Tu nun cuse, nun file e nun tiesse: tanta gliuommere 'a do' t''e ccacce?
Ad litteram: Tu non cuci, non fili, né tessi, tanti gomitili da dove li tiri fuori?
È questa l'ironica e chiaramente retorica domanda che si suole rivolgere a chi, notoriamente non occupato a fare oneste attività produttive, sia improvvisamente ed inspiegabilmente pervenuto ad accumulare ingenti quantità di danaro; lo gliummero della locuzione, normalmente significa come vedremo, gomitolo,involto ma per traslato, questa volta sta per peculio, ed in particolare una somma pari a ca. cento ducati d'argento somma che poteva esser messa insieme, senza lavorare , solo truffaldinamente.
cuse = cuci voce verbale (2° pers. sing. ind. presente) dell’infinito cósere = cucire; etimologicamente cósere è da un tardo latino *cósere per il classico consuere comp. di cum 'con' e suere 'cucire';
file = fili voce verbale (2° pers. sing. ind. presente) dell’infinito filà = filare; etimologicamente filà è da un tardo lat. filare, deriv. di filum 'filo';
tiesse= tessi voce verbale (2° pers. sing. ind. presente) dell’infinito tessí forma collaterale di un originario tèssere= tessire; tèssere etimologicamente è dal latino texere; da notare nella voce a margine, la dittongazione popolare ie in luogo della semplice e cosa presente solo nella 2° persona tiesse, laddove tutte le altre persone conservono la semplice e etimologica, avendosi: i’ tesso – tu tiesse – isso tesse – nuje tessimmo – vuje tessite - lloro tessono;
gliuommere/i plurale metafonetico di gliommero che di per sé è il gomitolo con etimo dall’acc. latino glomere(m) con probabile metaplasmo nel passaggio da un originario acc.vo neutro glomus al maschile glomere(m); il significato originario di gomitolo si è poi esteso ed è traslato a quello di peculio, come di ricchezze accumulate; in chiave letteraria la voce gliommero fu usata, per intitolare alcuni suoi componimenti poetici, non aulici, ma popolareschi da Jacopo Sannazaro ( nacque a Napoli nel 1456 e, tranne una breve parentesi in cui seguí nell'esilio l'amico Federico III d'Aragona, lí visse fino alla morte, avvenuta nei 1530.
Discendente da una nobile famiglia oriunda della Lomellina, trascorse la fanciullezza e l’adolescenza a San Cipriano Piacentino, portando poi a lungo in sé la suggestione bucolica ed agreste di quell’ambiente. Entrato nell’Accademia pontaniana, dove assunse lo pseudonimo di Actius Syncerus, si legò d’amicizia col Pontano (Cerreto di Spoleto [Perugia] 1429 † Napoli 1503), che a lui intitolò il dialogo Actius, sulla poesia.
Il Sannazaro fu colto umanista e poeta raffinato. Ci à lasciato numerose opere in lingua latina ed in volgare. Fra le prime ricorderò le "Bucoliche", di ispirazione virgiliana, le "Eclogae piscatoriae" (5 composizioni che descrivono il golfo di Napoli), le "Elegie" in tre libri, il poema sacro "De partu Virginis"; fra quelle in volgare ricordo, appunto, gli "Gliommeri" (= "gomitoli",componimenti poetici di origine popolare in napoletano e destinati alla recitazione in forma di monologo; costituiti con endecasillabi a rima interna; vi si intrecciavano motti, frizzi e argomenti varî tra cui filastrocche di proverbi napoletani ed altri varî argomenti popolari), le "Farse" e le "Rime" (ad imitazione del Petrarca));
cacce = tiri fuori; voce verbale (2° pers. sing. ind. presente) dell’infinito caccià = cacciare il verbo napoletano rispetto all’omonimo italiano, quantunque abbia il medesimo etimo da un lat. volg. *captiare, deriv. del class. capere 'prendere'non è usato nel senso di dare la caccia a un animale selvatico per ucciderlo o catturarlo o nel senso di introdurre, ficcare; spinger dentro con violenza, ma esclusivamente nel senso di tirar fuori, , cavare, estrarre, emettere; ò trovato perseguibile ed ò adottata l’ipotesi propostami dall’amico Dario Cafazzo (che – sebbene originario dell’alta Irpinia, apprezza e frequenta con attenzione ed una qualche competenza stabilmente la lingua napoletana) che il verbo caccià nella sua accezione venatoria, si possa rendere con un utile caccïà nel quale la dieresi posta sulla i, modificando la lettura dell’originario caccià, può indurre ad intendere il verbo in altro significato: nel senso cioè non di trar fuori, ma in quello di dar la caccia.
NOTA
Va da sé che qualora fosse accettata palam l’ipotesi proposta di usare l’infinito caccïà, per indicare l’andare a caccia, lasciando il caccià solo per indicare il mettere fuori, occorrerebbe modificare l’intera coniugazione del verbo che ad es. all’indicativo presente non potrebbe piú coniugarsi
io caccio
tu cacce
isso caccia
nuje cacciàmmo
vuje cacciàte
lloro càcciano
ma dovrebbe diventare:
io caccéjo
tu caccíje
isso caccéja
nuje caccíjammo
vuje caccíjate
lloro caccéjano
ricalcando ad un dipresso la coniugazione che ò segnalato alibi del verbo ‘mmezzïà ( che è il sobillare, lo spingere ad azioni malevole, l’istigare con etimo da un lat. volgare in +*vitiare che all’indicativo presente à:
io ‘mmezzéjo
tu ‘mmezzíje
isso ‘mmezzéja
etc.
Quanto ò espresso sia precedentemente che in questa nota à trovato riscontro in ciò che un vecchio cacciatore mi à riferito; e cioè che un tempo la battuta di caccia fu detta caccíata (che risulta essere il part. pass. femminile sostantivato del proposto infinito *caccïà, laddove il part. pass. femminile (sostantivato) di caccià è cacciàta e vale come aggettivo: messa fuori e come sostantivo: offerta, esposizione.
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Raffaele Bracale
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