1'A carne se jetta e 'e cane s'arraggiano.
Letteralmente: la carne si butta ed i cani s'arrabbiano. Id est: c'è abbondanza di carne, ma mancanza di danaro per acquistarla e ciò determina profonda rabbia in chi, non avendo pecunia, non può approfittare dell'abbondanza delle merci. Per traslato, il proverbio è usato in tutte le situazioni in cui una qualsiasi forma di indigenza, o mancanza di coraggio è ostativa al raggiungimento di un fine che parrebbe invece a portata di mano; ciò vale anche nei rapporti tra i due sessi: per es. allorchè una donna offrisse apertamente le proprie grazie e l'uomo non avesse l’animo di cogliere l'occasione; un terzo (spettatore, magari concupiscente)si sentirebbe giustamente autorizzato a commentare la situazione con le parole in epigrafe.
2 'A vecchia ê trenta 'austo, mettette 'o trapanaturo a 'o ffuoco.
Letteralmente: la vecchia ai trenta d'agosto (per riscaldarsi) mise nel fuoco l'aspo. Il proverbio viene usato a mo' di avvertenza, soprattutto nei confronti dei giovani o di chi si atteggi a giovane, che si lasciano cogliere impreparati alle prime avvisaglie dei freddi autunnali che già si avvertano sul finire del mese di agosto, freddi che - come dice l'esperienza - possono essere perniciosi al punto da indurre i piú esperti (la vecchia) ad usare come combustibile persino un utile oggetto come un aspo, l'arnese usato per ammatassare la lana filata. Per estensione, il proverbio si usa con lo stesso fine di ammonimento, nei confronti di chiunque si lasci cogliere impreparato non temendo un possibile inatteso rivolgimento di fortuna - quale è il freddo in un mese ritenuto caldo.
3 Jí zumpanno asteche e lavatore.
Letteralmente: andar saltando per terrazzi e lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in alto (asteche=lastrici solai,terrazzi asteche è il plurale di asteco che è voce dal greco ostrakon=cocci; un tempo i lastrici solai erano pavimentati con coci di anfore e lapillo vulcanico) ed in basso (i lavatoi erano un tempo ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare.
4 Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.
Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso, giacché tu non ài nè la forza, nè la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle. La frase viene usata a sarcastico commento delle azioni iniziate da chi sia ritenuto inetto al punto da non poter portare al termine nulla di ciò che intraprende.
5 'O cucchiere 'e piazza: te piglia cu 'o 'ccellenza e te lassa cu 'o chi t'è mmuorto.
Letteralmente: il vetturino da nolo: ti accoglie con l'eccellenza e ti congeda bestemmiandoti i morti.Il motto compendia una situazione nella quale chi vuole ottenere qualcosa, in principio si profonde in ossequi e salamelecchi esagerati ed alla fine sfoga il proprio livore represso, come fanno i vetturini di nolo adusi a mille querimonie per attirare i clienti, ma poi - a fine corsa - pronti a riversare sul medesimo cliente immani contumelie, in ispecie allorché il cliente nello smontare dalla carrozza questioni sul prezzo della corsa, o - peggio ancora - non lasci al vetturino una congrua mancia.
6 Jí cascia e turnà bauglio
oppure Jí stocco e turnà baccalà.
Letteralmente: andar cassa e tornare baúle oppure andare stoccafisso e tornare baccalà. Id est: non trarre profitto alcuno da ciò che si fa: o dallo studio intrapreso o dall'apprendimento di un mestiere, come chi inizi l'apprendimento essendo una cassa e lo termini da baúle ossia non muti la sua intima essenza di vacuo contenitore, o - per fare altro esempio - come chi inizi uno studio essendo dello stoccafisso e lo termini diventando baccalà, diverso in forma, ma sostanzialmente restando un immutato merluzzo che se eviscerato, seccato all’aria ed affumicato diventa stoccafisso, se eviscerato, salato e conservato in barile diventa baccalà.
Con il proverbio in epigrafe, a Napoli, si è soliti commentare le maldestre applicazioni di chi non trae profitto da ciò che tenta di fare, perchè vi si applica maldestramente o con cattiva volontà.
7 Tu muscio-muscio siente e frusta llà, no!
Letteralmente: Tu senti il richiamo(l'invito)e l'allontanamento no. Il proverbio si riferisce a quelle persone che dalla vita si attendono solo fatti o gesti favorevoli e fanno le viste di rifiutare quelli sfavorevoli comportandosi come gatti che accorrono al richiamo per ricevere il cibo, ma scacciati, non vogliono allontanarsi; comportamento tipicamente fanciullesco di chi rifiuta di accettare il fatto che la vita è una continua alternanza di dolce ed amaro e tutto deve essere accettato; il termine frusta llà discende dal greco froutha-froutha col medesimo significato di :allontànati, sparisci.
8 'E denare so' comm'ê chiattille: s'attaccano ê cugliune.
