FUSILLI TRIFOLATI
NOTA
Con il sostantivo fusillo voce di origine meridionale derivata attraverso il suff. diminutivo illo dal sost.vo fuso (dal lat. fusu(m)), ma non perché il fusillo sia un piccolo fuso, ma con riferimento alla forma ritorta e/o ondulata simile a quella che prende un filo quando sia attorcigliato con il fuso; dicevo infatti che con il sostantivo fusillo si intendono due tipi di pasta secca: il primo tipo è una sorta di nastrino alto cinque centimetri e largo un centimetro e mezzo, ritorto ed ondulato per tutta la sua altezza; il secondo tipo è una sorta di bucatino attorcigliato per tutta la sua lunghezza proprio come se fosse stato avvolto intorno ad un fuso; tali fusilli lunghi sono a Napoli détti pure ricce ‘e furetane (riccioli di contadinelle).
Per questa ricetta ci serviremo dei fusilli lunghi.
ingredienti e dosi per 6 persone:
6 etti di fusilli lunghi bucati,
6 rocchi di salsiccia al finocchietto,
4 zucchine piccole sode e verdi,
1 cipolla dorata mondata e tritata grossolanamente,
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.
1 cucchiaio di strutto,
3 etti di ricotta di pecora ,
1 rametto di piperna fresca lavato, asciugato e sgranato finemente,
½ etto di pecorino (laticauda) grattugiato,
sale grosso un pugno,
sale fino e pepe bianco q.s.
procedimento
In un’ampia padella versare l’olio e farvi dorare, a fiamma sostenuta, la cipolla tritata; aggiungere il cucchiaio di sugna, indi aggiungere tutti i rocchi di salsiccia spellati e sbriciolati, bagnare con il vino, farlo evaporare ed aggiungere una tazza d’acqua bollente e portare a cottura in circa 20 minuti;prelevare la salsiccia rosolata e tenerla da parte in caldo; nel frattempo lavare, asciugare e spuntare le zucchine ricavandone con taglio diagonale inferto lungo l’asse maggiore, delle rondelle di forma ovale e di circa ½ cm. di spessore; nella padella dove si è rosolata la salsiccia,aggiungere mezzo bicchiere d’olio, uno spicchio d’aglio mondato e schiacciato, farlo imbiondire, tirarlo via, versare le rondelle di zucchine, regolare di sale e pepe, bagnare con un bicchiere d’acqua bollente ed a padella scoperta fare, in circa 10 minuti, stufare le zucchine e tenere tutto in caldo mentre in circa 8 litri di acqua salata (sale grosso) si lessano al dente (!) i fusilli che ben sgrondati vanno poi messi in una zuppiera calda, conditi dapprima con la ricotta,poi con la trifola di zucchine ed infine con la salsiccia rosolata, quindi rimestati accuratamente ed alla fine spruzzati con la piperna sgranata, cosparsi con il pecorino e con il pepe bianco.
Impiattare e servire caldi di fornello.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
giovedì 30 aprile 2009
TENÉ ‘O PERE ALL’EVERA
TENÉ ‘O PERE ALL’EVERA
Partendo dalla voce evera/erva = erba dal latino herba→herva→evra→evera segnalo una icastica espressione partenopea che suona: tené o avé ‘o piere a ll’evera espressione che letteralmente sarebbe o è : tenere o avere il piede all’erba nel significato di avere l’occasione adatta, propizia, avere il destro (per poter fare ciò che si vuole).
Devo súbito precisare che cosí come espressa in napoletano, in nessun modo essa potrebbe signifare ciò che nell’inteso comune l’espressione si pensa significhi atteso che non v’à nessun collegamento semantico possibile tra l’erba ed una occasione propizia; in effetti mantenendo il significato di avere l’occasione adatta, propizia, avere il destro (per poter fare ciò che si vuole). l’esatta espressione napoletana che la illustra è: tené o avé ‘o piere ‘a llepera id est letteralmente: tenere o avere il piede da lepre (quell’arto cioè affrancato e veloce, atto all’azione libera); intesa cosí con riferimento alla lepre (e non all’erba!) ecco che l’espressione rende veramente il significato attribuitole ; purtroppo spesso nella tradizione orale di talune antiche espressioni, queste vengon malamente riportate e riproposte lasciandosi fuorviare da gustose assonanze quali,nella fattispecie: evera/lepera; faccio notare come nell’errata espressione tené o avé ‘o piere a ll’evera la a che precede ll’evera è la preposizione semplice a che con derivazione dal lat. ad esprime una relazione di termine o di destinazione, il punto di arrivo di un'azione, mentre nella corretta espressione tené o avé ‘o piero ‘a llepera la ‘a che precede llepera non è l’articolo determinativo ‘a(la),
ma la forma aferizzata ‘a della preposizione semplice da che con etimo dal lat. de ab esprime allontanamento, separazione nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; mentre dal lat. de ad è unita a verbi nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, finale; oppure è unita a sostantivi in espressioni modali (è il nostro caso!), ecc
piere= piede ed estensivamente zampa d’animale, di mobile etc. sost. masch. dal lat. pede(m) con dittongazione della sillaba breve d’avvio e tipica rotacizzazione osco- mediterranea d/r;
lèpera = lepre mammifero lagomorfo con lunghe orecchie, grandi occhi, mantello grigio-bruno, lunghe zampe posteriori, coda corta; di indole timida, con abitudini prevalentemente notturne, velocissima nella corsa e ottima saltatrice, dotata di udito, olfatto e vista eccellenti, è cacciata per le sue carni pregiate sost. femm. con etimo dal lat volgare *lepera(m) per il class. lepore(m).
raffaele bracale
Partendo dalla voce evera/erva = erba dal latino herba→herva→evra→evera segnalo una icastica espressione partenopea che suona: tené o avé ‘o piere a ll’evera espressione che letteralmente sarebbe o è : tenere o avere il piede all’erba nel significato di avere l’occasione adatta, propizia, avere il destro (per poter fare ciò che si vuole).
Devo súbito precisare che cosí come espressa in napoletano, in nessun modo essa potrebbe signifare ciò che nell’inteso comune l’espressione si pensa significhi atteso che non v’à nessun collegamento semantico possibile tra l’erba ed una occasione propizia; in effetti mantenendo il significato di avere l’occasione adatta, propizia, avere il destro (per poter fare ciò che si vuole). l’esatta espressione napoletana che la illustra è: tené o avé ‘o piere ‘a llepera id est letteralmente: tenere o avere il piede da lepre (quell’arto cioè affrancato e veloce, atto all’azione libera); intesa cosí con riferimento alla lepre (e non all’erba!) ecco che l’espressione rende veramente il significato attribuitole ; purtroppo spesso nella tradizione orale di talune antiche espressioni, queste vengon malamente riportate e riproposte lasciandosi fuorviare da gustose assonanze quali,nella fattispecie: evera/lepera; faccio notare come nell’errata espressione tené o avé ‘o piere a ll’evera la a che precede ll’evera è la preposizione semplice a che con derivazione dal lat. ad esprime una relazione di termine o di destinazione, il punto di arrivo di un'azione, mentre nella corretta espressione tené o avé ‘o piero ‘a llepera la ‘a che precede llepera non è l’articolo determinativo ‘a(la),
ma la forma aferizzata ‘a della preposizione semplice da che con etimo dal lat. de ab esprime allontanamento, separazione nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; mentre dal lat. de ad è unita a verbi nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, finale; oppure è unita a sostantivi in espressioni modali (è il nostro caso!), ecc
piere= piede ed estensivamente zampa d’animale, di mobile etc. sost. masch. dal lat. pede(m) con dittongazione della sillaba breve d’avvio e tipica rotacizzazione osco- mediterranea d/r;
lèpera = lepre mammifero lagomorfo con lunghe orecchie, grandi occhi, mantello grigio-bruno, lunghe zampe posteriori, coda corta; di indole timida, con abitudini prevalentemente notturne, velocissima nella corsa e ottima saltatrice, dotata di udito, olfatto e vista eccellenti, è cacciata per le sue carni pregiate sost. femm. con etimo dal lat volgare *lepera(m) per il class. lepore(m).
raffaele bracale
SCUGNIZZO
SCUGNIZZO
Ecco un’altra parola, che come guaglione,guappo, camorra e derivati, partita dal lessico partenopeo, è bellamente approdata in quello nazionale nel suo significato di monello, ragazzo astuto ed intelligente e per estens., ragazzo vivace ed irrequieto.
È pur vero – come detto – che la parola è ormai termine italiano e pertanto da riferirsi a qualsiasi monello dello stivale, ma nel comune intendere con la parola scugnizzo ci si intende riferire ai monelli napoletani; sarebbe impensabile uno scugnizzo milanese, triestino etc. alla medesima stregua di ciò che avvenne con lo sciuscià (il monello che allo sbarco degli alleati durante l’ultima guerra, si guadagnava da vivere pulendo le scarpe dei militari e/o civili) che – a malgrado operasse in tutte le città - fu ritenuto essenzialmente napoletano…
Torniamo allo scugnizzo ed all’etimologia della parola; essa è tranquillamente un deverbale di scugnà dal latino:excuneare; il verbo scugnà significa: battere il grano sull’aia, percuotere, bastonare,smallare (le noci), scheggiare con percosse (i denti); ma nell’accezione che qui ci interessa: sbreccare, spaccare; per comprender tale accezione occorre riferirsi ad un tipico giuoco: quello dello strummolo alla cui trattazione rimando, in particolare al momento in cui uno dei giocatori risultato perdente nella gara di far vorticare la sua trottolina lignea (strummolo) può vederla sbreccare o addirittura spaccare dal vincitore che – con accorto colpo – può far scempio della trottolina dell’avversario perdente scugnandola cioè a dire sbreccandola.
Ecco dunque che i monelli napoletani adusi a manovrare lo strummolo e spesso a sbreccare quello dell’avversario son detti scugnizzi e cioè capaci di scugnare ed abili a farlo.
Raffaele Bracale
Ecco un’altra parola, che come guaglione,guappo, camorra e derivati, partita dal lessico partenopeo, è bellamente approdata in quello nazionale nel suo significato di monello, ragazzo astuto ed intelligente e per estens., ragazzo vivace ed irrequieto.
È pur vero – come detto – che la parola è ormai termine italiano e pertanto da riferirsi a qualsiasi monello dello stivale, ma nel comune intendere con la parola scugnizzo ci si intende riferire ai monelli napoletani; sarebbe impensabile uno scugnizzo milanese, triestino etc. alla medesima stregua di ciò che avvenne con lo sciuscià (il monello che allo sbarco degli alleati durante l’ultima guerra, si guadagnava da vivere pulendo le scarpe dei militari e/o civili) che – a malgrado operasse in tutte le città - fu ritenuto essenzialmente napoletano…
Torniamo allo scugnizzo ed all’etimologia della parola; essa è tranquillamente un deverbale di scugnà dal latino:excuneare; il verbo scugnà significa: battere il grano sull’aia, percuotere, bastonare,smallare (le noci), scheggiare con percosse (i denti); ma nell’accezione che qui ci interessa: sbreccare, spaccare; per comprender tale accezione occorre riferirsi ad un tipico giuoco: quello dello strummolo alla cui trattazione rimando, in particolare al momento in cui uno dei giocatori risultato perdente nella gara di far vorticare la sua trottolina lignea (strummolo) può vederla sbreccare o addirittura spaccare dal vincitore che – con accorto colpo – può far scempio della trottolina dell’avversario perdente scugnandola cioè a dire sbreccandola.
Ecco dunque che i monelli napoletani adusi a manovrare lo strummolo e spesso a sbreccare quello dell’avversario son detti scugnizzi e cioè capaci di scugnare ed abili a farlo.
Raffaele Bracale
UN ANTICO VERBO NAPOLETANO: FUCECHÏÀ
UN ANTICO VERBO NAPOLETANO: FUCECHÏÀ
Parlo questa volta di un antico verbo partenopeo: fucechïare/fucechïà, verbo tanto antico e appartenente quasi del tutto ai lessici popolari e/o familiari, da non trovar posto in nessuno dei numerosi calepini della lingua partenopea da me consultati che ànno tutti (con qualche rara eccezione) il torto d’esser stati compilati attingendo quasi esclusivamente e solo negli scritti dei classici e non anche nel parlar popolare.
Cominciamo súbito col fornire il significato italiano del verbo fucechïare/fucechïà che vale: frugare insistentemente e continuamente, rovistare con insistenza, cercare e reiteratamente indagare, ma non allo scopo di trovare un quid, quanto per dar libero sfogo al proprio bisogno, per vizio o curiosità, di rimestare insistentemente nelle cose (tasche, scatole, mobili ed affini) anche senza un preordinato fine; tale comportamento un tempo fu tipico dei bambini, ma pure di taluni adulti.
Prima di soffermarci sull’etimologia del verbo in esame, rammenterò che il verbo fucechïare/fucechïà avendo la ï comporta una coniugazione dell’ind. presente del tipo: fucechéjo – fucechje – fucecheja – fucechjammo – fucechjate – fucechejano (e non fúceco – fúceche – fúceca – fucecàmmo – fucecàte – fúcecano) come vedemmo altrove per i verbi terminanti in ïare; è ovvio che tale tipo di coniugazione valga ugualmente per tutti gli atri tempi, avendosi ad es. per il pass. remoto fucecheïaje e non fucecaje e cosí via.
E veniamo infine all’etimologia del verbo in epigrafe.
Fucechïare/fucechïà à una evidente derivazione da un
Lat. volg. *furicare, dal class. furari 'rubare', che è da fur furis 'ladro', secondo il seguente percorso morfologico:
furicare→ per metatesi fruicare donde con epentesi eufonica di una c frucicare e successiva sincope totale della prima liquida r ottenendo fucicare ed infine con ulteriore epentesi vocalica della i (che è poi occorso fornir di dieresi per non incorrere nel dittongo ià) si giunge al napoletano fucechïare.
raffaele bracale
Parlo questa volta di un antico verbo partenopeo: fucechïare/fucechïà, verbo tanto antico e appartenente quasi del tutto ai lessici popolari e/o familiari, da non trovar posto in nessuno dei numerosi calepini della lingua partenopea da me consultati che ànno tutti (con qualche rara eccezione) il torto d’esser stati compilati attingendo quasi esclusivamente e solo negli scritti dei classici e non anche nel parlar popolare.
Cominciamo súbito col fornire il significato italiano del verbo fucechïare/fucechïà che vale: frugare insistentemente e continuamente, rovistare con insistenza, cercare e reiteratamente indagare, ma non allo scopo di trovare un quid, quanto per dar libero sfogo al proprio bisogno, per vizio o curiosità, di rimestare insistentemente nelle cose (tasche, scatole, mobili ed affini) anche senza un preordinato fine; tale comportamento un tempo fu tipico dei bambini, ma pure di taluni adulti.
Prima di soffermarci sull’etimologia del verbo in esame, rammenterò che il verbo fucechïare/fucechïà avendo la ï comporta una coniugazione dell’ind. presente del tipo: fucechéjo – fucechje – fucecheja – fucechjammo – fucechjate – fucechejano (e non fúceco – fúceche – fúceca – fucecàmmo – fucecàte – fúcecano) come vedemmo altrove per i verbi terminanti in ïare; è ovvio che tale tipo di coniugazione valga ugualmente per tutti gli atri tempi, avendosi ad es. per il pass. remoto fucecheïaje e non fucecaje e cosí via.
E veniamo infine all’etimologia del verbo in epigrafe.
Fucechïare/fucechïà à una evidente derivazione da un
Lat. volg. *furicare, dal class. furari 'rubare', che è da fur furis 'ladro', secondo il seguente percorso morfologico:
furicare→ per metatesi fruicare donde con epentesi eufonica di una c frucicare e successiva sincope totale della prima liquida r ottenendo fucicare ed infine con ulteriore epentesi vocalica della i (che è poi occorso fornir di dieresi per non incorrere nel dittongo ià) si giunge al napoletano fucechïare.
raffaele bracale
STRANGULAPRIEVETE D’’O PARZUNARO
STRANGULAPRIEVETE D’’O PARZUNARO
NOTA
Riporto qui di sèguito in primis un mio vecchio, ma ancóra valido scritto che mi pare interessante porre a corollario di questa ricetta:
Strangulapriévete & Co.
Con il sostantivo strangulapriévete, nell’idioma napoletano, si designano degli gnocchi semplici, fatti in casa con acqua, farina e sale. È vero che sia nell’uso quotidiano che in certa letteratura deteriore ò trovato pure — per indicare la medesima pasta — il termine strangulamuónece, ma si tratta chiaramente di un vocabolo pretestuoso, teso a prendersi gioco dei monaci, oltre che dei sacerdoti richiamati a torto nel primo lemma. Nella storia della parola, in realtà, il clero non c’entra affatto, se non per una gustosa omofonia che vi risuona o, se si vuole prendere per buona una notizia suggestiva del fantasioso Nicola Vottiero(1780 ca) , il quale riferisce che strangulapriévete chiamavano nel Settecento gli gnocchi i monaci e strangulamuónece a rimbrotto i preti.
Disdicevole è peraltro che, partendo da strangulapriévete, l’italiano mediatico abbia tratto fuori uno ‘strozzapreti’ da far venire i brividi all’ascolto o sobbalzar dalla poltrona. Vuoi vedere che aumme aumme e tenendomene all’oscuro son tornati tra di noi i lanzichenecchi?! È ben vero che tra gli studiosi dell’ idioma napoletano non è mancato, non so se per distrazione o per un eccesso di laicismo malinteso, chi accredita una semantica da serracollo, come per esempio fanno il D’Ascoli e il Santella, ma mi sto ancora chiedendo chi sia stato il primitivo ignorante che, non conoscendo l’etimologia della prima parte del termine strangula-priévete, à creduto di fare cosa intelligente (lasciandosi fuorviare dallo strangula d’avvio sostituendolo con ‘strozza’, (dal verbo strozzare, sinonimo in toscano di ‘strangolare’) e dimostrando, invece, d’essere un asino integrale.
Cerchiamo d’esser seri. Il termine strangulapriévete, unico originale vocabolo che possa arrogarsi il diritto di significare gli gnocchi napoletani, viene da secoli lontani e nasce dalla lingua greca, tanto da far sospettare che tale preparazione sia d’origine se non greca, certamente delle zone della Magna Grecia Dall’impasto di acqua, farina e sale si ricavano, arrotolandoli sul tagliere cosparso di farina asciutta, dei bastoncelli a sezione cilindrica, spessi un centimetro, che vengono tagliati in piccoli cilindretti di un paio di centimetri ognuno. I cilindretti vengon poi incavati, facendoli strusciare sul tagliere e tenendoli premuti contro il medesimo col polpastrello o dell’indice o del medio. Questa doppia operazione dell’arrotolamento e della incavatura ci fa comprendere perché il verbo greco straggalào, con i significati di arrotolare, attorcere, curvare, ed il verbo prepto con quelli di comprimere, incavare, siano all’origine del termine composto con cui designiamo i nostri gnocchi napoletani. Rammento che tali strangulaprievete greco-napoletani nella zona dell’avellinese prendono il nome di trille poi che l’operazione dell’incavatura è fatta contemporaneamente con i polpastrelli di tre dita: indice, medio ed anulare strusciando i cilindretti di pasta sul tagliere cosparso di farina, quel tagliere che in napoletano è détto laganaturo e nell’avellinese tumpagno.
Più chiaramente dirò che per il tagliere, i napoletani usano il generico termine di laganaturo (che deriva , come il sostantivo femminile lagana = sorta di larga fettuccina di pasta fresca ed estensivamente anche la intera sfoglia di pasta fresca da cui si ricavano le lagane o laganelle se più strette, su cui è forgiato - con il concorso di un suffisso turo (atto a, per) - dal greco làganon ma che i napoletani utilizzarono attraverso un neutro latinizzato lagana inteso femminile; per verità con il termine laganaturo a Napoli si indicò ( ed ecco il motivo per cui l’ò detto: generico) alternativamente sia il tagliere, che il bastone cilindrico con cui si spiana la pasta per cavarne le lagane; tale bastone fu ed è quello che in toscano dovrebbe correttamente dirsi matterello (diminutivo di màttero che è da congiungersi al latino matéola= mazza, bastone), ma che qualcuno e segnatamente chi parla dalla televisione..., si ostina a dire, impropriamente, con voce romanesca mattarello. Atteso dunque che sia il tagliere che il matterello sono due strumenti utili alla produzione delle lagane, poco male che avessero il medesimo nome. Quanto al tagliere dell’avellinese dirò à il nome di tumpagno ed è, contrariamente al tagliere napoletano che è rettangolare, di forma circolare, né più, né meno cioè che un fondo di botte che noi, figli di Partenope, usiamo dire appunto ‘o tumpagno (dal greco tympànion che sta giustappunto per chiusura).
