‘E PAPARELLE
Nel parlato napoletano, ma pure nei reperti letterarii c’ è e ci fu un congruo numero di termini usati per indicare il danaro; qualcuno si è preso la briga di contarli e ne à trovato circa sessanta a cominciare in ordine alfabetico da quel sonante abbrunzo che richiama ovviamente la lega metallica (bronzo) con cui s’usava tempo addietro batter moneta, per passare poi al termine agresta che in primis indica l’uva primaticcia, quasi acerba, quella stessa che era effigiata in una cornucopia sul verso di un’antica moneta spagnola in uso nella seconda metà del 1500;
rammento ancora l’ironica acquavite che è bevanda notoriamente tonica ed è fuor di dubbio che il danaro dia tonicità a chi ne possieda;
ricorderò ora il termine agniento che di per sé indica l’unguento, il balsamo, e va da sé che il danaro è un balsamo che può lenire parecchi mali, oltre che l’unguento che a mo’ di grasso s’usa per ungere chi di dovere per assicurarsi un beneficio;
sempre con riferimento alle capacità curative si pone il termine aruta l’erba aromatica che il popolo ritiene apportatrice di tanti benefici effetti: aruta ogne male stuta al pari del danaro che si ritiene possa risolver ogni problema sia fisico che morale;
lasciando da parte ora i riferimenti curativi o lenitivi rammenterò il termine argiamma patente corruzione del francese argent in riferimento, come il pregresso abbrunzo, al metallo usato per batter moneta.
E continuiamo con una rapida elencazione in ordine alfabetico dei termini più comunemente usati per indicare il danaro:
bisante o besante dal bizantino:buzantion (moneta d’oro);
boragna forse dal greco bora (nutrimento);
chiuove probabilmente per la somiglianza delle monete con le grosse teste dei chiodi;
cianfrone dallo spagnolo chanflon moneta argentea che al tempo di Carlo V (1530 ca) valeva 1 ducato e sotto Filippo III (1598 ca) causa l’inflazione solo ½ ducato;
ciaraffe dall’arabo giarif (moneta sonante)
cicere (ceci) il povero legume usato un tempo come merce di baratto;
crespielle dal francese crêpe frittella increspata e dorata richiamante l’oro della moneta e la rugosità del conio;
crie monete così chiamate perché portavano effigiata la spiga dell’orzo (in greco kri),
cuocciole dal greco còclos (conchiglia); un tempo le conchiglie furono usate come moneta negli scambi commerciali;
dummineche dal nome di Giandomenico Tramontano abilissimo coniatore di stampi di moneta, attivo presso la zecca napoletana nella seconda metà del 1500;
fajenze dal nome della città di Faenza dove erano prodotte le costosissime stoviglie in terracotta pregiata; col nome della città di Faenza sostantivato in fajenza e nel suo plurale fajenze si finì per designare il danaro in generale atteso che ne occorreva impiegare moltissimo per acquistare le terracotte ivi prodotte;
filusce o filusse o ancora felusse. Sull’origine del termine si è a lungo discusso chiamando in causa volta a volta, ma fantasiosamente il latino folliculus contenitore dei soldi e per estensione soldi medesimi o ancora più fantasiosamente il nome dei sovrani spagnoli Filippo I o II o III da cui: Felippo, Felippusse ed infine Filusse. La faccenda è molto più semplice e seria derivando, a mio avviso, il vocabolo de quo dall’arabo fulus plurale di fals (dal greco phóllis =obolo)nel significato appunto di moneta, danaro; la voce araba invase tutto il bacino mediterraneo al segno che in Calabria, con analogo significato, abbiamo filusu , in Sicilia: filussi, in Toscana: pilosso, in Spagna: felùs ed in Portogallo: fuluz;
frisole (i fagioli spagnoli) e fasule usati, temporibus illis a mo’ di moneta o merce di scambio al pari dei ciceri summenzionati in precedenza;