Letteralmente: i soldi son come le piattole: si attaccano ai testicoli. Nel crudo, ma espressivo adagio partenopeo il termine cugliune viene usato per intendere propriamente i testicoli, e per traslato, gli sciocchi e sprovveduti cioé quelli che annettono cosí tanta importanza al danaro da legarvisi saldamente.
9 Hê 'a murí rusecato da 'e zzoccole e 'o primmo muorzo te ll'à da dà màmmeta
!Che possa morire rosicchiato dai grossi topi di fogna ed il primo morso lo devi avere da tua madre! Icastica maledizione partenopea giocata sulla doppia valenza del termine zoccola che, a Napoli, identifica sia il topo di fogna che la donna di malaffare.
10 Ma t’ è ghiuto 'o lliccese 'ncapo?
Letteralmente: ma ti è (forse) andato il leccese in testa? Id est: fossi impazzito? Avessi perso l'uso della ragione? Icastica espressione che, a Napoli, viene usata nei confronti di chi, senza motivo, si comporti irrazionalmente. Il leccese dell'espressione non è - chiaramente - un abitante di Lecce, ma un tipo di famoso tabacco da fiuto, prodotto, temporibus illis, nei pressi del capoluogo pugliese; l'espressione paventa il fatto che il tabacco fiutato possa- ma non si sa bene come - aver raggiunto, forse attraverso le coani nasali (?!) il cervello e leso cosí le facoltà raziocinanti del... fiutatore.
11 'A fatica d''e fracete se venne a caro prezzo.
Letteralmente: il lavoro degli svogliati, si vende caro. Id est: chi à scarsa voglia di lavorare richiede compensi altissimi per modo da spaventare e distogliere il committente dalla sua richiesta d'opera.
12 Dalle e ddalle, 'o cucuzziello addeventa tallo.
Letteralmente: dagli e dagli la zucchina diventa tallo.Id est: ad insistere sempre sulla medesima questione si finisce male come a cogliere zucchini continuamente non restano che le foglie. Il tallo è la foglia commestibile delle cucurbitacee, ma pure essendo edibile è sempre meno pregiata e saporita dello zucchino che già di suo non è molto saporito.
13 Quann'è pe vizzio, nun è peccato!
Letteralmente: Quando dipende da un vizio, non è peccato. A prima vista parrebbe che la locuzione si ponga agli antipodi della morale cristiana che considera peccato anche i vizi, soprattutto i capitali; ma tenendo presente che il vizzio(correttamente scritto con due zete in napoletano) della locuzione è il vitium latino, ovvero il mero difetto, si comprenderà la reale portata della frase che scusa la cattiva azione generata non per volontà dolosa , ma per mero difetto o errore.
14 Passasse ll'ngelo e dicesse: Ammenne!
Letteralmente: Possa passare un angelo e dire "Cosí sia!" La locuzione usata come in epigrafe con i congiuntivi ottativi la si adopera per augurarsi che accada qualcosa, sia nel bene che nel male; usata con l'indicativo à finalità imprecativa, mentre usata con il passato remoto serve quasi a spiegare che un determinato accadimento, soprattutto negativo è avvenuto perchè, l'angelo invocato è realmente passato ed à,con il suo assenso, prodotto il fatto paventato da taluno e augurato invece da un di lui nemico.
15 Va truvanno: 'mbruoglio, aiutame.
Letteralmente: va alla ricerca di un imbroglio che lo soccorra. Cosí a Napoli si dice di chi in situazioni difficili e senza apparenti vie di scampo, si rifugi nell'astuzia, nell'inganno, in situazioni ingarbugliate rimestando nelle quali spera di trovare l'aiuto alla soluzione dei problemi
16 Paré Pascale passaguaje.
Letteralmente: sembrare Pasquale passaguai. Cosí sarcasticamente viene appellato chi si va reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti.
17 Paré 'o pastore d''a meraviglia.
Letteralmente: sembrare un pastore della meraviglia Id est: avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certuni pastori (figurine di terracotta) del presepe napoletano settecentesco raffigurati in pose stupite ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista LUCA che scrisse: pastores mirati sunt.
18 Meglio a san Francisco ca 'ncpp' ô muolo.
Letteralmente: meglio (stare) in san Francesco che sul molo. Id est: di due situazioni ugualmente sfavorevoli conviene scegliere quella che comporrti minor danno. Temporibus illis in piazza san Francesco, a Napoli, nell’erdificio che era stato un tempo convento di frati detti di sant’Anna erano ubicate le carceri, mentre sul Molo grande era innalzato il patibolo per le esecuzioni capitali (vedi alibi ‘e quatto d’’o muolo) patibolo che poi fu spostato in piazza Mercato; per cui la locuzione significa: meglio carcerato e vivo, che morto impiccato.
