venerdì 4 luglio 2008

MOTTI NAPOLETANI 8

1 Sparà a vrenna.
Letteralmente: sparare a crusca. Id est: minacciare per celia senza far seguire alle parole , i fatti minacciati. L'espressione la si usa quando ci si riferisca a negozi, affari che si concludono in un nulla di fatto e si ricollega ad un'abitudine dell'esercito borbonico le cui armi da fuoco , durante le esercitazioni, erano caricati con crusca, affinchè i colpi non procurassero danno alla truppa che si esercitava.
vrenna= crusca, residuo della macinazione dei cereali; dal lat. med. brinna.

2 'E sciabbule stanno appese e 'e fodere cumbattono.
Letteralmente: le sciabole stanno attaccate al chiodo e i foderi duellano. L'espressione è usata per sottolineare tutte quelle situazioni nelle quali chi sarebbe deputato all'azione, per ignavia o cattiva volontà si è fatto da parte lasciando l'azione alle seconde linee, con risultati chiaramente inferiori alle attese.

3 'A vacca, pe nun movere 'a coda se facette magnà 'e ppacche da 'e mosche.
Letteralmente: la mucca per non voler muovere la coda, si lasciò mangiare le natiche dalle mosche. Lo si dice degli indolenti e dei pigri che son disposti a subire gravi nocumenti e non muovono un dito per evitarli alla stessa stregua di una vacca che assalita dalle mosche, per non sottostare alla fatica di agitare la coda, lasci che le mosche le pizzichino il fondo schiena!
pacche (voce plurale di pacca =natica dal greco pakýs.

4 Pozza murí 'e truono a chi nun le piace 'o bbuono.
Letteralmente: possa morire di violenta bastonatura chi non ama il buono. La locuzione venne in primis riferita al buono da mangiare, poi estensivamente a tutto ciò che fosse buono.
In una città come Napoli dove vi è un'ottima e succulenta cucina chi non è buongustaio merita di morire bastonato violentemente. in napoletano truono(dal lat. tonitrus letto metetaticamente troni(tus)) significa sia tuono che percosse violente.

5 'A forca è fatta p''e puverielle.
Letteralmente: la forca è fatta per i poveri. Id est: nei rigori della legge vi incorrono solo i poveri, i ricchi trovano sempre il modo di scamparla. In senso storico, la locuzione rammenta però che la pena dell'impiccagione era comminata ai poveri, mentre ai ricchi ed ai nobili era riservata la decapitazione o - in tempi piú recenti - la fucilazione.

6 Piglià vavia e metterse 'nguarnascione.
Letteralmente: prender bava e porsi in guarnaccia/guarnacca. Id est: assumere aria e contegno da arrogante; lo si dice soprattutto di coloro che, essendo assurti per mera sorte o casualità a piccoli posti di preminenza, si atteggiano ad altezzosi ed onniscienti,cercando di imporre agli altri il loro modo di veder le cose, se non addirittura tutta la vita, laddove in realtà poggiano la loro arrogante albagia sul nulla.
vavia letteramente sta per vava= bava quel liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, o anche da quella di bambini, vecchi, o persone che si trovino in un'anormale condizione fisica o psichica, quale è quella di chi, raggiunto un posto di preminenza, pensa di essere superiore a tutto e tutti e si regola con altezzosa, boriosa arroganza; è questa la spiegazione semantica del mettere vavia(=secernere bava). Faccio notare l'opportuna anaptissi (inserzione di una vocale in un gruppo consonantico; epentesi vocalica) operata nella lingua napoletana immettendo una i nella originaria parola vava= bava per ottenere vavia mantenendo con vava il significato di liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, etc. ed assegnando a vavia l'idea di un'anormale condizione fisica o psichica,che può generare sovraproduzione di bava, quale è quella di chi, raggiunto un posto di preminenza, si regola con altezzosa, boriosa arroganza.
guarnascione accrescitivo dal provenzale. guarnacha = guarnacca/guarnaccia= lussuosa sopravveste medioevale di pelliccia, indossata dagli uomini ed usata come segno di importanza e/o preminenza.

7 Darse 'e pizzeche 'ncopp' â panza.
Letteralmente: darsi pizzichi sulla pancia. Id est: sopportare, rassegnarsi, far buon viso a cattivo gioco. È il consiglio che si dà a chi per una contrarietà subita sarebbe pronto a render la pariglia ed invece gli si consiglia di sopportare assestandosi dei non troppo metaforici pizzichi sulla pancia quasi che il dolore fisico che ne deriva servisse a lenire quello morale, in nome del quale ci si sentirebbe pronti a scatenare una guerra!

8'Ncopp' ô muorto se canta 'o miserere.
Letteralmente: sul morto si piange il miserere Id est: non bisogna precorrere i tempi, in ispece quelli delle lamentazioni che allora son lecite quando ci si trovi davanti al fatto compiuto del danno patito, mai prima.

9 Bbuono pe scerià 'a ramma.
Letteralmente: buono per pulire le stoviglie di rame. Cosí in modo quasi rabbioso viene definito un frutto tanto aspro di sapore da non essere edibile, ma che può solo servire alla pulizia delle pentole di rame. Un tempo, quando non esistevano acciai inossidabili o allumini leggeri, le pentole erano in rame opportunamente ricoperte all'interno di stagno; per la loro pulizia e lucidatura ci si serviva di pietra pomice, arena 'e vitrera (sabbia da vetraio ricca di silice), e limoni, troppo aspri per esser mangiati, con i quali si soffregavano le pentole fino a detergerle e addirittura farle luccicare. Per traslato, la locuzione in epigrafe si attaglia anche a chi è di carattere cosí aspro e spigoloso da non consentire ad alcuno di avervi rapporti.


10 Ê tiempe 'e PAPPAGONE
Letteralmente: Ai tempi di PAPPAGONE Id est: in un tempo lontanissimo. Cosí vengono commentate cose di cui si parli che risultano risalenti a tempi lontanissimi, quasi mitici. Il PAPPAGONE della locuzione non è la famosa maschera creata dal compianto attore napoletano Peppino De Filippo (- Napoli, 26 agosto 1903 † Roma, 26 gennaio 1980) ; ma è la corruzione del cognome PAPPACODA antichissima e nobile famiglia partenopea che à lasciato meravigliosi retaggi architettonici risalenti al 1400, in varie strade napoletane.

11 Arretírate, píreto!
Letteralmente: Ritírati, peto! Imperiosa, sarcastica ed ingiuriosa invettiva rivolta verso un borioso, arrogante saccente e supponente (appaiato ad un peto...), che sia andato, con il suo comportamento fuori dei limiti consentiti, e si cerchi di ridimensionare esortandolo, anzi imponendogli di rientrare nei ranghi, anche se non si capisce come un peto, partito dalla sua sede vi possa rientrare a comando, ritirandosi...

12 A 'nu parmo d''o culo mio, fotta chi vo'.
Letteralmente: ad un palmo dal mio sedere, coisca chi vuole. Id est: fate pure i vostri comodi, purchè li facciate lontano dal mio spazio vitale, non mi coinvolgiate e soprattutto non mi arrechiate danno!

