lunedì 5 ottobre 2009

VARIE 412

1 Cca ssotto nun ce chiove
Ad litteram: Qui sotto non ci piove
L’espressione che viene pronunciata puntando il dito indice teso contro il palmo rovesciato della mano sinistra, viene usata, a mo’ di risentito avvertimento , nei confronti di chi - dopo di aver promesso un aiuto o una liberalità - sia venuto meno clamorosamente a quanto promesso, nell’intento di fargli capire che non si è piú disposti a sopportare una simile mancanza di parola data e, per converso, si è pronti secondo un noto principio partenopeo che statuisce: fa’ comme t’è ffatto ca nun è peccato (comportati con gli altri come gli altri si sono comportati con te, ché non peccherai…) a restituire pan per focaccia;
2. Ce mancano diciannove sorde p’apparà ‘a lira.
Ad litteram:ci mancano (ben) diciannove soldi per raggranellare una lira. Poiché la lira de quo contava venti soldi il fatto che, come affermato in epigrafe, mancassero diciannove soldi, significava che ci si trovava in gran carenza di mezzi e la locuzione, riferita ad una azione principiata con tal carenza voleva significare che, con ogni probabilità, non si sarebbe potuto portare a compimento il principiato e che, forse, sarebbe stato piú opportuno il desistere.
3. Ce mancano ‘e quatte laste e ‘o lamparulo.
Ad litteram: mancano i quattro vetri e il reggimoccolo Locuzione di portata simile alla precedente; in questa, in luogo della lira, il riferimento è fatto ad una ipotetica lanterna che è stata costruita in maniera raffazzonata di talché non è adatta allo scopo per cui è stata costruita e non potrà produrre vantaggi a chi se ne dovesse servire, posto che essa lanterna manca dei quattro vetri che ne costituiscono le pareti e manca addirittura del reggimoccolo centrale: un simile oggetto non potrà mai servire ad illuminare.
4. Chesta è ‘a ricetta e ca Ddio t’’a manne bbona!
Ad litteram: Questa è la ricetta e che Dio ti assista favorevolmente. Locuzione che viene usata ogni volta che si voglia avvertire qualcuno che, nei suoi confronti, si è fatto quanto era nelle nostre possibilità o capacità. A colui a cui viene rivolta la locuzione non resta che prender per buono quanto gli sia stato prescritto o suggerito e mettersi poi nelle mani di Dio, augurandosi che l’Onnipotente voglia tutelarlo ed adeguatamente soccorrerlo.
5. Chi à avuto, à avuto e chi à dato, à dato
Locuzione che non à bisogno di traduzione, essendo di facile intellezione e che viene usata tutte le volte che, intendendo por fine a piccole querelle o questioncelle, ci si accontenta di fare piccole reciproche concessioni, pur di non procrastinare oltre il diverbio, accontendandosi saggiamente dell’avuto e del dato, senza stare a rifare calcoli.
6. Caro te costa!
Ad litteram:ti costerà caro; id est: il prezzo o lo scotto che dovrai sborsare, per ciò che vuoi o per quel che stai facendo, sarà molto rilevante; è meglio che ti assuefai all’idea di dovere incorrere in simili gravose spese. La locuzione, per traslato è usata a mo’ di avvertimento o minaccia per chiunque si imbarchi in un’impresa a cuor leggero Da notare che la locuzione in epigrafe che usa l’indicativo presente, è stata tradotta con il futuro, perché nella lingua napoletana che pure possiede il tempo futuro, esso non viene usato e l’idea della cosa di là da venire è resa spesso con l’indicativo o con costruzioni verbali particolari del tipo: devo fare, in luogo di farò.
7. Casale sacchiato specie nell’espressione fà ‘nu casale sacchiato
Ad litteram: casale saccheggiato specie nell’espressione fare un casale saccheggiato; letteralmente l’espressione si riferirebbe ad un villaggio messo a ferro e fuoco, ma con la locuzione in epigrafe si suole indicare qualsiasi ambiente in cui contrariamente a quanto ci si attenda, regni il massimo disordine e la confusione piú grande e dalle mamme napoletane la locuzione viene usata nei confronti dei propri figli accusati normalmente di fare delle stanze loro assegnate luoghi cosí disordinati e pieni di confusione al punto di apparire come villaggi appena saccheggiati.
8. Chesta è ‘a zita e se chiamma Sabbella
Ad litteram: Questa è la ragazza e si chiama Isabella. Id est: Questi sono e cosí vanno i fatti; non puoi pretenderli di mutare o aggiustarli a tuo piacimento; ti devi accontentare ed accettare il mondo per quel che è; qualsiasi cosa tu faccia non potresti nè mutarlo, nè migliorarlo. La locuzione riporta la risposta risentita data da una vecchia mezzana ad un giovanotto che faceva le viste di non gradire appieno la ragazza che la mezzana gli stava proponendo in isposa.
