martedì 27 gennaio 2009

STRUMENTI MUSICALI POPOLARI NAPOLETANI

STRUMENTI MUSICALI POPOLARI NAPOLETANI


Qui di sèguito tenterò di elencare tutte le parole che identificano i principali strumenti musicali popolari partenopei.
Cominciamo:
castagnelle esse sono la versione povera e popolaresca delle piú nobili nacchere spagnole e consistono in due piccole, cave semisfere di legno intagliato ad hoc, ma un tempo anche di osso ugualmente lavorato; dette semisfere legate a coppia con una fettuccia che è inforcata dal dito medio vengono azionate schiacciandole ritmicamente contro il palmo della mano, per modo che urtandosi fra di loro, producano un suono secco e schioppettante, atto ad accompagnare, quasi sempre, i passi delle danze popolari quali tarantella, saltarello ed altre consimili.
La parola nacchera che connota uno strumento molto simile alle castagnelle è di origine araba: nakâra propriamente scavato, incavato con riferimento appunto alla morfologia dello strumento, mentre il termine castagnelle o castagnette è dallo spagnolo castaňetas (che in terra iberica indicano appunto le nacchere) quasi castagna per la forma vagamente somigliante sia delle castagnelle che delle nacchere classiche al frutto del castagno;ò parlato di nacchere classiche (che ànno la medesima foggia ed il medesimo uso delle napoletane castagnelle o castagnette) per distinguerle da certe improbabili nacchere fornite di manico,per usarle a mo’ di sonaglino per lattanti, fabbricate da improvvidi intagliatori sorrentini, per turlupinare gli ingenui turisti vendendo loro (a parecchi euro!) tali inutili (mai potrebbero servire per accompagnare i passi delle danze popolari quali tarantella, saltarello ed altre consimili…) improbabili nacchere fornite di manico con la scritta Ricordo di Sorrento.
tammorra che è propriamente l’ampio tamburo corredato di vibranti piattelli metallici posti in delle fessure ricavate sul cerchio ligneo contentivo della pelle di animale (per solito ovino) che costituisce la superficie che viene colpita, perr cavarne il suono, ritmicamente con le dita o il palmo di una mano, mentre l’altra agita lo strumento per far vibrare di piú i piattelli;
versione ridotta e molto più maneggevole della tammorra è il tammurriello che, al contrario della tammorra sempre affidata ad un sonatore espressamente a ciò delegato e che non si occupa d’altro, può esser sonato dagli stessi ballerini mentre eseguono le danze summenzionate. La parola tammorra è dall’arabo: tambur attraverso un cambio di genere,(attesa la piú ampia forma dello strumento, forma intesa femminile), assimilazione progressiva della b alla m assimilazione che è tipica della lingua napoletana.
Va da sé che il tammurriello abbia il medesimo etimo di tammorra di cui è diminutivo con naturale cambio di genere dall’ampio femminile al piú contenuto maschile come càpita spessissimo nel napoletano dove un oggetto da maschile diventa femminile se aumenta di dimensione (cfr. ad es.: cucchiaro (piú piccolo) e cucchiara (piú grande)) ;
scetavajasse tipicissimo strumento musicale popolare napoletano, che per il modo con cui è sonato fa pensare ad una sorta di violino, sebbene non abbia corde o cassa armonica di sorta; esso è infatti essenzialmente formato da due congrue aste lignee di cui una fornita di ampi denti ricavati per incisione lungo tutta la faccia superiore dell’asta corredata altresí di numerosi piattelli metallici infissi con chiodini lungo le facce laterali della medesima asta; l’altra asta usata dal sonatore a mo’ di archetto viene fatta scorrere contro i denti della prima asta (tenuta poggiata ,quasi a mo’ di violino, contro la clavicola) per ottenerne uno stridente suono, facendo altresí vibrare ritmicamente i piattelli nel tipico onomatopeico nfrunfrú.
Lo strepitío di detto strumento gli à fatto ottenere il nome di scetavajasse che ad litteram suonerebbe: desta-fantesche.
Non mette conto illustrare l’origine del verbo scetà che troppo facilmente è riconducibile al latino excitare; piú interessante è dire di vajassa che è la serva, la fantesca;voce che proviene dall’arabo: baassa attraverso il francese bajasse da cui in toscano : bagascia= meretrice. Rammenterò ancóra che con termine vajassa il napoletano designa anche qualsiasi donna sciatta, scostumata, sporca, quando non laida ed addirittura affetta da contagiose malattie come è nell’espressione: Sî ‘na vajassa d’’o rre ‘e Franza che è letteralmente: Sei una serva del re di Francia. La frase è un’offesa gravissima che si può rivolgere ad una donna e con essa frase non solo si intende dare della puttana alla donna, ma accusarla anche di essere affetta dalla sifilide o lue .
Tale malattia è stata nei corso dei secoli chiamata dai napoletani mal francese, morbo gallico o celtico; i napoletani sostenevano che detto morbo fosse stato importato in Napoli dai soldati al seguito di Carlo VIII(assedio di Napoli 1494). Per converso il morbo era detto dai francesi mal napolitaine (male napoletano) poiché i transalpini affermavano che il morbo era stato diffuso tra i soldati francesi di Carlo VIII dalle prostitute partenopee che ne erano affette.