13 Dicette 'o miedeco 'e Nola: Chesta è 'a ricetta e ca Ddio t''a manna bbona...
Letteralmente: Disse il medico di Nola: Questa è la ricetta e che Dio te la mandi buona. La locuzione viene usata quando si voglia sottolineare che, dinnanzi ad un problema, si sia fatto tutto quanto sia nelle proprie possibilità personali e che occorra ormai confidare solo in Dio dal quale si attendono gli sperati risultati positivi.

14 Fà 'nu quatto 'e maggio.
Letteralmente: fare un quattro di maggio. Id est: sloggiare, cambiar casa, trasferirsi altrove. Da intendersi anche in senso figurato di allontanarsi, o recedere dalle proprie posizioni.
Nel lontanissimo 1611 il viceré don Pedro de Castro, conte di Lemos, nell'intento di porre un po' di ordine nel caos dei quasi quotidiani traslochi che si operavano nella città di Napoli, fissò appunto ai 4 di maggio la data fissa soltanto nella quale si potevano operare i cambiamenti di casa. Il giorno 4, da allora, divenne la data nella quale gli inquilini erano soliti conferire mensilmente gli affitti ai proprietarii di immobili concessi in fitto.

15 S'à dda ógnere l'asso.
Letteralmente: occorre ungere l'asse. Id est: se si vuole che la faccenda si metta in moto e prosegua bisogna, anche obtorto collo, sottostare alla ineludibile necessità di ungere l'ingranaggio: inveterata necessità che viene di lontano quando i birocciai solevano spalmare con una cotenna ricca di grasso animale gli assi che sostenevano gli elementi rotanti dei loro calessi, affinché piú facilmente si potesse procedere e con meno sforzo delle bestie deputate allo scopo. Il traslato in termini di "mazzette" da distribuire è ovvio e non necessita d'altri chiarimenti.

16 Paré 'nu píreto annasprato.
Letteralmente: sembrare un peto glassato. Lo si dice salacemente di chi arrogantemente si dia troppe arie, atteggiandosi a superuomo, pur non essendo in possesso di nessuna dote fisica e/o morale atta all'uopo. Simili individui vengono ipso facto paragonati ad un peto che, non si sa come, sia inzuccherato, ma che per quanto coperto di glassa dolce resta sempre un maleodorante, vacuo flatus ventris.

17 L'Accíomo ê Bbanche nuove.
Letteralmente: l' Ecce homo ai Banchi nuovi. Cosí negli anni '70 del 20° sec. i napoletani solevano indicare quei giovani, che - per essere alla moda - non si radevano, mantenendo ispidi ed incolti quei pochi peli che avrebbero dovuto costituire l'onor del mento, e per apparire in linea con i dettami della moda, si mostravano smagriti e pallidi. La locuzione rammentava una scultura lignea sita fino a quei tempi in un'edicola votiva posta ai Banchi Nuovi - quartiere napoletano sviluppatosi a ridosso della Posta Vecchia e Santa Chiara - la scultura rappresentava il CRISTO reduce dai tribunali di Anna e Caifa, ed appariva il Cristo, dopo le percosse e gli sputi subiti dai soldati romani, sofferente, smagrito, con la barba ispida, lo sguardo allucinato, proprio come i giovani cui la locuzione si attagliava e talora ancóra può attagliarsi.

18 Chi tène cummedità e nun se ne serve, nun trova 'o prevete ca ll'assolve.
Letteralmente: Chi à una comodità e non se ne serve, non trova un prete che l'assolva. Id est: chi à avuto, per sorte o meriti, delle comodità deve servirsene; in caso contrario commetterebbe una sciocchezza tanto autolesiva,da configurare un peccato cosí grave per la cui assoluzione non sarebbe bastevole un semplice prete, ma forse bisognerebbe far ricorso al penitenziere maggiore.

19 Quanno nun site scarpare, pecché rumpite 'o cacchio ê semmenzelle?
Letteralmente: poi che non siete ciabattini, perché infastidite le semenze? Questa gustosa locuzione di formulazione barocca, se non rococò viene usata quando si voglia distogliere qualcuno dall'interessarsi di faccende che non gli competono non essendo tali faccende supportate, né dal di lui mestiere, né dalle di lui inesistenti capacità intellettive o morali. Le semenze sono i piccolissimi chiodini con cui i ciabattini/calzolai sogliono sistemare la tomaia sulla forma di legno per procedere alla fattura di una scarpa.

20 'A riggina avette bisogno d''a vicina.
Letteralmente: la regina dovette ricorrere alla vicina. Iperbolica locuzione con la quale si sottolinea che nessuno è bastevole a se stesso: persino la regina ebbe bisogno della propria vicina, figurarsi tutti gli altri esseri umani: siamo una società dove nessun uomo è un'isola ed ognuno - per quanto grande o importante sia - può aver bisogno del proprio prossimo cui ricorrere per chiedere aiuto.

21 Senza ê fesse nun campano 'e deritte.
Letteralmente: senza gli sciocchi non vivono i furbi; id est: in tanto prosperano i furbi in quanto vi sono degli sciocchi che consentono loro di prosperare.

22 Dà 'ncopp' ê rrecchie.

Letteralmente: dare/ colpire sulle orecchie. La locuzione consiglia il modo migliore di comportarsi nei confronti degli arroganti, dei boriosi, dei supponenti, dei saccenti adusi ad andare in giro tronfi e pettoruti a testa elevata quasi fossero i signori del mondo. Nei loro confronti bisogna usare una sana violenza colpendoli, sia pure metaforicamente, sulle orecchie per fargliele abbassare.

23 N' aggio scaurato strunze, ma tu me jesce cu 'e piede 'a fora...
Letteralmente: ne ò bolliti di stronzi, ma tu (sei un cosí grosso pezzo di sterco )che non entri per intero nella ipotetica pentola destinata all'uso.
Gustosissima, iperbolica e barocca locuzione-offesa usata nei confronti di chi si dimostri cosí esageratamente pezzo di merda (cioè persona odiosa,stupida, ma anche cattiva, quasi ripugnante) da meritarsi di esser paragonato ad un ripugnante quid da lessare che però - per la sua grandezza - ecceda i limiti della pentola ostacolando o rendendo in tal modo difficile l'operazione della metaforica bollitura.

24 Tante galle a cantà nun schiara maje juorno.
Letteralmente: tanti galli a cantare non spunta mai il giorno. Id est: quando si è in tanti ad esprimere un parere intorno ad un argomento, a proporre una soluzione ad un problema, non si addiviene a nulla di concreto... Perché dunque farsi meraviglia se il parlamento italiano composto da un numero esorbitante di deputati e senatori non riesce mai a legiferare rapidamente e saggiamente: parlano in tanti... Lo stesso dicasi di una famiglia dove il capofamiglia in luogo di prendere in prima persona le necessarie decisioni,assumendosi ovviamente le relative responsabilità, consente a tutti i componenti della famiglia di esprimere pareri, mettere steccati e/o paletti... non si giunge mai ad un risultato concreto e/o soddisfacente!