Ma torniamo a gli strangulaprievete ed annotiamo che
come ò chiarito i sacerdoti non c’entrano nulla e di conseguenza men che meno i monaci chiamati in causa da qualche buontempone che non aveva di meglio cui pensare... Quanto allo stravolgimento di strangulaprievete in strozzapreti non posso che ribadire l’ignoranza e l’imbecillità di chi à fatto un simile strazio, ed à trovato sedicenti studiosi della lingua italiana pronti ad accoglierlo nei dizionarî in uso, diventati oramai il secchio della spazzatura in cui vien recepito di tutto, asinerie e capocchierie comprese. Si consideri la voce strangolapreti come appare in uno dei piú diffusi dizionari: «Gnocchetto duro e compatto, che, essendo di difficile masticazione, rischia di far morire soffocati». Ben tre stupidaggini infilate in una sola frase e che rischiano di farci soffocare dal ridere. Una cosa di cui ci si può solo vergognare. Ora nell’augurarvi di fare di questi strangulaprievete tanta bbona salute, vi raccomando di non canzarvi (di non permettervi ) di fare ‘e strangulaprievete con le patate(gli gnocchi fatti con le patate è una faccenda della cucina romana: io glieli lascio volentieri, e spero pure voi!
parzunaro = fittavolo, mezzadro , colono di parti limitate d’un podere altrui, con derivazione dal lat. medievale partionarius incontro tra partes ed il suff.arius usato per formare sostantivi indicanti arti o mestieri; il suffisso arius divenne nell’italiano aio dove diede varî nomi indicanti arti o mestieri: lattaio, merciaio, fioraio etc; nel napoletano arius divenne aro: putecaro, sciuraro, lattaro, parzunaro etc.
ingredienti e dosi per 6 persone:
per gli strangulaprievete:
1,200 kg. di farina 00
800 gr. d’acqua bollente
25 gr. di sale fino.
per il sugo:
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v.p. s. a f.
400 gr di bietole;
300 gr di carote;
3 grossi peperoni quadrilobati;
3 grosse cipolle dorate tritate grossolanamente,
200 gr di pomidoro Roma o San Marzano sbollentati,pelati e tagliati a pezzettoni;
200 gr di cimette di cavolfiore lavate;
200 gr di sedano bianco lavato e tagliato in tocchetti ;;
1 spicchio d’aglio mondato e schiacciato;
sale doppio alle erbette q.s.
sale fino alle erbette e pepe bianco q.s.;
1 etto di formaggio pecorino grattugiato;
Per approntare gli strangulaprievete.
Munirsi di un capace polsonetto ad un solo manico, riempirlo d’acqua (poco meno d’un litro) e portarla ad ebollizione; fuori dal fuoco, ma quando la temperatura dell’acqua sia ancóra elevata, versare nell’acqua, a pioggia quasi tutta la farina ed il sale, rimestare velocissimamente con un cucchiaio di legno, indi rovesciare d’un sol colpo su di un tagliere cosparso di farina asciutta l’impasto e cominciarlo a lavorare a mani nude molto velocemente(la cosa sarà favorita dal fatto che l’impasto risulterà bollente…) fino a che non abbia incorporato tutta la restante farina e non si sia ottenuto una palla di pasta soda ed elestica che si farà riposare per circa mezz’ora; indi si lavorerà ancora un po’ la pasta ed aggiungendo un po’ di farina si ricaveranno da piccole porzioni di pasta dei bastoncini cilindrici dello spessor d’un indice dai quali si ricaveranno tanti cilindretti di circa 2 cm. d’altezza che verranno pigiati velocemente ed alternativamente con i polpastrelli dell’indice o del medio ed incavati strusciandoli sul tagliere; alla fine si disporranno tutti questi strangulaprievete (gnocchi napoletani) distesi, ad asciugare, su di un canevaccio pulitissimo cosparso con pochissima farina. Dopo mezz’ora si porta ad ebollizione una pentola d’acqua fredda (circa 8 litri) ed appena l’acqua bolle vi si versano, pochi per volta, gli strangulaprievete che verranno prelevati dalla pentola con un mestolo forato appena riaffiorino tornando a galla, e messi in una zuppiera calda dove saranno rapidamente conditi con il sugo che sarà stato approntato nella maniera seguente:
Lavare e tagliare tutte le verdure(con esclusione dei peperoni) in piccoli pezzi o a cubetti da ½ cm di spigolo; farle sbollentare in acqua salata (sale grosso) per circa 7 minuti, alla fine sgrondarle e tenerle da parte;i peperoni invece lavati, asciugati scapitozzati e privati di picciolo nonché semi e costoline interne, vanno ridotti in falde grosse come un pollice e vanno stufati da crudi in olio bollente (mezzo bicchiere) ed aglio schiacciato, per circa 15 minuti) nel frattempo in un’ ampia padella versare un bicchiere d’olio, aggiungere le cipolle tritate, farle dorare ed unire i pezzettoni di pomidoro, salare e dopo 5 minuti di cottura aggiungere a mano a mano le varie verdure sbollendate e sgrondate cominciando con quelle a pezzi ed a seguire quelle a cubetti e farle insaporire incoperchiate per 10 minuti; regolare eventualmente di sale e pepe.A conclusione, aggiungere nella zuppiera a gli strangulaprievete il sugo cosí ottenuto al completo di tutte le verdure, pomidoro e del fondo di cottura; rimestare lungamente, ma delicatamente e poi aggiungere il pecorino ed il pepe. Si lascia riposare il tutto per alcuni minuti nella zuppiera tenuta in caldo e prima di servire in tavola si aggiungono i peperoni stufati.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
E, si ve piaciarranno diciteme: Grazie!
raffaele bracale
NOTA
Riporto qui di sèguito in primis un mio vecchio, ma ancóra valido scritto che mi pare interessante porre a corollario di questa ricetta:
Strangulapriévete & Co.
Con il sostantivo strangulapriévete, nell’idioma napoletano, si designano degli gnocchi semplici, fatti in casa con acqua, farina e sale. È vero che sia nell’uso quotidiano che in certa letteratura deteriore ò trovato pure — per indicare la medesima pasta — il termine strangulamuónece, ma si tratta chiaramente di un vocabolo pretestuoso, teso a prendersi gioco dei monaci, oltre che dei sacerdoti richiamati a torto nel primo lemma. Nella storia della parola, in realtà, il clero non c’entra affatto, se non per una gustosa omofonia che vi risuona o, se si vuole prendere per buona una notizia suggestiva del fantasioso Nicola Vottiero(1780 ca) , il quale riferisce che strangulapriévete chiamavano nel Settecento gli gnocchi i monaci e strangulamuónece a rimbrotto i preti.
Disdicevole è peraltro che, partendo da strangulapriévete, l’italiano mediatico abbia tratto fuori uno ‘strozzapreti’ da far venire i brividi all’ascolto o sobbalzar dalla poltrona. Vuoi vedere che aumme aumme e tenendomene all’oscuro son tornati tra di noi i lanzichenecchi?! È ben vero che tra gli studiosi dell’ idioma napoletano non è mancato, non so se per distrazione o per un eccesso di laicismo malinteso, chi accredita una semantica da serracollo, come per esempio fanno il D’Ascoli e il Santella, ma mi sto ancora chiedendo chi sia stato il primitivo ignorante che, non conoscendo l’etimologia della prima parte del termine strangula-priévete, à creduto di fare cosa intelligente (lasciandosi fuorviare dallo strangula d’avvio sostituendolo con ‘strozza’, (dal verbo strozzare, sinonimo in toscano di ‘strangolare’) e dimostrando, invece, d’essere un asino integrale.
Cerchiamo d’esser seri. Il termine strangulapriévete, unico originale vocabolo che possa arrogarsi il diritto di significare gli gnocchi napoletani, viene da secoli lontani e nasce dalla lingua greca, tanto da far sospettare che tale preparazione sia d’origine se non greca, certamente delle zone della Magna Grecia Dall’impasto di acqua, farina e sale si ricavano, arrotolandoli sul tagliere cosparso di farina asciutta, dei bastoncelli a sezione cilindrica, spessi un centimetro, che vengono tagliati in piccoli cilindretti di un paio di centimetri ognuno. I cilindretti vengon poi incavati, facendoli strusciare sul tagliere e tenendoli premuti contro il medesimo col polpastrello o dell’indice o del medio. Questa doppia operazione dell’arrotolamento e della incavatura ci fa comprendere perché il verbo greco straggalào, con i significati di arrotolare, attorcere, curvare, ed il verbo prepto con quelli di comprimere, incavare, siano all’origine del termine composto con cui designiamo i nostri gnocchi napoletani. Rammento che tali strangulaprievete greco-napoletani nella zona dell’avellinese prendono il nome di trille poi che l’operazione dell’incavatura è fatta contemporaneamente con i polpastrelli di tre dita: indice, medio ed anulare strusciando i cilindretti di pasta sul tagliere cosparso di farina, quel tagliere che in napoletano è détto laganaturo e nell’avellinese tumpagno.
Più chiaramente dirò che per il tagliere, i napoletani usano il generico termine di laganaturo (che deriva , come il sostantivo femminile lagana = sorta di larga fettuccina di pasta fresca ed estensivamente anche la intera sfoglia di pasta fresca da cui si ricavano le lagane o laganelle se più strette, su cui è forgiato - con il concorso di un suffisso turo (atto a, per) - dal greco làganon ma che i napoletani utilizzarono attraverso un neutro latinizzato lagana inteso femminile; per verità con il termine laganaturo a Napoli si indicò ( ed ecco il motivo per cui l’ò detto: generico) alternativamente sia il tagliere, che il bastone cilindrico con cui si spiana la pasta per cavarne le lagane; tale bastone fu ed è quello che in toscano dovrebbe correttamente dirsi matterello (diminutivo di màttero che è da congiungersi al latino matéola= mazza, bastone), ma che qualcuno e segnatamente chi parla dalla televisione..., si ostina a dire, impropriamente, con voce romanesca mattarello. Atteso dunque che sia il tagliere che il matterello sono due strumenti utili alla produzione delle lagane, poco male che avessero il medesimo nome. Quanto al tagliere dell’avellinese dirò à il nome di tumpagno ed è, contrariamente al tagliere napoletano che è rettangolare, di forma circolare, né più, né meno cioè che un fondo di botte che noi, figli di Partenope, usiamo dire appunto ‘o tumpagno (dal greco tympànion che sta giustappunto per chiusura).
Ma torniamo a gli strangulaprievete ed annotiamo che
come ò chiarito i sacerdoti non c’entrano nulla e di conseguenza men che meno i monaci chiamati in causa da qualche buontempone che non aveva di meglio cui pensare... Quanto allo stravolgimento di strangulaprievete in strozzapreti non posso che ribadire l’ignoranza e l’imbecillità di chi à fatto un simile strazio, ed à trovato sedicenti studiosi della lingua italiana pronti ad accoglierlo nei dizionarî in uso, diventati oramai il secchio della spazzatura in cui vien recepito di tutto, asinerie e capocchierie comprese. Si consideri la voce strangolapreti come appare in uno dei piú diffusi dizionari: «Gnocchetto duro e compatto, che, essendo di difficile masticazione, rischia di far morire soffocati». Ben tre stupidaggini infilate in una sola frase e che rischiano di farci soffocare dal ridere. Una cosa di cui ci si può solo vergognare. Ora nell’augurarvi di fare di questi strangulaprievete tanta bbona salute, vi raccomando di non canzarvi (di non permettervi ) di fare ‘e strangulaprievete con le patate(gli gnocchi fatti con le patate è una faccenda della cucina romana: io glieli lascio volentieri, e spero pure voi!
parzunaro = fittavolo, mezzadro , colono di parti limitate d’un podere altrui, con derivazione dal lat. medievale partionarius incontro tra partes ed il suff.arius usato per formare sostantivi indicanti arti o mestieri; il suffisso arius divenne nell’italiano aio dove diede varî nomi indicanti arti o mestieri: lattaio, merciaio, fioraio etc; nel napoletano arius divenne aro: putecaro, sciuraro, lattaro, parzunaro etc.
ingredienti e dosi per 6 persone:
per gli strangulaprievete:
1,200 kg. di farina 00
800 gr. d’acqua bollente
25 gr. di sale fino.
per il sugo:
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v.p. s. a f.
400 gr di bietole;
300 gr di carote;
3 grossi peperoni quadrilobati;
3 grosse cipolle dorate tritate grossolanamente,
200 gr di pomidoro Roma o San Marzano sbollentati,pelati e tagliati a pezzettoni;
200 gr di cimette di cavolfiore lavate;
200 gr di sedano bianco lavato e tagliato in tocchetti ;;
1 spicchio d’aglio mondato e schiacciato;
sale doppio alle erbette q.s.
sale fino alle erbette e pepe bianco q.s.;
1 etto di formaggio pecorino grattugiato;
Per approntare gli strangulaprievete.
Munirsi di un capace polsonetto ad un solo manico, riempirlo d’acqua (poco meno d’un litro) e portarla ad ebollizione; fuori dal fuoco, ma quando la temperatura dell’acqua sia ancóra elevata, versare nell’acqua, a pioggia quasi tutta la farina ed il sale, rimestare velocissimamente con un cucchiaio di legno, indi rovesciare d’un sol colpo su di un tagliere cosparso di farina asciutta l’impasto e cominciarlo a lavorare a mani nude molto velocemente(la cosa sarà favorita dal fatto che l’impasto risulterà bollente…) fino a che non abbia incorporato tutta la restante farina e non si sia ottenuto una palla di pasta soda ed elestica che si farà riposare per circa mezz’ora; indi si lavorerà ancora un po’ la pasta ed aggiungendo un po’ di farina si ricaveranno da piccole porzioni di pasta dei bastoncini cilindrici dello spessor d’un indice dai quali si ricaveranno tanti cilindretti di circa 2 cm. d’altezza che verranno pigiati velocemente ed alternativamente con i polpastrelli dell’indice o del medio ed incavati strusciandoli sul tagliere; alla fine si disporranno tutti questi strangulaprievete (gnocchi napoletani) distesi, ad asciugare, su di un canevaccio pulitissimo cosparso con pochissima farina. Dopo mezz’ora si porta ad ebollizione una pentola d’acqua fredda (circa 8 litri) ed appena l’acqua bolle vi si versano, pochi per volta, gli strangulaprievete che verranno prelevati dalla pentola con un mestolo forato appena riaffiorino tornando a galla, e messi in una zuppiera calda dove saranno rapidamente conditi con il sugo che sarà stato approntato nella maniera seguente:
Lavare e tagliare tutte le verdure(con esclusione dei peperoni) in piccoli pezzi o a cubetti da ½ cm di spigolo; farle sbollentare in acqua salata (sale grosso) per circa 7 minuti, alla fine sgrondarle e tenerle da parte;i peperoni invece lavati, asciugati scapitozzati e privati di picciolo nonché semi e costoline interne, vanno ridotti in falde grosse come un pollice e vanno stufati da crudi in olio bollente (mezzo bicchiere) ed aglio schiacciato, per circa 15 minuti) nel frattempo in un’ ampia padella versare un bicchiere d’olio, aggiungere le cipolle tritate, farle dorare ed unire i pezzettoni di pomidoro, salare e dopo 5 minuti di cottura aggiungere a mano a mano le varie verdure sbollendate e sgrondate cominciando con quelle a pezzi ed a seguire quelle a cubetti e farle insaporire incoperchiate per 10 minuti; regolare eventualmente di sale e pepe.A conclusione, aggiungere nella zuppiera a gli strangulaprievete il sugo cosí ottenuto al completo di tutte le verdure, pomidoro e del fondo di cottura; rimestare lungamente, ma delicatamente e poi aggiungere il pecorino ed il pepe. Si lascia riposare il tutto per alcuni minuti nella zuppiera tenuta in caldo e prima di servire in tavola si aggiungono i peperoni stufati.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
E, si ve piaciarranno diciteme: Grazie!
raffaele bracale
mercoledì 29 aprile 2009
RISO LESSATO CON FRICASSEA DI ORTAGGI
RISO LESSATO CON FRICASSEA DI ORTAGGI
Ingredienti e dosi per 6 persone:
5 etti di riso arborio,
300g. di fagioli cannellini lessati,
200g. di cimette di cavolfiore, 200g. di spinaci mondati,
una zucchina media soda e verde tagliata a dadini,
una grossa cipolla dorata,
una carota,
un cuore di sedano,
150g. di polpa di pomodoro,
pecorino grattugiato q.s.,
2 dadi,
1 bicchiere e mezzo di olio d’oliva e.v.p.s. a f.
2 spicchi d’aglio mondati e schiacciati
, sale fino e pepe decorticato q.s.
Tritate la cipolla sbucciata, la carota raschiata e lavata, il sedano mondato e lavato. Raccogliete il trito in una pentola, aggiungete mezzo bicchiere di olio e fate soffriggere il trito a fuoco dolce per circa 15 minuti;aggiungete la polpa di pomodoro, lasciatela insaporire per un poco ed unite 2 litri di acqua Appena avrà raggiunto l'ebollizione aggiungete le cimette di cavolfiore mondate e lavate e gli spinaci mondati, lavati e spezzettati grossolanamente); mondate, lavate e, la zucchina lavata e tagliata a dadini, i fagioli per metà passati al mixer e per metà interi e i dadi sbriciolati. Coprite e cuocete per 50 minuti. A parte versate in un tegamino il residuo olio e aromatizzatelo facendovi dorare a non piú di 70° gli spicchi d’aglio schiacciati che poi tirerete via.A fine cottura salate la fricassea di ortaggi, pepate, e conditela con la metà dell’olio aromatizzato ed aggiungente abbondante pecorino. Nel frattempo lessate in acqua non salata per circa 20 minuti il riso; sciacquatelo sotto uno scroscio d’acqua calda, conditelo con l’olio aromatizzato residuo, due cucchiai di pecorino tenuto da parte alla bisogna ed un pizzico di sale fino alle erbette; compattate il riso condito in una teglia con sagoma di foro centrale, sformatelo in un piatto di portata e riempite il foro con la fricassea ben calda.
Servite súbito
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale.
Ingredienti e dosi per 6 persone:
5 etti di riso arborio,
300g. di fagioli cannellini lessati,
200g. di cimette di cavolfiore, 200g. di spinaci mondati,
una zucchina media soda e verde tagliata a dadini,
una grossa cipolla dorata,
una carota,
un cuore di sedano,
150g. di polpa di pomodoro,
pecorino grattugiato q.s.,
2 dadi,
1 bicchiere e mezzo di olio d’oliva e.v.p.s. a f.
2 spicchi d’aglio mondati e schiacciati
, sale fino e pepe decorticato q.s.
Tritate la cipolla sbucciata, la carota raschiata e lavata, il sedano mondato e lavato. Raccogliete il trito in una pentola, aggiungete mezzo bicchiere di olio e fate soffriggere il trito a fuoco dolce per circa 15 minuti;aggiungete la polpa di pomodoro, lasciatela insaporire per un poco ed unite 2 litri di acqua Appena avrà raggiunto l'ebollizione aggiungete le cimette di cavolfiore mondate e lavate e gli spinaci mondati, lavati e spezzettati grossolanamente); mondate, lavate e, la zucchina lavata e tagliata a dadini, i fagioli per metà passati al mixer e per metà interi e i dadi sbriciolati. Coprite e cuocete per 50 minuti. A parte versate in un tegamino il residuo olio e aromatizzatelo facendovi dorare a non piú di 70° gli spicchi d’aglio schiacciati che poi tirerete via.A fine cottura salate la fricassea di ortaggi, pepate, e conditela con la metà dell’olio aromatizzato ed aggiungente abbondante pecorino. Nel frattempo lessate in acqua non salata per circa 20 minuti il riso; sciacquatelo sotto uno scroscio d’acqua calda, conditelo con l’olio aromatizzato residuo, due cucchiai di pecorino tenuto da parte alla bisogna ed un pizzico di sale fino alle erbette; compattate il riso condito in una teglia con sagoma di foro centrale, sformatelo in un piatto di portata e riempite il foro con la fricassea ben calda.
Servite súbito
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale.
VARIE 205
1-'A vipera ca muzzecaje a cchella murette 'e tuosseco.
Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perí di veleno; per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto piú pericolosa di essa vipera.
2- E sempe Carulina, e sempe Carulina...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che - però, si dice - lo ripagasse con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.
3- Tre ccose stanno male a 'stu munno: n'auciello 'mmano a 'nu piccerillo, 'nu fiasco 'mmano a 'nu terisco, 'na zita 'mmano a 'nu viecchio.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato,il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, per definizione lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
4- Uovo 'e n'ora, pane 'e 'nu juorno, vino 'e n'anno e guagliona 'e vint'anne.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare tutta l'umidità dovuta alla cottura, vino giovane che è il piú dolce ed il meno alcoolico, ed una ragazza ancora nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancora intatte.
5- A chi piace lu spito, nun piace la spata.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
6- Addó nun miette ll'aco, nce miette 'a capa.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato súbito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
7- Zitto chi sape 'o juoco!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
8 - Vuó campà libbero e biato? Meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato? Meglio solo che male accompagnato Il proverbio in epigrafe, in fondo traduce l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo.
9- Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di un amante che soddisfi le sue voglie sessuali.
10 - Quanno quacche amico te vene a truvà, quacche cazzo le mancarrà.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te)Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o di affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa.
11 -Zitto chi sape 'o juoco!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
12 - Vuó campà libbero e biato: meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato: meglio solo che male accompagnato Il proverbio in epigrafe, in fondo traduce l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo.
13 -Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di uno che soddisfi le sue voglie sessuali.
14 - Ll'uocchie so' ffate pe guardà, ma 'e mmane pe tuccà.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare palpeggiamenti delle rotondità femminili.
15 - Zappa 'e femmena e surco 'e vacca, mala chella terra ca l'ancappa.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
16 - 'Amice e vino ànno 'a essere viecchie!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data.
17- 'A meglia vita è cchella d''e vaccarepecché, tutta 'a jurnata, manejano zizze e denare.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
18 -'O turco fatto crestiano, vo' 'mpalà tutte chille ca ghiastemmano.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
19 -'O Pataterno addò vede 'a culata, llà spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
20-'O galantomo appezzentúto, addeventa 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
21 - 'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che hanno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
22 -'E vruoccole so' bbuone dint’ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
23 -Statte bbuono a 'e sante: è zumpata 'a vacca 'ncuollo a 'o vojo!