A margine di questa voce voglio ricordare una parola che, di per sé non entrerebbe nella trattazione, come che estranea agli strumenti musicali; essa parola è bardascia che una vaga assonanza con bagascia potrebbe indurre i meno esperti della parlata napoletana a collegarla al termine vajassa; in realtà i due termini non ànno nulla da spartire fra di loro; abbiamo visto quale sia la portata di vajassa: serva, donna sciatta o addirittura puttana; la bardascia è invece null’altro che la ragazza e spesso la si poteva incontrare nel simpatico diminutivo – vezzeggiativo bardascella.L’ etimologia di bardascia è originariamente dal persiano bardal attraverso l’ arabo: bardağ che è propriamente la prigioniera, la schiava giovane ed estensivamente la ragazza cosí come nella parlata napoletana.
Torniamo agli strumenti musicali; e troviamo il
triccabballacche: tipico strumento musicale popolare usato in quasi tutta l’Italia centro –meridionale e non solo dai piccoli concertini rionali popolari, ma anche da piú vaste formazioni addirittura di tipo bandistico, sia pure – in questo caso - surdimensionato; esso è costituito da un’ asta lignea fissa alla cui sommità insiste una testa a forma di parallelepipedo, contro di essa vengono ritimicamente spinte analoghe teste di due aste mobili incerneriate accanto alla base di quella fissa; le teste per aumentare il clangore dello strumento sono provviste dei soliti piattelli metallici.
Per ciò che concerne l’etimologia propendo per un’origine onomatopeica (lo strumento è molto rumoroso…), poco convincendomi una derivazione per adattamento dal turco tümbelek; troppo tortuosa mi pare la strada semantica e quella morfologica da percorre per giungere a triccabballacche, partendo da un tümbelek che infatti è un tamburo di rame, molto piú simile ad un timpano che ad un triccabballacche: questo per dire della semantica, e per non parlare della morfologia…
E concludo con la famosissima
caccavella conosciuta anche con il nome onomatopeico di putipú. Tale strumento in origine era formato essenzialmente da una pentola di coccio, pentola non eccessivamente alta, ma di ampia imboccatura sulla quale era distesa una pelle d’ovino, pelle che debordando dalla bocca era fermata con stretti giri di spago, per modo che si opportunamente tendesse; al centro di detta pelle in un piccolo foro è infissa verticalmente un’assicella a sezione cilindrica (originariamente una sottile canna) che soffregata dall’alto in basso e viceversa con una pezzuola o una spugnetta bagnate permette di trasmettere le vibrazioni alla pelle che è tesa sulla pentolina la quale fa da cassa di risonanza per modo che se ne ottenga il caratteristico suono ( put-pù,put-pù), vagamente somigliante a quello prodotto dal contrabbasso, suono che per via onomatopeica conduce al putipù che, come ò detto, è l’altro nome con cui è conosciuta la caccavella che quanto all’etimologia è latina: caccabella(m)=pentolina, quale diminutivo di caccabus = grossa pentola da cui i napoletani trassero caccavo il pentolone della minestra e segnatamente quello usato dai monaci di taluni monasteri (il piú famoso dei quali quello dei frati francescani di santa Maria La Nova) per distribuire la zuppa giornaliera ai poveri che la mendicassero; ò parlato di originaria pentola di coccio, giacché attualmente la caccavella, pur usurpando il nome antico, è costruita usando in luogo della pentolina di coccio, tristissime scatole cilindriche di latta e la pelle non è più ovina, ma squallidamente sintetica di tal che è piú opportuno chiamare questo indegno strumento putipú lasciando l’originaria caccavella al degnissimo strumento d’antan!
Va da sé che tutti gli strumenti che ò esaminati fin qui, non sono bastevoli da soli ad accompagnare le esibizioni canore, musicali dei c.d. concertini popolari.
Altri e piú congrui strumenti vi devon concorrere; e tra essi rammenterò quelli elencati dal poeta Eduardo Nicolardi in una sua scintillante canzone (serenata a dispetto), musicata da Alberto Montagna ed intitolata: Sciuldezza bella!
E gli strumenti rammentati sono:
-mandolino strumento notissimo il cui nome è il diminutivo di mandòla che è dal tardo latino pandura forgiata sull’omologo greco pandoýra generico strumento a corde simile al liuto.
- chitarra altro strumento notissimo, il cui nome è dal greco kithàra, attraverso il latino cíthara;
- ciaramella sorta di piffero, strumento a fiato ad ancia piccola e stretta usato come voce solista; il suo nome è probabilmente dal greco kèras che è il corno, pur esso strumento a fiato di tal che piú acconciamente in luogo di ciaramella si dovrebbe dire ceramella, sempre che non si voglia seguire per ciaramella il pur percorribile latino: calamella sulla scorta di un calamus che è canna, zufolo,flauto;
- urganetto che è l’organetto ( versione povera del bandeon o bandoneon argentino, sorta di piccolissima fisarmonica a bottoni) il cui nome è dal greco: organon generico strumento anche musicale.
Nicolardi giustamente non à incluso nella sua elencazione il violino (il cui nome – per incidens – è il diminutivo di viola che è dal latino vítula, vídula da collegarsi al verbo vitulàri = ballare, rallegrarsi) in quanto strumento che pur usato dai c.d. posteggiatori dei quali, prima o poi, vorrò parlare non è strumento normalmente usato da musici di fortuna adusi a portar serenate soprattutto se a dispetto!

Raffaele Bracale - Napoli

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