25 Madonna mia, mantiene ll'acqua!
Letteralmente: Madanna mia reggi l'acqua. Id est: fa' che la situazione non peggiori o non degeneri. L'invocazione viene usata quando ci si trovi davanti ad una situazione di contesa il cui esito si prospetti prossimo a peggiorare per evidente cattiva volontà di uno o piú dei contendenti e si impetra l'aiuto del Cielo perché metta nell'animo dei contendenti la buona volontà necessaria a risolvere la contesa, evitando che degeneri.

26 Ommo 'e ciappa.
Letteralmente: uomo di bottone e, per traslato, uomo importante, di vaglia. La locuzione à origini antichissime addirittura seicentesche allorché a Napoli esistette una consorteria particolare, la cosiddetta repubblica dei togati che riuniva un po' tutta la classe dirigente della città. Le ciappe (dal latino=capula) erano i grossi bottoni d'argento cesellato che formavano l'abbottonatura della toga simbolo, appunto, di detta consorteria.

27 'A nave cammina e 'a fava se coce.
Letteralmente: la nave cammina, e la fava si cuoce. La locuzione mette in relazione il cuocersi della fava (che indica la sopravvivenza,id est la continuata abbondanza di cibo) con il cammino della nave ossia con il progredire delle attività economiche, per cui sarebbe piú opportuno tradurre se la nave va, la fava cuoce. La locuzione nacque nell'àmbito di paesi rivieraschi dove la maggior parte dei proventi erano tratti dalla pesca e dai commerci marinari.

28 Essere 'nu casatiello cu ll'uva passa.
Letteralmente: essere una caratteristica ciambella rustica pasquale ripiena d'uva passita. Id est: essere una persona greve, fastidiosa, indigesta, noiosa quasi da porre alla pari con la torta menzionata già greve di suo per esser ripiena di formaggi, uova, salumi, resa meno digeribile dalla presenza dell'uva passita...
29 Nce vonno 'e cquatte laste e 'o lamparulo.
Letteralmente: occorono i quattro vetri laterali ed il reggimoccolo. Id est: il lavoro compiuto è del tutto inutilizzabile in quanto palesamente incompleto e non fatto a regola d'arte; quello della locuzione è una lanterna ultimata in modo raffazzonato al punto che mancano elementi essenziali alla sua funzionalità. La locuzione viene perciò usata nei confronti di chi, ingiustificatamente, si glori di aver fatto un eccellente lavoro, laddove ad un attento controllo esso risulta vistosamente carente .

30 A - Miette mano â tela
B - Arriciette 'e fierre
Le due locuzioni indicano l'incipit e il termine di un'opera e vengono usate nelle precise circostanze da esse indicate, ma sempre con un valore di sprone; sub A: Metti mano alla tela, ossia, prepara la tela ché è giunto il momento di cominciare il lavoro. sub B: Metti a posto i ferri (letteralmente: Dai ricetto, riparo ai ferri), è giunta l'ora di lasciare il lavoro.
= arriciette voce verbale (2° pers. sing. dell'imperativo) dell'infinito arricettà = raccogliere e conservare il verbo è dal tardo lat. *ad-receptare desunto quale intensivo frequentativo del class. recepire= accogliere, dar sistemazione etc. denominale di un receptus=ricovero, sistemazione, rifugio.
31 Essere 'nu/ 'na secaturnese.
Letteralmente: essere un/ una sega-tornesi.Id est: essere un avaraccio/a, super avaro/a al punto di non voler spendere per intero neppure un tornese o di far concorrenza a taluni antichi tonsori di monete, che al tempo che circolavano monete d'oro o d'argento, usavano limarle per poi rivender la limatura e far cosí piccoli guadagni: venne poi la carta-moneta e finí il divertimento.
- secaturnese ad litteram: sega tornese, come ò detto è lo spilorcio inveterato al segno di non voler spendere tutt'intero neppure un tornese, moneta che già di per sé non valeva tanto: appena 6 cavalli!, e preferisce quasi frantumarlo per spenderlo a piccoli pezzi, oppure l'avaro aduso a limare le monete auree o argentee per ricavarne un sia pure esiguo tornaconto; parola formata con l'addizione di seca voce del verbo secà = segare dal lat. secare e del sostantivo turnese (tornese) quest'ultima dal lat. turonensem (di Tours, in quanto i primi tornesi furono battuti in quella città francese.

32 Essere 'na meza pugnetta.
Esser piccolo di statura, ma soprattutto valer poco o niente, non avere alcuna conclamata attitudine operativa, stante la ridottissima capacità fisica, o intellettiva o morale essendo il prodotto di un gesto onanistico non compiuto neppure per intero.

33 Essere 'na galletta 'e Castiellammare.

Letteralmente: essere un biscotto di Castellammare. Id est: essere poco incline ad atti di generosità, anzi tener sempre saldamente chiusi i cordoni della borsa essendo molto restio ad affrontare spese di qualsiasi genere, in ispecie quelle destinate ad opere di carità, essere insomma cosí duro nei propri parsimoniosi intendimenti da essere paragonabile ai durissimi biscotti prodotti in Castellammare, biscotti a lunga conservazione usati abitualmente come scorta dalla gente di mare che li preferiva al pane perché non ammuffivano, ma che erano cosí tenacemente duri che - si diceva - neppure l'acqua di mare riuscisse ad ammorbidirli.

34 'E curalle ll'à dda fà 'o turrese.
Letteralmente: i coralli li deve lavorare il torrese. Id est: ognuno deve fare il proprio mestiere, che però deve esser fatto secondo i crismi previsti; non ci si può improvvissare competenti; nella fattispecie la lavorazione del corallo è appannaggio esclusivo dell'abitante di Torre del Greco, centro campano famoso nel mondo appunto per la produzione di oggetti lavorati in corallo.

35 Mo t''o ppiglio 'a faccia 'o cuorno d''a carnacotta
Letteralmente. adesso lo prendo per te dal corno per la carne cotta. Gustosa,icastica ed eufemistica espressione con la quale suole rispondere chi, richiesto di qualche cosa, non ne sia in possesso né abbia dove reperirla o gli manchi la volontà di reperirla. Per comprendere appieno la locuzione bisogna sapere che la carnacotta è il complesso delle trippe o frattaglie per solito bovine o raramente suine che a Napoli pulite e lessate già atte ad essere consumate vengono vendute o dai macellai o da appositi venditori girovaghi che le servono ridotte in piccoli pezzi su minuscoli fogli di carta oleata; i piccoli pezzi di trippa vengono dapprima irrorati col succo di limone e poi cosparsi con del sale che viene prelevato da un corno bovino scavato ad hoc proprio per contenere il sale e bucato sulla punta per permetterne la distribuzione. Detto corno viene portato dal venditore di trippa, appeso in vita e lasciato pendente sul davanti del corpo. Proprio la vicinanza con intuibili parti anatomiche del corpo, permettono di fare assumere alla locuzione un connotato furbesco e di significare che ci si trovi nell'impossibilità di aderire alle richieste avute.

36 Pure 'e cuffiate vanno 'mparaviso.
Letteralmente: anche i corbellati vanno in paradiso. Massima consolatoria con cui si tenta di rabbonire i dileggiati cui si vuol fare intendere che sí è vero che ora sono presi in giro, ma poi spetterà loro il premio del paradiso. Il termine cuffiato cioè corbellato è il participio passato del verbo cuffià che deriva dal sostantivo coffa = peso, carico, a sua volta dall'arabo quffa= corbello.

