“ZOMPA CHI PO’” DICETTE ‘O RANAVUOTTOLO
Letteralmente: “Salta chi puó” disse il ranocchio.
Icastico wellerismo della cultura popolare partenopea di cui non è semplicissimo rendere il senso sotteso all’espressione giacché numerose ne sono le interpretazioni che se ne danno; tuttavia in primis annoto che l’espressione, nella sua enunciazione completa, viene usata, con una punta di livore, a mo’ di garbato commento invidioso allorché si veda un amico, un compare, un sodale o anche solo un conoscente che abbia fatto fortuna,o che abbia vinto un terno al lotto,o che sfoggi un abbigliamento nuovo, un’auto costosa oppure si accompagni ad una bella donna”; ma quale è il senso vero di questo gustoso wellerismo? Troppo semplicistico e grammaticamente errato ( poi che il zompa non è un imperativo o un congiuntivo, ma un indicativo) sarebbe rendere il zompa chi po’ con un“chi à i mezzi per attuare alcunché, li usi”.
Neppure, per le medesime ragioni grammaticali, appaiono convincenti spiegazioni del tipo “ciascuno si regoli secondo le proprie possibilità ” oppure “ognuno si arrangi come può”; appare piú esatta invece l’interpretazione che recita “riesce a realizzare i proprî obiettivi chi à maggiori disponibilità e si trova in condizioni economico-sociali vantaggiose”; ugualmente apparebbe ben detto ritener l’espressione un ironico commento del tipo “c’è chi può permettersi le cose che fa; e chi non se le può permettere… deve restare a guardare”, ma trovo decisamente piú rispondente al vero senso di questo wellerismo l’idea di chi vi legge “ un commento – tra lo scherzoso e l’ amareggiato - di chi assiste a facili ascensioni nelle carriere ed in genere al favorevole andamento della fortuna(altrui), mentre per lui la vita si presenta con un quadro tutt’altro che roseo. La locuzione è quasi, dandone una lettura amara, “il grido… accorato… del popolo napoletano… di fronte allo strapotere delle classi dirigenti, del nepotismo etc. …”
A questo punto dando demum chiaramente la mia idea dirò che il wellerismo in esame, letto in maniera meno amara, ma in modo piú aderente alla realtà, esprime a mio avviso quel “po’ di giustificata invidia” che si genera in un normale individuo “quando osserva che ad un’altra persona ogni cosa, oppure un determinato affare, va per il giusto verso”.
Il proverbio ripeto è pronunciato (con una nuance d’invidia o livore)anche da coloro ai quali mancando i mezzi per fare alcunché devono assistere impotenti, ai trionfi dei rivali o, piú in generale, degli altri.
Insomma per chiarire il senso del wellerismo posso ben mettermi sulla medesima linea dell’amico Renato de Falco, che concisamente chiosò: “non a tutti sono consentiti allettanti traguardi o velleitarie evasioni: beato chi, come il ranocchio, è in grado di saltare ogni ostacolo o, per l’età e per favorevoli condizioni, può concedersi quanto lo alletti…”, ragion per cui cosí letto il zompa chi po’! potrebbe anche rendersi concisamente con un beato te! o anche beato me!
Ora prima di analizzare qualche parola della locuzione riferisco l’aneddoto da cui fu generata: Si narra che un giorno un topo sfidò un ranocchio a disputare una gara
di corsa con in palio le grazie d’una topina. Il furbo roditore, agile e veloce, accumulò ben presto un consistente vantaggio sul batrace, ma, quando arrivò ad un impetuoso torrente,dovette rallentare perché non v’era altra maniera per superare l’ostacolo che attraversare il pericoloso corso d’acqua a nuoto.Dopo aver tentennato, si decise alfine all’insidioso cimento ma,avendo scarsa pratica natatoria, entrato in acqua vi si agitava molto, ma avanzava poco; per di piú,mentre annaspava goffo ed impacciato nel liquido a lui ostile, vide il rivale raggiungere agevolmente l’altra sponda con un solo balzo spiccato facendo leva sulle robuste zampe posteriori:
“Però cosí son buoni tutti a vincere”, protestò.
Ed il ranocchio: “ Salta chi può!”.
zompa = salta voce verbale (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito zump-are/-à = saltare a pié pari, ballare in modo approssimativo, tralasciare qualcosa; voce denominale di zumpo (dall’agg.vo greco sostantivato sýmpous→ sýmpu; sýmpous = che à i piedi uniti);
chi pron. rel. invar.
[solo sing. ; ant. anche pl.]