furmelle il termine originariamente indicò i bottoni fatti con grossi dischetti di legno, di osso o di metallo, dischetti semplici, nudi o ricoperti di stoffa, successivamente con il detto termine si indicarono pure, per la loro somigliante forma, le grosse, sonanti monete coniate dalla zecca partenopea;
gigliati in riferimento al giglio d’oro impresso sulle monete d’epoca angioina;
gliuommero dal latino: glomus-eris principalmente gomitolo e poi anche: rotolo di monete e da esso monete tout court;
grano d’ovvia valenza simile all’odierna grana, ma quanto più espressivamente corretta attesa la sacertà del cereale richiamato;
manteca dall’omologo termine spagnolo: saporita crema di panna, burro, latte e zucchero che richiama l’idea del buono ed utile ungere proprii del danaro;
maglie dritto per dritto dal francese: maille=moneta, rammentado che chi è sprovvisto di danaro s’usa indicarlo come: sfasulato (con riferimento ai pregressi fasule) o – giustappunto: smagliato;
medaglie o cemmeraglie per l’ovvia somiglianza tra le battute monete e le coniate medaglie;
miglio sulla falsariga del precedente grano;
mignòle o mognèle termini di oscura derivazione e significato però fortunatamente ed abbondandemente desueti;
numerosissimi i vocaboli sotto la lettera P , ricorderò:
patane
papagne
parpagnole
patacche
picciule;
sorvolo su tutti per soffermarmi sul termine paparelle con il quale oggi furbescamente si suole indicare il danaro;
è pur vero che con il termine paparelle in napoletano si indicano i piccoli dell’anitra, ma con tale accezione il danaro non c’entra nulla; come significante la moneta, a mio avviso, per detto termine occorre risalire al nome del facoltosissimo e munifico nobiluomo Aurelio Paparo fondatore con un tal Nardo di Palma di un Monte di Pietà in cui profuse parecchio danaro di suo per combattere la piaga della povertà ed usura.Su di un’analoga via di beneficenza si pose Luisa, figlia di Aurelio Paparo, che sovvenzionata dal genitore fondò un tempio o conservatorio di donne povere e neglette chiamate dal popolo: paparelle.Da detto nomignolo prese il nome una strada napoletana, quella dov’era ubicato il tempio;
e continuiamo ad elencare:
pennacchie dal nome di una vilissima moneta penna dal valore esiguo di 1 carlino, quella stessa moneta che per la facilità con cui veniva spesa diede vita al detto: miéttele nomme penna (chiamala penna) in riferimento ad ogni cosa che si potesse facilmente perdere o cedere senza lasciar tracce di remore o dispiaceri;
purchie ed il suo corrotto perucchie ambedue coniati sul termine porchia
nel significato di gemma, pollone, richiamante quel rigoglio della vita facilmente assimilabile alla rigogliosità che può dare il danaro;
prubbeca che si ritrovò con qualche adattamento morfologico in altre regioni del meridione; in origine con la voce prubbeca (poi passata a designare genericamente il danaro metallico) si indicò una moneta di rame del valore d’un tornese (vedi alibi) o di sei calli (ca(va)lli) fatta coniare da Filippo III di Spagna intorno al 1550; su detta moneta era coniato il motto publica commoditas donde si ricavò popolarmente il termine metatetico prubbeca;
e potrei ancora continuare in un’elencazione, ma correrei il rischio di segnalare termini non più usati; preferisco perciò indicare solo un ultimo ed attuale, corrente e cioè:
sfardelle termine un po’ becero, ma ancora oggi in uso nel parlare popolare anche se di lontanissima provenienza in quanto corruzione della parola ferdinandelle o ferrantelle dal nome di una moneta battuta tra il 1460 ed il 1490 a Napoli sotto Ferdinando o Ferrante d’Aragona, figlio naturale seppure illegittimo e successore di Alfonso il Magnanimo.
Raffaele Bracale
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