Letteralmente: buonanotte!la vacca ha montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni cosí contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare.
24 -Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte acìto.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe così cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
25- 'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
26 - 'O fatto d''e quatte surde.
Letteralmente: il racconto dei quattro sordi. Il raccontino che qui di seguito si narra, adombra il dramma della incomunicabilità e la locuzione in epigrafe viene pronunciata a Napoli a sapido commento in una situazione nella quale non ci si riesca a capire alla stregua di quei quattro sordi che viaggiatori del medesimo treno, giunti ad una stazione, così dialogarono: Il primo: Scusate simmo arrivate a Napule? (Scusate, siamo giunti a Napoli?) Il secondo: Nonzignore, cca è Napule!(Nossignore, qua è Napoli!) Il terzo: I' me penzavo ca stevamo a Napule (Io credevo che stessimo a Napoli). Il quarto concluse: Maje pe cumanno, quanno stammo a Napule, m'avvisate? (Per cortesia, quando saremo a Napoli, mi terrete informato?).
27 -A 'nu cetrangolo spremmuto, chiavece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
28 -Chi va pe chisti mare, chisti pisce piglia.
Letteralmente: chi corre questi mari può pescare solo questo tipo di pesce. Id est: chi si sofferma a compiere un tipo di operazione difficile e/o pericolosa, non può che sopportarne le conseguenze, né può attendersi risultati diversi o migliori.
29 -Ammore, tosse e rogna nun se ponno annasconnere.
Amore, tosse e scabbia non si posson celare; le manifestazioni di queste tre situazioni sono così eclatanti che nessuno può nasconderle; per quanto ci si ingegni in senso opposto amore, tosse e scabbia saranno sempre palesi; la locuzione è usata sempre che si voglia alludere a situazioni non celabili.
30- 'Mpàrate a parlà, no a faticà.
Letteralmente: impara a parlare, non a lavorare. Amaroed ironico, ammiccante proverbio napoletano dal quale è facile comprendere la disistima tenuta dai napoletani per tutti coloro che non si guadagnano da vivere con un serio e duro lavoro, ma fondono la propria esistenza sul fumo dell'eloquio, ritenuto però estremamente utile al conseguimento di mezzi di sussistenza, molto piú dell'onesto e duro lavoro (FATICA)in fondo la vita è dei furbi di quelli capaci di riempirti la testa di vuote chiacchiere e di non lavorare mai vivendo ugualmente benissimo.
31- Chi troppo s''o sparagna, vene 'a 'atta e se lu magna.
Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo profittatore che disperde o consuma tutto il messo da parte.
32 -'A sotto p''e chiancarelle.
Letteralmente: attenti ai panconcelli! Esclamazione usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po' piú colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le sottili assi trasversali di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano olim da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando Sanfelice che fattosi erigere un palazzo nella zona detta della Sanità, vi appose un'epigrafe dittante: eques Ferdinandus Sanfelicius fecit(il cav. Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il Sanfelice paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali Levàteve 'a sotto (toglietevi di sotto! ).
33 -'A meglia vita è cchella d''e vaccarepecché, tutta 'a jurnata, manejano zizze e denare.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
34 -'O turco fatto crestiano, vo' 'mpalà tutte chille ca ghiastemmano.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
35 -'O Pataterno addó vede 'a culata, llà spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
36 -'O galantomo appezzentúto, addeviventa 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
37 -'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che hanno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
38 -Statte bbuono a 'e sante: è zumpata 'a vacca 'ncuoll’ô vojo!
Letteralmente: buonanotte!la vacca à montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni cosí contrarie alla norma che è impossibile raddrizzarle.
39 -Sparterse 'a cammisa 'e Cristo.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Così a Napoli si dice di chi, esoso al massimo, si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato Cristo sul Golgota , divisero in quattro parti l'unica tunica di cui era ricoperto il Signore.
40 -Essere aurio 'e chiazza e tríbbulo 'e casa.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e lamentarsi in casa. Cosí a Napoli si suole dire di coloro - specialmente uomini - che in piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto simpatico, mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche immotivato.
41 -Avenno, putenno, pavanno.
Letteralmente: avendo, potendo, pagando. Strana locuzione napoletana che si compendia in una sequela di tre gerundi e che a tutta prima pare ellittica di verbo reggente, ma che sta a significare che un debito contratto, ben difficilmente verrà soddisfatto essendone la soddisfazione sottoposta a troppe condizioni ostative quali l'avere ed il potere ed un sottinteso volere, per cui piú correttamente il terzo gerundio della locuzione dovrebbe assumere la veste di verbo reggente di modo finito; ossia: pagherò quando (e se) avrò i mezzi occorrenti e quando (e se) potrò.
42- Ammesúrate 'a palla!
Letteralmente: Misúrati la palla; id est: misura preventivamente ciò che stai per fare cosí eviterai di incorrere in grossolani errori; non fare il gradasso!: Rènditi conto di e con chi stai contrattando o con chi ti stai misurando per non trovarti davanti ad esiti poco convenienti per te, derivanti dalle tue errate azioni. La locuzione originariamente - pronunciata, però, con diverso accento ossia: Ammesuràte (misurate!)era il perentorio ordine rivolto dagli artiglieri ai serventi ai pezzi affinché portassero proiettili di esatto calibro adatti alle bocche da fuoco in azione.
RAFFAELE BRACALE
Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perí di veleno; per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto piú pericolosa di essa vipera.
2- E sempe Carulina, e sempe Carulina...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che - però, si dice - lo ripagasse con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.
3- Tre ccose stanno male a 'stu munno: n'auciello 'mmano a 'nu piccerillo, 'nu fiasco 'mmano a 'nu terisco, 'na zita 'mmano a 'nu viecchio.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato,il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, per definizione lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
4- Uovo 'e n'ora, pane 'e 'nu juorno, vino 'e n'anno e guagliona 'e vint'anne.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare tutta l'umidità dovuta alla cottura, vino giovane che è il piú dolce ed il meno alcoolico, ed una ragazza ancora nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancora intatte.
5- A chi piace lu spito, nun piace la spata.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
6- Addó nun miette ll'aco, nce miette 'a capa.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato súbito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
7- Zitto chi sape 'o juoco!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
8 - Vuó campà libbero e biato? Meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato? Meglio solo che male accompagnato Il proverbio in epigrafe, in fondo traduce l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo.
9- Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di un amante che soddisfi le sue voglie sessuali.
10 - Quanno quacche amico te vene a truvà, quacche cazzo le mancarrà.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te)Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o di affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa.
11 -Zitto chi sape 'o juoco!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
12 - Vuó campà libbero e biato: meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato: meglio solo che male accompagnato Il proverbio in epigrafe, in fondo traduce l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo.
13 -Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di uno che soddisfi le sue voglie sessuali.
14 - Ll'uocchie so' ffate pe guardà, ma 'e mmane pe tuccà.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare palpeggiamenti delle rotondità femminili.
15 - Zappa 'e femmena e surco 'e vacca, mala chella terra ca l'ancappa.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
16 - 'Amice e vino ànno 'a essere viecchie!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data.
17- 'A meglia vita è cchella d''e vaccarepecché, tutta 'a jurnata, manejano zizze e denare.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
18 -'O turco fatto crestiano, vo' 'mpalà tutte chille ca ghiastemmano.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
19 -'O Pataterno addò vede 'a culata, llà spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
20-'O galantomo appezzentúto, addeventa 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
21 - 'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che hanno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
22 -'E vruoccole so' bbuone dint’ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
23 -Statte bbuono a 'e sante: è zumpata 'a vacca 'ncuollo a 'o vojo!
Letteralmente: buonanotte!la vacca ha montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni cosí contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare.
24 -Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte acìto.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe così cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
25- 'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
26 - 'O fatto d''e quatte surde.
Letteralmente: il racconto dei quattro sordi. Il raccontino che qui di seguito si narra, adombra il dramma della incomunicabilità e la locuzione in epigrafe viene pronunciata a Napoli a sapido commento in una situazione nella quale non ci si riesca a capire alla stregua di quei quattro sordi che viaggiatori del medesimo treno, giunti ad una stazione, così dialogarono: Il primo: Scusate simmo arrivate a Napule? (Scusate, siamo giunti a Napoli?) Il secondo: Nonzignore, cca è Napule!(Nossignore, qua è Napoli!) Il terzo: I' me penzavo ca stevamo a Napule (Io credevo che stessimo a Napoli). Il quarto concluse: Maje pe cumanno, quanno stammo a Napule, m'avvisate? (Per cortesia, quando saremo a Napoli, mi terrete informato?).
27 -A 'nu cetrangolo spremmuto, chiavece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
28 -Chi va pe chisti mare, chisti pisce piglia.
Letteralmente: chi corre questi mari può pescare solo questo tipo di pesce. Id est: chi si sofferma a compiere un tipo di operazione difficile e/o pericolosa, non può che sopportarne le conseguenze, né può attendersi risultati diversi o migliori.
29 -Ammore, tosse e rogna nun se ponno annasconnere.
Amore, tosse e scabbia non si posson celare; le manifestazioni di queste tre situazioni sono così eclatanti che nessuno può nasconderle; per quanto ci si ingegni in senso opposto amore, tosse e scabbia saranno sempre palesi; la locuzione è usata sempre che si voglia alludere a situazioni non celabili.
30- 'Mpàrate a parlà, no a faticà.
Letteralmente: impara a parlare, non a lavorare. Amaroed ironico, ammiccante proverbio napoletano dal quale è facile comprendere la disistima tenuta dai napoletani per tutti coloro che non si guadagnano da vivere con un serio e duro lavoro, ma fondono la propria esistenza sul fumo dell'eloquio, ritenuto però estremamente utile al conseguimento di mezzi di sussistenza, molto piú dell'onesto e duro lavoro (FATICA)in fondo la vita è dei furbi di quelli capaci di riempirti la testa di vuote chiacchiere e di non lavorare mai vivendo ugualmente benissimo.
31- Chi troppo s''o sparagna, vene 'a 'atta e se lu magna.
Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo profittatore che disperde o consuma tutto il messo da parte.
32 -'A sotto p''e chiancarelle.
Letteralmente: attenti ai panconcelli! Esclamazione usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po' piú colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le sottili assi trasversali di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano olim da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando Sanfelice che fattosi erigere un palazzo nella zona detta della Sanità, vi appose un'epigrafe dittante: eques Ferdinandus Sanfelicius fecit(il cav. Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il Sanfelice paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali Levàteve 'a sotto (toglietevi di sotto! ).
33 -'A meglia vita è cchella d''e vaccarepecché, tutta 'a jurnata, manejano zizze e denare.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
34 -'O turco fatto crestiano, vo' 'mpalà tutte chille ca ghiastemmano.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
35 -'O Pataterno addó vede 'a culata, llà spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
36 -'O galantomo appezzentúto, addeviventa 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
37 -'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che hanno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
38 -Statte bbuono a 'e sante: è zumpata 'a vacca 'ncuoll’ô vojo!
Letteralmente: buonanotte!la vacca à montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni cosí contrarie alla norma che è impossibile raddrizzarle.
39 -Sparterse 'a cammisa 'e Cristo.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Così a Napoli si dice di chi, esoso al massimo, si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato Cristo sul Golgota , divisero in quattro parti l'unica tunica di cui era ricoperto il Signore.
40 -Essere aurio 'e chiazza e tríbbulo 'e casa.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e lamentarsi in casa. Cosí a Napoli si suole dire di coloro - specialmente uomini - che in piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto simpatico, mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche immotivato.
41 -Avenno, putenno, pavanno.
Letteralmente: avendo, potendo, pagando. Strana locuzione napoletana che si compendia in una sequela di tre gerundi e che a tutta prima pare ellittica di verbo reggente, ma che sta a significare che un debito contratto, ben difficilmente verrà soddisfatto essendone la soddisfazione sottoposta a troppe condizioni ostative quali l'avere ed il potere ed un sottinteso volere, per cui piú correttamente il terzo gerundio della locuzione dovrebbe assumere la veste di verbo reggente di modo finito; ossia: pagherò quando (e se) avrò i mezzi occorrenti e quando (e se) potrò.
42- Ammesúrate 'a palla!
Letteralmente: Misúrati la palla; id est: misura preventivamente ciò che stai per fare cosí eviterai di incorrere in grossolani errori; non fare il gradasso!: Rènditi conto di e con chi stai contrattando o con chi ti stai misurando per non trovarti davanti ad esiti poco convenienti per te, derivanti dalle tue errate azioni. La locuzione originariamente - pronunciata, però, con diverso accento ossia: Ammesuràte (misurate!)era il perentorio ordine rivolto dagli artiglieri ai serventi ai pezzi affinché portassero proiettili di esatto calibro adatti alle bocche da fuoco in azione.
RAFFAELE BRACALE
SCUCCHIA, SGHESSA E DINTORNI
SCUCCHIA, SGHESSA E DINTORNI
Esistono alcuni vocaboli che stranamente, vengon usati in piú parlate regionali, ma non sempre (pur mantenendo le medesime omofonia ed omografia) con lo stesso significato; tra tali vocaboli segnalo qui il termine scucchia che si ritrova in varie parlate centro meridionali: Lazio, Umbria, Campania, Basilicata, ma mentre nelle regioni del centro (con derivazione da un acc. del latino volgare *scutula(m)→scut’la(m)→scucchia) significa: mento pronunciato, bazza , nelle parlate meridionali, con probabile maggior aderenza al significato della voce etimologica, sta a significare: guancia, gota (in part. il pomello).
Nelle parlate meridionali il mento pronunciato,quando non addirittura scentrato, deviato (cfr. il famosissimo mento del principe della risata Antonio de Curtis, in arte Totò), la bazza sono resi con la voce sguessa o anche sguéssera; ambedue queste due ultime voci (di cui la seconda: sguéssera, è solo un’estensione espressiva popolare dell’originaria sguessa) risultano essere, quanto all’etimo, un adattamento della voce sghessa che (derivata da un ant. alto tedesco geicz (voracità), con tipica pròstesi di una s intensiva) indica una fame smodata, eccessiva quella che,talvolta, impegnando in un lavoro abnorme bocca e mandibola, può determinare lo sviamento ed il pronunciamento del mento; da sghessa→sguessa con caduta dell’ acca e successiva palatalizzazione della e che intesa breve viene dittongata in ue; da sguessa→sguessera.
Rammenterò infine che la voce sghessa nell’identico significato di fame smodata, si ritrova con varî adattamenti in molti dialetti: emiliano (idem sghessa), lombardo(sgheiza, sgüssa) piemontese(gheisi) sardo(sghinzu) e persino nell’italiano sghescia.
Raffaele Bracale
Esistono alcuni vocaboli che stranamente, vengon usati in piú parlate regionali, ma non sempre (pur mantenendo le medesime omofonia ed omografia) con lo stesso significato; tra tali vocaboli segnalo qui il termine scucchia che si ritrova in varie parlate centro meridionali: Lazio, Umbria, Campania, Basilicata, ma mentre nelle regioni del centro (con derivazione da un acc. del latino volgare *scutula(m)→scut’la(m)→scucchia) significa: mento pronunciato, bazza , nelle parlate meridionali, con probabile maggior aderenza al significato della voce etimologica, sta a significare: guancia, gota (in part. il pomello).
Nelle parlate meridionali il mento pronunciato,quando non addirittura scentrato, deviato (cfr. il famosissimo mento del principe della risata Antonio de Curtis, in arte Totò), la bazza sono resi con la voce sguessa o anche sguéssera; ambedue queste due ultime voci (di cui la seconda: sguéssera, è solo un’estensione espressiva popolare dell’originaria sguessa) risultano essere, quanto all’etimo, un adattamento della voce sghessa che (derivata da un ant. alto tedesco geicz (voracità), con tipica pròstesi di una s intensiva) indica una fame smodata, eccessiva quella che,talvolta, impegnando in un lavoro abnorme bocca e mandibola, può determinare lo sviamento ed il pronunciamento del mento; da sghessa→sguessa con caduta dell’ acca e successiva palatalizzazione della e che intesa breve viene dittongata in ue; da sguessa→sguessera.
Rammenterò infine che la voce sghessa nell’identico significato di fame smodata, si ritrova con varî adattamenti in molti dialetti: emiliano (idem sghessa), lombardo(sgheiza, sgüssa) piemontese(gheisi) sardo(sghinzu) e persino nell’italiano sghescia.
Raffaele Bracale
MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE
MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE
Ad litteram: mandare a comprare l'urtabancone.
Anticamente nei quartieri popolari di Napoli, quando le famiglie erano numerose, in ogni casa si aggirava un gran numero di bambini, la cui presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato col proprio uomo.Allora, previo accordo, qualche bottegaio (salumiere, droghiere) del rione si assumeva il compito di intrattenere, con favolette o distribuzione di piccole leccornie, i bambini che le mamme gli inviavano con la frase stabilita di accattà 'o tozzabancone.
Altri tempi ed altre disponibilità!
Raffaele Bracale
Ad litteram: mandare a comprare l'urtabancone.
Anticamente nei quartieri popolari di Napoli, quando le famiglie erano numerose, in ogni casa si aggirava un gran numero di bambini, la cui presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato col proprio uomo.Allora, previo accordo, qualche bottegaio (salumiere, droghiere) del rione si assumeva il compito di intrattenere, con favolette o distribuzione di piccole leccornie, i bambini che le mamme gli inviavano con la frase stabilita di accattà 'o tozzabancone.
Altri tempi ed altre disponibilità!
Raffaele Bracale
VARIE 204
1.Abbiarse a curalle.
Letteralmente: avviarsi verso i coralli. Id est: Anticiparsi, muovere rapidamente e prima degli altri verso qualcosa. Segnatamente lo si dice delle donne violate ed incinte che devono affrettare le nozze. La locuzione nasce nell'ambito dei pescatori torresi (Torre del Greco -NA ), che al momento di mettersi in mare lasciavano che per primi partissero coloro che andavano alla pesca del corallo.
2. Aggiu visto 'a morte cu ll' uocchie.
Letteralmente: Ò veduto la morte con gli occhi. Con questa locuzione tautologica si esprime chi voglia evidenziare di aver corso un serio pericolo o rischio mortale tale da portarlo ad un passo dalla morte e di esserne fortunatamente restato indenne.
3. Vulé piscià e gghí 'ncarrozza.
Letteralmente: voler mingere e al tempo stesso andare in carrozza Id est: pretendere di voler conseguire due risultati utili, ma incompatibili fra di essi.
4. Ve dico 'na buscía.
Vi dico una bugia. E' il modo sbrigativo e piuttosto ipocrita di liberarsi dall'incombenza di dare una risposta, quando non si voglia prender posizione in ordine al richiesto e allora si avverte l'interlocutore di non continuare a chiedere perché la risposta potrebbe essere una fandonia, una bugia...
5. Fà 'o francese.
Letteralmente: fare il francese, id est: mostrare, dare a vedere o - meglio - fingere di non comprendere, di non capire quanto vien detto, allo scoperto scopo di non dare risposte, specie trattandosi di impegnative richieste o ordini perentorii. È l'equivalente dell'italiano: fare l'indiano, espressione che, storicamente, a Napoli non si comprende, non avendo i napoletani avuto nulla a che spartire con gli indiani, sia d'India che d' America, mentre ànno subíto una dominazione francese ed ànno avuto a che fare con gente d'oltralpe.
6.'O pesce fète d''a capa.
Letteralmente: Il pesce puzza dalla testa. Id est: il cattivo esempio viene dall'alto, gli errori maggiori vengon commessi dai capi. Per cui: ove necessario, se si vogliono raddrizzare le cose, bisogna cominciare a prender provvedimenti innanzi tutto contro i comandanti.
7. 'O purpo s' à dda cocere cu ll'acqua soja.
Letteralmente: il polpo va fatto cuocere con la sola acqua di cui è pieno. La locuzione si usa quando si voglia commentare l'inutilità degli ammonimenti, dei consigli et similia, che non vengono accolti perché il loro destinatario, è di dura cervice e non intende collaborare a recepire moniti e o consigli che allora verranno da lui accolti quando il soggetto si sarà autoconvinto della opportunità di accoglierli.
8. Acqua 'a 'nnanze e vviento 'a reto...
Letteralmente: Acqua da davanti e vento da dietro. È il malevolo augurio con cui viene congedato una persona importuna e fastidiosa cui viene indirizzato l'augurio di essere attinto di faccia da un violento temporale e di spalle da un impetuoso vento che lo spingano il piú lontano possibile.
9.Abbuffà 'a guallera.
Letteralmente: gonfiare l'ernia. Id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno al punto di procurargli una metaforica enfiagione di un'ipotetica ernia. Si consideri però che in napoletano con il termine "guallera"(dall’arabo wadara) si indica oltre che l'ernia anche il sacco scrotale, ed è ad esso che con ogni probabilità fa riferimento questa locuzione.
10.Tené 'e gghiorde.
Letteralmente: essere affetto da giarda, malattia che colpisce giunture ed estremità di taluni animali; le parti colpite si gonfiano impedendo una corretta andatura. La locuzione è usata nei confronti di chi appare pigro, indolente e scansafatiche quasi avesse difficoltà motorie causate da enfiagione delle gambe che appaiono come contratte ed attanagliate da nodi. In turco, con il termine jord si indica il tipico doppio nodo dei tappeti - da jord a gghiorde il passo è breve.
11.Farse chiovere 'ncuollo.
Letteralmente: farsi piovere addosso, ossia lasciarsi cogliere impreparato a qualsivoglia bisogna, non prendere le opportune precauzioni e sopportarne le amare conseguenze.
