venerdì 5 febbraio 2010

IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA. Parte 6°

IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA. Parte 6°

27 – Paré n’anema pezzentella
Ad litteram: Sembrare un’ anima poverella, un’ anima in pena; détto, per icastico traslato, di chi smunto, macilento, sciupato, patito, appaia sofferente e bisognoso di un aiuto materiale o morale; in realtà, come chiarisco qui di sèguito con il termine di anima pezzentella di per sé non ci si intenderebbe – se non per traslato - a persona viva e vegeta, ma ci si riferisce a quelle anime di defunti ipotizzati nel purgatorio. Pezzentella agg.vo f.le del m.le pezzentiello piccolo/a mendicante; sia pezzentiello che pezzentella (che non va confuso con analogo, omofono ed omografo s.vo f.le che indica tutt’altro) sono agg.vi diminutivi (cfr. i suffissi iello ed ella derivati dal s.vo pezzente : mendicante, straccione; persona che vive in condizioni di estrema miseria: andare vestito come un pezzente; sembrare un pezzente | persona meschina, eccessivamente attaccata al denaro: fare il pezzente. Si tratta di unavoce di orig. merid., pervenura anche nell’italiano, ed etimologicamente è propriamente il part. pres. del napol. pezzire 'chiedere l'elemosina', che è dal lat. volg. *petire, per il class. pètere 'chiedere'; in effetti con la voce a margine in napoletano non si indica propriamente la piccola mendicante che chieda obolo di monete, ma si indica in unione al s.vo anema ( che è dal lat. anima(m)): anema pezzentella quell’anima che si trova in purgatorio che secondo la dottrina cattolica tradizionale è lo stato temporaneo di espiazione cui sono assogettate le anime di coloro che, pur morendo in stato di grazia, debbono espiare i peccati veniali e le pene conseguenti ai peccati mortali, di per sé già perdonati; si indica cioè quell’anima che trovandosi in uno dei regni dell'oltretomba cristiano, dove si espiano le colpe commesse sulla terra prima di poter passare in paradiso, e desiderando abbreviare – per quanto possibile – il loro transitorio, ma doloroso stato, chiedono, pietiscono dai vivi delle preci suffragatorie; ll’ anema pezzentella: l’anima poverella è comunque un’anima che soffre, che patisce e chiede refrigerio e ad essa è apparentato chi smunto, macilento, sciupato, patito,o sofferente per una qualsiasi ragione, appaia patire ed essere bisognoso di un aiuto materiale o morale che lenisca le sue pene. Ripeto ad abundantiam, in chiusura di questa espressione che la voce pezzentella è un denominale di pezzente (povero) ed è voce merid., propriamente part. pres. del napoletano pezzire/pezzí =chiedere l'elemosina', che è dal lat. volg. *petire, per il class. pete°re 'chiedere'; in coda a questo pezzire/pezzí rammento altresí che in napoletano se ne usa anche il participio passato pezzuto/a in unione quasi esclusiva con il sostantivo messa (‘a messa pezzuta che è quella messa fatta celebrare in suffragio delle anime dei defunti, elemosinando l’offerta necessaria alla sua celebrazione.
28 – Paré ‘na pupata ‘e ficusecche
Ad litteram:sembrare una pupattola di fichi secchi Antica locuzione, ora quasi desueta che si soleva un tempo riferire soprattutto alle attempate signore o piú spesso vecchie inguaribili nubili che andavano in giro con il volto cosparso di molta cipria o di più economica farina, nel vano tentativo di nascondere i danni del tempo; tali signorine erano paragonate alle pupattole che i venditori di frutta secca inalberavano sulle loro mostre durante le festività natalizie: le pupattole erano fatte con un congruo numero di fichi secchi imbiancati di glassa zuccherina ed infilzati su sottili stecchi di vimini. Rammento che l’abitudine di cospargersi il volto di molta cipria o farina era anche di taluni uomini attempati, ma soprattutto di taluni attori che a malgrado fossero avanti con gli anni, si ostinavano a sostenere in teatro parti da attor giovane ed erano perciò costretti a ricorrere, per lenire i danni del tempo, al pesante trucco di cipria o farina; a ciò si riferisce l’espressione (che mi piace ricordare qui in coda: fà 'o farenella.
Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli (Andria, 24 gennaio 1705 – † Bologna, 16 settembre 1782), considerato il piú famoso cantante lirico castrato della storia. detto Farinelli, ma prende le mosse dall'ambito teatrale dove, come ò détto e ripeto, le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo non era piú tanto giovane e allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre piú che alla costosa cipria, alla economica farina.
pupata s.vo f.le = bambola, pupattola, pupazza e per traslato ragazza, giovane donna dalla bellezza alquanto leziosa o inespressiva. Voce dal lat. pupa(m).
ficusecche s.vo f.le = fichi secchi; in napoletano plurale della voce femminile: ficusecca con derivazione, con passaggio al femminile dal masch. lat. ficum(che corrisponde al greco sýcon con cambio s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile.
A margine della voce fica da cui poi ficusecca rammento che il passaggio al femminile dal maschile fico è determinato dal fatto che nel napoletano con la voce fica si intende un frutto piú grosso del fico atteso che in napoletano s’usa femminilizzare un termine maschile quando si voglia indicare una cosa intesa piú grande della corrispondente maschile (cfr. cucchiara= mestola del muratore piú grande di cucchiaro= cucchiaio da minestra, tina piú grande di tino,tavula piú grande di tavulo, tammorra piú grande di tammurro, carretta piú grande di carretto etc.Fanno eccezione tiana piú piccola di tiano e caccavella piú piccola del caccavo). Rammento infine che con la voce ficusecca usata in senso furbesco, in napoletano si identifica la vulva avvizzita d’una donna anziana e non piú appetita; al proposito preciso che anche in greco con la voce sýcon si indica sia il frutto del fico che furbescamente la vulva.
29 – Paré ‘na úfara
Letteralmente: Sembrare una bufala; détto di chi in preda ad un rabbioso, virulento accesso di nervi si lasci andare a manifestazioni tese, ansiose, irrequiete; isteriche quando non impetuose, travolgenti, furiose, rovinose, violenti tali da poter esser messo a paragone al temibile comportamento di una bufala iraconda, rabbiosa, stizzosa, e si parla di bufola e non di bufalo perché è risaputo che nel mondo animale, ma forse pure in quello umano le manifestazioni piú violente, aggressive, isteriche,irruente,veementi,combattive, battagliere, bellicose son delle femmine e non dei maschi!
úfara s.vo f.le = bufala 1 femmina del bufalo;
2 (fig. scherz.) errore madornale; panzana, corbelleria;
3 notizia giornalistica totalmente infondata; voce dal lat. tardo *bufala(m)←bufalu(m), per il class. bubalu(m), dal gr. bóubalos 'antilope'
30 – Paré ‘nu capone sturduto
Ad litteram:sembrare un cappone stordito
Détto di chi si dimostri per le piú varie ragioni scombussolato, stonato, frastornato incerto e confuso al segno di essere incapace di attenderecompiutamente al suo dovuto, alla medesima stregua di un pollo che ridotto a cappone veda segnati i suoi inutili giorni dallo stordimento e viva solo per ingrassare. Rammento che un tempo le mamme che vedevano a tarda sera i propri figli stanchi e ciondolanti, incapaci di attendere allo studio, ma pure di portare a termine acconciamente il pasto serale, usavano bollare i ragazzi con la locuzione in epigrafe.
capone s.vo m.le = cappone, pollo maschio ma castrato, perciò piú grosso del gallo e con gustose carni piú tenere;
la voce napoletana deriva dritto per dritto dal lat. class. capone(m), in relazione con il gr. kóptein 'tagliare' piuttosto che dal lat. volg. *cappone(m) che à dato la voce italiana cappone.
sturduto =stordito, stonato, rintronato, scombussolato agg.vo m.le anzi p.p. agg.vato dell’infinito sturdí= stordire, stonare, rintronare, scombussolare; con derivazione da un basso lat. *exturdire da collegarsi a turdus= tordo e poi sciocco, confuso.
