giovedì 3 dicembre 2009

LARDO & DINTORNI

LARDO & DINTORNI
Questa volta prenderò il via per queste mie paginette da un saporitissimo antico condimento in uso nella cucina partenopea ed in quella di molte altre regioni centro-meridionali; si tratta del lardo che fu conosciuto ed usato già presso antiche popolazioni italiche e cioè da romani, osci e sanniti che lo usarono sia come condimento(zuppe di farro ed altro), che come grasso per frittura di preparazioni poi dolcificate con il miele; il lardo è il gustosissimo prodotto della salagione, aromatizzazione e stagionatura dello strato di grasso che si trova appena sotto la cute del maiale. Questo taglio grasso del maiale si preleva dal collo/gola( e se ne ricava il cosiddetto guanciale (a Napoli: lardiciello)) ,oppure dal dorso e dai fianchi o dala pancia dell'animale (e se ne ricava il lardo generico tra i quali quello notissimo toscano lardo di Colonnata stagionato in vasche di marmo (conche) alternandolo a strati di sale marino grosso, aglio, pepe, rosmarino e salvia nelle conche dove il prodotto rimane per circa 6 mesi, ed il lardo di Arnad prodotto in Val d’Aosta e stagionato in vasche di legno dove viene insaporito con aromi quali ginepro, alloro, noce moscata, salvia e rosmarino). Il nome lardo si attribuisce propriamente al prodotto stagionato, mentre il taglio di carne grassa da cui il lardo si ricava , ordinariamente è chiamato grasso fresco: ma ciò avviene per quanto di pertinenza della lingua nazionale; per quanto riguarda il napoletano, mantenuto il generico nome di lardo per i prodotti ricavati dal dorso e dai fianchi dell'animale, si è assegnato il nome di lardiciello al prodotto ricavato dal collo/gola( prodotto conosciuto altrove con il nome di guanciale), prodotto che è formato da due congrui strati di grasso inframmezati da un contenuto strato di carne.Rammento che dai medesimi tagli di grasso fresco sia da quelli di gola che da quelli del dorso e di fianchi o piú spesso di pancia dell'animale si ricava oltre che il lardo anche la sugna per cui in napoletano il taglio di carne grassa da cui si ricava il lardo, genericamente è chiamato (quanto meno sulla bocca dei napoletani piú anziani) grasso ‘mpano o ‘mpanuto che valgono tautologicamente paffuto, gonfio, grassoccio e sono ambedue voci marcate sullo spagnolo empanada=ripieno
piú esattamente dal grasso ‘mpano o ‘mpanuto proveniente dai fianchi della bestia viene ricavato il vero e proprio lardo campano, mentre dal grasso ‘mpano o ‘mpanuto proveniente dalla pancia della bestia viene ricavata la cosiddetta ‘nzogna ‘mpana, talvolta addizionata del grasso di gola( lardiciello).Ò parlato di napoletani piú anziani giacché, con ogni probabilità, quelli piú giovani, fossero anche beccai, macellai, venditori al minuti di carne macellata…, non conoscono piú ( e peggio per loro!) né i termini d’antan, né taluni prodotti (ormai in disuso e non piú richiesti tra le giovani classi sociali moderne vessillifere di una malintesa evoluzione che è invece proprio l’esatto contrario…), non conoscono piú né termini antichi, né taluni gustosissimi prodotti come lardo e ‘nzogna.
Al proposito rammento che la parola napoletana ‘nzogna rende l’italiano sugna o strutto ed è voce che va scritta ‘nzogna con un congruo apice (‘) d’aferesi (e qui di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno d’aferesi, come purtroppo càpita di trovare scritto nei soliti inesperti, millantatori che bazzicano(e non si sa con quale diritto!) l’idioma partenopeo, parecchi dei quali accreditati, per mero errore o piaggería, d’essere esperti e cultori del napoletano, laddove sono invece dei modesti praticoni quasi del tutto all’oscuro della morfologia e sintassi della parlata napoletana!
Ciò precisato passiamo all’etimologia e sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, (ed ovviamente non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns→nz, da un latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cruda cotenna di porco ancòra ricca di grasso.
Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana ‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dal mio amico il prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nso(i)nia→’nzogna.