12.Fà 'o calavrese.
Fare il calabrese, ossia non mantenere la parola data, esser mendace e spergiuro..., atteggiamento tipico del calabrese che, non per cattiva abitudine, ma per paura, in un rapporto contrattuale – temendo di essere ingannato o vessato dalla controparte – viene meno a quanto pattuito, per non incorrere in un cattivo mercato.
13.Farse 'a passiata d''o rraú.
Letteralmente: fare la passeggiata del ragú. Id est: andare a zonzo senza fretta. Un tempo, quando ancora la TV non rompeva l'anima cercando di imporci diete e diete, i napoletani, erano soliti consumare nel dí di festa un canonico piatto di maccheroni al ragú. Il ragú è una salsa che à bisogno di una lunghissima cottura, tanto che la sua preparazione cominciava il sabato sera e giungeva a compimento la domenica mattina e durante il tempo necessario alla bisogna, gli uomini ed i bambini di casa si dedicavano a lente e salutari passeggiate, mentre le donne di casa accudivano la salsa in cottura e preparavano la tavolata domenicale.
14.Stà sempe 'ntridice.
Letteralmente: stare sempe in tredici.Id est: esser sempre presente, mostrarsi continuatamente, partecipare ad ogni manifestazione, insomma far sempre mostra di sé alla stregua di un candelabro perennemente in mostra in mezzo ad un tavolo, e poiché nella smorfia napoletana il candelabro, come le candele, fa 13 ecco che viene fuori l'espressione con la quale a Napoli si è soliti apostrofare gli impenitenti presenzialisti...
15.Aspettà cu ll'ove 'mpietto.
Letteralmente: attendere con le uova in petto. Id est: attendere spasmodicamente, con impazienza, preoccupazione... L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la spasmodicità dell'attesa di un qualsivoglia avvenimento. E prende le mosse dall'uso invalso in certe campagne del napoletano, allorché le contadine, accortesi che la chioccia, per sopraggiunti problemi fisici, non portava a termine la cova, si sostituivano ad essa e si ponevano tra le mammelle le uova per completare con il loro calore l'operazione cominciata dalla chioccia.
16.'A sciorta 'e Cazzette:jette a piscià e se ne cadette.
La cattiva fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento.
17.Attacca 'o ciuccio addó vo’ 'o patrone
Letteralmente: Lega l'asino dove vuole il padrone Id est: Rassegnati ad adattarti alla volontà altrui, specie se è quella del capintesta(e non curarti delle conseguenze) E' una sorta di trasposizione del militaresco: gli ordini non si discutono...
18.'E maccarune se magnano teniente teniente
I maccheroni vanno mangiati molto al dente: è questa la traduzione letterale dell'adagio che, oltre a dare una indicazione di buon gusto, sta a significare che occorre avere sollecitudine nella conduzione e conclusione degli affari.
teniente è il plur. di tenente = tenente(part. pres. del verbo tenere e non omofono ed omografo grado militare), e con l’iterativo teniente,teniente ci si riferisce al modo di cottura della pasta che occorre far lessare brevemente, senza che si disfaccia e nell’iterazione quasi superlativa teniente teniente vale molto pronti, quasi duretti come cosa che abbia tenuto la cottura evitando di ammollarsi eccessivamente; letteralmente tenente e teniente sono, come ò detto, il participio presente del verbo tené (tenere) che è dal latino teníre, corradicale di tendere 'tendere'.
19.Quanno 'a femmena vo’ filà, l'abbasta 'nu spruoccolo.
Letteralmente: quando una donna vuol filare le basta uno stecco - non à bisogno di aspo o di fuso.Id est: la donna che vuole raggiungere uno scopo, una donna che voglia qualcosa, è pronta ad usare tutti i mezzi pur di centrare l'obbiettivo, non si ferma cioè davanti a nulla...
Spruoccolo s.m. = stecco, bastoncino, piccolo pezzo di legno di taglio irregolare dal b.lat. (e)xperoccolo←pedunculu(m) con sincope d’avvio, assimilazione regressiva nc→cc, dittongazione della ŏ→uo, nonché rotacizzazione osco mediterranea d→r.
20.'Nu maccarone, vale ciento vermicielle.
Letteralmente: Un maccherone, vale cento vermicelli. Ma la locuzione non si riferisce alla pietanza in sè. Il maccherone della locuzione adombra la prestanza fisica ed economica che la vincono sempre sulle corrispondenti gracilità.
brak
Letteralmente: avviarsi verso i coralli. Id est: Anticiparsi, muovere rapidamente e prima degli altri verso qualcosa. Segnatamente lo si dice delle donne violate ed incinte che devono affrettare le nozze. La locuzione nasce nell'ambito dei pescatori torresi (Torre del Greco -NA ), che al momento di mettersi in mare lasciavano che per primi partissero coloro che andavano alla pesca del corallo.
2. Aggiu visto 'a morte cu ll' uocchie.
Letteralmente: Ò veduto la morte con gli occhi. Con questa locuzione tautologica si esprime chi voglia evidenziare di aver corso un serio pericolo o rischio mortale tale da portarlo ad un passo dalla morte e di esserne fortunatamente restato indenne.
3. Vulé piscià e gghí 'ncarrozza.
Letteralmente: voler mingere e al tempo stesso andare in carrozza Id est: pretendere di voler conseguire due risultati utili, ma incompatibili fra di essi.
4. Ve dico 'na buscía.
Vi dico una bugia. E' il modo sbrigativo e piuttosto ipocrita di liberarsi dall'incombenza di dare una risposta, quando non si voglia prender posizione in ordine al richiesto e allora si avverte l'interlocutore di non continuare a chiedere perché la risposta potrebbe essere una fandonia, una bugia...
5. Fà 'o francese.
Letteralmente: fare il francese, id est: mostrare, dare a vedere o - meglio - fingere di non comprendere, di non capire quanto vien detto, allo scoperto scopo di non dare risposte, specie trattandosi di impegnative richieste o ordini perentorii. È l'equivalente dell'italiano: fare l'indiano, espressione che, storicamente, a Napoli non si comprende, non avendo i napoletani avuto nulla a che spartire con gli indiani, sia d'India che d' America, mentre ànno subíto una dominazione francese ed ànno avuto a che fare con gente d'oltralpe.
6.'O pesce fète d''a capa.
Letteralmente: Il pesce puzza dalla testa. Id est: il cattivo esempio viene dall'alto, gli errori maggiori vengon commessi dai capi. Per cui: ove necessario, se si vogliono raddrizzare le cose, bisogna cominciare a prender provvedimenti innanzi tutto contro i comandanti.
7. 'O purpo s' à dda cocere cu ll'acqua soja.
Letteralmente: il polpo va fatto cuocere con la sola acqua di cui è pieno. La locuzione si usa quando si voglia commentare l'inutilità degli ammonimenti, dei consigli et similia, che non vengono accolti perché il loro destinatario, è di dura cervice e non intende collaborare a recepire moniti e o consigli che allora verranno da lui accolti quando il soggetto si sarà autoconvinto della opportunità di accoglierli.
8. Acqua 'a 'nnanze e vviento 'a reto...
Letteralmente: Acqua da davanti e vento da dietro. È il malevolo augurio con cui viene congedato una persona importuna e fastidiosa cui viene indirizzato l'augurio di essere attinto di faccia da un violento temporale e di spalle da un impetuoso vento che lo spingano il piú lontano possibile.
9.Abbuffà 'a guallera.
Letteralmente: gonfiare l'ernia. Id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno al punto di procurargli una metaforica enfiagione di un'ipotetica ernia. Si consideri però che in napoletano con il termine "guallera"(dall’arabo wadara) si indica oltre che l'ernia anche il sacco scrotale, ed è ad esso che con ogni probabilità fa riferimento questa locuzione.
10.Tené 'e gghiorde.
Letteralmente: essere affetto da giarda, malattia che colpisce giunture ed estremità di taluni animali; le parti colpite si gonfiano impedendo una corretta andatura. La locuzione è usata nei confronti di chi appare pigro, indolente e scansafatiche quasi avesse difficoltà motorie causate da enfiagione delle gambe che appaiono come contratte ed attanagliate da nodi. In turco, con il termine jord si indica il tipico doppio nodo dei tappeti - da jord a gghiorde il passo è breve.
11.Farse chiovere 'ncuollo.
Letteralmente: farsi piovere addosso, ossia lasciarsi cogliere impreparato a qualsivoglia bisogna, non prendere le opportune precauzioni e sopportarne le amare conseguenze.
12.Fà 'o calavrese.
Fare il calabrese, ossia non mantenere la parola data, esser mendace e spergiuro..., atteggiamento tipico del calabrese che, non per cattiva abitudine, ma per paura, in un rapporto contrattuale – temendo di essere ingannato o vessato dalla controparte – viene meno a quanto pattuito, per non incorrere in un cattivo mercato.
13.Farse 'a passiata d''o rraú.
Letteralmente: fare la passeggiata del ragú. Id est: andare a zonzo senza fretta. Un tempo, quando ancora la TV non rompeva l'anima cercando di imporci diete e diete, i napoletani, erano soliti consumare nel dí di festa un canonico piatto di maccheroni al ragú. Il ragú è una salsa che à bisogno di una lunghissima cottura, tanto che la sua preparazione cominciava il sabato sera e giungeva a compimento la domenica mattina e durante il tempo necessario alla bisogna, gli uomini ed i bambini di casa si dedicavano a lente e salutari passeggiate, mentre le donne di casa accudivano la salsa in cottura e preparavano la tavolata domenicale.
14.Stà sempe 'ntridice.
Letteralmente: stare sempe in tredici.Id est: esser sempre presente, mostrarsi continuatamente, partecipare ad ogni manifestazione, insomma far sempre mostra di sé alla stregua di un candelabro perennemente in mostra in mezzo ad un tavolo, e poiché nella smorfia napoletana il candelabro, come le candele, fa 13 ecco che viene fuori l'espressione con la quale a Napoli si è soliti apostrofare gli impenitenti presenzialisti...
15.Aspettà cu ll'ove 'mpietto.
Letteralmente: attendere con le uova in petto. Id est: attendere spasmodicamente, con impazienza, preoccupazione... L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la spasmodicità dell'attesa di un qualsivoglia avvenimento. E prende le mosse dall'uso invalso in certe campagne del napoletano, allorché le contadine, accortesi che la chioccia, per sopraggiunti problemi fisici, non portava a termine la cova, si sostituivano ad essa e si ponevano tra le mammelle le uova per completare con il loro calore l'operazione cominciata dalla chioccia.
16.'A sciorta 'e Cazzette:jette a piscià e se ne cadette.
La cattiva fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento.
17.Attacca 'o ciuccio addó vo’ 'o patrone
Letteralmente: Lega l'asino dove vuole il padrone Id est: Rassegnati ad adattarti alla volontà altrui, specie se è quella del capintesta(e non curarti delle conseguenze) E' una sorta di trasposizione del militaresco: gli ordini non si discutono...
18.'E maccarune se magnano teniente teniente
I maccheroni vanno mangiati molto al dente: è questa la traduzione letterale dell'adagio che, oltre a dare una indicazione di buon gusto, sta a significare che occorre avere sollecitudine nella conduzione e conclusione degli affari.
teniente è il plur. di tenente = tenente(part. pres. del verbo tenere e non omofono ed omografo grado militare), e con l’iterativo teniente,teniente ci si riferisce al modo di cottura della pasta che occorre far lessare brevemente, senza che si disfaccia e nell’iterazione quasi superlativa teniente teniente vale molto pronti, quasi duretti come cosa che abbia tenuto la cottura evitando di ammollarsi eccessivamente; letteralmente tenente e teniente sono, come ò detto, il participio presente del verbo tené (tenere) che è dal latino teníre, corradicale di tendere 'tendere'.
19.Quanno 'a femmena vo’ filà, l'abbasta 'nu spruoccolo.
Letteralmente: quando una donna vuol filare le basta uno stecco - non à bisogno di aspo o di fuso.Id est: la donna che vuole raggiungere uno scopo, una donna che voglia qualcosa, è pronta ad usare tutti i mezzi pur di centrare l'obbiettivo, non si ferma cioè davanti a nulla...
Spruoccolo s.m. = stecco, bastoncino, piccolo pezzo di legno di taglio irregolare dal b.lat. (e)xperoccolo←pedunculu(m) con sincope d’avvio, assimilazione regressiva nc→cc, dittongazione della ŏ→uo, nonché rotacizzazione osco mediterranea d→r.
20.'Nu maccarone, vale ciento vermicielle.
Letteralmente: Un maccherone, vale cento vermicelli. Ma la locuzione non si riferisce alla pietanza in sè. Il maccherone della locuzione adombra la prestanza fisica ed economica che la vincono sempre sulle corrispondenti gracilità.
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martedì 28 aprile 2009
SCUGNIZZO
SCUGNIZZO
Ecco un’altra parola, che come guaglione,guappo, camorra e
derivati, partita dal lessico partenopeo, è bellamente approdata in quello
nazionale nel suo significato di monello, ragazzo astuto ed intelligente e
per estensione, ragazzo vivace ed irrequieto.
È pur vero – come detto – che la parola è ormai termine italiano e
pertanto da accordarsi a qualsiasi monello dello stivale, ma nel comune
intendere con la parola scugnizzo ci si intende riferire ai monelli
napoletani; sarebbe impensabile uno scugnizzo milanese, triestino etc. alla
medesima stregua di ciò che avvenne con lo sciuscià (il monello che allo
sbarco degli alleati durante l’ultima guerra, si guadagnava da vivere
pulendo le scarpe dei militari e/o civili) che – a malgrado operasse in tutte
le città, fu ritenuto essenzialmente napoletano…
Torniamo allo scugnizzo ed all’etimologia della parola; essa checché se ne dica, è tranquillamente un deverbale di scugnà che è dal latino:excuneare; il verboscugnà significa: battere il grano sull’aia, percuotere, bastonare,smallare
(le noci), scheggiare con percosse (i denti); ma nell’accezione che qui ci
interessa: sbreccare, spaccare; per comprender tale accezione occorre
riferirsi al giuoco dello strummolo alla cui trattazione rimandiamo, in
particolare al momento in cui uno dei giocatori risultato perdente nella
gara di far vorticare la sua trottolina lignea (strummolo) può vederla
sbreccare o addirittura spaccare dal vincitore che – con accorto colpo –
può far scempio della trottolina dell’avversario perdente quanto meno scugnandola se non - come detto – addirittura spaccandola.
Ecco dunque che i monelli napoletani adusi a manovrare lo
strummolo e spesso a sbreccare quello dell’avversario son detti scugnizzi e
cioè capaci di scugnare ed abili a farlo, ed è questa – a mio avviso – la ragione semantica della parola, ragione che mette fuori giuoco l’idea balzana di chi, confondendo scugnizzo con scugnato fa del primo uno sdentato, qualità che è invece attributo dello scugnato.
Raffaele Bracale
Ecco un’altra parola, che come guaglione,guappo, camorra e
derivati, partita dal lessico partenopeo, è bellamente approdata in quello
nazionale nel suo significato di monello, ragazzo astuto ed intelligente e
per estensione, ragazzo vivace ed irrequieto.
È pur vero – come detto – che la parola è ormai termine italiano e
pertanto da accordarsi a qualsiasi monello dello stivale, ma nel comune
intendere con la parola scugnizzo ci si intende riferire ai monelli
napoletani; sarebbe impensabile uno scugnizzo milanese, triestino etc. alla
medesima stregua di ciò che avvenne con lo sciuscià (il monello che allo
sbarco degli alleati durante l’ultima guerra, si guadagnava da vivere
pulendo le scarpe dei militari e/o civili) che – a malgrado operasse in tutte
le città, fu ritenuto essenzialmente napoletano…
Torniamo allo scugnizzo ed all’etimologia della parola; essa checché se ne dica, è tranquillamente un deverbale di scugnà che è dal latino:excuneare; il verboscugnà significa: battere il grano sull’aia, percuotere, bastonare,smallare
(le noci), scheggiare con percosse (i denti); ma nell’accezione che qui ci
interessa: sbreccare, spaccare; per comprender tale accezione occorre
riferirsi al giuoco dello strummolo alla cui trattazione rimandiamo, in
particolare al momento in cui uno dei giocatori risultato perdente nella
gara di far vorticare la sua trottolina lignea (strummolo) può vederla
sbreccare o addirittura spaccare dal vincitore che – con accorto colpo –
può far scempio della trottolina dell’avversario perdente quanto meno scugnandola se non - come detto – addirittura spaccandola.
Ecco dunque che i monelli napoletani adusi a manovrare lo
strummolo e spesso a sbreccare quello dell’avversario son detti scugnizzi e
cioè capaci di scugnare ed abili a farlo, ed è questa – a mio avviso – la ragione semantica della parola, ragione che mette fuori giuoco l’idea balzana di chi, confondendo scugnizzo con scugnato fa del primo uno sdentato, qualità che è invece attributo dello scugnato.
Raffaele Bracale
FÀ ZITE E MMURTICIELLE E BATTISEME BUNARIELLE.
FÀ ZITE E MMURTICIELLE E BATTISEME BUNARIELLE.
Letteralmente: fare(partecipare a)matrimoni e funerali e battesimi abbastanza buoni.cioè:profittare di ogni occasione, anche le meno opportune per tentare di lucrar provvidenze quali che siano;in particolare l’espressione in epigrafe si sostanzia nel
non mancare mai, anche se non espressamente invitati, a celebrazioni che comportino elargizioni di cibarie e libagioni, come accadeva temporibus illis quando la maggior parte delle cerimonie si svolgevano in casa, ed in primis il parroco o prete del rione non mancavano mai di rendersi presenti a battesimi o matrimoni, per presenziare alla tavolata che ne seguiva. La cosa valeva anche per i funerali (murticielle) giacché, dopo la sepoltura del defunto, i vicini erano soliti offrire ai parenti del defunto ed a coloro che avessero partecipato, a qualsiasi titolo, alla cerimonia funebre un pantagruelico pasto consolatorio ( detto cunzuòlo(cibo di conforto deverbale di cunzulà= consolare da un lat. volg. consolare per il class. consolari, comp. di cum 'con' e solari 'confortare' con il consueto ns→nz) spesso comportante, in luogo della vietatissima carne (inteso cibo grasso adatto alle festività e non ai giorni di lutto) gustose portate di pesce fresco ritenuto - in quanto cibo di magro - piú consono ai momenti di dolore; il pranzo elargito si disse cunzuòlo, mentre le portate di pesce fresco che venivano ammannite si dissero cuónzolo derivato della voce a margine con dittongazione nella sillaba d’avvio e cambio d’accento;ne derivò che in prosieguo di tempo una congrua portata di pesce fresco venne detta cuónzolo ‘e pesce anche quando tale pesce fresco non servisse alla bisogna di confortare i perenti di un defunto;
zite di suo è il plurale del sostantivo femm. zita forma colleterale di un antico cita= ragazza da marito; la voce a margine è passata poi ad indicare i matrimoni e segnatamente i pranzi nozze dal nome dei cosí detti maccarune ‘e zite o semplicemente zite (sost. neutro) un formato di pasta lunga e doppia usata un tempo, sontuosamente condita, nei pranzi di nozze; da notare il doppio genere della voce a margine che al plurale (se inteso femminile) va scritto con la geminazione iniziale (‘e zzite= le ragazze), se inteso maschile (‘e zite=sponsali) o neutro (‘e zite= i maccheroni) va scritto in maniera scempia;
murticielle = morticini e dunque estensivamente, per una sorta di sineddoche, i funerali; la voce a margine è, attraverso un suffisso ciello/cielle un diminutivo plurale di muorto che è un part. pass. dell’infinito murí che è da un lat. volg. *morire, per il class. mori; nella voce a margine è caduto il dittongo mobile uo che à lasciato la sola u come càpita sempre nelle parole derivate (vedi ad es.: piede→pedone; suono→sonare e non suonare come invece erroneamente è invalso nell’uso generale scritto ed orale etc. );
battiseme battesimi plurale del sost. masch. battisemo derivante da un lat. eccl. baptismu(m), dal gr. baptismós, propr. 'immersione';
bunarielle abbastanza buoni; aggettivo diminutivo ( vedi il suff. riello/rielle) plurale maschile di buono (che è dal lat. bonu(m)) con la caduta il dittongo mobile uo che à lasciato la sola u come càpita sempre nelle parole derivate(vedi ad es.: piede→pedone –suono→sonare etc.con la differenza che nel napoletano a cadere è la seconda vocale del dittongo, mentre in italiano, cade la prima ).