37 Dicette 'o scarrafone: Po' chiovere 'gnostia comme vo' isso, maje cchiú niro pozzo addeventà...
Disse lo scarafaggio: (il cielo) può far cadere tutto l'inchiostro che vuole, io non potrò mai diventare piú nero di quel che sono. La locuzione è usata da chi vuole far intendere che à già ricevuto e sopportato tutto il danno possibile dall'esterno, per cui altri sopravvenienti fastidi non gli potranno procurar maggior danno.

38 Abbacca addó vence.
Letteralmente: collude con chi vince. Di per sé il verbo abbaccare (= accordarsi, colludere dal t. lat. ad+vadicare) presupporrebbe una segretezza d'azione che però ormai nella realtà non si riscontra, in quanto l'opportunista - soggetto sottinteso della locuzione in epigrafe non si fa scrupolo di accordarsi apertis verbis con il suo stesso pregresso nemico, se costui, vincitore, gli può offrire vantaggi concreti e repentini. Lo sport di salire sul carro del vincitore e di correre in suo aiuto è stato da sempre praticato dagli italiani che ànno nel loro DNA il tradimento, la fellonia interessata, non disgiunta dalla truffaldineria e doppiezza d'animo quelle che manifestano in ogni occasione (soprattutto sportive) dove gli italiani da autentici delinquenti mettono in mostra tutte le loro doti di furbizia levantina simulando inesistenti danni subíti ad ogni pie' sospinto e provocando ad arte gli avversarî per indurli alla reazione.

39 Tené 'e fruvole dint'ô mazzo.
Letteralmente: avere i fulmini, i razzi nel sedere. Icastica espressione con la quale si indicano i ragazzi un po' troppo vivaci ed irrequieti ritenuti titolari addirittura di fuochi artificiali allocati nel sedere, fuochi che con il loro scoppiettio costringono i ragazzi a non stare fermi, anzi a muoversi continuamente per assecondare gli scoppiettii. La locuzione viene riferita soprattutto ai ragazzi, ma anche a tutti coloro che non stanno quieti un momento. Letteralmente 'e fruvole sono le folgori, i fulmini; il singolare di fruvole è fruvolo derivante dal latino fulgor con roticizzazione e successiva metatesi della elle;
'o mazzo nell'inteso generale indica il sedere, quantunque con derivazione dal t. lat. *matea= intestino indicherebbe la parte terminale dell'intestino cioè l'ano.


40 Tanto va 'a lancella abbascio ô puzzo, ca ce rummane 'a maneca.
Letteralmente: tanto va il secchio al fondo del pozzo che ci rimette il manico. Il proverbio con altra raffigurazione, molto piú icastica, ripete il toscano: tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, e ne adombra il significato sottointendendo che il ripetersi di talune azioni, a lungo andare, si rivelano dannose per chi le compie. La lancella (che è dal lat. lancula diminutivo di lanx) della locuzione è propriamente un secchio atto ad attingere acqua dal pozzo, secchio provvisto di doghe lignee e di un manico in metallo che, sollecitato lungamente, finisce per staccarsi dal secchio.


41 'O piezzo cchiú gruosso à dda essere 'a recchia.
Letteralmente: il pezzo piú grande deve essere l'orecchio. Iperbolica, icastica minaccia che un tempo veniva rivolta soprattutto ai ragazzini chiassosi e/o facinorosi cui si promettevano inenarrabili percosse tali da ridurli addirittura in pezzi di cui il piú grande avrebbe dovuto essere l'orecchio.

42 Essere 'na guallera cu 'e filosce.
Letteralmente: essere un'ernia (in napoletano guallera dall'arabo wadara) corredata di frittate d'uova. Icastica offensiva espressione con cui si denota una persona molle ed imbelle dal carattere debole quasi si tratti di una molle pendula ernia a cui siano attaccate, per maggior disdoro delle ugualmente molli e spugnose frittatine d'uova.

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43 Oramaje à appiso 'e fierre a sant' Aloja.
Letteralmente: ormai à appeso i ferri a sant'Eligio. Id est: ormai non à piú velleità sessuali,(à raggiunto l'età della senescenza ...)
Il sant'Aloja della locuzione è sant'Eligio (in francese Alois) al mercato, basilica napoletana dove i cocchieri di piazza andavano ad appendere i ferri dei cavalli che, per raggiunti limiti di età, smettevano di lavorare, quei medesimi ferri che ad inizio dell'attività erano stati benedetti nella medesima basilica. Dalla consuetudine di depositare i ferri , il popolo trasse il giocoso proverbio irridente ed ammiccante nei confronti degli anziani.

44 Si me metto a ffà cappielle, nàsceno criature senza capa.
Letteralmente: se mi metto a confezionare cappelli nascono bimbi senza testa. Iperbolica amara considerazione fatta a Napoli da chi si ritenga titolare di una sfortuna macroscopica tale da poter generare avvenimenti impensabili.

45 A - Nun fa pérete a chi tène culo.
B - Nun dà ponie a chi tène mane.
I due proverbi in epigrafe, in fondo con parole diverse mirano allo stesso scopo: cioè consigliare colui a cui vengon rivolti di porre parecchia attenzione al proprio operato per non incorrere - secondo un noto principio fisico - in una reazione uguale e contraria che certamente si verificherà; nel caso sub A, infatti è facile attendersi una salva di peti da parte di colui che, provvisto di sedere, sia stato fatto oggetto di una medesima salva. Nel caso sub B, chi à colpito con pugni qualcuno si attenda pure la medesima reazione se il colpito è provvisto di mani.


46 Quanno chiovono passe e ficusecche.
Letteralmente: quando cadono dal cielo uva passita e fichi secchi. Id est: mai. La locuzione viene usata quale risposta dispettosa a chi chiedesse quando si potrebbe verificare un accadimento ritenuto invece dalla maggioranza irrealizzabile.

47 Essere all'abblativo.
Letteralmente: essere all'ablativo. Id est: essere alla fine, alla conclusione e, per traslato, trovarsi nella condizione di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'ablativo della locuzione è appunto l'ultimo caso delle declinazioni latine.

48 Essere muro e mmuro cu 'a Vicaria.
Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti. La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco, site nell'omonima piazza nell'edificio che in un tempo antecedente fu convento dei monaci di sant'Anna e successivamente sede della Pretura napoletana.

49 Cu 'o tiempo e c 'a paglia...
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o nespole coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti.

50 Sî arrivato â monaca 'e lignammo.
Letteralmente: sei giunto presso la monaca di legno. Id est: sei prossimo alla pazzia. Anticamente la frase in epigrafe veniva rivolta a coloro che davano segni di pazzia o davano ripetutamente in escandescenze. La monaca di legno dell'epigrafe altro non era che una statua lignea raffigurante una suora nell'atto di elemosinare . Detta statua era situata sulla soglia del monastero delle Pentite presso l'Ospedale Incurabili di Napoli, ospedale dove fin dal 1600 si curavano le malattie mentali.

51 Stammo all'evera.
Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo veramente alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.