Ciò annotato, ritorniamo al lardo dicendo che la voce lardo (mi ripeto!) è dal lat. lardu(m)/laridu(m)) ed indica il gustosissimo strato di grasso sottocutaneo del maiale,strato ricavato dai fianchi della bestia, strato che si conserva salato o affumicato per uso di cucina.
La parola lardo entra in alcune interessanti espressioni della parlata napoletana,usata sia in senso reale che in senso figurato. Ne illustro qui di sèguito qualcuna:
1- Fà lardo ed 1 bis Natà dint’ ô llardo
Letteralmente Fare lardo e nuotare nel lardo ; id est: godersela e vivere nell'abbondanza.
Le due espresioni si spiegano semanticamente in questo modo: 1)Fare lardo = godersela: Occorre pensare che, nell’antica civiltà contadina campana l’allevamento d’un maiale rappresentava un’ autentica risorsa soprattutto per i contadini meno facoltosi, quelli titolari cioè d’un piccolo fazzoletto di terra i quali al momento dell’uccisione dell’animale, (per ricavarne carne fresca da consumare o da salare e conservare sotto forma di insaccati e grasso (lardo e sugna)), al momento dell’uccisione dell’animale davano una grande festa cui partecipavano parenti ed amici stretti, festa che rappresentava un autentico godimento non solo per le cibarie e le bevande distribuite ai convenuti,o per la musica e le danze che tenevano dietro il banchetto, ma soprattutto tenendo presente ciò che si sarebbe potuto ricavare dalla vendita delle parti piú pregiate della bestia (prosciutti, soppressate,salami )vendita il cui ricavato si tramutava in acquisto di generi di necessità come abiti,calzature od altro; al contrario le parti meno pregiate della bestia ( interiora, spalle, ventresca, capocollo, salsicce fresche, cotiche, sugna e lardo) venivano in parte consumate durante la festa (zuppa di soffritto, ricavato dal cosiddetto càpeto :complesso delle interiora comprendenti trachea, polmoni,cuore, fegato etc.), in parte lavorate e conservate, appese a pertiche sistemate sotto la travatura delle cucine al caldo dei camini, per il consumo familiare dell’intero anno. Va da sé che allorché si potessero allevare e poi macellare piú di un maiale, il ricavato in carni e/o o danaro sarebbe stato ben maggiore e pertanto maggiore sarebbe risultato il godimento relativo e ben si potesse dire che 1 bis) vivesse nell'abbondanza chi avesse tanto lardo da poterci figuratamente addirittura nuotare!
2 - Fà ‘na lardïata oppure 2 bis - Fà ‘na palïata
A senso nell’uno e l’altro caso:Conferire a qualcuno un gran numero di gravi, dolorose batoste; id est: percuoterlo violentemente ed a lungo. Il termine che connota il primo caso, originariamente si riferiva al fatto che le percosse fossero inferte con un palo donde il nome (palïata) riferito in epigrafe; in prosieguo di tempo è venuta meno la particolarità del palo, ma è rimasta l’idea della gran quantità di percosse che la palïata comporta.
Rammento che morfologicamente dal sostantivo palo ci si sarebbe atteso come corretta derivazione la voce palata e non palïata, ma poi che il napoletano aveva già la voce palata con tutt’altro significato (filone di pane di ca un kg. che occupa per intero la pala con cui è infornato (donde il nome)) ecco che per indicare la bastonatura inferta con un palo si ricorse al termine palïata che necessitò dell’anaptissi di comodo di una ï nella voce palata. La locuzione non piú molto usata, un tempo, invece, era sulla bocca di tutte le mamme che con essa espressione minacciavano i loro vivaci figlioletti insensibili a piú dolci rimbrotti, affinché si calmassero e recedessero dal loro irrequieto atteggiamento; ben piú dura e dolorosa la portata dell’ espressione: fà ‘na lardïata; oggi è ancora intesa come somministrazione di un gran numero di percosse, ma in origine riprendeva una barbarica, antica (epoca viceregnale1503 -1688 e ss.) abitudine per la quale era concesso alla peggiore plebaglia che facesse ala al cammino di un condannato a morte verso il patibolo, di espandere ad libitum le sofferenze dell’infelice con sputi, percosse, dilianamento delle carni con tenaglie infuocate e soprattutto scottature operate con l’uso di pezzi di lardo ( da cui lardïata) bollente che venivano soffregati sul corpo del condannato; da questa selvaggia usanza, per estensione il termine lardïata passò a significare: solenne bastonatura. Per la precisione, antecedentemente al 1651 tale barbaro modo di espandere il supplizio del condannato a morte era perpretato dallo stesso boia adibito all’esecuzione; il boia (prezzolato sottomano allo scopo dalla plebe accorsa ad assistere all’esecuzione) provvedeva in prima persona o per il tramite del suo aiutante ad aumentare le sofferenze del condannato a morte e tale abitudine perdurò fino al 1651 anno in cui fu afforcato il boia Antonio Sabatino che nel 1650, dietro consueto pagamento, aveva espanso (per il divertimento della plebaglia) le sofferenze di due condannati: il gentiluomo Antonio Taglialatela (decapitazione) ed il popolano Nunzio Di Fazio (impiccagione). Arrestato (per ordine dei giudici della Gran Corte della Vicaria) in flagranza di reato, il Sabatino fu rinchiuso nelle carceri della Vicaria, poi venne processato e condannato ad essere afforcato per mano d’un boia proveniente dalla campagna e che poi l’avrebbe sostituito nella mansione di boia del tribunale maggiore.