31 – Paré n’auciello ‘e malaurio
Ad litteram:sembrare un uccello del malaugurio
Détto di chi pessimista di natura profetizzianche velatamente o sommessamente per sé e/o per gli altri,guai e disgrazie continuate; costui a cui spesso il malaugurio si legge in volto viene assomigliato a quegli uccelli notturni quali gufi e civette, barbagianni e consimili ritenuti apportatori di disgrazie; rammento che già anticamente quando i presagi venivano tratti dagli àuguri dal volo degli uccelli, un inatteso passaggio di volatili notturni era ritenuto di cattivo auspicio.
auciello s.vo m.le = uccello, volatile voce dal lat. tardo aucĕllu(m)→auciello, accanto ad aucella(m), da *avicellus (*avicella), dim. del class. avis 'uccello'
malaurio s.vo m.le = cattivo presagio, spiacevole auspicio; voce formata dalla agglutinazione dimalo(cattivo,spiacevole,triste dal lat. malu(m)) + aurio (augurio, auspicio, presagio, pronostico, vaticinio dal lat. au(gu)riu(m)→aurio 'presagio'.
32 -Paré 'na luna 'nquintadecima.
Ad litteram:sembrare una luna nel quindicesimo giorno.
Cosí in tono scherzoso,simpatico ma non offensivo ci si suole rivolgere alle donne incinte di parecchi mesi che inalberino un pancione grosso e sferico paragonato, nella divertente locuzione alla luna che solo nel quindecesimo giorno dal novilunio è completamente piena; per traslato il paragone è usato a mo' di sfottò anche nei confronti di uomini vistosamente grassi e panciuti.
A margine rammento che al proposito della forma del pancione delle donne incinte prossime a condurre al termine la gestazione, un tempo vi fu un simpatico modo di dire che sostanziava un curioso, ma quasi sempre veridico metodo di conoscenza del sesso del nascituro, senza la necessità di ricorrere ad esami medici ed ecografie: panza tonna (cioè sferica) appronta ‘a scionna,panza a pponta,spunto e bbasso appronta (pancia sferica, prepara la fionda (gioco/arnese destinato ad un maschio) pancia a punta prepara fuso e gonna (destinate alle donne).
‘nquintadecima (jurnata) = nel quindicesimo giorno;
tonna agg.vo f.le metafonetico del m.le tunno lett. rotonda; che presenta una forma piena, rotondeggiante; ma qui piú esattamente, sferica; tunno/tonna derivano dal lat. lat. (ro)tundu(m)/*(ro)tunda, (deriv. di rota 'ruota') con normale assimilazione progressiva nd→nn: (ro)tundu(m)/*(ro)tunda→tunno/tonna.
scionna s.vo f.le = fionda, 1 arma da getto costituita da due strisce di corda o di cuoio collegate da una tasca entro cui si colloca il proiettile; si usa facendola roteare al di sopra della testa e lasciando poi una delle due strisce
2 arnese/giocattolo per lanciare sassi, formato da una forcella con un elastico assicurato alle due estremità.voce dal lat. flunda(m) con tipico passaggio del gruppo lat. fl + vocale al napoletano sci (cfr. flumen→sciummo – flos→sciore – flamma(m)→sciamma) ed assimilazione progressiva nd→nn.
spunto = fuso, spuntone s.vo m.le da non confondere con l’omografo ed omofono spunto agg.vo m.le di tutt’altro etimo (da ponta con protesi di una esse intensiva) e significato (acre, pungente,inacidito); invece questo s.vo a margine derivato dal lat. expunctu(m), part. pass. di expungere, vale fuso, arnese di legno, panciuto al centro ed assottigliato alle estremità,ma privo di vere punte, arnese che nella filatura a mano serve per torcere il filo e per avvolgerlo sulla spola; spuntone;
bbasso/basso s.vo m.le lunga ed ampia gonna; in napoletano il termine basso,(termine peraltro ampiamente desueto e che si può solo trovare in poeti e scrittori dal ‘600 al tardissimo ‘800 e fino ai principi del ‘900 cfr. Ernesto Murolo (Napoli, 4 aprile 1876 – † Napoli, 30 ottobre 1939)) fu usato per indicare un indumento femminile: un’ampia e lunga gonna, quella che partendo dalla vita non si limitava a coprir le ginocchia (cfr. l’etimo di gonna che piú che dal lat. tardo gunna(m) 'veste di pelliccia', di orig. gallica, pare sia da collegare al basso greco gouna= ginocchia (=veste che scende e copre le ginocchia ed a tal proposito mi pare di poter dire che non à senso chiamare gonna sia pure mini taluni risicatissimi pezzi di stoffa che coprono non le ginocchia, ma neppure le cosce!) dicevo non si limita a coprir le ginocchia, ma prosegue fino alle caviglie; tale lunga ed ampia gonna fu détta basso perché pare si indossasse non sollevandola, passandola sulla testa e facendola scivolare fino alla vita, ma inforcandola dal basso id est: dal di sotto ed ugualmente veniva tolta sfilandola dal basso : dal di sotto.
