sabato 19 dicembre 2009

VARIE 494

1 TU NUN CUSE, NUN FILE E NUN TIESSE: TANTA GLIUOMMERE 'A DO' T''E CCACCE?
Ad litteram: Tu non cuci, non fili, né tessi, tanti gomitili da dove li tiri fuori?
È questa l'ironica e chiaramente retorica domanda che si suole rivolgere a chi, notoriamente non occupato a fare oneste attività produttive, sia improvvisamente ed inspiegabilmente pervenuto ad accumulare ingenti quantità di danaro; lo gliummero della locuzione, normalmente significa come vedremo, gomitolo , ma per traslato, questa volta sta per peculio, ed in particolare una somma pari a ca. cento ducati d'argento somma che poteva esser messa insieme, senza lavorare , solo truffaldinamente.
cuse = cuci voce verbale (2° pers. sing. ind. presente) dell’infinito cósere = cucire; etimologicamente cósere è da un tardo latino * cósere per il classico consuere comp. di cum 'con' e suere 'cucire';
file = fili voce verbale (2° pers. sing. ind. presente) dell’infinito filà = filare; etimologicamente filà è da un tardo lat. filare, deriv. di filum 'filo';
tiesse= tessi voce verbale (2° pers. sing. ind. presente) dell’infinito tessí= tessire; tessí etimologicamente è dal latino texere; da notare la dittongazione popolare ie in luogo della semplice e nella 2° persona tiesse, laddove tutte le altre persone conservono la semplice e etimologica;
gliuommere/i plurale metafonetico di gliommero che di per sé è il gomitolo con etimo dall’acc. latino glomere(m) con probabile metaplasmo nel passaggio da un originario neutro glomus al maschile glomere(m); il significato originario di gomitolo si è poi esteso ed è traslato a quello di peculio, come di ricchezze accumulate; in chiave letteraria la voce gliommero fu usata, per intitolare alcuni suoi componimenti poetici, non aulici, ma popolareschi da Jacopo Sannazaro ( nacque a Napoli nel 1456 e, tranne una breve parentesi in cui seguì nell'esilio l'amico Federico III d'Aragona, lì visse fino alla morte, avvenuta nei 1530.
Discendente da una nobile famiglia oriunda della Lomellina, trascorse la fanciullezza e l’adolescenza a San Cipriano Piacentino, portando poi a lungo in sé la suggestione bucolica ed agreste di quell’ambiente. Entrato nell’Accademia pontaniana, dove assunse lo pseudonimo diActius Syncerus, si legò d’amicizia col Pontano (Cerreto di Spoleto [Perugia] 1429 † Napoli 1503), che a lui intitolò il dialogo Actius, sulla poesia.
Il Sannazaro fu colto umanista e poeta raffinato. Ci à lasciato numerose opere in lingua latina ed in volgare. Fra le prime ricorderò le "Bucoliche", di ispirazione virgiliana, le "Eclogae piscatoriae" (5 composizioni che descrivono il golfo di Napoli), le "Elegie" in tre libri, il poema sacro "De partu Virginis"; fra quelle in volgare ricordo, appunto, gli "Gliommeri" (= "gomitoli",componimenti poetici di origine popolare in napoletano e destinato alla recitazione in forma di monologo; costituito di endecasillabi a rima interna, intrecciava motti, frizzi e argomenti vari tra cui filastrocche di proverbi napoletani ed altri varî argomenti popolari), le "Farse" e le "Rime" (ad imitazione del Petrarca));
cacce = tiri fuori; voce verbale (2° pers. sing. ind. presente) dell’infinito caccià = cacciare il verbo napoletano rispetto all’omonimo italiano, quantunque abbia il medesimo etimo da un lat. volg. *captiare, deriv. del class. capere 'prendere'non è usato nel senso di dare la caccia a un animale selvatico per ucciderlo o catturarlo o nel senso di introdurre, ficcare; spinger dentro con violenza, ma esclusivamente nel senso di tirar fuori, , cavare, estrarre, emettere; ò trovato perseguibile ed ò adottata l’ipotesi propostami dall’amico Dario Cafazzo (che – sebbene originario dell’alta Irpinia, apprezza e frequenta stabilmente con attenzione e con una qualche competenza la parlata napoletana) che il verbo caccià nella sua accezione venatoria, si possa rendere con un utile caccïà nel quale la dieresi posta sulla i, modificando la lettura dell’originario caccià, può indurre ad intendere il verbo in altro significato: nel senso cioè non di trar fuori, ma in quello di dar la caccia.
NOTA
Va da sé che qualora fosse accettata palam l’ipotesi proposta di usare l’infinito caccïà, per indicare l’andare a caccia, lasciando il caccià solo per indicare il mettere fuori, occorrerebbe modificare l’intera coniugazione della nuova forma verbale che ad es. all’indicativo presente non potrebbe più coniugarsi
io caccio
tu cacce
isso caccia
nuje cacciàmmo
vuje cacciàte
lloro càcciano
ma dovrebbe diventare:
io caccejo
tu caccije
isso cacceja
nuje caccìjammo
vuje caccìjate
lloro caccejano
ricalcando ad un dipresso la coniugazione del verbo ‘mmezzïà ( che è il sobillare, lo spingere ad azioni malevole, l’istigare con etimo da un lat. volgare in +*vitiare che all’indicativo presente à:
io ‘mmezzejo
tu ‘mmezzije
isso ‘mmezzeja
etc.
Quanto ò espresso sia precedentemente che in questa nota à trovato riscontro in ciò che un vecchio cacciatore mi à riferito; e cioè che un tempo la battuta di caccia fu detta caccïata (che risulta essere il part. pass. femminile sostantivato del proposto infinito *caccïà, laddove il part. pass. femminile (sostantivato) di caccià è cacciàta e vale come aggettivo: messa fuori e come sostantivo: offerta, esposizione.
2 VESTIRSE ‘A FESSO
Ad litteram: vestirsi da fesso. Icastica espressione che si riferisce al comportamento di chi in talune occasioni fa lo gnorri, si defila, si chiama fuori, tenendo un atteggiamento irresoluto ed inetto per sviare da sé l’attenzione e non esser chiamato in causa in accadimenti che comporterebbero, in caso contrario, una sua fattiva e responsabile partecipazione, che – invece – egli vuole escludere e non vuole conferire trincerandosi dietro una falsa, pretestuosa incapacità di pensiero e/o azione, quasi indossando, a mo’ di mascheratura, un abito da fesso, abito che per solito non è suo.
Per es. si veste da fesso chi, mentendo, mostra, per non eseguirlo, di non intendere un comando; ancora: si veste da fesso, fingendosi tale chi vuole indagare e venire a conoscenza di qualcosa che – normalmente – non lo riguarderebbe e che non apprenderebbe comportandosi in maniera ovvia e normale.
3 ABBUFFÀ 'A GUALLERA