19 Futtatenne!
Letteralmente:Infischiatene, non dar peso, lascia correre, non porvi attenzione. È il pressante invito a lasciar correre dato a chi si stia adontando o si stia preoccupando eccessivamente per quanto malevolmente si stia dicendo sul suo conto o operando a suo danno. Tale icastico invito fu scritto dai napoletani su parecchi muri cittadini nel 1969 allorché il santo patrono della città, san Gennaro, venne privato dalla Chiesa di Roma della obbligatorietà della "memoria" il 19 settembre con messa propria. I napoletani ritennero la cosa un declassamento del loro santo e allora scrissero sui muri cittadini: SAN GENNÀ FUTTATENNE! Volevano lasciare intendere che essi, i napoletani, non si sarebbero dimenticati del santo quali che fossero stati i dettami di Roma.
20 Fà ‘e uno tabbacco p''a pippa.
Letteralmente: farne di uno tabacco per pipa. Id est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il trinciato per pipa.
21 Fà trenta e una trentuno.
Quando manchi poco per raggiungere lo scopo prefisso, conviene fare quell'ultimo piccolo sforzo ed agguantare la meta: in fondo da trenta a trentuno v'è un piccolissimo lasso. La locuzione rammenta l'operato di papa Leone X che fatti 30 cardinali, in extremis ne creò un trentunesimo.
22 Essere carta canusciuta.
Letteralmente: essere carta nota. Id est: godere di cattiva fama, mostrarsi inaffidabile e facilmente riconoscibile alla medesima stregua di una carta da giuoco opportunamente "segnata" dal baro che se ne serve.
23 Essere cchiú fetente 'e 'na recchia 'e cunfessore.
Letteralmente: essere piú sporco di un orecchio di confessore. L'icastica espressione viene riferita ad ogni persona assolutamente priva di senso morale, capace di ogni nefandezza; tale individuo è parificato ad un orecchio di confessore, non perché i preti vivano con le orecchie sporche, ma perché i confessori devono, per il loro ufficio, prestare l'orecchio ad ogni nefandezza e alla summa dei peccati che vengono quasi depositati nell'orecchio del confessore, orecchio che ne rimane metaforicamente insozzato.
24 Tre ccalle e mmescamméce.
Letteralmente: tre calli(cioè mezzo tornese) e mescoliamoci. Cosí, sarcasticamente, è definito a Napoli colui che si intromette nelle faccende altrui, che vuol sempre dire la sua. Il tre calle era una moneta di piccolissimo valore; su una delle due facce v'era raffigurato un cavallo da cui per contrazione prese il nome di calle. La locuzione significa: con poca spesa ci si interessa delle faccende altrui.
25 Chi se fa masto, cade dint' ô mastrillo.
Letteralmente: chi si fa maestro, finisce per essere intrappolato. L'ammonimento della locuzione a non ergersi maestri e signori delle situazioni, viene rivolto soprattutto ai presuntuosi e supponenti che son soliti dare ammaestramenti o consigli non richiesti, ma poi finiscono (stanti la loro impreparazione e mancanza di scienza e/o esperienza vera) per fare la fine dei sorci presi in trappola proprio da coloro che pretendono di ammaestrare.
26 Chi guverna 'a rrobba 'e ll'ate nun se cocca senza cena
Letteralmente: chi amministra i beni altrui, non va a letto digiuno. Disincantata osservazione della realtà che piú che legittimare comportamenti che viceversa integrano ipotesi di reato, ne denuncia l'impossibilità di porvi riparo: gli amministratori di beni altrui sono incorreggibili ladri!
27Paré ll'ommo 'ncopp'â salera
Letteralmente: sembrare l'uomo sulla saliera. Id est: sembrare, meglio essere un uomo piccolo e goffo, un omuncolo simile a quel tal Tom Pouce, viaggiatore inglese,o piú esattamente nanetto inglese che si esibiva da pagliaccio in un circo equestre, venuto a Napoli sul finire del 1860, molto piccolo e ridicolo preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione viene riferita con tono di scherno verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto.
28 Fà comme a santa Chiara: dopp' arrubbata ce mettetero 'e pporte 'e fierro.
Letteralmente: far come per santa Chiara; dopo che fu depredata le si apposero porte di ferro. Id est: correre ai ripari quando sia troppo tardi, quando si sia già subíto il danno paventato, alla stessa stregua di ciò che accadde per la basilica di santa Chiara che fu provvista di solide porte di ferro in luogo del preesistente debole uscio di legno, ma solo quando i ladri avevano già perpetrato i loro furti sacrileghi a danno della antica chiesa partenopea.
29 Essere 'a tina 'e miezo.
Letteralmente: essere il tino di mezzo. Id est: essere la massima somma di quanto piú sporco, piú laido, piú lercio possa esistere. Offesa gravissima che si rivolge a persona ritenuta cosí massimamente sporca, laida e lercia sia fisicamente che moralmente da essere paragonata al grosso tino di legno posto al centro del carro per la raccolta dei liquami da usare come fertilizzanti, nel quale tino venivano versati i liquami raccolti con due tini piú piccoli posti ai lati del tino di mezzo dove veniva riposto il letame raccolto.
30'A capa 'e ll'ommo è 'na sfoglia 'e cepolla.