Dopo questo episodio i boia, temendo di fare la medesima fine del Sabatino, si rifiutarono di prendere dagli spettatori (plebe) un pagamento sottomano per provvedere in prima persona o per il tramite di un aiutante ad aumentare le sofferenze del condannato a morte e tale abitudine diventò perciò di pertinenza della medesima plebaglia,che provvide in proprio come ò accennato.
palïata s.vo f.le = grave percossa, bastonatura inferta con un palo etimo: deverbale di palïà che è da palo (dal lat. palu(m)) =percuotere con un palo;
lardïata s.vo f.le = di per sé salsa rustica a base di lardo di gola (lardiciello o guanciale), ma qui estensivamente vale solenne bastonatura con riferimento a tutte le sofferenze inflitte al destinatario nella maniera e con i mezzi ricordati precedentemente; quanto all’etimo è voce deverbale di lardïà (sminuzzare il lardo e per traslato percuotere; lardià è da lardo che è dal lat. laridu(m)/lardu(m): lo strato di grasso sottocutaneo del maiale, che si conserva salato o affumicato per uso di cucina.
Vicaria notissimo antico quartiere popolare napoletano, un tempo noto con il nome di ‘a via d’’e chianche per la presenza di numerose macellerie (in napoletano chianche dal lat. planca(m)= panca ché in origine nelle macellerie la carne veniva esposta e sezionata su di una panca di legno) notissimo antico quartiere situato a ridosso del centro antico;si espandeva in origine tra la zona di Forcella (Vicaria vecchia) e la zona posta al di qua ed al di là della porta capuana nel quale sorge il famoso Castelcapuano che è il piú antico castello di Napoli. Di origine normanna, è situato allo sbocco dell'attuale via dei Tribunali ed è sede della sezione civile del tribunale di Napoli. Deve il suo nome al fatto di essere ubicato a ridosso di Porta Capuana, che si apre sulla strada che conduceva all'antica Capua.Tra il 1537 ed il 1540, Don Pedro de Toledo, marchese di Villafranca del Bierzo (1532 – 1553 ) vicerè di Napoli, trasferí il Tribunale della Vicaria, ed altri uffici giudiziari in Castelcapuano.
Fino al 1535, infatti, la giustizia civile e penale del vicereame napoletano veniva amministrata in diversi luoghi:
la Gran Corte della Vicaria si trovava in un edificio della Vicaria vecchia a Forcella;
il Sacro Consiglio nel chiostro di Santa Chiara;
la Real Camera della Sommaria nella casa del marchese del Vasto;
il Tribunale della Bagliva era sulle scale della chiesa di San Paolo (in pieno centro storico) ;
e il Tribunale della Zecca nel palazzo di fronte alla chiesa di Sant’Agostino.
L’esigenza avvertita dal Viceré spagnolo,su istanza di avvocati e sudditi, era quella di accentrare in un unico luogo tutte le attività legate all’amministrazione della giustizia. Parte di Castelcapuano divenne carcere giudiziario per i nobili e per il popolo. Esso occupava tre livelli: il piano ammezzato era riservato ai nobili carcerati, il piano terra era destinato ai criminali comuni, i sotterranei ospitavano gli elementi peggiori; altre carceri per criminali comuni erano ubicate nella vicinissima piazza San Francesco nell’edificio che un tempo era stato il convento dei monaci di sant’Anna ed in seguito e fino a poco tempo fa ospitò gli uffici della Pretura di Napoli.