RaffaeleBracale
Letteralmente: fare(partecipare a)matrimoni e funerali e battesimi abbastanza buoni.cioè:profittare di ogni occasione, anche le meno opportune per tentare di lucrar provvidenze quali che siano;in particolare l’espressione in epigrafe si sostanzia nel
non mancare mai, anche se non espressamente invitati, a celebrazioni che comportino elargizioni di cibarie e libagioni, come accadeva temporibus illis quando la maggior parte delle cerimonie si svolgevano in casa, ed in primis il parroco o prete del rione non mancavano mai di rendersi presenti a battesimi o matrimoni, per presenziare alla tavolata che ne seguiva. La cosa valeva anche per i funerali (murticielle) giacché, dopo la sepoltura del defunto, i vicini erano soliti offrire ai parenti del defunto ed a coloro che avessero partecipato, a qualsiasi titolo, alla cerimonia funebre un pantagruelico pasto consolatorio ( detto cunzuòlo(cibo di conforto deverbale di cunzulà= consolare da un lat. volg. consolare per il class. consolari, comp. di cum 'con' e solari 'confortare' con il consueto ns→nz) spesso comportante, in luogo della vietatissima carne (inteso cibo grasso adatto alle festività e non ai giorni di lutto) gustose portate di pesce fresco ritenuto - in quanto cibo di magro - piú consono ai momenti di dolore; il pranzo elargito si disse cunzuòlo, mentre le portate di pesce fresco che venivano ammannite si dissero cuónzolo derivato della voce a margine con dittongazione nella sillaba d’avvio e cambio d’accento;ne derivò che in prosieguo di tempo una congrua portata di pesce fresco venne detta cuónzolo ‘e pesce anche quando tale pesce fresco non servisse alla bisogna di confortare i perenti di un defunto;
zite di suo è il plurale del sostantivo femm. zita forma colleterale di un antico cita= ragazza da marito; la voce a margine è passata poi ad indicare i matrimoni e segnatamente i pranzi nozze dal nome dei cosí detti maccarune ‘e zite o semplicemente zite (sost. neutro) un formato di pasta lunga e doppia usata un tempo, sontuosamente condita, nei pranzi di nozze; da notare il doppio genere della voce a margine che al plurale (se inteso femminile) va scritto con la geminazione iniziale (‘e zzite= le ragazze), se inteso maschile (‘e zite=sponsali) o neutro (‘e zite= i maccheroni) va scritto in maniera scempia;
murticielle = morticini e dunque estensivamente, per una sorta di sineddoche, i funerali; la voce a margine è, attraverso un suffisso ciello/cielle un diminutivo plurale di muorto che è un part. pass. dell’infinito murí che è da un lat. volg. *morire, per il class. mori; nella voce a margine è caduto il dittongo mobile uo che à lasciato la sola u come càpita sempre nelle parole derivate (vedi ad es.: piede→pedone; suono→sonare e non suonare come invece erroneamente è invalso nell’uso generale scritto ed orale etc. );
battiseme battesimi plurale del sost. masch. battisemo derivante da un lat. eccl. baptismu(m), dal gr. baptismós, propr. 'immersione';
bunarielle abbastanza buoni; aggettivo diminutivo ( vedi il suff. riello/rielle) plurale maschile di buono (che è dal lat. bonu(m)) con la caduta il dittongo mobile uo che à lasciato la sola u come càpita sempre nelle parole derivate(vedi ad es.: piede→pedone –suono→sonare etc.con la differenza che nel napoletano a cadere è la seconda vocale del dittongo, mentre in italiano, cade la prima ).
RaffaeleBracale
BRICCONE – BIRBANTE - CANAGLIA – FURFANTE & DINTORNI
BRICCONE – BIRBANTE - CANAGLIA – FURFANTE & DINTORNI
Anche questa volta su quesito dell’amico C.R. (al solito, motivi di privatezza mi impongono di non riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) mi occuperò delle voci italiane in epigrafe, di altri eventuali sinonimi, voci collegate e delle corrispondenti voci del napoletano.
Cominciamo con
briccone s. m. [f. -a] 1 persona scaltra, malvagia, senza scrupoli
2 (scherz.) persona simpaticamente astuta, riferito soprattutto a ragazzi; birbante. DIM. bricconcello;
quanto all’etimo, molti si trincerano dietro il solito pilatesco etimo incerto mentre una sostanziosa scuola di pensiero pensa – epperò non so con quanta esattezza, atteso un’evidente differenza semantica di cui dirò – pensa dicevo ad un antico francese bric = stolto; tale idea non mi convince punto poi che trovo che semanticamente siano addirittura agli antipodi la persona scaltra, astuta, malvalgia indicata con la voce briccone e lo stolto dell’ antico francese bric e mi fa meraviglia che una considerazione tanto ovvia non sia stata fatta da nessuno dei numerosi linguisti che accolgono l’idea che briccone provenga dall’antico francese bric; molto piú perseguibile m’appare l’idea che briccone abbia una relazione di filiazione o fraternità con l’ant. alto tedesco brëcho= offensore, perturbatore,predone, malfattore; un’altra scuola di pensiero pensa per briccone ad un accrescitivo (cfr. il suff. one) di bricco antica voce etimologicamente pare ricostruito su di un termine settentrionale bricca=luogo scosceso, dirupo; bricco valse nel linguaggio regionale furfante ma a mio avviso è molto forzato il collegamento semantico tra il furfante di bricco ed il dirupo di bricca; a questo punto penso proprio che delle tre proposte la migliore via etimologica di briccone sia quella dell’ant. alto tedesco brëcho= offensore, perturbatore,predone, malfattore; procediamo oltre ed abbiamo
birbante s. m. e f. - 1. persona scaltra e malvagia che conduce vita poco onesta 2. (scherz.) Ragazzo furbo e impertinente. persona scaltra e malvagia. 3 (ant.) truffatore; quanto all’etimo la voce a margine risulta il part. presente di un non attestato *birbare che a sua volta pare marcato su di una lettura metatetica del sost. fr. bribe 'tozzo di pane dato per elemosina', quindi birbare varrebbe in primis accattonare, elemosinare e di conseguenza il birbante verrebbe, in primis, ad essere un accattone, un vagabondo, e solo per ampiamento semantico: un briccone,uno scaltro, un malvagio. Andiamo oltre:
canaglia s. f. 1 individuo malvagio, ribaldo | (scherz.) persona astuta, birbante 2 (lett.) gente spregevole, marmaglia;quanto all’etimo la voce a margine risulta senza tentennamenti essere un derivato del francese canaille= furfante.
furfante s. m e f. persona disonesta; farabutto, malfattore.
Quanto all’etimo la voce a margine risulta essere il part.pres. di un *furfare/forfare= agire fuori dalla legge, verbi tratti dal lat. med. foras-facere/foris-facere = agire al di fuori del lecito e/o consentito.
Giunti a questo punto, prima di proseguire soffermiamoci su alcuni termini fin qui incontrati:
individuo s. m. 1 organismo vivente considerato distintamente da ogni altro della specie o del genere a cui appartiene; 2 la persona considerata nella sua singolarità: l'interesse dell'individuo non deve esser posto al di sopra di quello della comunità
3 persona che non si conosce o di cui non si vuol dire il nome (spec. spreg.): c'è un individuo che ti cerca; un individuo sospetto, pericoloso; un losco individuo
come agg. (lett.) 1 indiviso o indivisibile 2 individuale, particolare. Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. individuu(m), comp. di in- e dividuus 'separato, separabile';
scaltro agg.
1 che agisce, parla e si comporta con accortezza, con avvedutezza; per estens., astuto, furbo
2 che è espressione di scaltrezza: comportamento scaltro. Quanto all’etimo è voce deverbale derivata dal verbo scaltrire= diventare avveduto, attento o piú guardingo; acquistare abilità, perizia, sicurezza, spec. nella propria attività o professione; il verbo scaltrire/rsi è derivato dal b. lat. s +calterire per cauterire= 'bruciare', deriv. di cauterium 'cauterio', perché il restare scottato induce a una condotta piú guardinga;
malvagioagg. [pl. f. -ge] 1 cattivo, perfido, malefico: un uomo, un carattere malvagio; azioni, parole malvage
2 (fam.) pessimo: un tempo malvagio; quel film non è malvagio, è abbastanza bello
3 (lett.) pesante, difficile 4 (ant.) falso; come s. m. [f. -a] persona perfida, crudele | il Malvagio, per antonomasia, il diavolo. Quanto all’etimo è voce derivata dal provenz. malvatz, che è dal lat. volg. *malifatiu(m) 'che à cattiva sorte', comp. di malum 'cattivo' e fatum 'destino';
truffatore s. m. chi imbroglia con una truffa; chi sottrarre qualcosa con truffa; chi per abitudine agisce truffaldinamente cioè commettendo il reato di ricavare illecito profitto a danno di altri avendoli indotti in errore con artifici e raggiri. Quanto all’etimo è voce derivata dal verbo truffare a sua volta denominale di truffa che è dal provenz. ant. trufa,tratto per metatesi dal lat. tardo tufera, propr. 'tartufo', poi 'inganno';
astuto agg. 1 dotato di astuzia: essere piú astuto di una volpe; che astuto!
2 che denota astuzia; detto, fatto con astuzia: risposta astuta. Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. astutu(m);
ribaldo s. m. 1 nel medioevo, soldato di bassa condizione o servo che seguiva gli eserciti, dedicandosi soprattutto a saccheggi
2 (estens.) chi vive di attività disoneste, di truffe, rapine ecc.; briccone, furfante, mascalzone. Quanto all’etimo è voce derivata dal fr. ant. ribaud, provenz. ribaut, deriv. del medio alto ted. hriba 'prostituta';
perfido agg. 1 che non tiene fede alla parola data, sleale
2 che agisce con intenzioni malvagie; che è incline a provocare, traendone soddisfazione, il male e il danno di altre persone: quell'uomo è di animo perfido; un perfido traditore | che denota subdola malvagità: un'azione perfida
3 (iperb. , scherz.) cattivo, pessimo (detto di cibo, bevanda, tempo atmosferico e sim.); numerosi i sinonimi dell’agg. a margine; tra i piú usati rammento: falso, traditore, infido sleale, insincero, malfido, malvagio, crudele, efferato, (iperb.) pessimo, terribile. Rammento che talvolta viene usato impropriamente come sinonimo di perfido, infido, malfido etc. anche l’agg.vo malfidato che invece è colui che è solito diffidare, colui che è sempre sospettoso
Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. perfidu(m), comp. di per 'al di là, oltre' e fidus 'fedele, leale'; propr. 'che viene meno alla fede data';
maleficoagg. [pl. m. -ci] 1 che reca danno: clima malefico; una persona malefica
2 di maleficio; che è frutto di maleficio: arti malefiche; influsso malefico
come sostantivo m. (ant.) stregone.
Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. maleficu(m), comp. di male 'male' ed un tema di facere;
farabutto s. m. [f. -a] persona senza scrupoli, capace di qualsiasi slealtà; mascalzone.
Quanto all’etimo è parola pervenuta nella lingua nazionale ricavata dal napoletano frabbutto derivato dal ted. freibeuter 'predone' a sua volta ricavato dall'ol. vrijbuiter, comp. di vrij 'libero' e buit 'bottino' = saccheggiatore, filibustiere
mascalzone s. m. [f. -a] persona capace di azioni spregevoli o disoneste (anche scherz.): comportarsi da mascalzone; non fare il mascalzone! Persona d'animo volgare, priva di scrupoli o di scarso senso morale.
Riferito ai bambini è molto usato il vezz. mascalzoncello. Quanto all’etimo per alcuni la voce è un’alterazione di maniscalco "garzone di stalla", per incrocio con scalzo,ma a mio avviso è migliore l’idea di chi vi legge un’addizione dello spagn. mas (dal lat. magis= piú) e di scalzone accrescitivo di scalzo cioè piú che scalzo= persona male in arnese,vile per modo di vestire ed incedere, cialtrone;
Marmaglia o maramaglia, s. f. 1 insieme di gente spregevole; 2 (scherz.) gruppo chiassoso di bambini o ragazzi. Quanto all’etimo la voce risulta derivata dal fr. marmaille, deriv. di marmot 'bambino, marmocchio'.
Esaurite cosí le voci dell’italiano, passiamo a quelle del napoletano dove troviamo:
- bazzariota s.m. voce antica e desueta che in origine indicò un rivenditore girovago, un treccone cioè un venditore al minuto di generi alimentari (spec. verdure,legumi, uova, pollame ecc.); rivendugliolo cioè chi rivende al minuto, per lo piú cibo o merci di poco conto, in baracche o con carrettini, | (spreg.) venditore disonesto; poi per ampliamento semantico indicò il perdigiorno, il briccone, il giovinastro sfaccendato (detto alibi icasticamente stracquachiazze e cioè propriamente il bighellone aduso ad un cosí lungo, continuo, ma inconferente girovagare tale da addirittura consumare, stancar le piazze; di per sé il verbo stracquà che forma la voce stracquachiazze unito con il sostantivo chiazze plurale di chiazza (=piazza dal latino platea) indicherebbe lo spiovere, il venir meno della pioggia, ma nel caso di stracquachiazze estensivamente sta per il venir meno… delle forze o della consistenza strutturale delle ipotetiche piazze calpestate, senza tregua dal perdigiorno o dal bazzariota di turno;
quanto all’etimo bazzariota deriva dall’arabo bazàr=mercato attraverso un greco mod. bazariotes o pazariotes= mercante, negoziante;
frabbutto ed al f.le frabbotta di questo sostantivo con cui si indica la persona capace di azioni spregevoli o disoneste, il cattivo soggetto malvagio, senza scrupoli proclive ad ogni nefandezza, ò già detto antea sotto la voce dell’italiano farabutto, voce che fu marcata su questa napoletana a margine; quanto all’etimo frabbutto come ò già detto deriva ted. freibeuter 'predone' a sua volta ricavato dall'ol. vrijbuiter, comp. di vrij 'libero' e buit 'bottino' = saccheggiatore, filibustiere;
piezzo ‘e catapiezzo letteralmente pezzo di granpezzo; locuzione usata nel parlato popolare e per altro assente negli scritti,con le eccezioni di Basile e Sarnelli, e quelle di antichi dizionarii: D’Ambra,Andreoli etc. ) come un sostantivo maschile nel significato di ribaldo, briccone, birbonaccio; la voce piezzo= pezzo (adattamento al maschile del lat. volg. *pettia(m), di origine celtica di per sé non à valenze negative anzi riferito a persona lo si usa per sottolinearne la robustezza fisica, l'avvenenza: ‘nu piezzo d'ommo; che bellu piezzo ‘e guagliona |’nu piezzo grosso, (fig.) persona importante, influente; il significato negativo viene assunto se piezzo è usato in espressioni di insulto quali vi’ che piezzo ‘e ciuccio!, piezzo ‘e bbaccalà! o ancóra nell’espressione qui a margine piezzo ‘e catapiezzo espressione dove catapiezzo è usato quale iterativo, peggiorativo della voce piezzo attraverso il prefisso rafforzativo katà; rammento a questo punto una particolarità e cioè che vòlta al femminile l’espressione a margine non suona (come invece ci si attenderebbe) pezza ‘e catapezza, (dove catapezza verrebbe ad essere l’iterativo, peggiorativo della voce pezza), ma suona piezzo ‘e catapuzza espressione nella quale il masch. piezzo è usato con una licenza grammaticale, in funzione femminile e l’attesa voce catapezza viene trasformata in catapuzza con un evidente bisticcio tra due diversi termini: catapezza e catapuzza dei quali catapuzza con palese derivazione da lat. tardo cataputia che è da un gr. *katapytía, da pytía 'coagulo') indica un’ erba delle Euforbiacee con proprietà emetiche e purganti; a conclusione di tutto ciò, ricordo che comunque piezzo ‘e catapiezzo e piezzo ‘e catapuzza non vengono usati in senso palesemente dispregiativo o offensivo, ma sempre in funzione scherzosa ed eufemistica.
Scauzone a.e s.m. persona priva di calze e scarpe, male in arnese,vile per modo di vestire ed incedere, cialtrone e per estensione persona capace di azioni spregevoli o disoneste, cattivo soggetto malvagio, senza scrupoli proclive ad ogni nefandezza; la voce risulta essere un accrescitivo (cfr. il suff. one) in funzione dispregiativa di scauzo =scalzo che è contrazione di scalz(at)o; scauzo è dal lat. excalcèatu(m) p. p. del lat. excalceare, comp. di ex- 'via da' e calceare 'mettere le calzature', deriv. di calceus 'scarpa'; normale nel napoletano il passaggio del lat al ad au (cfr. altus→auto→àvuto→àveto= alto alter→àuto→ato= altro).
sfaccimmo s. m. dalla doppia valenza; in senso negativo: farabutto, mascalzone; in senso positivo: furbo, intraprendente, determinato (specie di una persona giovane.). È parola formata dal sost.: faccia con l’avvio di una s detrattiva ed il suffisso dispregiativo immo nell’ovvia idea di significar: persona priva di faccia (senza vergogna). Attenzione!In napoletano esiste anche la voce sfaccimma che però non è il femminile della parola precedente ed à ben altro significato ed etimologia,indicando il prodotto dell’eiaculazione maschile; anche etimologicamente la voce sfaccimma à derivazione del tutto diversa dal pregresso sfaccimmo; sfaccimma infatti prende l’avvio da una voce di tipo onomatopeico sfacc che indica la violenza dell’emissione, addizionato del solito suffisso imma qui però con funzione intensiva, non dispregiativa.
Rammenterò per amor di completezza che quando si volesse usare il termine precedente: sfaccimmo riferito ad una donna, non si userà sfaccimma che come visto indica un’altra cosa, ma una sorta di diminutivo, vezzeggiativo: sfaccemmusella che indica alternativamente o la mascalzoncella o la furbetta intraprendente.
spogliampise ag. e s.m.e f. letteralmente colui/colei che spoglia, depreda gli impiccati e estensivamente persona capace di azioni ripropevoli se non disoneste, persona malvagia, priva di scrupoli, crudele, feroce, spietata, scellerata, empia, perversa, sadica, maligna proclive ad essere efferata, disumana, brutale; quanto all’etimo è voce formata dall’agglutinazione della voce verbale spoglia (3° p.sg. ind. pres. dell’infinito spuglià = spogliare (dal lat. spōliare, deriv. di spolium con normale chiusura della lunga tonica ō in u) addizionata del sostantivo ‘mpise plurale di ‘mpiso= impiccato; ‘mpiso è il p.p. di ‘mpennere= impiccare, sospendere (dal lat. in + pendere).
Zappulajuolo/a ag. e s.m.e f. letteralmente colui/colei che zappa, ma per ampliamento semantico sta dispregiativamente per cattivo soggetto malvagio, senza scrupoli proclive ad un comportamento violento atto ad arrecar danno come potrebbe intendersi lo zappatore aduso con i colpi della vanga o zappa a violentare la terra; la voce a margine etimoloficamente deriva dal verbo zappulià forma ampliata di zappà.
Janne s.vo m.le = zanni, buffone malevolo, sciocco cattivo e prevaricante; etimologicamente è contrazione di joanne= giovanni; trattandosi di degradazione semantica del nome proprio Iohannus come altrove il bergamasco gioana s.vo f.le = meretrice da trivio è etimologicamente una degradazione semantica del nome proprio Iohanna.
Zanni/o s.vo m.le = , buffone malevolo, sciocco cattivo e prevaricante personaggio del servo nella commedia dell’arte, che rappresentò originariamente un contadino stupido e credulone ed in seguito assunse carattere un po’ negativi;
quanto all’etimo è forma toscanizzata del veneto Zani, corrispondente al tosc. Gianni, ipocoristico del nome proprio Giovanni.
E qui penso di poter far punto, convinto, se non di avere esaurito l’argomento, di averne détto a sufficienza contentando l’amico C.R. e chi altro dovesse leggermi.
raffaele bracale
Anche questa volta su quesito dell’amico C.R. (al solito, motivi di privatezza mi impongono di non riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) mi occuperò delle voci italiane in epigrafe, di altri eventuali sinonimi, voci collegate e delle corrispondenti voci del napoletano.
Cominciamo con
briccone s. m. [f. -a] 1 persona scaltra, malvagia, senza scrupoli
2 (scherz.) persona simpaticamente astuta, riferito soprattutto a ragazzi; birbante. DIM. bricconcello;
quanto all’etimo, molti si trincerano dietro il solito pilatesco etimo incerto mentre una sostanziosa scuola di pensiero pensa – epperò non so con quanta esattezza, atteso un’evidente differenza semantica di cui dirò – pensa dicevo ad un antico francese bric = stolto; tale idea non mi convince punto poi che trovo che semanticamente siano addirittura agli antipodi la persona scaltra, astuta, malvalgia indicata con la voce briccone e lo stolto dell’ antico francese bric e mi fa meraviglia che una considerazione tanto ovvia non sia stata fatta da nessuno dei numerosi linguisti che accolgono l’idea che briccone provenga dall’antico francese bric; molto piú perseguibile m’appare l’idea che briccone abbia una relazione di filiazione o fraternità con l’ant. alto tedesco brëcho= offensore, perturbatore,predone, malfattore; un’altra scuola di pensiero pensa per briccone ad un accrescitivo (cfr. il suff. one) di bricco antica voce etimologicamente pare ricostruito su di un termine settentrionale bricca=luogo scosceso, dirupo; bricco valse nel linguaggio regionale furfante ma a mio avviso è molto forzato il collegamento semantico tra il furfante di bricco ed il dirupo di bricca; a questo punto penso proprio che delle tre proposte la migliore via etimologica di briccone sia quella dell’ant. alto tedesco brëcho= offensore, perturbatore,predone, malfattore; procediamo oltre ed abbiamo
birbante s. m. e f. - 1. persona scaltra e malvagia che conduce vita poco onesta 2. (scherz.) Ragazzo furbo e impertinente. persona scaltra e malvagia. 3 (ant.) truffatore; quanto all’etimo la voce a margine risulta il part. presente di un non attestato *birbare che a sua volta pare marcato su di una lettura metatetica del sost. fr. bribe 'tozzo di pane dato per elemosina', quindi birbare varrebbe in primis accattonare, elemosinare e di conseguenza il birbante verrebbe, in primis, ad essere un accattone, un vagabondo, e solo per ampiamento semantico: un briccone,uno scaltro, un malvagio. Andiamo oltre:
canaglia s. f. 1 individuo malvagio, ribaldo | (scherz.) persona astuta, birbante 2 (lett.) gente spregevole, marmaglia;quanto all’etimo la voce a margine risulta senza tentennamenti essere un derivato del francese canaille= furfante.
furfante s. m e f. persona disonesta; farabutto, malfattore.