Questa è l’opinione mia che mi son dovuto formar senza aiuti ( ma che à ricevuto l’approvazione dell’amico prof. C.Iandolo) atteso che non ò trovato indicazioni precise circa la voce basso=gonna in nessuno dei numerosi calepini (anche etimologici) del napoletano, in mio possesso e che ò potuto consultare.
appronta voce verbale qui imperativo 2° pers. sg. altrove anche 3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito apprunt-are/à = preparare, tener pronto allestire, verbo che è un denominale del lat. ad+promptu(m) part. pass. di promere 'trarre fuori' con assimilazione regressiva dp→pp.
33 - Paré 'nu píreto annasprato(o, ma raramente, con riferimento ad una donna: paré 'na pereta annasprata).

Letteralmente: sembrare un peto inzuccherato. Lo
si dice salacemente quasi esclusivamente(è rarissima l’espressione coniugata al femminile) di tutti quegli uomini che arroganti, boriosi, superbi, presuntuosi e supponenti si diano troppe arie, atteggiandosi a superuomini, pur non essendo in possesso di nessuna dote fisica o morale atta all'uopo. Simili individui vengono ipso facto paragonati ad un peto che, ma non si sa come, risulti inzuccherato,o piú esattamente glassato di naspro, ma che - per quanto coperto di ghiaccia dolce - resta sempre un maleodorante, vacuo flatus ventris.
píreto s.vo m.le = peto, emissione rumorosa di gas dagli intestini. (dal lat. pēditu(m), deriv. di pedere 'fare peti' con alternanza osco mediterranea di d→r onde pēditu(m)→piritu(m)→píreto);
annasprato/a agg.vo m.le o f.le =coperto di naspro voce verbale part. pass. masch. sg. aggettivato dell’infinito *annasprà=coprire di naspro;
la voce naspro ed il conseguente denominale *annasprà (a quel che ò potuto indagare) sono espressioni in origine del linguaggio regionale della Lucania, poi trasferitosi in altre regioni meridionali (Campania, Calabria, Puglia) ed è difficile trovarne un esatto corrispettivo nella lingua nazionale; si può tentare di tradurre naspro con il termine glassa, ghiaccia atteso che nel linguaggio dei dolcieri meridionali la voce naspro indicò ed ancóra indica una spessa glassa zuccherina variamente aromatizzata e talora colorata, usata per ricoprire e migliorare dei biscotti in origine dall’impasto abbastanza semplice o povero; in sèguito si usò il naspro colorato per ricoprire delle torte dolci e quelle nuziali con un naspro rigorosamente bianco; a Napoli non vi fu festa nuziale che non si concludesse con un sacramentale gattò mariaggio coperto di spessa ghiaccia zuccherina bianca: la voce gattò mariaggio nel significato di torta del matrimonio fu dal francese gâteau (de) mariage.
Per ciò che riguarda l’etimo della voce naspro, non trattandosi di voce originaria partenopea, né della lingua nazionale (dove risulta sconosciuta), ma – come ò detto – del linguaggio lucano mi limito a riferire l’ipotesi della coppia Cortelazzo/Marcato che pensarono ad un greco àspros=bianco, ipotesi che quando ne venni a conoscenza poco mi convinse ed ancóra poco mi convince in quanto morfologicamente non chiarisce l’origine della n d’avvio che certamente non à origini eufoniche; penso di poter a proporre una mia ipotesi tuttavia non supportata da nessun riscontro; l’ipotesi che formulo (peraltro accolta con un sí convinto dall’amico glottologo prof. Carlo Iandolo) è che trattandosi di una preparazione molto dolce per naspro si potrebbe pensare ad un latino (no)n+ asperum→nasperum→naspro, piuttosto che ad un (n?)àspros.