nella locuzione me staje abbuffanno 'a guallera.
Ad litteram: enfiare l'ernia nella locuzione mi stai gonfiando l'ernia id est: mi stai tediando, mi stai oltremodo infastidendo, procurandomi una figurata enfiagione dell'ernia; locuzione che si ritrova con gran risentimento sulla bocca di chi, già tediato di suo, veda aumentare a dismisura il proprio fastidio, per l'azione di un rompiscatole che insista nel suo disdicevole atteggiamento. Ricorderò che il termine guallera (ernia) è mutuato dall'arabo wadara di pari significato e con esso termine il napoletano indica la vera e propria affezione erniale dove che sia ubicata, ma anche per traslato, il sacco scrotale ed è a quest'ultimo che con ogni probabilità si riferisce la locuzione, prestandosi, data la sua sfericità, ad essere sia pure figuratamente gonfiato; la voce verbale abbuffanno= gonfiando, è il gerundio dell’infinito abbuffà che etimologicamente deriva da un latino ad +bufo→adbufo→abbufo→abbuffo= farsi gonfio come un rospo (lat. bufo/onis).
Segnalo ora, qui di sèguito altre icastiche locuzioni di medesima portata di quella in epigrafe, locuzioni che vengono usate a secondo il grado del tedio che si prova; la prima, mutuata dall'àmbito culinario, proclama: me staje facenno oppure m’ hê fatto ‘a guallera â pezzaiuola(mi stai facendo oppure mi hai fatto l'ernia alla pizzaiola)pezzaiuola ( e cioè alla maniera del pizzaiolo che in napoletano è pezzaiuolo con derivazione, attraverso i suffissi di pertinenza iuolo/iuola,della voce pizza che etimologicamente qualcuno vuole dal longob. bizzo 'morso, focaccia', ma che io, sulle orme di più moderni studiosi, penso sia piú esatto far derivare dal latino pinsere= schiacciare) quasi che l'ernia fosse possibile cucinarla con olio, pomodoro, aglio, sale, pepe ed origano a mo' di una fettina di carne o altre preparazioni culinarie come pesce e/o verdure ; altra locuzione usata è quella che mutuata dal linguaggio del lavoro d'ebanisteria, proclama: me staje scartavetranno 'a guallera ( mi stai levigando l'ernia con la carta vetrata)dove la voce verbale scartavetranno è il gerundio dell’infinito scartavetrà = carteggiare, denominale di carta vetrata con una consueta protesi di una s intensiva; infine esisite una locuzione che- mutuata dall'ambito sartoriale -nella sua espressività barocca, se non rococò, afferma: me staje facenno 'a guallera a plissé (mi stai facendo l'ernia pieghettata) quasi che fosse possibile trattare l'ernia come una gonna, pieghettandola longitudinalmente in modo minutissimo. plissé è voce fr.; propr. part. pass. di plisser 'pieghettare', deriv. di pli 'piega' ed è entrata tal quale nella lingua napoletana con il medesimo significato di pieghettatura.
4‘A SOTTO P’’E CHIANCARELLE!