52 Hê sciupato 'nu Sangradale.
Letteralmente: Ài sciupato un Sangradale. Lo si dice di coloro che , a furia di folli spese o cattiva gestione dei proprî mezzi di fortuna, dilapidino un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il Sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea si narra che raccogliesse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri.

53 Fatte capitano e magne galline.
Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiare una gallina era ritenuto segno di dovizie di mezzi e perciò era cosa che si potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa le viste, fingi di essere un capitano e godine i benefici.

54 Chi nasce tunno nun po' murí quatro.
Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione che viene usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti da genitori o educatori per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.

55 A chi parla areto, 'o culo le risponne.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponda o risponderà il sedere.
La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta al loro vaniloquio una salva di peti.

56 A craje a craje comme a' curnacchia.
Letteralmente: a cra, a cra come una cornacchia. La locuzione, che si usa per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso della cornacchia e la parola latina cras che in napoletano suona craje e che significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non à seria intenzione di lavorare .

57 Chello ca nun se fa nun se sape.
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.

58 'O pesce gruosso, se magna ô piccerillo.
Letteralmente: il pesce grande mangia il (pesce) piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande.

59 'O puorco se 'ngrassa pe ne fà sacicce.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve, né può pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perché il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.

60 Jí mettenno 'a fune 'e notte.
Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
La locuzione a margine viene spesso pronunciata sia pure in forma negativa: Nun vaco mettenno 'a fune 'e notte id est: Non sono un masnadiero da taluni genitori che oppongono alle esorbitanti richieste rivolte loro da figliuoli esosi, la penuria dei loro mezzi economici, penuria dovuta alla onestà d'essi genitori.

61 Parla quanno piscia 'a gallina!
Letteralmente: parla quando orina la gallina. Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, magari gratuite cattiverie e/o consigli non richiesti e dunque inopportuni e non graditi. Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum,attraverso un organo onnicomprensivo detto cloaca per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe è sollecitato a tacere sempre.
62 Puozze passà p''a Loggia.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È come a dire: Possa tu morire. Per la zona della Loggia di Genova, infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei diretti al Camposanto.
63 Core cuntento â Loggia.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi ed aprendovi botteghe e bettole;rammenterò, per incidens, che proprio in una bettola della loggia di Genova, ad opera di cuochi genovesi (i cui avventori probabilmente non amavano il ragú napoletano al sugo di pomodoro) fu ideato quello stracotto di carne di manzo a base di cipolle ed altri aromi che (con il nome di genovese) diverrà uno dei piatti importanti della cucina partenopea.


64 Cesso a vviento!
Letteralmente: gabinetto a vento (aperto). Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente che viene equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti, per consentire un agevole ricambio d'aria, sia in alto che in bassoe per consentirne una rapida pulizia con pompe idrauliche.
65 'A malora 'e Chiaja.
Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Così a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri piú eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un povero borgo molto prossimo al mare ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleodoranti dei grossi pitali nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora 'e Chiaja (voce derivata dal lat. plaga=spiaggia con tipico passaggio di pl a chi come ad. es plus?cchiú - pluere?chiovere - platea?chiazza etc.).
66 Farne una cchiú 'e Catuccio.
Letteralmente: compierne una piú di Catuccio. Id est: farne di tutti i colori, compiere infamie e scelleratezze tali da sorpassare quelle compiute in Francia dal settecentesco Louis Philippe Bourguignon celebre brigante soprannominato Cartouche corrotto in napoletano con il termine Catuccio. La locuzione viene usata per bollare il comportamento non raccomandabile di chi agisce procurando danno a terzi, ma iperbolicamente anche per sottolineare il comportamento un po' troppo vivace dei ragazzi.
67 Essere passata 'e còveta o 'e cuttura.
Letteralmente: essere passata di raccolta cioè già sfiorita sull'albero perché abbondandemente maturata oppure essere oramai passata di cottura cioè bruciacchiata perchè troppo cotta. Ambedue le espressioni fanno furbescamente riferimento ad una donna piuttosto in avanti con gli anni perciò sfiorita e non piú degna di attenzioni galanti alla medesima stregua o di un frutto lasciato sul ramo troppo tempo dopo la maturazione o di un cibo lasciato sul fuoco oltre il tempo necessario, facendolo quasi bruciare.
68 Quanno 'o diavulo t'accarezza è signo ca vo' ll'anema.
Letteralmente : quando il diavolo ti carezza, significa che vuole l'anima. Lo si afferma a commento delle azioni degli adulatori o di coloro che godono di cattiva fama; se uno di costoro ti blandisce, offrendoti servigi o opere gratuite, bisogna non fidarsi, giacché nel loro operare c'è la nascosta richiesta di qualcosa molto piú importante della prestazione offerta.Ricordo che la locuzione era usata dai genitori in risposta alle improvvise affettuosità espresse dai loro figlioli discoli fino a pochi istanti prima delle blandizie probabilmente interessate.

69 Doppo muorto, buzzarato.
Letteralmente: dopo morto,vilipeso; dopo aver subíto la morte, sopportare anche l'oltraggio. La locuzione corrisponde, anche se in maniera un po' piú dura al toscano: il danno e la beffa. Essa fu usata nel corposo linguaggio partenopeo da un napoletano che assistette al consueto (ma - pare - da allora non piú in uso) percuotimento del capo del defunto papa PIO XII, con il previsto martelletto d'argento operato dal cardinale camerlengo, per accertarsi che il pontefice non reagisse dimostrando così d'essere morto.
Ò usato "corposo linguaggio" perché di per sé la voce buzzarato ( deriv. del lat. tardo Bugarus per Bulgarus 'bulgaro'; nel medioevo, dopo che questo popolo ebbe abbracciato l'eresia patarina, il suo nome significò anche 'eretici' e quindi (forse per l'identità della pena) 'sodomiti) significherebbe sodomizzato ma - ovviamente - nell'espressione è usata in un significato meno volgare: offeso, vilipeso,insultato, disonorato etc.

70 Nun c'è prereca senza sant' Austino.
Letteralmente: Non v'è predica senza sant'Agostino. Come si sa, sant'Agostino, vescovo d' Ippona, è uno dei piú famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non usi citare gli scritti del santo vescovo. L'espressione in epigrafe viene usata a mo' di risentimento da chi si senta chiamato in causa - soprattutto ingiustamente - e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò non desiderate, oppure viene usata ad infastidito commento del parlare di chi, nell'esprimersi, usi o tratti costantemente taluni stucchevoli argomenti o ancóra prenda a riferire sempre sulla medesima persona.

