ca alluccava = ò sentito il cane che latrava ( dove ô = a + ‘o= a + il); ma aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere, aggiu ‘ntisa ‘a campana = ò sentito la campana.) La ragione di questa particolare a segnacaso del complemento oggetto non è da ricercarsi come sostiene qualcuno nel fatto che venuto meno il latino con le declinazioni comportanti esatte desinenze distinte per il nominativo e l’accusativo in un corrotto latino regionale volgare privo di desinenze distinte si sarebbe ingenerata un’ipotetica confusione in una frase del tipo: Petrus vidit Paulus non potendosi stabilire se il soggetto di vidit fosse Petrus o Paulus. Ciò è inesatto in quanto, se è vero che, ad un dipresso, il latino classico, almeno fino a quello ciceroniano, mantenne il soggetto anteposto al verbo reggente, il latino della decadenza volgarizzatosi con l’entrata in contatto con le parlate locali, proprio per non ingenerare confusioni, soprattutto nella lingua parlata si preferì porre il soggetto sempre prima del verbo reggente. Reputo dunque molto più verosimile l’idea che tale particolare a segnacaso del complemento oggetto sia un residuo plebeo di un latino volgare parlato, quello che produsse anche lo spagnolo, il portoghese ed il rumeno, lingue in cui perdura l’uso dell’a come segnacaso del complemento oggetto. RaffaeleBracale
NELLA LINGUA NAPOLETANA.
la preposizione semplice a della lingua napoletana (con identico etimo dal latino ad) ripete la preposizione a della lingua italiana dove vale: verso, a, con valore di avvicinamento verso qualcosa/qualcuno, ma anche con valore di attribuzione,relazione,tempo e causa; quando è congiunzione, se seguìta da un verbo all’infinito introduce proposizioni finali, condizionali o causali; la preposizione a della lingua napoletana è innanzitutto preposizione di stato e di moto a luogo; introduce altresì i complementi (o, come s’usa dire oggi, le estensioni di tempo, di termine, modo etc. per solito comportando la geminazione della consonante iniziale della parola successiva (es.: sto’ a Nnapule = sto a Napoli, vaco a mmare= vado a mare, stamme a ssentí (oppure ‘ssèntere’) = ascoltami); come congiunzione è usata altresí, seguìta da un infinito, in funzione introduttiva di proposizioni finali (vaco a vedé = vado a (per) vedere), temporali o causali (facette male a parlà= sbagliai/sbagliò quando o giacché parlai/parlò).
In napoletano la preposizione A è usata anche per introdurre, quasi in maniera indiretta, un complemento oggetto quando però tale complemento sia una persona o essere animato, mai un oggetto (es.: aggiu visto a pàteto= ò visto tuo padre; aggiu ‘ntiso ô cane ca alluccava = ò sentito il cane che latrava ( dove ô = a + ‘o= a + il); ma aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere, aggiu ‘ntisa ‘a campana = ò sentito la campana.) La ragione di questa particolare a segnacaso del complemento oggetto non è da ricercarsi come sostiene qualcuno nel fatto che venuto meno il latino con le declinazioni comportanti esatte desinenze distinte per il nominativo e l’accusativo in un corrotto latino regionale volgare privo di desinenze distinte si sarebbe ingenerata un’ipotetica confusione in una frase del tipo: Petrus vidit Paulus non potendosi stabilire se il soggetto di vidit fosse Petrus o Paulus. Ciò è inesatto in quanto, se è vero che, ad un dipresso, il latino classico, almeno fino a quello ciceroniano, mantenne il soggetto anteposto al verbo reggente, il latino della decadenza volgarizzatosi con l’entrata in contatto con le parlate locali, proprio per non ingenerare confusioni, soprattutto nella lingua parlata si preferì porre il soggetto sempre prima del verbo reggente. Reputo dunque molto più verosimile l’idea che tale particolare a segnacaso del complemento oggetto sia un residuo plebeo di un latino volgare parlato, quello che produsse anche lo spagnolo, il portoghese ed il rumeno, lingue in cui perdura l’uso dell’a come segnacaso del complemento oggetto. RaffaeleBracale
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