Ad litteram: Di sotto a causa dei panconcelli ma a senso: Attenti alla caduta dei panconcelli!
Locuzione esclamativa (in origine grido di avvertimento) con la quale si suole commentare tutti gli avvenimenti risultati o gravosi o pericolosi nel loro evolvere nella valenza di Accidenti!, Perbacco!; essa, come già accennato , prende l’avvio dal grido di avvertimento che erano soliti lanciare gli operai addetti alla demolizione di vecchi fabbricati affinché chi si trovasse a passare ponesse attenzione all’eventuale caduta dall’alto dei dissestati panconcelli.
‘a sotto = da/di sotto locuzione avverbiale e/o prepositiva formata da ‘a= da dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; o dal lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc. e da sotto avv. e preposiz. impropria = sotto dal lat. subtus, avv. deriv. di sub 'sotto';
chiancarelle = panconcelli, travicelli strette doghe di stagionato castagno, doghe che poste trasversalmente sulle travi portanti sorreggevano (nelle costruzioni di una volta) l’impiantito dei solai. la voce è il plurale di chiancarella che etimologicamente è un derivato (diminutivo : vedi suff. rella) del basso latino planca(m)=tavola lignea; dalla medesima planca(m)=tavola lignea il napoletano trasse chianca = macelleria, rivendita di carni macellate in quanto originariamente l’ esposizione e la sezionatura per la vendita al minuto delle carni avveniva tenendole appoggiate su di un tavolo ligneo; tipico e normale il passaggio del gruppo latino pl al napoletano chi (vedi plus>chiú=piú, platea>chiazza=piazza, plumbeum>chiummo=piombo etc.).
5 'A CHIERECA 'O PATE 'A LASSA Ê FIGLIE.