Quanto all’etimo la voce a margine risulta essere il part.pres. di un *furfare/forfare= agire fuori dalla legge, verbi tratti dal lat. med. foras-facere/foris-facere = agire al di fuori del lecito e/o consentito.
Giunti a questo punto, prima di proseguire soffermiamoci su alcuni termini fin qui incontrati:
individuo s. m. 1 organismo vivente considerato distintamente da ogni altro della specie o del genere a cui appartiene; 2 la persona considerata nella sua singolarità: l'interesse dell'individuo non deve esser posto al di sopra di quello della comunità
3 persona che non si conosce o di cui non si vuol dire il nome (spec. spreg.): c'è un individuo che ti cerca; un individuo sospetto, pericoloso; un losco individuo
come agg. (lett.) 1 indiviso o indivisibile 2 individuale, particolare. Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. individuu(m), comp. di in- e dividuus 'separato, separabile';
scaltro agg.
1 che agisce, parla e si comporta con accortezza, con avvedutezza; per estens., astuto, furbo
2 che è espressione di scaltrezza: comportamento scaltro. Quanto all’etimo è voce deverbale derivata dal verbo scaltrire= diventare avveduto, attento o piú guardingo; acquistare abilità, perizia, sicurezza, spec. nella propria attività o professione; il verbo scaltrire/rsi è derivato dal b. lat. s +calterire per cauterire= 'bruciare', deriv. di cauterium 'cauterio', perché il restare scottato induce a una condotta piú guardinga;
malvagioagg. [pl. f. -ge] 1 cattivo, perfido, malefico: un uomo, un carattere malvagio; azioni, parole malvage
2 (fam.) pessimo: un tempo malvagio; quel film non è malvagio, è abbastanza bello
3 (lett.) pesante, difficile 4 (ant.) falso; come s. m. [f. -a] persona perfida, crudele | il Malvagio, per antonomasia, il diavolo. Quanto all’etimo è voce derivata dal provenz. malvatz, che è dal lat. volg. *malifatiu(m) 'che à cattiva sorte', comp. di malum 'cattivo' e fatum 'destino';
truffatore s. m. chi imbroglia con una truffa; chi sottrarre qualcosa con truffa; chi per abitudine agisce truffaldinamente cioè commettendo il reato di ricavare illecito profitto a danno di altri avendoli indotti in errore con artifici e raggiri. Quanto all’etimo è voce derivata dal verbo truffare a sua volta denominale di truffa che è dal provenz. ant. trufa,tratto per metatesi dal lat. tardo tufera, propr. 'tartufo', poi 'inganno';
astuto agg. 1 dotato di astuzia: essere piú astuto di una volpe; che astuto!
2 che denota astuzia; detto, fatto con astuzia: risposta astuta. Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. astutu(m);
ribaldo s. m. 1 nel medioevo, soldato di bassa condizione o servo che seguiva gli eserciti, dedicandosi soprattutto a saccheggi
2 (estens.) chi vive di attività disoneste, di truffe, rapine ecc.; briccone, furfante, mascalzone. Quanto all’etimo è voce derivata dal fr. ant. ribaud, provenz. ribaut, deriv. del medio alto ted. hriba 'prostituta';
perfido agg. 1 che non tiene fede alla parola data, sleale
2 che agisce con intenzioni malvagie; che è incline a provocare, traendone soddisfazione, il male e il danno di altre persone: quell'uomo è di animo perfido; un perfido traditore | che denota subdola malvagità: un'azione perfida
3 (iperb. , scherz.) cattivo, pessimo (detto di cibo, bevanda, tempo atmosferico e sim.); numerosi i sinonimi dell’agg. a margine; tra i piú usati rammento: falso, traditore, infido sleale, insincero, malfido, malvagio, crudele, efferato, (iperb.) pessimo, terribile. Rammento che talvolta viene usato impropriamente come sinonimo di perfido, infido, malfido etc. anche l’agg.vo malfidato che invece è colui che è solito diffidare, colui che è sempre sospettoso
Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. perfidu(m), comp. di per 'al di là, oltre' e fidus 'fedele, leale'; propr. 'che viene meno alla fede data';
maleficoagg. [pl. m. -ci] 1 che reca danno: clima malefico; una persona malefica
2 di maleficio; che è frutto di maleficio: arti malefiche; influsso malefico
come sostantivo m. (ant.) stregone.
Quanto all’etimo è voce derivata dal lat. maleficu(m), comp. di male 'male' ed un tema di facere;
farabutto s. m. [f. -a] persona senza scrupoli, capace di qualsiasi slealtà; mascalzone.
Quanto all’etimo è parola pervenuta nella lingua nazionale ricavata dal napoletano frabbutto derivato dal ted. freibeuter 'predone' a sua volta ricavato dall'ol. vrijbuiter, comp. di vrij 'libero' e buit 'bottino' = saccheggiatore, filibustiere
mascalzone s. m. [f. -a] persona capace di azioni spregevoli o disoneste (anche scherz.): comportarsi da mascalzone; non fare il mascalzone! Persona d'animo volgare, priva di scrupoli o di scarso senso morale.
Riferito ai bambini è molto usato il vezz. mascalzoncello. Quanto all’etimo per alcuni la voce è un’alterazione di maniscalco "garzone di stalla", per incrocio con scalzo,ma a mio avviso è migliore l’idea di chi vi legge un’addizione dello spagn. mas (dal lat. magis= piú) e di scalzone accrescitivo di scalzo cioè piú che scalzo= persona male in arnese,vile per modo di vestire ed incedere, cialtrone;
Marmaglia o maramaglia, s. f. 1 insieme di gente spregevole; 2 (scherz.) gruppo chiassoso di bambini o ragazzi. Quanto all’etimo la voce risulta derivata dal fr. marmaille, deriv. di marmot 'bambino, marmocchio'.
Esaurite cosí le voci dell’italiano, passiamo a quelle del napoletano dove troviamo:
- bazzariota s.m. voce antica e desueta che in origine indicò un rivenditore girovago, un treccone cioè un venditore al minuto di generi alimentari (spec. verdure,legumi, uova, pollame ecc.); rivendugliolo cioè chi rivende al minuto, per lo piú cibo o merci di poco conto, in baracche o con carrettini, | (spreg.) venditore disonesto; poi per ampliamento semantico indicò il perdigiorno, il briccone, il giovinastro sfaccendato (detto alibi icasticamente stracquachiazze e cioè propriamente il bighellone aduso ad un cosí lungo, continuo, ma inconferente girovagare tale da addirittura consumare, stancar le piazze; di per sé il verbo stracquà che forma la voce stracquachiazze unito con il sostantivo chiazze plurale di chiazza (=piazza dal latino platea) indicherebbe lo spiovere, il venir meno della pioggia, ma nel caso di stracquachiazze estensivamente sta per il venir meno… delle forze o della consistenza strutturale delle ipotetiche piazze calpestate, senza tregua dal perdigiorno o dal bazzariota di turno;
quanto all’etimo bazzariota deriva dall’arabo bazàr=mercato attraverso un greco mod. bazariotes o pazariotes= mercante, negoziante;
frabbutto ed al f.le frabbotta di questo sostantivo con cui si indica la persona capace di azioni spregevoli o disoneste, il cattivo soggetto malvagio, senza scrupoli proclive ad ogni nefandezza, ò già detto antea sotto la voce dell’italiano farabutto, voce che fu marcata su questa napoletana a margine; quanto all’etimo frabbutto come ò già detto deriva ted. freibeuter 'predone' a sua volta ricavato dall'ol. vrijbuiter, comp. di vrij 'libero' e buit 'bottino' = saccheggiatore, filibustiere;
piezzo ‘e catapiezzo letteralmente pezzo di granpezzo; locuzione usata nel parlato popolare e per altro assente negli scritti,con le eccezioni di Basile e Sarnelli, e quelle di antichi dizionarii: D’Ambra,Andreoli etc. ) come un sostantivo maschile nel significato di ribaldo, briccone, birbonaccio; la voce piezzo= pezzo (adattamento al maschile del lat. volg. *pettia(m), di origine celtica di per sé non à valenze negative anzi riferito a persona lo si usa per sottolinearne la robustezza fisica, l'avvenenza: ‘nu piezzo d'ommo; che bellu piezzo ‘e guagliona |’nu piezzo grosso, (fig.) persona importante, influente; il significato negativo viene assunto se piezzo è usato in espressioni di insulto quali vi’ che piezzo ‘e ciuccio!, piezzo ‘e bbaccalà! o ancóra nell’espressione qui a margine piezzo ‘e catapiezzo espressione dove catapiezzo è usato quale iterativo, peggiorativo della voce piezzo attraverso il prefisso rafforzativo katà; rammento a questo punto una particolarità e cioè che vòlta al femminile l’espressione a margine non suona (come invece ci si attenderebbe) pezza ‘e catapezza, (dove catapezza verrebbe ad essere l’iterativo, peggiorativo della voce pezza), ma suona piezzo ‘e catapuzza espressione nella quale il masch. piezzo è usato con una licenza grammaticale, in funzione femminile e l’attesa voce catapezza viene trasformata in catapuzza con un evidente bisticcio tra due diversi termini: catapezza e catapuzza dei quali catapuzza con palese derivazione da lat. tardo cataputia che è da un gr. *katapytía, da pytía 'coagulo') indica un’ erba delle Euforbiacee con proprietà emetiche e purganti; a conclusione di tutto ciò, ricordo che comunque piezzo ‘e catapiezzo e piezzo ‘e catapuzza non vengono usati in senso palesemente dispregiativo o offensivo, ma sempre in funzione scherzosa ed eufemistica.
Scauzone a.e s.m. persona priva di calze e scarpe, male in arnese,vile per modo di vestire ed incedere, cialtrone e per estensione persona capace di azioni spregevoli o disoneste, cattivo soggetto malvagio, senza scrupoli proclive ad ogni nefandezza; la voce risulta essere un accrescitivo (cfr. il suff. one) in funzione dispregiativa di scauzo =scalzo che è contrazione di scalz(at)o; scauzo è dal lat. excalcèatu(m) p. p. del lat. excalceare, comp. di ex- 'via da' e calceare 'mettere le calzature', deriv. di calceus 'scarpa'; normale nel napoletano il passaggio del lat al ad au (cfr. altus→auto→àvuto→àveto= alto alter→àuto→ato= altro).
sfaccimmo s. m. dalla doppia valenza; in senso negativo: farabutto, mascalzone; in senso positivo: furbo, intraprendente, determinato (specie di una persona giovane.). È parola formata dal sost.: faccia con l’avvio di una s detrattiva ed il suffisso dispregiativo immo nell’ovvia idea di significar: persona priva di faccia (senza vergogna). Attenzione!In napoletano esiste anche la voce sfaccimma che però non è il femminile della parola precedente ed à ben altro significato ed etimologia,indicando il prodotto dell’eiaculazione maschile; anche etimologicamente la voce sfaccimma à derivazione del tutto diversa dal pregresso sfaccimmo; sfaccimma infatti prende l’avvio da una voce di tipo onomatopeico sfacc che indica la violenza dell’emissione, addizionato del solito suffisso imma qui però con funzione intensiva, non dispregiativa.
Rammenterò per amor di completezza che quando si volesse usare il termine precedente: sfaccimmo riferito ad una donna, non si userà sfaccimma che come visto indica un’altra cosa, ma una sorta di diminutivo, vezzeggiativo: sfaccemmusella che indica alternativamente o la mascalzoncella o la furbetta intraprendente.
spogliampise ag. e s.m.e f. letteralmente colui/colei che spoglia, depreda gli impiccati e estensivamente persona capace di azioni ripropevoli se non disoneste, persona malvagia, priva di scrupoli, crudele, feroce, spietata, scellerata, empia, perversa, sadica, maligna proclive ad essere efferata, disumana, brutale; quanto all’etimo è voce formata dall’agglutinazione della voce verbale spoglia (3° p.sg. ind. pres. dell’infinito spuglià = spogliare (dal lat. spōliare, deriv. di spolium con normale chiusura della lunga tonica ō in u) addizionata del sostantivo ‘mpise plurale di ‘mpiso= impiccato; ‘mpiso è il p.p. di ‘mpennere= impiccare, sospendere (dal lat. in + pendere).
Zappulajuolo/a ag. e s.m.e f. letteralmente colui/colei che zappa, ma per ampliamento semantico sta dispregiativamente per cattivo soggetto malvagio, senza scrupoli proclive ad un comportamento violento atto ad arrecar danno come potrebbe intendersi lo zappatore aduso con i colpi della vanga o zappa a violentare la terra; la voce a margine etimoloficamente deriva dal verbo zappulià forma ampliata di zappà.
Janne s.vo m.le = zanni, buffone malevolo, sciocco cattivo e prevaricante; etimologicamente è contrazione di joanne= giovanni; trattandosi di degradazione semantica del nome proprio Iohannus come altrove il bergamasco gioana s.vo f.le = meretrice da trivio è etimologicamente una degradazione semantica del nome proprio Iohanna.
Zanni/o s.vo m.le = , buffone malevolo, sciocco cattivo e prevaricante personaggio del servo nella commedia dell’arte, che rappresentò originariamente un contadino stupido e credulone ed in seguito assunse carattere un po’ negativi;
quanto all’etimo è forma toscanizzata del veneto Zani, corrispondente al tosc. Gianni, ipocoristico del nome proprio Giovanni.
E qui penso di poter far punto, convinto, se non di avere esaurito l’argomento, di averne détto a sufficienza contentando l’amico C.R. e chi altro dovesse leggermi.
raffaele bracale
FATTE BENEDICERE ‘A ‘NU MONACO (ma oggi ) PREVETE RICCHIONE
FATTE BENEDICERE ‘A ‘NU MONACO (ma oggi ) PREVETE RICCHIONE
Letteralmente: Fatti benedire da un monaco (ma oggi) prete pederasta attivo. Id est: Chiedi la benedizione (che risolva i tuoi problemi) a qualcuno che ti possa adiuvare: nella fattispecie chiedila ad un monaco (o prete) pederasta.
Chiariamo la portata dell’espressione: In primis è da rammentare che il detto/consiglio originariamente parlava di un monaco ricchione, il prete è un' erronea e fantasiosa estensione piú moderna. E parliamo del perché. Atteso che nella vita ci sono casi cosí disperati che necessitano di interventi adeguati per essere avviati a soluzione, chi se non un monaco o un prete ricchione, (che cioè son tra coloro che abbiano tutto provato nella vita ed à affrontato situazioni particolari) può essere chiamato in causa per operare efficaci benedizioni che sortiscano i benefici effetti desiderati?
Benedicere = benedire 1 (teol.) pronunciare una benedizione: il Signore benedisse Abramo
2 invocare la protezione di Dio su persone o cose: il padre benedisse il figlio; il sacerdote benedice i fedeli; benedire l'olivo | andare, mandare a farsi benedire, (fig.) andare, mandare via; anche, andare, mandare in malora
3 lodare, esaltare, ricordare con amore e gratitudine: lo benedico per il bene che mi à fatto
4 da parte di Dio, aiutare, custodire, elargire grazie: benedetto da Dio | che Dio ti benedica, formula di benedizione; nell'uso fam., esclamazione di meraviglia ironica o lieve rimprovero: che Dio ti benedica, ài mangiato tutto tu!. L’etimo di verbi sia italiano che napoletano (il napoletano anzi ripete piú esattamente la forma latina) è dal lat. benedicere, comp. di bene e dicere; propr. 'dir bene'
monaco s. m. è ovviamente il monaco cioè a dire chi à abbracciato il monachesimo; nel cattolicesimo, membro di un ordine monastico o religioso che à pronunciato i voti solenni di povertà, castità e obbedienza; etimologicamente è voce dal lat. tardo monachu(m), che è dal gr. monachós 'unico', poi 'solitario' (e quindi 'monaco'), deriv. di mónos 'solo, unico'; a Napoli il monaco è una figura emblematica, soggetto molto apprezzato nella vita interpersonale soprattutto del popolino, per essere inteso come soggetto a conoscenza dei casi della vita, soggetto dotato di sapere ed acume intellettivo tali da poter dare, nelle varie occorrenze i migliori e piú adatti consigli e proprio ai monaci dei numerosi conventi presenti nell’area cittadina e limitrofa il popolo napoletano fu aduso rivolgersi per chiedere aiuto, consiglio e/o soluzione di problemi. Per restare nell’àmbito della parola monaco rammento che il medesimo etimo d’esso monaco, sia pure addizionato di un suffisso diminutivo iello vale per la voce munaciello che nella tradizione popolare partenopea è (quantunque non si tratti di un autentico religioso) un particolare piccolo monaco;
‘o munaciello a Napoli è un’entità dai vasti poteri magici; ò parlato di entità in quanto non è dato sapere se si tratti di uno spirito o di un essere umano; nell’un caso o nell’altro detta entità è rappresentata con le sembianze che sono o di un nano mostruoso o di c.d. bambino vecchio, ed assume due personalità: quando si appalesa in una casa, o vi prende stabile dimora, se à in simpatia gli abitanti della casa,che lo abbiano accolto di buon grado, onorandolo e ammannendogli dolciumi (‘o munaciello è molto goloso!) egli arreca buona sorte e prosperità; se, al contrario prende in odio una famiglia, che non lo abbia accolto con i dovuti onori, egli le suscita guai ad iosa.Molto vaste son le testimonianze che riguardano l’apparizione di questa simpatica entità che non vi à posto per alcun dubbio sulle sue manifestazioni, che spesso sono oggetto di vivaci discussioni sul tipo di onori (lauti e dolci pasti, odorosi incensi) da tributare a questo spiritello che si mostra sotto forma di vecchio-bambino vestito col saio dei trovatelli accolti nei conventi, scarpe basse con fibbia d’argento, chierica e cappuccio.Non si lascia vedere da chiunque, ma compare d’improvviso, quando vuole ed a chi vuole(meglio però se donne in ispecie giovani e procaci) , magari portando in mano le scarpe che à tolto per non produrre rumore di calpestio Scalzo, scheletrico, spesso lascia delle monete sul luogo della sua apparizione come se volesse ripagare le persone, dello spavento procurato o di inconfessabili confidenze palpatorie che ama a volte concedersi. Vi sono due ipotesi sulla sua origine:
La prima ipotesi vuole l'inizio di tutta la vicenda intorno all'anno 1445 durante il regno Aragonese. La bella Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe, si innamora di un tal Stefano Mariconda, bello quanto si vuole, ma semplice garzone di bottega.
Naturalmente l'amore tra i due è fortemente contrastato. Il fato volle che tutta la storia finisse in tragedia. Stefano venne assassinato nel luogo dei loro incontri segreti mentre Caterinella si rinchiude in un convento. Ma era già da tempo incinta di Stefano ed infatti dopo pochi mesi nacque da Caterinella un bambino alquanto deforme(il Cielo talvolta fa ricadere sui figli le colpe dei genitori!...). Le suore del convento adottarono motu proprio il bambino cucendogli loro stesse vestiti simili a quelli monacali con un cappuccio per mascherare le deformità di cui il ragazzo soffriva. Fu cosí che per le strade di Napoli veniva chiamato " lu munaciello". Gli si attribuirono poteri magici fino ad arrivare alla leggenda che oggi tutti i napoletani conoscono. Anche lu munaciello morí misteriosamente., lasciando probabilmente in giro il suo bizzarro spirito.
La seconda ipotesi vuole che il Munaciello altro non sia che il gestore degli antichi pozzi d'acqua che, in molti casi, erano posti al centro dei cortili domestici, quando non addirittura nel primo vano delle case, di tal che aveva facile accesso nelle case passando attraverso i cunicoli di pertinenza del pozzo.
Personalmente sono maggiormente attratto dalla vicenda di Stefano e Caterinella, che mi appare piú consona ad una favola, anche perché niente osta a che ‘o munaciello anche senza esserne il gestore, si servisse dei pozzi per penetrare in casa; del resto storicamente spesso Napoli, imprendibile dalle mura, fu invasa attraverso le condutture idriche.
Prevete s.m. prete,presbitero, sacerdote, uomo consacrato, addetto al culto, che abbia ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prevete da cui poi per sincope della sillaba mediana ve si è probabilmente formato il toscano prete è dal tardo latino presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú anziano; cfr. presbitero;
la via seguíta per giungere a prevete partendo da presbyteru(m) è la seguente: presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e;
Come per il precedente monaco, anche il prete è una figura emblematica, soggetto molto apprezzato nella vita interpersonale soprattutto del popolino, per essere inteso come soggetto molto preparato, a conoscenza dei casi della vita, soggetto dotato di sapere ed acume intellettivo tali da poter dare, nelle varie occorrenze i migliori e piú adatti consigli e segnatamente al prete titolare di una parrocchia (parrucchiano) i fedeli furono adusi rivolgersi per chiedere aiuto, consiglio e/o soluzione di problemi.
recchione o ricchione, s. m. omosessuale maschile, pederasta,gay, vocabolo che, partito dal lessico partenopeo, è approdato per merito o colpa di taluna letteratura minore ed altre forme artistiche quali: teatro cinema e televisione, nei piú completi ed aggiornati vocabolarî della lingua nazionale dove viene riportata come voce volgare, nel generico significato di omosessuale maschile.
Molto piú precisamente della lingua nazionale, però, il napoletano con i vocaboli a margine non definisce il generico omosessuale maschile, ma l’omosessuale maschile attivo quello cioè che nel rapporto sodomitico svolge la parte attiva; chi invece svolge la parte passiva è definito nel napoletano : femmenella che è quasi: femminuccia, piccola femmina ed è etimologicamente dal latino fémina(m) con raddoppiamento popolare della postonica m tipico in parole sdrucciole piú il consueto suffisso diminutivo ella.
