ZEZA
Ecco una delle poche parole napoletane che sono usate – senza cambio di desinenza, ma solo variandone l’articolo – sia per il maschile: ‘o zeza che per il femminile: ‘a zeza, sebbene con significati leggermente diversi; ‘o zeza indica infatti l’uomo poco serio, il damerino galante, il cascamorto, lo svenevole cicisbeo, colui che ( come altrove illustrai è pure definito nnacchennello o farenella ) leziosamente colma le donne di manierati ed affettati complimenti; un po’ diversa la portata de ‘a zeza che indica la donna passionalmente civettuola, adusa a vezzi, moine e ciance nell’ambito di un comportamento lezioso ed ammiccante condito di smancerie gratuite e languide smorfiette; estensivamente è ‘na zeza la donna eccessivamente ciarliera che si faccia chiassosamente notare, incapace di stare al proprio posto, e desiderosa di mettersi in mostra.
Chiarisco sùbito che la parola zeza viene di lontano, dal XVI secolo ed è di nascita teatrale. ZEZA infatti non è che il diminutivo di LUCREZIA (personaggio della commedia dell’arte) e dunque nome proprio; solo successivamente zeza divenne aggettivo e poi aggettivo sostantivato per indicare chi (femmina o maschio) avesse i medesimi caratteri dei personaggi teatrali.
Originariamente infatti – come dottamente, in un suo scritto ci informa D.co Scarfoglio - la Zeza fu una scenetta carnevalesca cantata al suono di rumorosi strumenti a fiato, e vide probabilmente la luce nella seconda metà del XVI sec., al tempo, cioè, in cui Pulcinella,nei disegni di Callot, e nelle farse della commedia dell’arte era associato a Lucrezia, di cui Zeza è appunto il diminutivo.
Partita da Napoli la ZEZA si diffuse poi, nelle campagne adiacenti e, con caratteri sempre più diversificati, nelle altre regioni del Reame di Napoli.Ed entrò prepotentemente nel quotidiano popolare tanto che, almeno fino alla metà dell'’800, la Zeza si rappresentò nei cortili dei palazzi, nelle strade, nelle osterie, nelle piazze, senza palco fisso,ma su malferme tavole di ponte poggiate su quattro o più botti vuote, alla luce di torce dette antorche, ad opera di popolani, attori occasionali o compagníe di quartiere, che si facevano annunciare a suon di tamburo e di fischietto: e tale la Zeza rimase nelle province meridionali, mentre a Napoli già nel secondo ‘800 assunse i caratteri di uno spettacolo teatrale gestito da compagníe d'infimo ordine, in baracconi improvvisati e fu accolta, esclusivamente nel periodo di Carnevale, nei teatri frequentati soprattutto dalla plebe, teatri come il Sebeto, la Stella Cerere, e la c.d. puteca ‘e Donna Peppa (la famosa donna Giuseppa Errico, moglie di Salvatore Petito e mamma del famosissimo Antonio – Totonno Petito), dove il pubblico dei lazzaroni notoriamente interloquiva con sfrenatezza di gesti e di gergo con gli attori nel corso della rappresentazione.
Questo divertimento cessò agli inizi del XX secolo: fino ad allora però il testo della Zeza era imparato a memoria da tutti i ceti sociali di Napoli. La sua sparizione dalle strade e dalle piazze era stata determinata anche dai divieti ufficiali: intorno alla metà dell'Ottocento infatti essa era stata. proibita dalla polizia per le mordaci allusioni e per i detti troppo licenziosi ed osceni. Il testo della Zeza napoletana ci è noto attraverso parecchie trascrizioni ottocentesche, le quali nella regolarità metrica e nella castigatezza verbale tradiscono i più o meno pesanti interventi dei raccoglitori colti. Lo stesso adattamento al gusto del tempo e dei ceti civili mostra la trascrizione musicale fatta agli inizi del XIX secolo dal Cottrau.
La Zeza, come la befanata (Canto di questua di carattere sacro o profano, eseguito in Toscana nella notte tra il 5 e il 6 gennaio da un giovane travestito da vecchia (Befana) e seguito da altri in funzione di coro)e il bruscello (una forma di teatro contadino rappresentato inizialmente nelle aie, in seguito nelle piazze, anche in occasione di fiere e feste patronali)., di cui costituisce il corrispettivo napoletano e di cui ripete nelle linee fondamentali la struttura, può aver avuto qualche connessione con l'annuncio del fidanzamento e dei riti nuziali propiziatori in occasione deLCarnevale;
d'altra parte rappresentazioni come queste ànno altresì un fine, come quelli, e cioè la funzione di erotizzare 1'ambiente grazie alla libertà espressiva (verbale e gestuale) eccezionalmente tollerata e, in casi come questi, quasi obbligatoria. La Zeza rappresenta la storia delle nozze di Don Nicola Pacchesicche (cognome che non à nulla a che spartire con ipotetiche natiche secche, essendo etimologicamente solo la corruzione dello spagnolo payesito(contadinello,paesano) diminutivo di payés, studente calabrese, e di Tolla (o Vicenzella), contrastate dal padre della donna, Pulcinella, che teme di essere disonorato ed inconsapevolmente geloso, e sostenute da sua moglie, Zeza, che è di ben altro avviso e vuole far divertire la figlia cu mmilorde, signure o cu l'abbate; Pulcinella sorprende gli innamorati e reagisce violentemente, ma punito e piegato da Don Nicola, alla fine si rassegna e tutto more solito fernesce a tarallucce e vino!
La Zeza dunque riproponeva a livello popolare il conflitto tra vecchi e giovani conflitto onnipresente nel teatro colto e semipopolare, con l'esplicita ribellione all'autorità paterna o maritale nei suoi aspetti oppressivi e asociali (rappresentata da Pulcinella, che i tratti spropositati e balordi gia' altre volte, nella tradizione teatrale, avevano reso adatto al ruolo del marito grottescamente geloso); con la vittoria finale dei giovani e la risoluzione del conflitto col matrimonio si ha la ricomposizione dell'equilibrio familiare a un livello piu' avanzato. Ma la Zeza era capace di suscitare emozioni, nello spirito del Carnevale, soprattutto in quanto rappresentazione in chiave grottesca di scene di vita familiare caratterizzate da una notevole conflittualità e violenza, non molto dissimile, in questo, dalle scenette pure carnevalesche del Matrimonio di Pulcinella, presenti in molte aree italiane, che riprendono in forma più
semplificata queste tematiche: il teatro del Carnevale in tal modo metteva a nudo, in una sorta di confessione pubblica, le vergogne della vita coniugale, aggiungendovi il gusto dell'aggressione sadica e dell'esibizione oscena, e, mentre le esorcizzava con 1'immancabile lieto fine, invitava a prenderne realisticamente atto e integrare nel sistema ulturale il disordine e l'irrazionale.
Illustrata così, per sommi capi, la genesi teatral-popolare del termine zeza, rammenterò che tramontato l’uso delle rappresentazioni carnascialesche, si mantennevivo nel linguaggio parlato il termine zeza con rifermento al tipo caratteriale della LUCREZIA e della TOLLA e successivamente detti caratteri vennero attribuiti anche all’uomo che se smanceroso e lezioso oltre che rumoroso e desideroso di apparire, fu accreditato di fare ‘o zeza.
Raffaele Bracale
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