Ad litteram: La tonsura il padre la lascia (in eredità ) ai figli.
Id est: la professione, l'arte o mestiere esercitate da un genitore, solitamente passano dal padre ai figli che beneficiano anche della acquisita clientela del genitore, di talché quella professione, quell’arte o mestiere costituisce una vera e propria eredità. Di per sé la voce chierica (piccola rasatura tonda che i membri di alcuni ordini religiosi portano o meglio, portavano fino a poco tempo fa come segno del proprio stato in cima al capo) usata nel proverbio in epigrafe è la tonsura, ma qui adombra in quanto segno evidente una qualsiasi arte e/o mestiere, in ispecie quelle esercitate in piazza (barbieri, falegnami e simili) in bottega o, estensivamente, quelle professioni per le quali si conduce uno studio (medici, avvocati etc.); va da sé che la voce chiereca adombra qualsiasi altra professione, arte o mestiere esercitata non solo in proprio, ma anche alle dipendenze, specialmente quando un genitore riesce con i suoi buoni uffici ad indirizzare il proprio figliuolo sulla propria strada lavorativa (quante mezze cartucce di giornalisti imperversano nei e sui media solo perché figli di penne e/o microfoni!) Etimologicamente la voce chiereca deriva dal lat. eccl. clerica(m) (tonsionem) '(tonsura) dei chierici';
pate =padre, genitore ma estensivamente anche antenato etimologicamente dritto per dritto dal nominat. lat. pate(r);
lassa =lascia, voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito lassà= lasciare, smettere di tenere, di sostenere, di stringere, dare in eredità, dal lat. laxare 'allargare, sciogliere', deriv. di laxus 'largo, allentato';
ê figlie = ai figli (maschi o maschi e femmine); figlie è il plurale del masch. figlio; anche il femminile plurale della voce figlia è figlie,ma in unione all’articolo ‘e (le) o alla preposizione articolata ê (a+ ‘e= a+le=alle) comporta la geminazione della f iniziale dando ê ffiglie,(cosa che non avviene per il maschile ‘e/ ê figlie) per cui nella normale e tradizionale esposizione del proverbio in epigrafe si considerano ‘e figlie (i figli maschi o la totalità dei figliuoli, maschi e femmine); si fosse trovato scritto e detto ‘e ffiglie si sarebbe trattato esclusivamente delle figlie ( cioè delle femmine ); etimologicamente la voce figlio è dal lat. filiu(m), dalla stessa radice di fìmina 'femmina' e fecundus 'fecondo'.
6 A CCHI PAZZEA CU 'O CIUCCIO, NUN LE MANCANO CAUCE
A chi gioca con un asino, non mancheranno i calci
Id est:chi pratica ambienti o esseri cattivi o malfidi, dovrà subirne le immancabili, dure conseguenze.
pazzea o pazzeja = gioca, scherza voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito pazzïà= giocare, scherzare o pure comportarsi irrazionalmente; etimologicamente il verbo napoletano, pervenuto peraltro anche nell’italiano, risulta un denominale di pazzo/pazzia derivati più che dal latino patior= soffro, dal greco patheìa (da pronunciarsi pathîa= sofferenza di corpo o animo;
ciuccio = asino, ciuco e per traslato persona ignorante; etimologicamente la voce a margine parrebbe essere di origine espressiva, ma la cosa non mi convince e propendo più per l’ipotesi che vede in ciuccio un adattamento di tipo popolare di un originario giucco da un lat. ex-sucus= senza sugo, sciocco, sempre che ciuccio non derivi dal latino cicur= mansuefatto domestico o da cillus modellato sul greco kìllos; non manca infine chi vi vede una radice araba schiacarà=ragliare radice che molto più chiaramente à dato il siculo sciecco;
cauce = calci plurale di caucio= calcio; la voce partenopea risulta deriv. da una forma aggettivale lat. calcius ce è da ca°lx ca°lcis 'calcagno, calcio' con il consueto (lo abbiamo già visto altrove: caldaia→caurara, gelsa→ceuza, altus→auto etc.) al + consonante che dà au.





Raffaele Bracale

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