Il carcere vero e proprio venne chiuso nel 1886, ma fino al novembre 1995, quando le sezioni penali lasciarono Castelcapuano, parte di esse restarono per i detenuti che dovevano assistere ai processi. Ancóra oggi alcune gabbie fatiscenti fanno bella mostra di sé in alcuni angusti corridoi del piano terra e del piano interrato.
Oggi il nuovo quartiere Vicaria (piú noto con il nome di Vasto forse perché nella zona il marchese di Vasto, v’ebbe alcune proprietà, ma piú probabilmente perché Vasto è corruzione di Guasto per i guasti (incendi, saccheggi)operati nella zona a ridosso della porta Capuana degli eserciti invasori) è nato dopo il Risanamento della città di Napoli,iniziato nel 1885 quando debellata l'epidemia di colera che nel 1884 aveva colpito la città , si iniziò ad operare lo sventramento di interi quartieri popolari e la creazione -tra l'altro- del Corso Umberto I° e della Galleria Umberto I° con l'attuazione delle leggi che prevedevano un'espansione verso la zona orientale: le abitazioni prevalentemente di carattere popolare furono realizzate dalla Società pel Risanamento, dalle cooperative dei ferrovieri, e da istituzioni private come La Banca d’Italia. Successivamente agli eventi bellici che colpirono fortemete la zona, una parte di esso venne ricostruito ed è stato anche vittima della speculazione edilizia (difatti molte abitazioni sono in calcestruzzo armato).
3 - M' hê dato 'o llardo dint'â fijura
Letteralmente: Mi ài dato il lardo nel santino. L'espressione si usa nei confronti di chi usi eccessiva parsimonia nel conferire qualcosa a qualcuno o tenti addirittura di tacitare qualcuno conferendogli parva res in luogo dell’atteso congruo dovuto e prende l'avvio dall'uso che avevano i monaci del TAU o monaci di Sant'Antonio Abate a Napoli che gestivano in piazza Carlo III, annesso al loro convento prospiciente l’omonima chiesa dedicata al santo cenobita, gestivano un ospedale per cure dermatologiche ed usavano il lardo dei maiali con il quale producevano unguenti curativi; rammento che il s. Antonio di cui si parla ed il cui nome è dal greco antos= fiore eremita détto poi Sant'Antonio Abate echiamato anche Sant'Antonio il Grande, Sant'Antonio d'Egitto, Sant'Antonio del Fuoco, Sant'Antonio del Deserto o Sant'Antonio l'Anacoreta (251?-356), fu eremita egiziano, considerato l'iniziatore del Monachesimo cristiano e il primo degli Abati in quanto a lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che sotto la guida di un padre spirituale abbà, si consacrano al servizio di Dio. La sua vita ci è stata tramandata dal suo amico e discepolo Sant'Atanasio (a Napoli: sant’Attanasio). È ricordato nel Calendario dei santi il 17 gennaio, ma la Chiesa Copta lo festeggia il 31 gennaio che corrisponde nel loro calendario al 22 del mese di Tobi. Questo santo è noto e ricordato a Napoli con il nome di Sant’Antuono e gli è dedicata una chiesa parrochiale nelle immediate diacenze di piazza Carlo III .Si vuole che la chiesa, posta all'origine del borgo omonimo, sia stata fondata per volere della regina Giovanna I d'Angiò (Napoli, ca. 1327 –† Muro Lucano, 12 maggio 1382); tuttavia esiste un diploma del re Roberto d'Angiò (detto il Saggio (1277 – † 16 gennaio 1343), figlio di Carlo II d'Angiò, fu re di Napoli (con il nome di Roberto I di Napoli dal 1309 al 1343), re titolare di Gerusalemme, duca di Calabria (1296 - 1309) e Conte di Provenza e Forcalquier (1309 - 1343).diploma che dimostra che, già nel marzo del 1313, esistevano chiesa ed ospedale e che in questo luogo venivano curati gli infermi del morbo detto “fuoco sacro” o anche Fuoco di Sant'Antonio, con un prodotto ricavato dal grasso di maiale.