71 'A malanova ll'accumpagna 'o viento.
Letteralmente: la cattiva notizia viaggia sulle ali del vento. Id est: le cattive notizie ti raggiungono rapidamente, come fossero spinte dal vento; per cui il popolo è solito affermare: nessuna nuova, buona nuova, poichè sono le cattive notizie a giungere sospinte dal vento; se non ne giungono, significa che si tratta di buone notizie che - per solito - viaggiano nolto piú lentamente delle cattive (forse perché la connaturale cattiveria umana preferisce propagare ciò che può procurar dolore, piuttosto che ciò che potrebbe dar piacere!)
72 E bravo ? fesso!
Letteralmente: E bravo allo sciocco! La sarcastica esclamazione in epigrafe la si usa sempre quando si voglia ironicamente plaudire all'operato di chi pretende, da borioso arrogante saccente e supponente, con la propria azione di dimostrare la propria valentía, abilità o bravura nei confronti di qualcuno a cui non riesca di agire alla medesima stregua. Piú chiaramente, la locuzione è usata a mo' di presa in giro di coloro che fanno le viste di ritenersi superiori agli altri e in realtà se lo sono non è per maggiori capacità fisiche e/o morali, ma solo per fortunose o transeunti ragioni. Per meglio chiarire spieghiamo con un esempio. Poniamo vi sia un uomo infortunato alle gambe che abbia difficoltà ad ascendere una scala a pioli. Si presenta uno sciocco (il fesso dell'espressione) che, essendo pienamente integro nella sua salute, con irrisoria facilità ascende la scala e commenta con aria saccente: "Visto come è facile?". La risposta che si merita codesto sciocco è quella in epigrafe, che nel caso dell'esempio starebbe a significare: Se tu non fossi cosí stupido come sei, ti renderesti conto che se anche io fossi nella mia integrità fisica, non avrei difficoltà a fare ciò che ài fatto tu! Ma poi che sei grandemente sciocco, mi adatterò a plaudire ironicamente la tua stupidità.
73 Quanno 'o mellone jesce russo, ogneduno ne vo' 'na fella.
Letteralmente: Quando il cocomero al taglio si presenta ben colorito di rosso, ognuno ne vuole una fetta. Id est: Quando l'occasione è buona, ognuno cerca di ottenerne il massimo vantaggio. Per traslato, l'espressione si usa quando si voglia bollare il comportamento di chi è sempre pronto a saltare sul carro del vincitore...
74 Si 'o Signore me pruvvede, m'aggi' 'a fà 'nu quacchero luongo 'nfino ê piede.
Letteralmente: Se il Cielo mi dà provvidenza, debbo farmi un soprabito lungo fino ai piedi. Id est: se avrò fortuna e l' aiuto dal Cielo mi voglio ricoprire fino ai piedi per modo che non possa temere offese dall'esterno. La parola quacchero (che etimologicamente è un adattamento dell'ingl. quaker, propr. 'tremolante', deriv. di to quake 'tremare'; nome attribuito per scherno, nel 1650, ai seguaci di un movimento religioso , perché il fondatore aveva ammonito i presenti ai suoi sermoni a tremare davanti alla parola di Dio) nel senso di cappotto è modellata in riferimento ai lunghi costumi indossati appunto dai quaccheri.
75 Ll'abbate Taccarella.
Letteralmente: l'abate Taccarella. Con questo soprannome vien posto alla berlina , a Napoli, la malalingua, lo sparlatore, colui che, metaforicamente, tagliuzzi gli abiti addosso ad una persona; il nome Taccarella è chiaramente un deverbale desunto appunto dal verbo taccarià che significa tagliuzzare, ridurre in minuti pezzetti.
76 T' hê pigliato 'e ccient' ove.
Letteralmente: ài preso le cento uova; ài bevuto cento uova. Id est: sei diventato pazzo. La locuzione rammenta un antichissimo metodo di cura della pazzia in uso a Napoli nei sec. XV e XVI, al tempo di un famosissimo medico/maestro dei pazzi, tale Giorgio Cattaneo - dal cui nome derivò poi il termine mastuggiorgio che indica appunto il castigamatti - il quale medico pare inventasse la cura coercitiva per il folle di dover assumere ben cento uova di sèguito e poi, sotto la minaccia di una frusta, di girare la pesante ruota di un pozzo.
77 Frijenno, magnanno.
Letteralmente: friggendo e mangiando. L'uso, tutto napoletano, di mettere in fila due gerundi, senza un apparente modo finito reggente, sta ad indicare che le due azioni debbono essere eseguite quasi contemporaneamente, senza soluzione di continuità, e - nella fattispecie - il cibo una volta fritto deve essere subito consumato, senza indugio, con immediatezza e rapidità. Il cibo, sottinteso nella locuzione, è rappresentato dalle famosissime paste cresciute, dai tittoli, dai fiori di zucca in pastella e da tutte quelle numerose verdure, fette di ricotta, uova sode, animelle etc. che concorrono a formare quello che erroneamente si dice fritto all'italiana e che sarebbe piú consono dire fritto alla napoletana, giacchè in Napoli fu ideato questo tipo di preparazione culinaria da consumarsi velocemente all'impiedi davanti ai banchi delle friggitorie (antenate delle moderne pizzerie) esercizi dove detto fritto veniva preparato ed offerto, asperso di sale, disposto su fogli o cartoccetti di carta oleata, seduta stante all'avventore anche frettoloso.
78 Fatte 'na bbona annummenata e va'scassanno chiesie.
Letteralmente: procura di farti una buona nomea e poi saccheggia pure le chiese. Id est: ciò che conta nella vita è di godere di una buona opinione presso i terzi, poi si possono operare i peggiori misfatti, addirittura furti sacrileghi, nessuno mai potrà o vorrà sospettere di uno che goda di buona nomea. La locuzione insomma affronta l'antico dilemma: essere o apparire e propende, stranamente per la cultura popolare, da sempre incline dalla parte della sostanza piuttosto che da quella della forma, per il secondo corno del dilemma.
79 Ammacca e sala, aulive 'e Gaeta.
Letteralmente: schiaccia e sala, olive di Gaeta! Di per sè è la voce - ossia la frase di richiamo - usata dai venditori girovaghi di olive e con essa si rammenta la veloce tecnica della conservazione in salamoia delle olive che vengono stipate in botticelle e conservate in un bagno di acqua salata. Con la stessa locuzione si suole commentare a mo' di riprovazione, il comportamento di coloro che operano in maniera rapida e superficiale, senza porre attenzione ed applicazione a ciò che sono stati chiamati a fare.
80 Cca 'e ppezze e cca 'o sapone.
Letteralmente: di qui le pezze e di là il sapone. È il modo rapidamente incisivo per dire che non si fa credito di sorta. Chi usa detta locuzione intende comunicare che con lui non si fanno contratti se non a prestazione e controprestazione immediata, contratti dove il do e il des sono contemporanei. Originariamente, la locuzione era usata dai robivecchi girovaghi detti "SAPUNARI" che offrivano quale merce di scambio in cambio di abiti dismessi, un tot di sapone (segnatamente il cosiddetto sapone 'e piazza che fu un sapone artigianale di color ambra e consistenza di spessa crema, usato per detergere la biancheria in alternanza o in unione alla soda caustica; il nome di sapone di piazza gli derivava dal fatto che essendo un sapone artigionale e non industriale non era venduto in negozio ma, il piú delle volte, commerciato dagli stessi produttori sulla pubblica piazza).
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Ricordo che l'avverbio napoletano di luogo cca corrispondente all'italiano qua va sempre scritto senza accento e con la geminazione iniziale della c, per cui in napoletano il qua va reso con cca e non con ccà o cà come pure qualche sprovveduto fa; è vero che in napoletano esiste un omofono ca pronome relativo o congiunzione che significa che, ma proprio perché l'avverbio qua è reso con cca è sufficiente la geminazione iniziale della c per distinguere il cca avverbio dal ca pronome o congiunzione; non è necessario aggiungere accenti di sorta!
81 M''o ssento 'e scennere pe dereto ê rine.
Letteralmente: me lo sento colare lungo il filo della schiena. L'espressione viene usata con senso di rammarico se non di timore, quando si voglia comunicare a terzi di avvertire su se stessi la sensazione di un prossimo imminente disastro e/o pericoloso accadimento e di non potervi purtroppo porre riparo.
82 Se so' 'ncuntrate 'o sango e 'a capa.