34 - Paré 'nu píreto ‘ncantarato
(o con riferimento ad una donna: paré 'na pereta ‘ncantarata).
Letteralmente: Sembrare un peto esploso in un pitale, cioè sembrare un rumoroso peto che esploso in un pitale (che gli fa da cassa di risonanza) risulta fragorosissimo. Anche in questo caso con l’espressione a margine ci si intende riferire ad una donna (con la versione al femminile) o – piú spesso – con la primaria versione al maschile - ad un uomo saccente, supponente, vanesio, arrogante, presuntuoso, altezzoso, superbo, tracotante, protervo e sentenzioso che si dia, ma ovviamente a sproposito, le arie di valente superuomo, parli a casaccio ed a vanvera, dia consigli non richiesti,propugni per sé l’infallibilità papale ed essendo in realtà privo di ogni concreto supporto e fondamento alle sue pretese ed inesistenti virtú, mancante com’è di scienza o conoscenza può solo esser paragonato ad un peto che, sebbene risuonante e ridondante, rimane pur sempre la stomachevole, fetida cosa che è.
Per píreto vedi antea sub 33; pereta ne è il metafonetico femminile usato non solo come sinonimo maggiorato del maschile (ricordo che nel napoletano un oggetto o cosa che sia, è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella; nella fattispecie dunque una pereta è intesa piú vasta o rumorosa del maschile píreto); pereta è usato dicevo non solo come sinonimo accresciuto di píreto, ma per traslato è usato anche per riferirsi offensivamente ad una donna… di scarto, quale è ritenuta una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi sia una demi vierge o che voglia apparir tale… una donna cioè dalle pessime qualità fisiche e/o morali che goda a strombazzare le sue pessimi qualità, comportandosi alla medesima stregua di un peto, manifestando cioè rumorosamente la sua presenza, donna che ben si può meritare con icastico, seppur crudo linguaggio, l’appellativo di pereta.
Per completezza dirò poi che tale donna becera e volgare, altrove, ma con medesima valenza è anche détta alternativamente lòcena, lumèra o anche lume a ggiorno; chiarisco: lòcena = di scarto;la voce è nel suo precipuo significato di vile, scadente è forgiata come il toscano ocio ed il successivo locio (dove è evidente l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia e successiva locina con consueta epentesi di una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a lòcena che nel napoletano indica in primis un taglio di carne che pur essendo gustosissimo,forse il piú gustoso, è un taglio che ricavato dal quarto anteriore della bestia, (il taglio meno pregiato e meno costoso) è da ritenersi di mediocre qualità, quasi di scarto); lumèra o anche lume a ggiorno atteso che una donna becera e volgare abbia nel suo quotidiano costume l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumera) o di quello a petrolio ( lume a giorno) ambedue altresì maleolenti tali quale una pereta.
Ciò che vengo dicendo è tanto vero che addirittura questo tipo di donna è stato codificato nella Smorfia napoletana che al num. 43 recita: donna Pereta for’ ô balcone per indicare appunto una donna… di scarto che faccia di tutto per mettersi in mostra; ed addirittura nella smorfia il termine pereta da nome comune è divenuto quasi nome proprio.
‘ncantarato/a agg.vo m.le o f.le letteralmente: contenuto in un càntaro (pitale); agg.vo formato, come se fosse una voce verbale, quale part. pass. masch./f.le sing. aggettivato di un inesistente ’infinito *incantarà = contenere in càntaro;in pratica si ipotizza l’esistenza d’un verbo denominale di càntaro con prostesi di un in→’n illativo; a sua volta càntaro o càntero è un s.vo m.le che indica un antico, desueto alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere,vaso atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani (e tra costoro spiace trovare persino supponenti ed applauditi autori sedicenti esperti d’usi e costumi oltre che dell’idioma napoletani…) sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
(continua)

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