Letteralmente: la testa dell'uomo è una falda di cipolla. È il filosofico, rassegnato, icastico commento di un napoletano davanti a comportamenti che meriterebbero d'esser censurati e che si evita invece di criticare, partendo dall'umana considerazione che quei comportamenti siano stati generati non da cattiva volontà, ma da un fatto ineluttabile e cioé che il cervello umano è labile e deperibile ed inconsistente alla stessa stregua di una leggera, sottile falda di cipolla.
31 Nun tené voce 'ncapitulo.
Letteralmente: non aver voce nel capitolo. Il capitolo della locuzione è il consesso capitolare dei canonaci della Cattedrale; solo ad alcuni di essi era riservato il diritto di voto e di intervento in una discussione. La locuzione sta a significare che colui a cui è rivolta l'espressione non ha nè l'autorità, nè la capacità di esprimere pareri o farli valere, non contando nulla.
32 L'Accìomo ê Bbanche nuove.
Letteralmente: l' Ecce homo ai Banchi nuovi. Cosí oggi i napoletani sogliono indicare quei giovani, che - per essere alla moda - non si radono, mantenendo ispidi ed incolti quei pochi peli che dovrebbero costituire l'onor del mento,e che invece l’imbrattano quasi e per apparire in linea con i dettami della moda si mostrano smagriti e pallidi. La locuzione rammenta una scultura lignea sita in un'edicola posta ai Banchi Nuovi - quartiere napoletano sviluppatosi a ridosso della Posta Vecchia e Santa Chiara - scultura rappresentante il CRISTO reduce dai tribunali di Anna e Caifa, ed appare il Cristo, dopo le percosse e gli sputi subiti dai saldati romani, sofferente, smagrito, con la barba ispida, lo sguardo allucinato, proprio come i giovani cui la locuzione si attaglia.
33 Chi tène cummedità e nun se ne serve, nun trova 'o prevete ca ll'assolve.
Letteralmente: Chi à comodità e non se ne serve, non trova un prete che l'assolva. Id est: chi à avuto, per sorte o meriti, delle comodità deve servirsene, in caso contrario commetterebbe non solo una sciocchezza autolesiva, ma pure un peccato tanto grave per la cui assoluzione non sarebbe bastevole un semplice prete, ma bisognerebbe far ricorso al penitenziere maggiore.
34 Quanno nun site scarpare, pecché rumpite 'o cacchio a 'e semmenzelle?
Letteralmente: giacché non siete ciabattini, perché infastidite le semenze? La locuzione barocca, anzi rococò viene usata quando si voglia distogliere qualcuno dall'interessarsi di faccende che non gli competono non essendo supportate, né dal suo mestiere, né dalle sue capacità intellettive o morali. Le semenze sono i piccolissimi chiodini con cui i ciabattini sogliono sistemare la tomaia sulla forma di legno per procedere alla fattura di una scarpa.
35 'A riggina avette bisogno d''a vicina.
Letteralmente: la regina dovette ricorrere alla vicina. Iperbolica locuzione con la quale si sottolinea che nessuno è bastevole a se stesso: persino la regina ebbe bisogno della propria vicina, figurarsi tutti gli altri esseri umani: siamo una società dove nessun uomo è un'isola e tutti possiamo aver bisogno del soccorso del nostro prossimo!
36 'O purpo s'à dda cocere cu ll'acqua soja.
Letteralmente: il polpo si deve cuocere con l'acqua propria (cioè con l’acqua di cui è imbibito).Id est:l’emblematico polpo della locuzione è figurazione di un soggetto che bisogna che si convinca da se medesimo, senza interventi esterni. La locuzione fa riferimento a tutte quelle persone che recedono da certe posizioni solo se si autoconvincono; con costoro è inutile ogni opera di convincimento, bisogna armarsi di pazienza ed attendere che si autoconvincano, come un polpo che per cuocersi non necessita di aggiunta d'acqua, ma sfrutta quella di cui è composto.
37 Dà 'ncopp' ê recchie.
Letteralmente: dare (colpire) sulle orecchie. La locuzione consiglia il miglior modo di comportarsi nei confronti degli arroganti vanagloriosi, dei boriosi, dei supponenti, dei saccenti adusi ad andare in giro tronfi e pettoruti a testa elevata quasi fossero i signori del mondo. Nei loro confronti bisogna usare una sana violenza colpendoli sulle orecchie per fargliele abbassare.
38 N' aggio scaurato strunze, ma tu me jesce cu 'e piede 'a fora...
Letteralmente: ne ò bolliti di stronzi, ma tu (sei un così grosso pezzodi merda)che non entri per intero nella pentola destinata all'uso. Iperbolica e barocca locuzione-offesa usata nei confronti di chi si dimostri cosí esageratamente individuo spregevole, ripugnante, pessimo sia fisicamente che moralmente, in una parola un autentico pezzo di merda da meritarsi di esser paragonato ad un quid destinato ad essere cucinato, ma che essendo troppo grosso ecceda i limiti della pentola, rendendo perciò difficile l’operazione sia pure ipotetica della bollitura.