Molto probabilmente il complesso originario risaliva alla fine del XIII secolo, ma fu ampliato e in alcune parti ricostruito nell’ambito di un vasto programma di edilizia religiosa e assistenziale voluto nel 1370 dalla regina Giovanna I, Programma che ebbe enorme valore ai fini dell’urbanizzazione del borgo e dell’omonima strada la quale, attraverso Porta Capuana, rappresentava la principale via d’accesso alla città.
Verso la fine del Trecento, quindi, il complesso era già costituito dalla chiesa, dall’ospedale e dal convento, ed era tenuto dai monaci ospedalieri antoniani(monaci del TAU) i quali preparavano una tintura/pomata che veniva usata per curare l’herpes zoster. Tra i napoletani si diffuse cosí l’abitudine di allevare liberamente anche per istada, maiali e maialini per donarli poi al monastero. L’ordine antoniano fu bandito agli inizi del Quattrocento dagli Aragonesi, che reputavano i monaci troppo legati ai loro protettori francesi. Malgrado ciò, l’usanza durò fino al 1665 quando, durante la funzione dla benedizione degli animali, un maiale sfuggito al controllo, si intrufolò, rischiando di farlo cadere, tra le gambe del vescovo che quell’anno officiava la cerimonia,il vescovo, infuriato, dichiarò illegale l’allevamento cittadino dei maiali.
Un primo rimaneggiamento dela chiesa è databile al 1370, il seguente fu quello del XVII secolo che, cancellò parte della struttura originaria.
Per volere del cardinale Antonino Sersale, la struttura religiosa subí un rimodernamento nel 1779;con il nome invece di sant’Antonio è noto e ricordato a Napoli il santo predicatore Sant'Antonio di Padova, al secolo Fernando Bulhão (Lisbona, 15 agosto 1195 -† Padova, 13 giugno 1231) che fu un frate francescano, santo e dottore della Chiesa cattolica , che gli tributa da secoli una fortissima devozione.
I monaci del TAU allorché poi dimettevano un infermo erano soliti consegnare al medesimo, per il prosieguo della cura, una piccolissima quantità di lardo benedetto, avvolto in un santino raffigurante Sant'Antonio abate. Pur se benedetto la quantità del lardo era veramente irrisoria e pertanto assai poco bastevole alla bisogna.
4 – È gghiuto ‘o vruoccolo dint’ ô llardo!
Letteralmente: È finito il broccolo nel lardo id est: la cosa si è risolta inaspettatamente nel migliore dei modi! Per comprendere esattamente la portata dell’espressione occorre rendersi conto di cosa sia il broccolo richiamato e di tutto ciò che gli fa da corollario; orbene dirò che con il termine broccolo voce che è forma allungata e quasi diminutiva di brocco (dal basso latino broccu-m che originariamente stette per dente sporgente e poi per rampollo, germoglio ) si indica in primis il tallo (corpo delle piante inferiori, non differenziato in radice, fusto e foglie) della rapa e di talune qualità di cavoli quando cominciano a fiorire, varietà di cavolo dall'infiorescenza carnosa, di colore verde, simile a quella del cavolfiore, ma piú tenera e meno compatta; estensivamente poi col termine broccolo e sempre rifacendosi al broccu-m latino, si indica il bietolone, il sempliciotto, lo sciocco dall’aria melensa derivantegli appunto dalla postura dei denti sporgenti; tutto ciò in lingua tosco-italiana.