1 colui il quale, colei la quale (con valore dimostrativo-relativo; usato sia come sogg. sia come compl.): chi à fatto chesto à fatto bbuono(chi à fatto ciò à fatto bene); aggiu truvato chi me po’ aiutà(ò trovato chi mi può aiutare); dallo a cchi vuó(regalalo a chi vuoi); nun t’ ‘a piglià cu cchi nun tène colpa!(non prendertela con chi non ne à colpa)
2 uno il quale, una la quale; qualcuno che, qualcuna che (con valore indefinito-relativo): ce sta chi dice ca nun ce se po’ fidà d’isso(c'è chi dice che non ci si possa fidare di lui); nun trova chi ‘o po’ ajutà(non trova chi lo possa aiutare); nun ce sta chi ‘o crere(non c'è chi gli creda); po’ gghirce chi vo’(può andarci chi vuole), chiunque | con sfumatura ipotetica o condizionale: chi me vo’ bbene, me venesse appriesso(chi mi ama mi segua); questo compito, (per) chi ci rifletta un po', non è difficile
||| pron. indef. invar. uno, qualcuno, alcuni (oggi usato solo nel costrutto relativo chi... chi 'l'uno... l'altro', 'alcuni... altri'): chi diceva ‘na cosa, chi n’ata(chi diceva una cosa, chi (ne diceva) un'altra) ||| pron. interr. invar. quale persona, quali persone (usato sia come sogg. sia come compl.; può essere rafforzato con mai): chi à sunato ‘a porta?(chi à suonato alla porta?); chi so’ cchelli ssignore?(chi sono quelle signore?); chi sarrà maje?(chi sarà mai?); cu cchi parlava?(con chi parlava?); nun saccio ‘e chi è chistu cappotto(non so di chi sia questo soprabito); nun sapesse a cchi vutarme(non saprei a chi rivolgermi); chi sa’?(chi sa?), chi ‘o ssape?(chi lo sa?), in italiano lo stesso che chissà; me ll’ à ditto nun saccio chi(me l'à detto non so chi), una persona di cui non ricordo il nome; chi mm’ ‘o ddice a mme?(chi me lo dice?) per esprimere dubbio e incredulità; chi mm’ ‘o fa fa?(chi me lo fa fare?), chi ce ‘o ffa fa?(chi ce lo fa fare?), perché, con che vantaggio dovrei, dovremmo farlo? | usato in proposizioni esclamative: a cchi hê dato aurienza!(a chi (mai) ài dato retta!); chi se vede!;a cchi ‘o ddice!(chi si vede!; a chi lo dici!), quando altri ci dice cosa a noi ben nota.
po’ = puó voce verbale (3° pers. sg. ind. presente dell’infinito potere/puté dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -entis; cfr. putente ); preciso qui che per la voce in esame preferisco la forma scritta po’ ( apocope derivata dal lat. pote(st); come ò piú volte alibi chiarito la caduta di consonanti finali non lasciano residui diacritici mentre la caduta di una sillaba esige il segno diacritico (’) per cui nel caso che ci occupa la successiva caduta di st che non lascia segno e l’apocope della sillaba te producono il risultato esatto di po’ piuttosto che di pô (scrittura contratta di puó), come pure trovo in taluni autori che colpevolmente si lasciano suggestionare dalla forma verbo dell’italiano dimenticando che il napoletano linguaggio originario ed autonomo non è tributario del dialetto toscano, ma della lingua latina (in ogni sua forma: classica, tarda, volgare etc.) lingua di cui è figlio!
A margine rammento ancóra che il napoletano à un altro lemma omofono di quello a margine; parlo di po = poi (derivato dal lat. po(st) scritto perciò senza alcun segno diacritico che è inutile, come ò ricordato, in caso di cadute di sole consonanti; rammento infine che il napoletano non contempla l’apocope di poco→po’ in quanto la voce poco è sempre usata nella sua forma intera e mai in quella (inesistente) apocopata.
dicette = disse voce verbale (3° pers. sg. ind.pass.remoto dell’infinito dic-ere/dí = dire, manifestare, esporre, riferire, raccontare, narrare, riportare, rivelare, divulgare, dichiarare, affermare, asserire, sostenere, annunciare (l’infinito è dal lat. dicare =annunciare, dichiarare, dire, proclamare; diffondere, divulgare;la voce in esame è ricavata dalla 3° pers. sg. del cong. pres. dicet con raddoppiamento espressivo della consonante occlusiva dentale sorda(t)e paragoge della finale semimuta (e);
ranavuottolo s.vo m.le = ranocchio, 1 la rana comune;
2 (fig. e per traslato) persona piccola, bassa, grassa e di aspetto sgraziato;
3 (fig. scherz.) bambino;
Voce derivata dall’incrocio del s.vo lat. rana con il s,vo lat. butte(m)→vŏtta→vuotta addizionati del suff. diminutivo olus→olo.
E qui faccio punto augurandomi d’aver fatto contenti i miei soliti ventiquattro lettori abituali e chi altro dovesse leggermi.
Raffaele Bracale
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