Per traslato la locuzione è usata in ogni affare da colui che si vede costretto a contrattare con un eterno scontento che voglia condurre in altro modo le trattative che invece non sono suscettbili di mutamento.
9. Che ce azzecca?!
Ad litteram: che ci lega? Locuzione che spesso in maniera risentita viene usata in una discussione da chi voglia far capire al proprio interlocutore che le ragioni addotte, i discorsi tenuti ed i ragionamenti fatti non ànno niente a che vedere con l’assunto da cui si è partiti e che pertanto vanno cambiati in quanto, per comune logica, non legano con quanto si è detto fino a quel momento ed il mantenerli peggiorerebbe solo la discussione.
10. Chijarsela a libbretto
Ad litteram: piegarsela a mo’ di libricino id est:accettare, sia pure obtorto collo, che le cose vadano in un certo modo ed uniformarvisi atteso che non ci sia altro da fare per migliorare la situazione. La locuzione in origine si riferisce al modo piú opportuno di consumare una pizza allorché non ci si possa accomodare ad un tavolo e servirsi di adeguate posate; in tal caso la pizza viene consumata addentandola stando all’impiedi o addirittura passeggiando e la maniera piú acconcia di tenere fra le mani la pietanza è quella di piegare la pizza in quattro parti fino a farle assumere quasi la foggia di un piccolo libro di quattro fogli, affinché, cosí piegata trattenga e non lasci cadere i condimenti di cui è coperta , che se cadessero imbratterebbero gli abiti di colui che mangia la suddetta pizza da asporto.
11. Chesto passa ‘o cunvento oppure ‘o guverno
Letteralmente: questo elargisce il convento oppure il governo id est: questo ci viene dato e di questo occorre contentarsi; bisogna far buon viso a cattivo gioco essendo inutile ribellarsi o adontarsi, tanto la situazione non potrebbe migliorare, né migliorerà!
12. Chi va pe chisti mare, chisti pisce piglia
ad litteram: chi va per questi mari, questo pesce pesca; id est: chi si imbarca in certe avventure, non può che conseguire questo tipo di scadenti risultati e se ne deve contentare, specie se si è imbarcato volontariamente e non spinto da necessità.
13. Chi m’à cecato!?
Ad litteram: chi mi à accecato!? Id est: chi mi à indotto a regolarmi nella maniera in cui mi sono regolato, accecandomi quasi al punto di non farmi rendere conto o del pericolo a cui andavo incontro o degli errori che mi accingevo a compiere. Va da sé che la locuzione non è una vera e propria domanda, quanto una sorta di pubblica confessione del proprio errore a causa del quale ci si trova in situazioni fastidiose; ci si chiede cioé da chi dipenda ciò che è capitato, ma lo si fa quasi surrettiziamente, ben sapendo di essere i soli responsabili degli accadimenti cui ci si riferisce.
14. Comme ‘avuote e comme ‘o ggire, sempe sissantanove è.
Ad litteram: come lo volti o come lo giri sempre sessantanove è Detto di cosa o avvenimento che non prestano il fianco ad interpretazioni non univoche essendo, per loro natura o apparire di semplice e diretta intellizione di talchè è inutile arzigogolare intorno alla loro essenza o sostanza.
La locuzione nasce dall’osservazione dei piccoli cilindretti di legno su cui sono incisi i novanta numeri del giuoco della tombola; orbene, detti numeri una volta estratti dal bussolotto che li contiene sono tutti facilmente riconoscibili ed individuabili o perché scritti in maniera tale da non ingenerare confusione (come ad es. il caso del numero 1 che sia che venga guardato e letto da ds. o da sn. , dal basso in alto o viceversa rimane sempre 1 e non può esser confuso con altro numero) o perché si è ricorsi allo strataggemma di segnalare con un piccolo tratto la base del numero che se letto in maniera capovolta potrebbe risultare un numero diverso ( ad es. il numero sei è vergato 6 con una congrua sottolineatura, che se mancasse potrebbe far leggere il sei - visto in maniera capovolta - come nove). Il numero 69 invece non à bisogno di sottolineatura, perché da qualsiasi parte lo si guardi permane 69, posto che il numero 96 nella tombola non esiste.
15. Comme cucozza ‘ntrona, pasca nun vene pe mmo.
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono, avvertí che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scoprí il ladruncolo.
16. Comme pagazio, accussí pittazio
Ad litteram: Come sarò pagato, cosí dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata da F.S. Grue famosissimo artista noto per i suoi vasi di maiolica,su di un’antica albarella detta di san Brunone.
17. Capurà è muorto ‘alifante!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance , torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli si vuol significare che non è piú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chi, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi che non era piú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era piú il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino boriosi e supponenti.
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