39 Tante galle a cantà nun schiara maje juorno.
Letteralmente: tanti galli a cantare non spunta mai il giorno. Id est: quando si è in tanti ad esprimere un parere intorno ad un argomento, a proporre una soluzione ad un problema, non si addiviene a nulla di concreto... Perché dunque farsi meraviglia se il parlamento italiano composto da un numero esorbitante di deputati e senatori non riesce mai a legiferare rapidamente e saggiamente? Mai lo potrebbero: parlano in tanti! Idem dicasi di una famiglia dove il bastone del comando decisionale non è nelle sole mani del capofamiglia che troppo democraticamente consente a tutti di porre bocca,ostacoli, limiti, esprimere giudizi e/o posizioni da prendere intorno ad un argomento comune.
40 Sí, sí quanno curre e 'mpizze...
Letteralmente: sí quando corri ed infili! La locuzione cheviene rivolta sarcasticamente nei confronti di qualcuno cui si voglia significare che sta ponendo speranza in qualcosa che molto difficilmente si potrà avverare, è da intendersi in senso ironico, volendo dire: quel che tu ti auguri avvenga, non avverrà mai! Non porvi speranze! La locuzione fa riferimento ad un'antica gara che si svolgeva sulle piazze dei paesi meridionali. Si infiggeva nell'acciottolato della piazza del paese un'alta pertica con un anello metallico posto lateralmente alla punta di essa pertica, anello libero di dondolare al vento. I gareggianti dovevano, correndo a cavallo, far passare nell'anello la punta di una lancia, cosa difficilissima da farsi.
41 Madonna mia, mantiene ll'acqua!
Letteralmente: Madanna mia reggi l'acqua. Id est: fa che la situazione non peggiori o non degeneri. L'invocazione viene usata quando ci si trovi davanti ad una situazione di contesa il cui esito si prospetti prossimo a degenerare per evidente cattiva volontà di uno o piú dei contendenti.
42 Ommo 'e ciappa.
Letteralmente: uomo di bottone e, per traslato, uomo importante, di vaglia. La locuzione à origini antichissime addirittura seicentesche allorché a Napoli esistette una consorteria particolare, la cosiddetta repubblica dei togati che riuniva un po' tutta la classe dirigente della città. Le ciappe (al sing. ciappa dal latino=capula) erano i grossi bottoni d'argento cesellato che formavano l'abbottonatura della toga simbolo, appunto, di detta consorteria.
43 'A nave cammina e 'a fava se coce.
Letteralmente: la nave cammina, e la fava si cuoce. La locuzione (nata nelle località marinare campane dove gran parte dei guadagni provenivano da attività commerciali marinaresche) mette in relazione il cuocersi della fava (che indica la sopravvivenza,fornita la continuata abbondanza di cibo) con il cammino della nave ossia con il progredire delle attività economiche, per cui sarebbe piú opportuno tradurla “se la nave va, la fava cuoce.” cioè: “se progrediscono le nostre attività commerciali, ci assicuriamo il sostentamento!”
44 Essere 'nu casatiello cu ll'uva passa.
Letteralmente: essere una caratteristica torta rustica pasquale ripiena d'uva passita. Id est: essere una persona greve, fastidiosa, indigesta, noiosa quasi come la torta menzionata già greve di suo per esser ripiena di strutto, formaggi, uova, salame, resa meno digeribile dalla presenza dell'uva passita...
45 Nce vonno 'e cquatte laste e 'o lamparulo.
Letteralmente: occorono i quattro vetri laterali ed il reggimoccolo. Id est: il lavoro compiuto è del tutto inutilizzabile in quanto palesamente incompleto e non fatto a regola d'arte; quello adombrato nella locuzione è una lanterna ultimata in modo raffazzonato al punto che mancano elementi essenziali alla sua funzionalità. La locuzione viene perciò usata nei confronti di chi, ingiustificatamente, si gloria di aver fatto un eccellente lavoro, laddove ad un attento controllo esso risulta vistosamente carente .
46 Jirsene cu 'na mana annanze e n'ata arreto.
Letteralmente: andarsene con una mano davanti ed una di dietro (per coprirsi le vergogne). Era il modo con cui il debitore si allontanava dal luogo dove aveva eseguito la cessio bonorum(in napoletano zitabbona) , aveva cioè poggiato le nude natiche su di una colonnina posta innanzi al tribunale a dimostrazione di aver ceduto tutto il suo: beni mobili ed immobili e di non aver piú niente. La locuzione perciò significa:trovarsi nella piú nera indigenza e si usa riferita a chi, non avendo, nella propria vita, concluso nulla di buono, ci abbia rimesso fino all'ultimo quattrino e non gli resti che l'ignominia di cambiar zona andandosene con una mano davanti ed una di dietro.
Rammento che la cessio bonorum compiuta a Napoli poggiando le nude natiche su di una colonnina posta innanzi al tribunale, in altre città : Roma, Firenze era compiuta poggiando le nude natiche su di un cuscino di pietra ugualmente posto innanzi al tribunale.