Letteralmente: si sono incontrati il sangue e la testa. Id est: si è verificato l'incontro di due elementi ugualmente necessarî ed indispensabili al conserguimento di un quid. Locuzione usata sia in senso positivo che negativo. In senso marcatamente negativo s'usa per sottolineare l'incontro di due poco di buono dalla cui unione deriverà certamente danno per molti. La locuzione, in senso positivo, fa riferimento originariamente all'incontro liturgico della teca contenente i reperti ematici del sangue di san Gennaro con il busto contenente il cranio del santo; solo dopo detto incontro infatti per solito si verifica il miracolo della liquefazione del sangue.
Un tempo, quando la teca con il sangue ed il busto contenente il cranio del santo erano conservati in luoghi diversi, nei giorni stabiliti partivano due distinte processioni, una al sèguito della teca con il sangue, l'altra al sèguito del busto ed ambedue le processioni convergevano verso un medesimo luogo dove incontrandosi sangue e busto con il cranio si verificava il prodigioso scioglimento del sangue del santo.
83 Essere d''o bettone.
Letteralmente: essere del bottone Id est: appartenere ad un medesima consorteria, ad una stessa associazione e perciò essere nella condizione di poter chiedere e ricevere aiuto ed assistenza dai propri sodali. Il bottone della locuzione è, senza dubbio, il distintivo, cioè il segno esteriore della appartenenza ad un determinato consesso, ma è inesatto ritenere il distintivo della locuzione quello fascista, perché l'espressione, a Napoli, era nota e si usava fin dall'epoca dei Borbone.
84 Tirarse 'a cauzetta.
Letteralmente: tirarsi la calza. Id est: starsene sulle proprie, darsi delle arie, farsi eccessivamente pregare prima di condiscendere sia pure ad un colloquio, guardare dall'alto in basso i richiedenti, dimostrarsi arroganti e reticenti. La locuzione che fotografa quasi il sopracciò, il rancoroso che mantiene le distanze, deriva dall'usanza spagnola di ritenere elegante ed importante chi portasse le calze molto aderenti alle gambe e tirate su il piú possibile.
85 I' faccio pertose e tu gaveglie.
Letteralmente: Io faccio buchi e tu cavicchi. Id est: mi remi contro. La locuzione la si usa quando si voglia redarguire qualcuno che proditoriamente e senza apparenti motivi, anzi quasi per dispetto, si adopera per vanificare l'opera di chi si sta affannando in un'azione di senso contrario come nella locuzione càpita a chi si sta adoperando a fare buchi e trova chi invece si dà da fare per confezionare cavicchi atti a turare detti buchi.
pertose = plurale femm. del masch. pertuso = buco derivato da un t. lat. *pertusju(m)deverbale di pertundere=bucare;
gaveglie s.femm. plur. di gaveglia= cavicchio, stecco derivato dal provenzale cavilha da un t. lat. *cavicla per clavicula.
86 Quanno scioscia viento 'e terra, 'o pesce nun zompa dint' â tiella.
Letteralmente: quando spira il maestrale il pesce non salta in padella. Id est: i giorni spazzati dal vento maestrale sono i meno adatti per la pesca. Piú in generale il proverbio sta a significare che per ottenere buoni risultati occorre attendere il momento propizio e non bisogna avventurarsi in alcuna opera quando spiri vento avverso.
87 Tre songo 'e putiente: 'o papa 'o rre e chi nun tène niente.
Letteralmente: Tre sono i potenti: il papa il re e chi non possiede nulla. È facile capire il perché della locuzione. Il Papa non à concorrenti, per cui nel suo àmbito è da ritenersi veramente un potente; idem valga per il re inteso come despota. E non meravigli che sia considerato un potente il nullatenente, che basa proprio sulla sua penuria di mezzi la propria forza, potendosi infischiare di tutti, non temendo assalti da parte di nessuno, giacchè a nessuno verrebbe in mente di attaccare qualcuno a cui in caso di vittoria non si avrebbe che cosa sottrarre, né il nullatenente può attendersi richieste di aiuto, prestiti, munificenze etc.; a chi è nullatenente (e quest'è la sua potenza...) non si può domandare nulla!
88 Signore 'e unu cannelotto.
Letteralmente: signore da un solo candelotto. Cosí a Napoli veniva e talvolta viene ancóra appellato chi pretenda e faccia le vista di avere nobili ascendenti, ed in realtà, invece, risulta essere di nessuna nobiltà. La locuzione risale al tempo in cui l'illuminazione dei palchi del teatro san Carlo, vhe è massimo teatro lirico della città partenopea ed è anche il piú antico teatro operante in Europa. Venne c ostruito nel 1737, non à mai sospeso le sue stagioni eccetto nel periodo compreso tra il maggio 1874 e il dicembre 1876 allorché, a causa della grave crisi economica di quegli anni, vennero meno le abituali sovvenzioni.
Il Teatro fu costruito per volontà del sovrano Carlo di Borbone. Dicevo che in quei tempi (1737 e ss.) l'illuminazione dei palchi del teatroera assicurata da alcuni candelabri che venivano noleggiati dalla direzione del teatro agli spettatori che ne facessero richiesta. Il prezzo del noleggio variava con il numero dei candelabri richiesti e questi dalle possibilità economiche dello spettatore. Va da sé che minore era il numero di candele, minore era la possibilità economica dimostrata e conseguenzialmente minore il grado di nobiltà; per cui un signore da un candelotto era da ritenersi proprio all'infimo gradino della scala sociale. Ovviamente in prosieguio di tempo l'espressione non si riferí solo ad eventuali spettatori del teatro di limitate condizioni socio-economiche, ma anche a chi in generale appartenesse ad un infimo grado della scala sociale e facesse o faccia le viste d'essere facoltoso e/o socialmente evoluto.
89 Fatte 'e cazze tuoje e vide chi t''e fa fà...
Letteralmente: Impícciati dei fatti tuoi e procura di trovare qualcuno che ti aiuti in tal senso. La locuzione sapida, ma volgare viene usata nei confronti di chi arrogante, borioso, saccente e supponente si ostini ad intervenire negli altrui casi ponendovi lingua, dando fastidiosi consigli non richiesti, esprimendo pareri e/o moniti indesiderati laddove l'esperienza insegna che se si vuole evitare di dare e/o ricevere impicci e fastidi ci si deve occupare esclusivamente delle proprie faccende. Cosí come formulata la locuzione non usa il termine eufemistico fatti, ma uno piú corposo anche se triviale, epperò piú icasticamente e causticamente popolare.
90 Carta vène e giucatore s'avanta.
Letteralmente: carta (vincente) viene e giocatore (vittorioso) si vanta. La locuzione prendendo spunto dal giuoco delle carte stigmatizza il comportamento ridicolo e pretestuosamente presuntuoso e vanaglorioso - tipico peraltro di coloro che ànno scarse capacità intellettive - di chi tenti di farsi merito di successi ottenuti non per propria capacità, intelligenza e valore, ma per mera fortuna che lo abbia condotto al primato, come avviene in taluni giuochi di carte dove basta il possesso di determinate carte vincenti a procurare la vittoria e conta veramente poco il modo di giocare le predette carte.
Al proposito intendo una volta per tutte sfatare un mito, quello che si è creato intorno al giuoco del tressette, ritenuto da tutti, ma -come vedremo - inesattamente il giuco di carte napoletane piú bello e/o difficile laddove ad un attento esame del giuoco se ne ricava che è un giuco basato essenzialmente sulla buona sorte del giocatore, non sulla sua abilità, destrezza, memoria o intelligenza come avviene invece nel giuco dello scopone scientifico dove una coppia di giocatori giocando con sufficiente abilità, destrezza, memoria o intelligenza, à sempre modo di difendersi dal giuoco avversario,anche se in possesso di carte non confacenti cosa che non avviene, né può avvenire nel giuoco del tressette dove se una coppia, per mera buona sorte, si accaparra tutte o buona parte delle carte migliori (quelle che assicurano prese e punteggio) , non lascia alla coppia avversaria alcuna possibilità di difesa, destinandola a perdere ineluttabilmente. E che c'è mai di bello o di difficile in un giuoco dove la fa da padrona la fortuna?
91 Chella 'a mana è bbona; è 'a valanza ca vo' essere accisa!
Letteralmente: Quella la mano è buona, è la bilancia che si comporta in modo tale da meritarsi d'essere ammazzata. La sarcastica locuzione va riferita a chi proditoriamente tiri a derubare sul peso e tenti di far ricadere la colpa sul tramite ossia sulla bilancia. Per traslato la locuzione la si usa nei confronti di chiunque, per un motivo o l'altro, non si voglia assumere le responsabilità del proprio truffaldino comportamento.