Nell’idioma napoletano il broccolo diventa vruóccolo con la tipica alternanza di B/V e dittongazione della o tonica d’avvio(forse breve o intesa tale),ma con medesima strada etimologica dell’italiano;
con il termine vruóccolo, infatti o meglio con il suo plurale vruoccole si indicano ugualmente all’italiano i talli della rapa e di talune qualità di cavoli quando cominciano a fiorire; con il medesimo plurale vruoccole in napoletano si indicano anche però tutte le moine, le leziosaggini,le effusioni giocose che sogliono scambiarsi gli innamorati, soprattutto da fidanzati, ma talvolta anche da sposati ed al proposito debbo ricordare che un tempo, quando ancora Napoli non era diventata, come poi è ed è stato, capitale dei maccheroni e della pasta, il cibo quotidiano dei partenopei, plebei e non, – complice la rigogliosità degli orti, dove eran largamente coltivati i broccoli, orti che circondavano la città (al segno che un tempo chi dovesse recarsi, dalla città bassa, sulla collina del Vomero, dove erano moltissimi orti coltivati, usava dire: vaco ‘mmiez’ê vruoccole: vado fra i broccoli) – era costituito dalla verdura, ed a tal cagione i napoletani erano detti comunemente mangiafoglie, un tempo, dicevo, vi fu un bello spirito stanco evidentemente di mangiar broccoli, che della cennata verdura (accanto a scarole,turzelle, vurraccia=borraggine o borragine (la voce italiana è derivata dal lat. mediev. borragine(m), mentre il napoletano vurraccia, con tipica alternanza partenopea b/v è dritto per dritto dall’arabo abu rach=burraccia con tipico raddoppiamento interno espressivo della r e della c e deglutinazione della a iniziale intesa articolo: aburach= ‘a burraccia; di per sé abu rachc significa "padre del sudore" forse per la particolare attività di questo vegetale che è sudorifero); la borraggine o borragine è usata a Napoli nella preparazione di minestre quasi esclusivamente vegetali, di frittelle etc. ; quando poi si addizionano ai vegetali (cicoria, scarola, borraggine o borragine e verza) varî tipi di carni: bovine, avicole e suine si ottiene la famosa minestra maritata detta pure pignato grasso ed in terra iberica olla potrida) costituiva la magna pars ebbe ad esclamare: ‘e vruoccole so’ bbuone dint’ ô lietto, giocando sull’omografia ed omofonia del termine vruoccole, che ovviamente nella frase pronunciata stavano per moine, effusioni amorose e non certo per talli della rapa o del cavolo.
Chi è uso dedicarsi ai vruoccole ,intesi come moine etc. in napoletano è detto vrucculuso, ma piú spesso al femminile vrucculosa, atteso che le donne, piú che gli uomini tendono o almeno tendevano ad avere atteggiamenti sdolcinati comportanti le moine di cui sopra.
Termino quest’ampia digressione rammentando che, cosí come in italiano, il termine broccolo, anche in napoletano può indicare lo sciocco, il bietolone, il sempliciotto dall’aria melensa, ma in tale accezione, a Napoli, piú che il semplice termine vruoccolo, s’usa l’espressione ‘o père ‘e vruoccolo id est la intera pianta di broccolo, che per essere abbastanza alta e fronzuta ben si presta ad indicare chi sia grandemente sciocco, sempliciotto o melenso. Ciò détto ricordo la verdura détta broccolo viene da circa un secolo e mezzo cucinata o lessa (e poi condita con olio, sale e limone) o fritta sia da cruda che già lessata, con aglio ed olio, ma precedentemente cfr. Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino (2 settembre 1787 † 5 marzo 1859) e la sua Cucina casareccia) accanto alla frittura dei broccoli sia da crudi che già lessati,con aglio ed olio, s’usava, quando si volesse ottenere una pietanza piú gustosa, s’usava lessare brevemente i broccoli per poi ripassarli(il Cavalcanti parla di zoffriere) in padella con sugna o lardo.Si comprende perché il trovarsi ammannito una pietanza migliore di quella attesa possa esser preso a modello per significar che una cosa si sia risolta inaspettatamente nel migliore dei modi!
dint’ ô = dentro il/dentro al . Al proposito rammento che premesso che le parole e le frasi da esse formate servono a riprodurre il pensiero, sia che si parli, sia che si scriva, un napoletano, nel riprodurre per iscritto la parlata partenopea, non potrà pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un imperdonabile errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato nella casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â (dove la â è la scrittura contratta della preposizione articolata alla (a + ‘a→â) casa; che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa.
Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a...) o sotto (sott’a....) in mezzo (‘mmiez’ a...) e cosí via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche per la lingua italiana i piú moderni ed usati vocabolarî (TRECCANI) almeno per dentro non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla accanto alle piú classiche, per l’italiano, dentro il, dentro la.
Rammento che purtroppo molti, per non dire tutti (anche valenti ed accreditati ) poeti e/o scrittori partenopei sono,probabilmente per colpevole ignoranza, restii ad usare le preposizioni articolate scritte con la crasi: â = alla, ô= al/allo,ê = alle/ a gli e si rifugiano negli erronei dint’ ‘a, dint’ ‘o etc.
dinto (a) = dentro (ad) avverbio e prep. impropria dal basso lat. de intus; da notare che in napoletano,cosí come ò detto, quale prep. impropria, dinto debba sempre essere accompagnata dalla prep. semplice a o dalle sue articolate â = a + ‘a (alla ) ô= a + lo ( al/allo) ê= a + i/a + le (ai/alle) per modo che si abbia ad es. dint’ ô treno (dentro al treno ) di contro il corrispondente italiano dentro il treno. La medesima cosa càpita come ò già détto, per ‘ncoppa (sopra) ,sotto (sotto), ‘mmiezo (in mezzo) fora (fuori) ed ogni altro avverbio e/o preposizione impropria;
5 – Farse cògliere cu’o lardo ‘ncuollo.