47 A - Miette mano â tela B - Arriciette 'e fierre
Le due locuzioni indicano l'incipit e il termine di un'opera e vengono usate nelle precise circostanze da esse indicate, ma sempre con un valore di sprone; sub A: Metti mano alla tela, ossia, prepara la tela ché è giunto il momento di cominciare il lavoro. sub B: Metti a posto i ferri, è giunta l'ora di lasciare il lavoro.
48 Essere 'nu/’na secaturnese.
Letteralmente: essere un/una sega-tornesi.Id est: essere un/una avaraccio/a, super avaro/a al punto di far concorrenza a taluni antichi tonsori di monete, che al tempo che circolavano monete d'oro o d'argento, usavano limarle per poi rivender la limatura e far cosí piccoli guadagni: venne poi la carta-moneta e finí il divertimento.
49 Essere 'na meza pugnetta.
Esser piccolo di statura, ma soprattutto valer poco o niente, non avere alcuna conclamata attitudine operativa, stante la ridottissima capacità fisica, intellettiva e morale essendo il prodotto di un gesto onanistico non compiuto neppure per intero.
50 Essere 'na galletta 'e Castiellammare.
Letteralmente: essere un biscotto di Castellammare. Id est: essere poco incline ad atti di generosità, anzi tener sempre saldamente chiusi i cordoni della borsa essendo molto restio ad affrontare spese di qualsiasi genere, in ispecie quelle destinate ad opere di carità, essere insomma cosí duro nei proprî parsimoniosi intendimenti da essere paragonabile ai durissimi biscotti prodotti in Castellammare, biscotti secchi a lunga conservazione usati abitualmente come scorta dalla gente di mare che li preferiva al pane perché non ammuffivano,biscotti che però erano cosítenacemente duri che - si diceva - neppure l'acqua di mare riuscisse ad ammorbidire.
51 'E curalle ll'à dda fà 'o turrese.
Letteralmente: i coralli li deve lavorare il torrese. Id est: ognuno deve fare il proprio mestiere, che però deve esser fatto secondo i crismi previsti; non ci si può improvvisare competenti; nella fattispecie la lavorazione del corallo è appannaggio esclusivo dell'abitante di Torre del Greco, centro campano famoso nel mondo appunto per la produzione di artistici oggetti lavorati in corallo.
52 Mo t''o ppiglio 'a faccia 'o cuorno d''a carnacotta
Letteralmente. adesso lo prendo per te dal corno per la carne cotta. Icastica ed eufemistica espressione con la quale suole rispondere chi, richiesto di qualche cosa, non ne sia in possesso né abbia dove reperirla o gli manchi la volontà di reperirla. Per comprendere appieno la locuzione bisogna sapere che la carnacotta è il complesso delle trippe o frattaglie piú spesso bovine o talvolta suine che a Napoli nettate e lessate, già atte ad essere consumatevengono vendute o dai macellai o da appositi venditori girovaghi che le servono ridotte in piccoli pezzi su minuscoli fogli di carta oleata; i piccoli pezzi di trippa vengono prima irrorati col succo di limone e poi cosparsi con del sale che viene prelevato da un corno bovino scavato ad hoc proprio per contenere il sale e bucato sulla punta per permetterne la distribuzione. Detto corno viene portato dal venditore di trippa, appeso in vita e lasciato pendente sul davanti del corpo. Proprio la vicinanza con intuibili parti anatomiche del corpo,fa intendere che il corno della locuzione non è quello bovino e permette alla locuzione di assumere una valenza antifrastica e divertente per significare che ci si trovi nell'impossibilità di aderire alle richieste.
53 Pure 'e cuffiate vanno 'mparaviso.
Letteralmente: anche i corbellati vanno in paradiso. Massima consolatoria con cui si tenta di rabbonire i dileggiati cui si vuol fare intendere che sí è vero che ora son presi in giro, ma poi spetterà loro il premio del paradiso. Il termine cuffiato cioè corbellato è il participio passato del verbo cuffià che deriva dal sostantivo coffa = peso, carico, a sua volta dall'arabo quffa= corbello.
54 Dicette 'o scarrafone: Pò chiovere 'gnostia comme vo’ isso, maje cchiú niro pozzo addeventà...
Disse lo scarafaggio: (il cielo) può far cadere tutto l'inchiostro che vuole, io non potrò mai diventare piú nero di quel che sono. La locuzione è usata da chi vuole far capire che ha già ricevuto e sopportato tutto il danno possibile dall'esterno, per cui altri sopravvenienti fastidi non gli potranno procurar maggior danno.
55 Abbacca addò vence.
Letteralmente: collude con chi vince. Di per sé il verbo abbaccare presupporrebbe una segretezza d'azione che però ormai nella realtà non si riscontra, in quanto l'opportunista - soggetto sottinteso della locuzione in epigrafe non si fa scrupolo di accordarsi apertis verbis con il suo stesso pregresso nemico, se costui, vincitore, gli può offrire vantaggi concreti e repentini. Lo sport di salire sul carro del vincitore e di correre in suo aiuto è stato da sempre praticato dagli italiani.