92 Chisto è n'ato d''a pasta fina.
Letteralmente: Costui è un altro della pasta fine. Id est: anche questo fa parte di un gruppo di brutti ceffi, di cui diffidare. La locuzione nacque allorché, alla fine del '800, in Napoli alcuni comorristi erano soliti riunirsi in una bettola tenuta da un tal Pastafina. Letta tenendo presente questa annotazione, la locuzione assume una sua valenza di offesa.
93 Fattélla cu cchi è mmeglio 'e te e fance 'e spese.
Letteralmente: Intrattieni duraturi rapporti con chi è migliore di te e sopporta le spese che ne derivano.Id est: le proprie amicizie bisogna sceglierle tra chi ti è moralmente, o solo socialmente superiore , e occorre poi coltivarle sempre anche se per fare ciò bisognerà por mano alla tasca.
Va da sé che la locuzione mantiene intatta la sua valenza anche se la si intende in senso figurato.
94 Addó sperdettero a Giesú Cristo.
Letteralmente: dove dispersero Gesú Cristo. Lo si dice di un luogo lontano ed impervio, difficile da raggiungere... La locuzione fa certamente riferimento all'episodio dell'evangelo allorché Maria e Giuseppe persero di vista il Redentore che s'era attardato in Gerusalemme ed impiegarono alcuni giorni prima di ritrovarlo.
95 'A coppa sant' Ermo, pesca 'o purpo a mmare.
Letteralmente: Di sopra sant' Elmo pesca un polpo a mare. Lo si dice, ironizzando, dell'azione di chi si affanna a voler raggiungere un risultato, che certamente invece gli mancherà, stanti le errate premesse da cui parte la propria opera, come chi volesse appunto pescare un polpo nel mare del golfo partenopeo e si trovasse a farlo assiso sulla collina di sant'Elmo, che sí è vero che guarda il mare, ma lo fa da un'altezza di circa 300 metri..., altezza dalla quale è impossibile pescare alcunché.
96 Va' fà ll'osse ? ponte
Letteralmente: vai a racimolare le ossa al ponte. Id est: mandare qualcuno a quel paese. Infatti la locuzione suona pure: mannà ô ponte, con il medesimo significato. Un tempo a Napoli presso il ponte della Maddalena, già ponte Licciardo esisteva un macello, dove il popolo si recava ad acquistare le carni delle bestie macellate. I meno abbienti si accontentavano di prelevare gratis et amore Dei le frattaglie e le ossa, per farne del brodo, per cui spingere qualcuno a fare le ossa al ponte significa augurargli grande miseria.Le povere donne vocianti e litigiose che si recavano a raccattare ossa e/o frattaglie presero il nome di zandraglie dalla voce francese les entrailles= le interiore/le frattaglie. La stessa voce zandraglie fu usata poi in altro periodo fine 15° e principio 16° sec. per indicare quelle ugualmente litigiose e vocianti donne adibite allo sgombero dai resti umani dei campi di battaglia o dei luoghi di esecuzioni capitali. La medesima accezione vale per la locuzione mannà ô ponte; (mandare al ponte) tenendo presente che questa seconda locuzione la si usa nei confronti di uomini attempati e un po' rovinati dagli acciacchi e dall'età ecco che essa locuzione à una valenza un po' piú amara della prima giacché la si rivolge a chi - probabilmente - non à la capacità di ripigliarsi ed è costretto a subire gli strali dell'avversa fortuna.
97 Nè femmena, nè ttela a lume de cannela.
Letteralmente: Né donne, né tessuti alla luce artificiale. Id est: la luce artificiale può nascondere parecchi difetti, che - invece - alla luce del sole - vengono in risalto e ciò vale sia per la consistenza dei tessuti, sia - a maggior ragione - per la bellezza muliebre.
98 Meglio 'nu quintale 'ncapa ca n'onza 'nculo!
Letteralmente: Meglio un quintale in testa che un'oncia nel sedere! Id est: meglio patire un danno fisico, che sopportarne uno morale. In pratica gli effetti del danno fisico, prima o poi svaniscono o si leniscono, quelli di un danno morale perdurano sine die.
99 Chi tène bbelli denare sempe conta, chi tène 'na bbella mugliera sempe canta.
Letteralmente: chi ha bei soldi conta sempre, chi ha una bella moglie canta sempre. Id est: il denaro, per quanto molto che ne sia non ti dà la felicità, che si può ottenere invece avendo una bella moglie.
100 Dicette 'o puorco 'nfacci' ô ciuccio: Mantenímmoce pulite!
Letteralmente: Disse il porco all' asino: Manteniamoci puliti. È l'icastico commento che si suole fare allorché ci si imbatta in un individuo che con protervia continui a criticare la pagliuzza nell'occhio altrui e faccia le viste di dimenticarsi della trave che occupa il proprio occhio.A simile individuo si suole rammentare: Cumparié nun facimmo comme ô puorco...(Amico non comportiamoci come il porco che disse all'asino etc. etc.)quasi a volergli rammentare di prestare prioritaria attenzione ai proprî difetti prima di criticare quelli altrui.
raffaele bracale

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