Torniamo al recchione - ricchione precisando súbito che nel napoletano tale omosessuale maschile non va confuso (come invece accade nell’italiano)con il pederasta il quale, come dal suo etimo greco: pais-paidos=fanciullo ed erastós=amante, è chi intrattiene rapporti omosessuali con i fanciulli;per il vero la lingua napoletana non à un termine specifico per indicare il pederasta e ciò probabilmente perché la pedofilía o pederastía fu quasi sconosciuta alla latitudine partenopea, quantuque Napoli siastata città di origine e cultura greca ;dicevo: ben diverso il pederasta dal recchione – ricchione che infatti à i suoi viziosi rapporti sodomitici quasi esclusivamente con adulti di pari risma.
Ed accostiamoci adesso al problema etimologico del termine recchione – ricchione; sgombrando súbito il campo dall’idea che esso termine possa derivare dall’affezione parotidea nota comunemente con il termine orecchioni, affezione che attaccando le parotidi le fa gonfiare ed aumentare di volume.
Una prima e principale scuola di pensiero, alla quale, del resto mi sento di aderire fa risalire i termini in epigrafe al periodo viceregnale(XV-XVI sec.) sulla scia del termine spagnolo orejón con il quale i marinai spagnoli solevano indicare i nobili incaici, conosciuti nei viaggi nelle Americhe, che si facevano forare ed allungare, tenendovi attaccati grossi e pesanti monili, le orecchie; con il medesimo nome erano indicati anche dei nobili peruviani privilegiati, noti altresí per i loro costumi viziosi e lascivi; taluni di costoro usavano abbigliarsi in maniera ridondante ed eccentrica talora cospargendosi di polvere d’oro i padiglioni auricolari,donde la frase napoletana: tené ‘a póvera ‘ncopp’ ê rrecchie = avere la polvere sulle orecchie, usata ironicamente appunto per indicare gli omosessuali.
Da non dimenticare che detti usi di incaici e peruviani furono spesso mutuati da molti marinai che sbarcavano a Napoli, provenienti dalle Americhe, agghindati con grossi e pesanti orecchini(cosa che i napoletani non apprezzarono ritenendo gli orecchini monili da donna e non da uomo..) e parecchi di questi marinai furono súbito indicati con i termini in epigrafe oltre che per l’abbigliamento e le acconciature usati anche per il modo di proporsi ed incedere quasi femmineo, atteso che dai napoletani si ritenne che il loro comportamento sessualecambiato, fosse stato determinato dalla lunga permanenza in mare, per i viaggi transoceanici, permanenza che li costringeva a non aver rapporti con donne e doversi contentare di averne con altri uomini.
Successivamente i termini recchione – ricchione palesi adattamenti dello orejón spagnolo passarono ad indicare non solo i marinai, ma un po’ tutti gli omosessuali attivi, conservando il termine femmeniello/femmenelle per quelli passivi.
E mi pare che ce ne sia abbastanza, anche se – per amore di completezza – segnalo qui una nuova ipotesi etimologica proposta dall’amico prof. Carlo Jandolo che ipotizza per ricchione/recchione una culla greca: orkhi-(pédes)= chi à la strozzatura dei testicoli,impotente, con aferesi iniziale, suono di transizione i fra r –cch con raddoppiamento popolare e suffisso qualitativo accrescitivo one; tuttavia lo stesso Jandolo non esclude un influsso di recchia soprattutto tenendo presente la fraseologia riportata che fa riferimento ad un orecchio impolverato.
A malgrado dei sentimenti amicali che nutro per Jandolo, non trovo serî motivi per abbandonare quella, a mio avviso, convincente via vecchia per percorrere la impervia nuova.
Raffaele Bracale
Letteralmente: Fatti benedire da un monaco (ma oggi) prete pederasta attivo. Id est: Chiedi la benedizione (che risolva i tuoi problemi) a qualcuno che ti possa adiuvare: nella fattispecie chiedila ad un monaco (o prete) pederasta.
Chiariamo la portata dell’espressione: In primis è da rammentare che il detto/consiglio originariamente parlava di un monaco ricchione, il prete è un' erronea e fantasiosa estensione piú moderna. E parliamo del perché. Atteso che nella vita ci sono casi cosí disperati che necessitano di interventi adeguati per essere avviati a soluzione, chi se non un monaco o un prete ricchione, (che cioè son tra coloro che abbiano tutto provato nella vita ed à affrontato situazioni particolari) può essere chiamato in causa per operare efficaci benedizioni che sortiscano i benefici effetti desiderati?
Benedicere = benedire 1 (teol.) pronunciare una benedizione: il Signore benedisse Abramo
2 invocare la protezione di Dio su persone o cose: il padre benedisse il figlio; il sacerdote benedice i fedeli; benedire l'olivo | andare, mandare a farsi benedire, (fig.) andare, mandare via; anche, andare, mandare in malora
3 lodare, esaltare, ricordare con amore e gratitudine: lo benedico per il bene che mi à fatto
4 da parte di Dio, aiutare, custodire, elargire grazie: benedetto da Dio | che Dio ti benedica, formula di benedizione; nell'uso fam., esclamazione di meraviglia ironica o lieve rimprovero: che Dio ti benedica, ài mangiato tutto tu!. L’etimo di verbi sia italiano che napoletano (il napoletano anzi ripete piú esattamente la forma latina) è dal lat. benedicere, comp. di bene e dicere; propr. 'dir bene'
monaco s. m. è ovviamente il monaco cioè a dire chi à abbracciato il monachesimo; nel cattolicesimo, membro di un ordine monastico o religioso che à pronunciato i voti solenni di povertà, castità e obbedienza; etimologicamente è voce dal lat. tardo monachu(m), che è dal gr. monachós 'unico', poi 'solitario' (e quindi 'monaco'), deriv. di mónos 'solo, unico'; a Napoli il monaco è una figura emblematica, soggetto molto apprezzato nella vita interpersonale soprattutto del popolino, per essere inteso come soggetto a conoscenza dei casi della vita, soggetto dotato di sapere ed acume intellettivo tali da poter dare, nelle varie occorrenze i migliori e piú adatti consigli e proprio ai monaci dei numerosi conventi presenti nell’area cittadina e limitrofa il popolo napoletano fu aduso rivolgersi per chiedere aiuto, consiglio e/o soluzione di problemi. Per restare nell’àmbito della parola monaco rammento che il medesimo etimo d’esso monaco, sia pure addizionato di un suffisso diminutivo iello vale per la voce munaciello che nella tradizione popolare partenopea è (quantunque non si tratti di un autentico religioso) un particolare piccolo monaco;
‘o munaciello a Napoli è un’entità dai vasti poteri magici; ò parlato di entità in quanto non è dato sapere se si tratti di uno spirito o di un essere umano; nell’un caso o nell’altro detta entità è rappresentata con le sembianze che sono o di un nano mostruoso o di c.d. bambino vecchio, ed assume due personalità: quando si appalesa in una casa, o vi prende stabile dimora, se à in simpatia gli abitanti della casa,che lo abbiano accolto di buon grado, onorandolo e ammannendogli dolciumi (‘o munaciello è molto goloso!) egli arreca buona sorte e prosperità; se, al contrario prende in odio una famiglia, che non lo abbia accolto con i dovuti onori, egli le suscita guai ad iosa.Molto vaste son le testimonianze che riguardano l’apparizione di questa simpatica entità che non vi à posto per alcun dubbio sulle sue manifestazioni, che spesso sono oggetto di vivaci discussioni sul tipo di onori (lauti e dolci pasti, odorosi incensi) da tributare a questo spiritello che si mostra sotto forma di vecchio-bambino vestito col saio dei trovatelli accolti nei conventi, scarpe basse con fibbia d’argento, chierica e cappuccio.Non si lascia vedere da chiunque, ma compare d’improvviso, quando vuole ed a chi vuole(meglio però se donne in ispecie giovani e procaci) , magari portando in mano le scarpe che à tolto per non produrre rumore di calpestio Scalzo, scheletrico, spesso lascia delle monete sul luogo della sua apparizione come se volesse ripagare le persone, dello spavento procurato o di inconfessabili confidenze palpatorie che ama a volte concedersi. Vi sono due ipotesi sulla sua origine:
La prima ipotesi vuole l'inizio di tutta la vicenda intorno all'anno 1445 durante il regno Aragonese. La bella Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe, si innamora di un tal Stefano Mariconda, bello quanto si vuole, ma semplice garzone di bottega.
Naturalmente l'amore tra i due è fortemente contrastato. Il fato volle che tutta la storia finisse in tragedia. Stefano venne assassinato nel luogo dei loro incontri segreti mentre Caterinella si rinchiude in un convento. Ma era già da tempo incinta di Stefano ed infatti dopo pochi mesi nacque da Caterinella un bambino alquanto deforme(il Cielo talvolta fa ricadere sui figli le colpe dei genitori!...). Le suore del convento adottarono motu proprio il bambino cucendogli loro stesse vestiti simili a quelli monacali con un cappuccio per mascherare le deformità di cui il ragazzo soffriva. Fu cosí che per le strade di Napoli veniva chiamato " lu munaciello". Gli si attribuirono poteri magici fino ad arrivare alla leggenda che oggi tutti i napoletani conoscono. Anche lu munaciello morí misteriosamente., lasciando probabilmente in giro il suo bizzarro spirito.
La seconda ipotesi vuole che il Munaciello altro non sia che il gestore degli antichi pozzi d'acqua che, in molti casi, erano posti al centro dei cortili domestici, quando non addirittura nel primo vano delle case, di tal che aveva facile accesso nelle case passando attraverso i cunicoli di pertinenza del pozzo.
Personalmente sono maggiormente attratto dalla vicenda di Stefano e Caterinella, che mi appare piú consona ad una favola, anche perché niente osta a che ‘o munaciello anche senza esserne il gestore, si servisse dei pozzi per penetrare in casa; del resto storicamente spesso Napoli, imprendibile dalle mura, fu invasa attraverso le condutture idriche.
Prevete s.m. prete,presbitero, sacerdote, uomo consacrato, addetto al culto, che abbia ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prevete da cui poi per sincope della sillaba mediana ve si è probabilmente formato il toscano prete è dal tardo latino presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú anziano; cfr. presbitero;
la via seguíta per giungere a prevete partendo da presbyteru(m) è la seguente: presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e;
Come per il precedente monaco, anche il prete è una figura emblematica, soggetto molto apprezzato nella vita interpersonale soprattutto del popolino, per essere inteso come soggetto molto preparato, a conoscenza dei casi della vita, soggetto dotato di sapere ed acume intellettivo tali da poter dare, nelle varie occorrenze i migliori e piú adatti consigli e segnatamente al prete titolare di una parrocchia (parrucchiano) i fedeli furono adusi rivolgersi per chiedere aiuto, consiglio e/o soluzione di problemi.
recchione o ricchione, s. m. omosessuale maschile, pederasta,gay, vocabolo che, partito dal lessico partenopeo, è approdato per merito o colpa di taluna letteratura minore ed altre forme artistiche quali: teatro cinema e televisione, nei piú completi ed aggiornati vocabolarî della lingua nazionale dove viene riportata come voce volgare, nel generico significato di omosessuale maschile.
Molto piú precisamente della lingua nazionale, però, il napoletano con i vocaboli a margine non definisce il generico omosessuale maschile, ma l’omosessuale maschile attivo quello cioè che nel rapporto sodomitico svolge la parte attiva; chi invece svolge la parte passiva è definito nel napoletano : femmenella che è quasi: femminuccia, piccola femmina ed è etimologicamente dal latino fémina(m) con raddoppiamento popolare della postonica m tipico in parole sdrucciole piú il consueto suffisso diminutivo ella.
Torniamo al recchione - ricchione precisando súbito che nel napoletano tale omosessuale maschile non va confuso (come invece accade nell’italiano)con il pederasta il quale, come dal suo etimo greco: pais-paidos=fanciullo ed erastós=amante, è chi intrattiene rapporti omosessuali con i fanciulli;per il vero la lingua napoletana non à un termine specifico per indicare il pederasta e ciò probabilmente perché la pedofilía o pederastía fu quasi sconosciuta alla latitudine partenopea, quantuque Napoli siastata città di origine e cultura greca ;dicevo: ben diverso il pederasta dal recchione – ricchione che infatti à i suoi viziosi rapporti sodomitici quasi esclusivamente con adulti di pari risma.
Ed accostiamoci adesso al problema etimologico del termine recchione – ricchione; sgombrando súbito il campo dall’idea che esso termine possa derivare dall’affezione parotidea nota comunemente con il termine orecchioni, affezione che attaccando le parotidi le fa gonfiare ed aumentare di volume.
Una prima e principale scuola di pensiero, alla quale, del resto mi sento di aderire fa risalire i termini in epigrafe al periodo viceregnale(XV-XVI sec.) sulla scia del termine spagnolo orejón con il quale i marinai spagnoli solevano indicare i nobili incaici, conosciuti nei viaggi nelle Americhe, che si facevano forare ed allungare, tenendovi attaccati grossi e pesanti monili, le orecchie; con il medesimo nome erano indicati anche dei nobili peruviani privilegiati, noti altresí per i loro costumi viziosi e lascivi; taluni di costoro usavano abbigliarsi in maniera ridondante ed eccentrica talora cospargendosi di polvere d’oro i padiglioni auricolari,donde la frase napoletana: tené ‘a póvera ‘ncopp’ ê rrecchie = avere la polvere sulle orecchie, usata ironicamente appunto per indicare gli omosessuali.
Da non dimenticare che detti usi di incaici e peruviani furono spesso mutuati da molti marinai che sbarcavano a Napoli, provenienti dalle Americhe, agghindati con grossi e pesanti orecchini(cosa che i napoletani non apprezzarono ritenendo gli orecchini monili da donna e non da uomo..) e parecchi di questi marinai furono súbito indicati con i termini in epigrafe oltre che per l’abbigliamento e le acconciature usati anche per il modo di proporsi ed incedere quasi femmineo, atteso che dai napoletani si ritenne che il loro comportamento sessualecambiato, fosse stato determinato dalla lunga permanenza in mare, per i viaggi transoceanici, permanenza che li costringeva a non aver rapporti con donne e doversi contentare di averne con altri uomini.
Successivamente i termini recchione – ricchione palesi adattamenti dello orejón spagnolo passarono ad indicare non solo i marinai, ma un po’ tutti gli omosessuali attivi, conservando il termine femmeniello/femmenelle per quelli passivi.
E mi pare che ce ne sia abbastanza, anche se – per amore di completezza – segnalo qui una nuova ipotesi etimologica proposta dall’amico prof. Carlo Jandolo che ipotizza per ricchione/recchione una culla greca: orkhi-(pédes)= chi à la strozzatura dei testicoli,impotente, con aferesi iniziale, suono di transizione i fra r –cch con raddoppiamento popolare e suffisso qualitativo accrescitivo one; tuttavia lo stesso Jandolo non esclude un influsso di recchia soprattutto tenendo presente la fraseologia riportata che fa riferimento ad un orecchio impolverato.
A malgrado dei sentimenti amicali che nutro per Jandolo, non trovo serî motivi per abbandonare quella, a mio avviso, convincente via vecchia per percorrere la impervia nuova.
Raffaele Bracale
VARIE 203
1. Aizà ‘a mano
Ad litteram: sollevare la mano; id est: perdonare, assolvere
L’ espressione che viene usata quando si voglia fare intendere che si è proclivi al perdono soprattutto di piccole mende, ricorda il gesto del sacerdote che al momento di assolvere i peccati , alza la mano per benedire e mandar perdonato il penitente pentito.
2. Ô tiempo ‘e Pappacone.
Ad litteram: Al tempo di Pappacoda Espressione usata a Napoli per dire che ciò di cui si sta parlando risale ad un tempo antichissimo, di cui si è quasi perso memoria e - tutto sommato - non vale la pena ricordarsene in quanto si tratterebbe di cose impossibili da riprodurre o riproporre; La parola Pappacone è - come già ricordato - corruzione del termine Pappacoda, antichissima e nobile famiglia napoletana che à lasciato sue numerose ed artistiche vestigia in parecchie strade di Napoli.
3. Ô tiempo d’’e cazune a teròcciole.
Ad litteram: Al tempo dei calzoni con le carrucole. Espressione analoga alla precedente , espressione con la quale si vuol significare che si sta richiamando alla memoria tempi lontani, anzi remoti quali quelli in cui le braghe erano sorrette da grosse bretelle di cuoio, regolate da piccole carrucole metalliche.
4. Acrus est e te ll’hê ‘a vevere
Ad litteram : è acre, ma devi berlo
La locuzione è tipico esempio di frammistione tra un tardo latino improbabile ed un vernacolo pieno.
Cosí a Napoli si suole ripetere a chi non si voglia convincere della ineluttabilità di talune situazioni cui bisogna soggiacere, stante una forza maggiore. Narro qui di seguito la storiella donde prese vita la locuzione in epigrafe. Un anziano curato era in urto col proprio dispettoso sacrestano che sostituí il vino per la celebrazione della Messa con un acre aceto. Allorché il curato portò alle labbra il calice contenente l’aceto, se ne dolse con il sacrista dicendo: “Acrus est!” ed il dispettoso sacrestano di rimando : “te ll’hê ‘a vevere!” (Devi berlo Non puoi esimerti.)
il curato, minacciandolo:” Dopo la messa t’aspetto in sacrestia...”
il sacrista, concluse:” Hê ‘a vedé si me truove!” (Probabilmente non mi troverai...)
Oggi la locuzione non à bisogno di due interlocutori; viene pronunciata anche da uno solo, da chi tenti di convincere qualcun altro che debba soggiacere agli eventi e non se ne possa esimere.
5. Ammacca e ssala, aulive ‘e Gaeta!
Ad litteram: Comprimi e sala, ulive di Gaeta Locuzione che nel richiamare il modo sbrigativo di conservare in apposite botticelle le ulive coltivate in quel di Gaeta,viene usata per redarguire e salacemente commentare tutte quelle azioni compiute in modo eccessivamente sbrigativo e perciò raffazzonato, senza porvi soverchia attenzione.
6. “ A llu frijere siente ll’addore” - “A llu cagno, siente ‘o chianto”
Ad litteram: “Al momento di friggere, avvertirai il (vero) odore” _ Al momento di cambiarli, piangerai.”
Locuzione che riproponendo un veloce scambio di battute intercorse tra un venditore ed un compratore, viene usata quando si voglia far comprendere a qualcuno di non tentare di fare il furbo in una contrattazione usando metodi truffaldini,perché correrebbe il rischio d’esser ripagato allo stesso modo.
Un anziano curato, recatosi al mercato ad acquistare del pesce, si vide servito con merce non fresca, anzi quasi putrescente; accortosi della faccenda, ripagò il pescivendolo con moneta falsa, ma nell’allontanarsi sentí il pescivendolo che si gloriava di averlo gabbato e a mo’ di dileggio gli rivolgeva la prima frase della locuzione in epigrafe; e il curato, prontamente, gli rispose con la seconda frase.
7. Addó arrivammo, lla mettimmo ‘o spruoccolo
Ad litteram: Dove giungiamo là poniamo uno stecco. La locuzione è usata sia a mo’ di divertito commento di un’azione iniziata e non compiuta del tutto, sia per rassicurare qualcuno timoroso dell’intraprendere un quid ritenuto troppo gravoso da conseguirsi in tempi brevi; ebbene in tal caso gli si potrebbe dire:” Non temere: non dobbiamo fare tutto in un’unica soluzione; Noi cominciamo l’opera e la proseguiamo fino al momento che le forze ci sorreggono; giunti a quel punto, vi poniamo un metaforico stecco, segno da cui riprendere l’operazione per portarla successivamente a compimento.”
Spruoccolo s.m. = stecco, bastoncino, piccolo pezzo di legno di taglio irregolare dal b.lat. (e)xperoccolo←pedunculu(m) con sincope d’avvio, assimilazione regressiva nc→cc, dittongazione della ŏ→uo, nonché rotacizzazione osco mediterranea d→r.
8.Comme cucozza ‘ntrona, pasca nun vene pe mmo.
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono, avvertí che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scoprí il ladruncolo.
9. Comme pagazio, accussí pittazio
Ad litteram: Come sarò pagato, cosí dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata da F.S. Grue famosissimo artista noto per i suoi vasi di maiolica,su di un’antica albarella detta di san Brunone.
10. Capurà è muorto ‘alifante!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance,… non vantarti piú, torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli si vuol significare che non è piú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chiunque, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi di non essere piú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino boriosi e supponenti.
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Ad litteram: sollevare la mano; id est: perdonare, assolvere
L’ espressione che viene usata quando si voglia fare intendere che si è proclivi al perdono soprattutto di piccole mende, ricorda il gesto del sacerdote che al momento di assolvere i peccati , alza la mano per benedire e mandar perdonato il penitente pentito.
2. Ô tiempo ‘e Pappacone.
Ad litteram: Al tempo di Pappacoda Espressione usata a Napoli per dire che ciò di cui si sta parlando risale ad un tempo antichissimo, di cui si è quasi perso memoria e - tutto sommato - non vale la pena ricordarsene in quanto si tratterebbe di cose impossibili da riprodurre o riproporre; La parola Pappacone è - come già ricordato - corruzione del termine Pappacoda, antichissima e nobile famiglia napoletana che à lasciato sue numerose ed artistiche vestigia in parecchie strade di Napoli.