56 Tené 'e fruvole dint'ô mazzo.
Letteralmente: avere i fulmini, i razzi nel sedere. Icastica espressione con la quale si indicano i ragazzi un po' troppo vivaci ed irrequieti ritenuti titolari addirittura di fuochi artificiali allocati nel sedere, fuochi che con il loro scoppiettio costringono i ragazzi a non stare fermi, anzi a muoversi continuamente per assecondare gli scoppiettii. La locuzione viene riferita soprattutto ai ragazzi, ma anche a tutti coloro che non stanno quieti un momento. Letteralmente 'e fruvole sono i fulmini, le folgori dal latino fulgor con roticizzazione e successiva metatesi della elle.
57 Rummané â prevetina o comme a don Paulino.
Rimanere alla maniera dei preti o come don Paolino. Id est: Rimanere in condizioni economiche molto precarie addirittura come un mitico don Paolino, sacerdote nolano che, non avendo di che comprare ceri per celebrar messa, si doveva accontentare di tizzoni accesi.
La prevetina fu il nome assegnato, tra la fine del 18° ed i primi del 19° secolo, all’obolo corrisposto ad un sacerdote per la celebrazione d’una messa piana, di talché il rummané â prevetina esattamente significò ridursi in povertà come quel sacerdote che. celebrando una sola messa piana al giorno, poteva contare per le sue necessità solo su quel contenutissimo obolo giornaliero.
58 Tanto va 'a lancella abbascio ô puzzo, ca ce rummane 'a maneca.
Letteralmente: tanto va il secchio al fondo del pozzo che ci rimette il manico. Il proverbio con altra raffigurazione, molto piú icastica e veritiera, ripete il toscano: tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, e ne adombra il significato sottointendendo che il ripetersi di talune azioni, a lungo andare, si rivelano dannose per chi le compie. La lancella della locuzione è propriamente un secchio atto ad attingere acqua dal pozzo, secchio provvisto di doghe lignee e di un manico in metallo che, sollecitato lungamente, finisce per staccarsi dal secchio.
59 Signore mio scanza a mme e a chi còglie.
Letteralmente: Signore mio fa salvo me e chiunque possa venir colto. È la locuzione invocazione rivolta a Dio quando ci si trovi davanti ad una situazione nella quale si corra il pericolo di finire sotto i colpi imprecisi e maldestri di qualcuno che si stia cimentando in operazioni non supportate da perizia e che perciò possa far indiscriminato danno.
60 'O piezzo cchiú gruosso à dda essere 'a recchia.
Letteralmente: il pezzo piú grande deve essere l'orecchio. Iperbolica minaccia che un tempo veniva rivolta soprattutto ai ragazzini chiassosi e/o facinorosi cui si promettevano inenarrabili percosse tali da ridurli in pezzi di cui il piú grande avrebbe dovuto essere l'orecchio.
61 Essere 'na guallera cu 'e filosce.
Letteralmente: essere un'ernia (in napoletano guallera dall’arabo wadara) corredata di frittate d'uova. Icastica offensiva espressione con cui si denota una persona molle ed imbelle dal carattere debole quasi si tratti di una molle pendula ernia a cui siano attaccate, per maggior disdoro delle ugualmente molli e spugnose frittatine d'uova.
62 Mettere a uno 'ncopp' a 'nu puorco.
Letteralmente: mettere uno a cavallo di un porco. Id est: sparlar di uno, spettegolarne, additarlo al ludibrio degli altri, come avveniva anticamente quando al popolino era consentito condurre alla gogna il condannato trasportandolo a dorso di maiale affinché venisse notato da tutti e fatto segno di ingiurie e contumelie. L’usanza tutta napoletana di condurre un condannato alla gogna a dorso di maiale (a Roma ad es. ciò avveniva a dorso d’asino) fu determinato dal fatto che nella città di Napoli v’era abbondanza di tali animali ed i maiali erano allevati in ogni rione e liberamente per le strade cittadine per essere offerti – come ricordai alibi – ai monaci del TAU della chiesa di sant’Antonio abate in piazza Carlo III, monaci che li usavano per il proprio sostentamento e per preparare con il grasso d’essi maiali dei linimenti da usare come cura dermatologica dei malati ricoverati nel loro minuscolo ospedale annesso al monastero .
63 Oramaje à appiso 'e fierre a sant' Aloja.
Letteralmente: ormai à appeso i ferri a sant'Eligio. Id est: ormai non à piú velleità sessuali,(à raggiunto l'età della senescenza ...). Il sant'Aloja della locuzione è sant'Eligio (in francese Alois) al mercato, basilica napoletana dove i cocchieri di piazza andavano ad appendere i ferri dei cavalli che, per raggiunti limiti di età, smettevano di lavorare. Da questa consuetudine, il proverbio ammiccante nei confronti degli anziani.
64 Si me metto a ffà cappielle, nàsceno criature senza capa.
Letteralmente: se mi metto a confezionare cappelli nascono bimbi senza testa. Iperbolica amara considerazione fatta a Napoli da chi si ritenga titolare di una sfortuna macroscopica.