Icastica antica espressione che dietro un letterale Farsi trovare con il lardo indosso è da leggersi: Farsi sorprendere in flagranza di reato, con le mani nel sacco. Si tratta d’un’espressione antica risalente al tempo (anni ’20 - ’30 e ss. del 1900 al tempo fiorente del contrabbando di merci e vettovaglie allorché vi fu chi allevava e poi macellava maiali non per uso proprio o limitatissimo piccolo commercio (quale quello sopraccennato dei contadini), ma per farne vasto commercio in barba alle norme, spesso anche a quelle igieniche, ed alle istituzioni (guardie annonarie); questi macellatori di contrabbando erano soliti rivendere, di porta in porta, i prodotti ricavati dalla macellazione dei suini, caricandosi la merce sulle spalle e distribuendola in giro, alleggerendosi in primis dei prodotti piú costosi (carne fresca, prosciutti, soppressate,salami) ed a seguire i prodotti meno costosi come spalle, ventresca, capocollo, salsicce fresche,ed infine quelli di costo contenuto (sugna e lardo) che assicurava loro un guadagno risicato rispetto alla vendita dei prodotti migliori; di talché chi si facesse sorprendere dalle guardie annonarie con della merce invenduta, il piú delle volte, avendo venduto dapprima la merce che assicurasse piú guadagno, si faceva pizzicare con indosso ancóra il lardo invenduto, cosa che equivaleva a confessare il reato d’essere dedito al contrabbando alimentare ed anche poco solerte in tale attività.
cògliere = normalmente vale: spiccare, staccare da una pianta o dal terreno, raccogliere, raggiungere nel punto giusto, colpire, indovinare, ma estensivamente e qui: prendere alla sprovvista, sorprendere,pizzicare.
Voce che è dal lat. colligere, comp. di cum 'con' e legere 'raccogliere';
‘ncuollo loc. avv.le 1 sulla persona, sulle spalle:che cosa puorte ‘ncuollo?( che cosa porti addosso?); tené ‘ncuollo(avere addosso), avere con sé, su di sé; indossare | tené ‘a jella ‘ncuollo(avere la sfortuna addosso), (fig.) essere sempre sfortunato | tirarse ‘ncuollo ‘nu guajo(tirarsi addosso un guaio), (fig.) procurarselo | farsela ‘ncuollo(farsela addosso), fare i bisogni corporali nei vestiti; (fig.) farsi prendere dalla paura, dal panico;
2 dentro la persona; nell'animo, nel corpo: tené ‘ncuollo ‘na paura terribbele(avere addosso una paura terribile), | tené ‘o diavulo ‘ncuollo(avere il diavolo addosso), (fig.) essere indemoniato o, nell'uso com., di pessimo umore | tené ll’argiento vivo ‘ncuollo(avere l'argento vivo addosso), (fig.) essere vivace, non stare mai fermo || In unione con a forma la loc. prep. ‘ncuollo a(addosso a)
1 assai vicino, molto accosto: ‘e ccase so’ una ‘ncuollo a n’ata(le case sono una addosso ad un'altra)
2 su, sopra: cadé ‘ncuollo a quaccheduno(piombare addosso a qualcuno) | mettere ll’uocchie ‘ncuollo a quaccheduno, a quacche ccosa(mettere gli occhi addosso a qualcuno, a qualcosa), (fig.) farne oggetto di desiderio malvagio per arrecargli danno | stà ‘ncuollo a uno(stare addosso ad uno), (fig.) sollecitarlo, controllarlo, opprimerlo
3 contro: menarse ‘ncuollo a quaccheduno(gettarsi addosso a qualcuno). Morfologicamente ‘ncuollo è formato dall’agglutinazione di un in→’n illativo e dal s,vo m.le cuollo = collo dal lat. collu(m).
Raffaele Bracale

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