3. Ô tiempo d’’e cazune a teròcciole.
Ad litteram: Al tempo dei calzoni con le carrucole. Espressione analoga alla precedente , espressione con la quale si vuol significare che si sta richiamando alla memoria tempi lontani, anzi remoti quali quelli in cui le braghe erano sorrette da grosse bretelle di cuoio, regolate da piccole carrucole metalliche.
4. Acrus est e te ll’hê ‘a vevere
Ad litteram : è acre, ma devi berlo
La locuzione è tipico esempio di frammistione tra un tardo latino improbabile ed un vernacolo pieno.
Cosí a Napoli si suole ripetere a chi non si voglia convincere della ineluttabilità di talune situazioni cui bisogna soggiacere, stante una forza maggiore. Narro qui di seguito la storiella donde prese vita la locuzione in epigrafe. Un anziano curato era in urto col proprio dispettoso sacrestano che sostituí il vino per la celebrazione della Messa con un acre aceto. Allorché il curato portò alle labbra il calice contenente l’aceto, se ne dolse con il sacrista dicendo: “Acrus est!” ed il dispettoso sacrestano di rimando : “te ll’hê ‘a vevere!” (Devi berlo Non puoi esimerti.)
il curato, minacciandolo:” Dopo la messa t’aspetto in sacrestia...”
il sacrista, concluse:” Hê ‘a vedé si me truove!” (Probabilmente non mi troverai...)
Oggi la locuzione non à bisogno di due interlocutori; viene pronunciata anche da uno solo, da chi tenti di convincere qualcun altro che debba soggiacere agli eventi e non se ne possa esimere.
5. Ammacca e ssala, aulive ‘e Gaeta!
Ad litteram: Comprimi e sala, ulive di Gaeta Locuzione che nel richiamare il modo sbrigativo di conservare in apposite botticelle le ulive coltivate in quel di Gaeta,viene usata per redarguire e salacemente commentare tutte quelle azioni compiute in modo eccessivamente sbrigativo e perciò raffazzonato, senza porvi soverchia attenzione.
6. “ A llu frijere siente ll’addore” - “A llu cagno, siente ‘o chianto”
Ad litteram: “Al momento di friggere, avvertirai il (vero) odore” _ Al momento di cambiarli, piangerai.”
Locuzione che riproponendo un veloce scambio di battute intercorse tra un venditore ed un compratore, viene usata quando si voglia far comprendere a qualcuno di non tentare di fare il furbo in una contrattazione usando metodi truffaldini,perché correrebbe il rischio d’esser ripagato allo stesso modo.
Un anziano curato, recatosi al mercato ad acquistare del pesce, si vide servito con merce non fresca, anzi quasi putrescente; accortosi della faccenda, ripagò il pescivendolo con moneta falsa, ma nell’allontanarsi sentí il pescivendolo che si gloriava di averlo gabbato e a mo’ di dileggio gli rivolgeva la prima frase della locuzione in epigrafe; e il curato, prontamente, gli rispose con la seconda frase.
7. Addó arrivammo, lla mettimmo ‘o spruoccolo
Ad litteram: Dove giungiamo là poniamo uno stecco. La locuzione è usata sia a mo’ di divertito commento di un’azione iniziata e non compiuta del tutto, sia per rassicurare qualcuno timoroso dell’intraprendere un quid ritenuto troppo gravoso da conseguirsi in tempi brevi; ebbene in tal caso gli si potrebbe dire:” Non temere: non dobbiamo fare tutto in un’unica soluzione; Noi cominciamo l’opera e la proseguiamo fino al momento che le forze ci sorreggono; giunti a quel punto, vi poniamo un metaforico stecco, segno da cui riprendere l’operazione per portarla successivamente a compimento.”
Spruoccolo s.m. = stecco, bastoncino, piccolo pezzo di legno di taglio irregolare dal b.lat. (e)xperoccolo←pedunculu(m) con sincope d’avvio, assimilazione regressiva nc→cc, dittongazione della ŏ→uo, nonché rotacizzazione osco mediterranea d→r.
8.Comme cucozza ‘ntrona, pasca nun vene pe mmo.
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono, avvertí che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scoprí il ladruncolo.
9. Comme pagazio, accussí pittazio
Ad litteram: Come sarò pagato, cosí dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata da F.S. Grue famosissimo artista noto per i suoi vasi di maiolica,su di un’antica albarella detta di san Brunone.
10. Capurà è muorto ‘alifante!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance,… non vantarti piú, torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli si vuol significare che non è piú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chiunque, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi di non essere piú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino boriosi e supponenti.
brak
lunedì 27 aprile 2009
VULISSE METTERE ‘O CÀNTERO CU ‘ARCIULO?
VULISSE METTERE ‘O CÀNTERO CU ‘ARCIULO?
Letteralmente: Vorresti porre (a confronto) il pitale con l’orcio? Id est: Avresti forse intenzione, con il tuo errato comportamento,e/o argomentare di entrare in una tale confusione da non essere in grado piú di cogliere le differenze intercorrenti tra un volgare contenitore di deiezioni (il càntaro) ed un signorile, magari pregiato grande vaso panciuto di terracotta usato per conservare olio o derrate alimentari (l’orcio)?
L’espressione in epigrafe ripete, ma in maniera quanto piú colorita ed icastica, il concetto dell’italiano confondere la lana con la seta espressione quest’ultima che, oltre ad essere meno colorita della napoletana, à in sé un che di anòdino, ambiguo, dubbio, enigmatico, oscuro atteso che non è semplicissimo intendere quale tra la lana e la seta sia il filato da tenere in maggior considerazione; al contrario nell’espressione napoletana che non ingenera dubbi, facilmente si coglie quale tra i due sia il contenitore piú nobile; l’espressione napoletana è usata come sarcastico, salace commento al vacuo, vuoto, inconsistente, futile, fatuo ragiomento di uno sciocco sprovveduto che pone a paragone due soggetti o concetti diametralmente opposti e tra i quali non vi dovrebbe essere confusione e/o competizione; l’espressione è usata altresí come salace commento all’ inconsistente, futile, fatuo atteggiamento che tenga uno spocchioso supponente che, privo di ogni acclarata dote fisica (forza,energia, vigore etc. ) e/o morale (cultura,preparazione, istruzione, coraggio etc.) pretenderebbe di entrare in competizione con chi invece di quelle doti sia indubbiamente e patentemente fornito; va da sé che in tale ipotetico confronto il supponente rappresenterebbe il càntaro e l’antagonista l’arciulo.
vulisse letteralmente volessi, ma qui vorresti voce verbale (2 °prs. sg. dell’imperfetto congiuntivo) dell’infinito vulere/é= volere che è dal lat. volg. *volíre→*vulire→vulére, per il class. velle, ricostruito sul tema del pres. volo e del perfetto volui; la voce a margine come détto è la 2°prs. sg. dell’imperfetto congiuntivo e correttamente andrebbe reso con il congiuntivo volessi , ma spesso il napoletano usa il congiuntivo come condizionale (modo che pure esiste in grammatica napoletana, ma che è raramente usato preferendoglisi il congiuntivo imperfetto ed è presente quasi soltanto negli scritti di poeti canzonieri o giornalisti letterati fattisi condizionare per un motivo od un altro dalla lingua ufficiale: cfr. ad es.: Vincenzo Russo I’ te vurria vasà e Armando Pugliese Vurria;bizzarrie di chi si lascia influenzare se non addirittura mettere le pastoie dall’italiano o di chi vi si abbandona temendo di incorrere in qualche strafalcione grammaticale; un popolano nel suo istintivo eloquio veracemente napoletano non potrebbe mai dire: I’ te vurria vasà” direbbe sempre “I’ te vulesse vasà”, né direbbe “Vurria”, ma sempre “vulesse” con buona pace di V. Russo, A.Pugliese e qualche altro!; per tale motivo l’attesto congiuntivo volessi è stato reso qui con il condizionale vorresti;
càntaro s.m. alto vaso cilindrico di terracotta rivestito all’interno ed all’esterno di uno smalto o patina idrorepellente che, dopo l’uso favorisse la pulizia di tale vaso di comodo,contenitore provvisto, per lo spostamento, di due anse laterali e di un’ampia bocca con cordolo doppio su cui potersi comodamente sedere; tale vaso fu usato un tempo per raccogliere le deiezioni solide; per quelle liquide ci si serviva di un piú piccolo e maneggevole contenitore di ceramica patinata o, piú spesso, di ferro smaltato che ebbe come nome alternativamente o ruagno o piú comunemente rinale(voce però piú moderna, evidentemente ricavata per deglutinazione da (o)rinale ;) ruagno fu invece voce piú antica usata ancóra negli anni ’50 sia pure soltanto sulla bocca delle persone piú vecchie: nonni, nonne e/o zii molto anziani,voce usata anche come bruciante offesa(cfr. l’espressione: Sî ‘na scarda ‘e ruagno!(Sei un coccio di orinale!); quanto all’etimo di ruagno dirò che essendo solitamente questo piccolo vaso di comodo ubicato nei pressi del letto per essere prontamente reperito in caso di impellente necessità, scartata l’ipotesi fantasiosa che ne fa derivare il nome da un troppo generico greco organon (strumento), penso si possa aderire all’ipotesi che fa derivare la voce ruagno dal greco ruas che indica lo scorrere, atteso che il ruagno era destinato ad accogliere improvvisi scorrimenti derivanti o da cattiva ritenzione idrica, oppure da attacchi diarroici viscerali; tornando alla voce càntaro, etimologicamente esso è un derivato del lat. cantharu(m) che è dal greco kantharos;rammento che il termine càntaro non va assolutamente confuso con la voce cantàro che è voce indicante una misura: quintale ed è derivata dall’arabo qintar (cfr. l’espressione Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo! Meglio un quintale in testa che un'oncia nel sedere! Id est: meglio patire un danno fisico, che sopportare il vilipendio di uno morale. In pratica gli effetti del danno fisico, prima o poi svaniscono o si leniscono, quelli di un danno morale perdurano sine die. A margine di tale espressione rammento che talvolta sulla bocca di napoletani meno consci della propria lingua l’espressione Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo! è resa con una scorretta È mmeglio ‘nu càntaro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo cioè Meglio portare un càntaro in testa che un’oncia in culo espressione che comunque non à una ragione logica in quanto è incongruo mettere in relazione un pitale (càntaro) con un peso (oncia) piuttosto che rapportare due misure: quintale (cantàro) ed oncia (onza)).
arciulo s.m. orcio; come ò già détto: grande vaso panciuto di terracotta, che soprattutto un tempo era usato per conservare liquidi, in partic. l'olio e /o altre derrate alimentari come olive in salamoia, oppure ortaggi bolliti in aceto e conservati sott’olio(melanzane, peperoni, sedano ed altro) oggi si impiega per lo piú come vaso da piante; l’etimo di arciulo è dal lat. *urceolu(m) diminutivo di urce(um).
raffaele bracale
Letteralmente: Vorresti porre (a confronto) il pitale con l’orcio? Id est: Avresti forse intenzione, con il tuo errato comportamento,e/o argomentare di entrare in una tale confusione da non essere in grado piú di cogliere le differenze intercorrenti tra un volgare contenitore di deiezioni (il càntaro) ed un signorile, magari pregiato grande vaso panciuto di terracotta usato per conservare olio o derrate alimentari (l’orcio)?
L’espressione in epigrafe ripete, ma in maniera quanto piú colorita ed icastica, il concetto dell’italiano confondere la lana con la seta espressione quest’ultima che, oltre ad essere meno colorita della napoletana, à in sé un che di anòdino, ambiguo, dubbio, enigmatico, oscuro atteso che non è semplicissimo intendere quale tra la lana e la seta sia il filato da tenere in maggior considerazione; al contrario nell’espressione napoletana che non ingenera dubbi, facilmente si coglie quale tra i due sia il contenitore piú nobile; l’espressione napoletana è usata come sarcastico, salace commento al vacuo, vuoto, inconsistente, futile, fatuo ragiomento di uno sciocco sprovveduto che pone a paragone due soggetti o concetti diametralmente opposti e tra i quali non vi dovrebbe essere confusione e/o competizione; l’espressione è usata altresí come salace commento all’ inconsistente, futile, fatuo atteggiamento che tenga uno spocchioso supponente che, privo di ogni acclarata dote fisica (forza,energia, vigore etc. ) e/o morale (cultura,preparazione, istruzione, coraggio etc.) pretenderebbe di entrare in competizione con chi invece di quelle doti sia indubbiamente e patentemente fornito; va da sé che in tale ipotetico confronto il supponente rappresenterebbe il càntaro e l’antagonista l’arciulo.
vulisse letteralmente volessi, ma qui vorresti voce verbale (2 °prs. sg. dell’imperfetto congiuntivo) dell’infinito vulere/é= volere che è dal lat. volg. *volíre→*vulire→vulére, per il class. velle, ricostruito sul tema del pres. volo e del perfetto volui; la voce a margine come détto è la 2°prs. sg. dell’imperfetto congiuntivo e correttamente andrebbe reso con il congiuntivo volessi , ma spesso il napoletano usa il congiuntivo come condizionale (modo che pure esiste in grammatica napoletana, ma che è raramente usato preferendoglisi il congiuntivo imperfetto ed è presente quasi soltanto negli scritti di poeti canzonieri o giornalisti letterati fattisi condizionare per un motivo od un altro dalla lingua ufficiale: cfr. ad es.: Vincenzo Russo I’ te vurria vasà e Armando Pugliese Vurria;bizzarrie di chi si lascia influenzare se non addirittura mettere le pastoie dall’italiano o di chi vi si abbandona temendo di incorrere in qualche strafalcione grammaticale; un popolano nel suo istintivo eloquio veracemente napoletano non potrebbe mai dire: I’ te vurria vasà” direbbe sempre “I’ te vulesse vasà”, né direbbe “Vurria”, ma sempre “vulesse” con buona pace di V. Russo, A.Pugliese e qualche altro!; per tale motivo l’attesto congiuntivo volessi è stato reso qui con il condizionale vorresti;
càntaro s.m. alto vaso cilindrico di terracotta rivestito all’interno ed all’esterno di uno smalto o patina idrorepellente che, dopo l’uso favorisse la pulizia di tale vaso di comodo,contenitore provvisto, per lo spostamento, di due anse laterali e di un’ampia bocca con cordolo doppio su cui potersi comodamente sedere; tale vaso fu usato un tempo per raccogliere le deiezioni solide; per quelle liquide ci si serviva di un piú piccolo e maneggevole contenitore di ceramica patinata o, piú spesso, di ferro smaltato che ebbe come nome alternativamente o ruagno o piú comunemente rinale(voce però piú moderna, evidentemente ricavata per deglutinazione da (o)rinale ;) ruagno fu invece voce piú antica usata ancóra negli anni ’50 sia pure soltanto sulla bocca delle persone piú vecchie: nonni, nonne e/o zii molto anziani,voce usata anche come bruciante offesa(cfr. l’espressione: Sî ‘na scarda ‘e ruagno!(Sei un coccio di orinale!); quanto all’etimo di ruagno dirò che essendo solitamente questo piccolo vaso di comodo ubicato nei pressi del letto per essere prontamente reperito in caso di impellente necessità, scartata l’ipotesi fantasiosa che ne fa derivare il nome da un troppo generico greco organon (strumento), penso si possa aderire all’ipotesi che fa derivare la voce ruagno dal greco ruas che indica lo scorrere, atteso che il ruagno era destinato ad accogliere improvvisi scorrimenti derivanti o da cattiva ritenzione idrica, oppure da attacchi diarroici viscerali; tornando alla voce càntaro, etimologicamente esso è un derivato del lat. cantharu(m) che è dal greco kantharos;rammento che il termine càntaro non va assolutamente confuso con la voce cantàro che è voce indicante una misura: quintale ed è derivata dall’arabo qintar (cfr. l’espressione Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo! Meglio un quintale in testa che un'oncia nel sedere! Id est: meglio patire un danno fisico, che sopportare il vilipendio di uno morale. In pratica gli effetti del danno fisico, prima o poi svaniscono o si leniscono, quelli di un danno morale perdurano sine die. A margine di tale espressione rammento che talvolta sulla bocca di napoletani meno consci della propria lingua l’espressione Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo! è resa con una scorretta È mmeglio ‘nu càntaro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo cioè Meglio portare un càntaro in testa che un’oncia in culo espressione che comunque non à una ragione logica in quanto è incongruo mettere in relazione un pitale (càntaro) con un peso (oncia) piuttosto che rapportare due misure: quintale (cantàro) ed oncia (onza)).
arciulo s.m. orcio; come ò già détto: grande vaso panciuto di terracotta, che soprattutto un tempo era usato per conservare liquidi, in partic. l'olio e /o altre derrate alimentari come olive in salamoia, oppure ortaggi bolliti in aceto e conservati sott’olio(melanzane, peperoni, sedano ed altro) oggi si impiega per lo piú come vaso da piante; l’etimo di arciulo è dal lat. *urceolu(m) diminutivo di urce(um).
raffaele bracale
ESSERE TRIVULO ‘E CASA E FESTA ‘E CHIAZZA!
ESSERE TRIVULO ‘E CASA E FESTA ‘E CHIAZZA!
Ad litteram: Essere tribolo di casa e festa di piazza id est: Essere musone e scontento in casa e mostrarsi festoso ed allegro fuori delle mura domestiche.
Antica locuzione partenopea un tempo indirizzata dalle mamme verso i proprî figli maschi che facevano le viste d’esser sempre immusoniti ed insoddisfatti in casa dove esternavano (per il solo gusto di farsi commiserare) fastidio e malumore, indici di un temperamento triste, scontento, dolente, mesto, malinconico, avvilito, ombroso, accigliato, scontroso, scostante, mentre in piazza (fuori dei confini domestici, con ovvio riferimento, non solo ai luoghi, ma anche e segnatamente alle persone) tale temperamento mostrava d’essere al contrario gioviale, lieto, allegro, sereno, gaio, gioioso, giulivo, brioso,proprio cioè di un soggetto ilare, festante, affabile, estroverso, cordiale, espansivo, comunicativo.Di tali individui mai si riusciva a venire a capo se il loro vero temperamento fosse quello esternato in casa o quello esposto in piazza…
trivulo = fastidio, lamento, mestizia fino a gemito, pianto etimologicamente dall’ acc. lat. tribulu(m) (forgiato sul gr. tríbolos 'spino') originariamente arnese da pesca in ferro con tre punte poi passato ad indicare con senso cristiano: afflizione, patimento et similia; da notare nella voce napoletana la tipica alternanza v/b;
casa = casa, abitazione, ma estensivamente famiglia, ambiente familiare; etimologicamente dal lat. casa(m), propr. 'abitazione rustica/plebea' opposta a domus propr. 'abitazione del dominus';
festa = festività ,dimostrazione di gioia, di allegria; l’etimo è dal lat. festa, neutro pl. di festum 'festa, solennità';
chiazza = piazza , ma qui estensivamente persone estranee alla famiglia incontrate casualmente per istrada, in giro, all’aperto. la voce napoletana chiazza (come alibi ò ricordato) à un etimo che è dal lat. platea con i normali sviluppi di pl→chj (cfr. ad es.: chino ←plenum, cchiù←plus, chiaja←plaga, chiummo←plumbeum etc.) e te/ti + voc.→ tj(intervocalici)→zz ( cfr. mullezza<←mollitia).
Raffaele Bracale
Ad litteram: Essere tribolo di casa e festa di piazza id est: Essere musone e scontento in casa e mostrarsi festoso ed allegro fuori delle mura domestiche.
Antica locuzione partenopea un tempo indirizzata dalle mamme verso i proprî figli maschi che facevano le viste d’esser sempre immusoniti ed insoddisfatti in casa dove esternavano (per il solo gusto di farsi commiserare) fastidio e malumore, indici di un temperamento triste, scontento, dolente, mesto, malinconico, avvilito, ombroso, accigliato, scontroso, scostante, mentre in piazza (fuori dei confini domestici, con ovvio riferimento, non solo ai luoghi, ma anche e segnatamente alle persone) tale temperamento mostrava d’essere al contrario gioviale, lieto, allegro, sereno, gaio, gioioso, giulivo, brioso,proprio cioè di un soggetto ilare, festante, affabile, estroverso, cordiale, espansivo, comunicativo.Di tali individui mai si riusciva a venire a capo se il loro vero temperamento fosse quello esternato in casa o quello esposto in piazza…
trivulo = fastidio, lamento, mestizia fino a gemito, pianto etimologicamente dall’ acc. lat. tribulu(m) (forgiato sul gr. tríbolos 'spino') originariamente arnese da pesca in ferro con tre punte poi passato ad indicare con senso cristiano: afflizione, patimento et similia; da notare nella voce napoletana la tipica alternanza v/b;
casa = casa, abitazione, ma estensivamente famiglia, ambiente familiare; etimologicamente dal lat. casa(m), propr. 'abitazione rustica/plebea' opposta a domus propr. 'abitazione del dominus';
festa = festività ,dimostrazione di gioia, di allegria; l’etimo è dal lat. festa, neutro pl. di festum 'festa, solennità';
chiazza = piazza , ma qui estensivamente persone estranee alla famiglia incontrate casualmente per istrada, in giro, all’aperto. la voce napoletana chiazza (come alibi ò ricordato) à un etimo che è dal lat. platea con i normali sviluppi di pl→chj (cfr. ad es.: chino ←plenum, cchiù←plus, chiaja←plaga, chiummo←plumbeum etc.) e te/ti + voc.→ tj(intervocalici)→zz ( cfr. mullezza<←mollitia).
Raffaele Bracale