65 A - Nun fa pérete a chi tène culo. B - Nun dà ponie a chi tène mane.
I due proverbi in epigrafe, in fondo con parole diverse mirano allo stesso scopo: a consigliare cioè colui a cui vengon rivolti di porre parecchia attenzione al proprio operato per non incorrere - secondo un noto principio fisico - in una reazione uguale e contraria che certamente si verificherà; nel caso sub A, infatti è facile attendersi una salva di peti da parte di colui che, provvisto di sedere, sia stato fatto oggetto di una medesima salva. Nel caso sub B, chi à colpito con pugni qualcuno si attenda pure la medesima reazione se il colpito è provvisto di mani.
66 'A sciorta 'e Cazzetta: jiette a piscià e se ne cadette.
Letteralmente: la cattiva fortuna di Cazzetta che si dispose a mingere e perse, per caduta, l'organo deputato alla bisogna. Iperbolica locuzione costruita dal popolo napoletano intorno ad un fantomatico Cazzetta ritenuto tanto sfortunato da non potersi permettere le piú elementari funzioni fisiologiche senza incorrere in danni incommensurabii. La locuzione è l'amaro commento fatto da chi veda le proprie opere non produrre gli sperati risultati positivi, ma al contrario, perseguitati quasi da negatività non prevedibili.
67 Quanno chiovono passe e ficusecche.
Letteralmente: quando cadono dal cielo uva passita e fichi secchi. Id est: mai. La locuzione viene usata quale risposta sarcasticamente dispettosa a chi chiedesse quando si potrebbe verificare un determinato, agognato accadimento ritenuto invece dalla maggioranza irrealizzabile.
68 Meglio scummunicato, ca cummunicato 'e pressa.
Letteralmente: meglio scomunicato che comunicato di fretta.Id est: il danno morale è da preferirsi al danno fisico, soprattutto quando questo sia il danno ultimo:la morte; cummunicato 'e pressa significa: ricevere il Viatico.
69 Doppo magnato e vìppeto" Â salute vosta".
Letteralmente: Dopo d'aver mangiato e bevuto:"Alla vostra salute". L'espressione in epigrafe si usa a Napoli, per commentare sarcasticamente il cattivo comportamento di chi approfitta di una situazione proficua e posticipa gli atteggiamenti augurali, a solo dopo di aver goduto di benefici.È noto che le buonenorme comportamentali vorrebbero che gli auguri venissero fatti antecedentemente, prima cioè di godere dei frutti di azioni comuni; a mo' d'es.: un brindisi va fatto prima, non dopo una bevuta corale.
70 Metterse 'e casa e puteca.
Letteralmente: porsi di casa e bottega. Un tempo chi apriva bottega, spesso aveva la propria abitazione ricavata in un retrobottega o ammezzato della medesima bottega, per cui era quasi continuatamente a disposizione di eventuali clienti. Da questa constatazione nacque l’espressione in epigrafe che estensivamente vale:accingersi ad un lavoro con massima attenzione ed attaccamento puntiglioso come chi dura la propria vita in quella che sia contemporaneamente casa e sede del proprio operare cui potersi dedicare senza soluzione di continuità e senza perdite di tempo che invece ci sarebbero qualora ci si dovesse spostare dalla bottega alla casa e viceversa.
71 Fà 'o scrupolo d''o ricuttaro.
Letteralmente: fare lo scrupolo del magnaccia. Id est: scandalizzarsi grandemente al cospetto di altrui veniali mancanze, alla stregua di un lenone che abituato a compiere gravi mancanze si scandalizzasse di piccoli reati compiuti da altre persone.La locuzione è usata a Napoli appunto per metter alla berlina il comportamento chiaramente falso di chi abitualmente incline a delinquere mostra di scandalizzarsi davanti a piccole mancanze altrui.
72 Purtà p''e viche.
Letteralmente: menare per i vicoli. Id est: comportarsi truffaldinamente nei confronti di qualcuno, imbrogliandolo, confondendolo, rimandando sine die il compimento di promesse formulategli, conducendolo per tortuosi e dispersivi vicoli in luogo della retta e piú breve via maestra. L'espressione è normalmente intesa in senso figurato, ma potrebbe esserlo anche in senso concreto nel deprecato caso ad es. del furbo tassista che,invece di andare diritto alla meta, porti pretestuosamente il povero passeggero in giro per la città prima di depositarlo a destinazione.
73'A raggione s''a pigliano 'e fesse.
Letteralmente: la ragione se la prendono gli sciocchi. La locuzione con aria risentita viene profferita da chi si veda tacitato con vuote chiacchiere, in luogo delle attese concrete opere.
74 Se so' stutate 'e llampiuncelle.
Letteralmente: si sono spente le luminarie. Id est: siamo alla fine, non c'è piú rimedio, non c'è piú tempo per porre rimedio ad alcunché, la festa è finita, la rapresentazione è teeeeeminata, l’opera – nel bene o nel male – è compiuta.
raffaele bracale
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