QUESITI
Questa volta rispondo ad una richiesta pervenutami dall’amica M.P.F. ( i consueti problemi di riservatezza mi impongono di indicare le sole iniziali) che mi à chiesto di illustrare voci e locuzioni varie. L’accontento súbito ed entro in medias res.
‘Nzerettato/’Nzerrettato part. pass. aggettivato dell’infinito ‘nzerettà/’nzerrettà; letteralmente vale rinserrare,ammassare, compattare e perciò détto di dolce, piatto, che dopo la cottura risulti troppo asciutto e compatto.Etimologicamente è voce dal lat. volg. in +*serrettare per *serrare, da un lat. tardo serare 'chiudere', deriv. di sera 'spranga' (con doppia r per influsso di ferrum 'ferro' o di serra 'sega'); la forma piú usata nella città di Napoli è ‘nzerrettare, mentre quella con la r ‘nzerettare è d’uso provinciale
‘Nzamà : ‘nzamà: letteralmente sta per sciamare o meglio l’irritare con il fumo le api affinché sciamino via dalle arnie e permettano la raccolta del miele; estensivamente è il verbo che connota ogni azione tesa ad istigare sobillar in qualunque modo qualcuno per indurlo ad un quid il più delle volte in danno di terzi. per traslato è anche usato nel significato di andare avanti e indietro eccitatamente (a mo’ delle api) nell’incapacità di combinare qualcosa di buono).
Etimologicamente ‘nzamà come il toscano sciamare è da un portoghese examear, cui non è estraneo il latino examen (sciame).
Scriscità : passato,ecceduto; détto soprattutto di un impasto che lieviti troppo, perdendo di elasticità e diventando secco quando sia cotto.Etimologicamente è da un lat. med. ex – criscitare che è forma frequentativa di s- crescere
Ammazzaruto : part. pass. aggettivato dell’infinito ammazzarí; letteralmente vale non lievitato, quasi azzimo ed è détto di un impasto cotto quando non sia lievitato a sufficienza. per traslato riferito a persona: Etimologicamente ammazzarí è un denominale del greco mazerós comn protesi intensiva di un ad→am.
Lazzariato: part. pass. aggettivato dell’infinito lazzarià; letteralmente vale coperto di ferite, conciato male, piagato Etimologicamente lazzarià è un derivato dal nome proprio (san) Lazzaro, figura biblica il cui nome à all’origine l’ebraico Eleazaro e significa “Colui che è assistito da Dio”. Il Lazzaro di cui parlo è il personaggio della parabola, raccontata da Gesù, del ricco epulone e del povero mendicante lebbroso.
Questa parabola riportata solo nel Vangelo di san Luca (16, 19-31) è l’unica in cui un personaggio di fantasia abbia un nome: Lazzaro; ma come è avvenuto per vari personaggi minori, che compaiono nei racconti evangelici e che in seguito nella tradizione cristiana, ànno ricevuto un culto, un ricordo perenne, un titolo di santo, anche per Lazzaro pur essendo un personaggio protagonista di un racconto di fantasia, da non confondere con Lazzaro di Betania che fu resuscitato da Gesú, nel corso del tempo si è instaurata una devozione, come se fosse stato un personaggio realmente esistito.
‘Ncriccato: part. pass. aggettivato dell’infinito ‘ncriccà; letteralmente vale sollevato, rizzato, agghindato, abbellito, adornato esageratamente; il collegamento semantico tra sollevato ed abbellito si coglie tenendo presente che chi sia o si metta su in ghingheri e/o belletti appare d’umore migliore, quasi sollevato. Etimologicamente il verbo ‘ncriccà è da collegasrsi all’alto tedesco in→’n+kriec.
Tutti i significati riportati, talora nel parlato della provincia vengono resi non con la voce a margine, ma con la successiva voce
Alliccato part. pass. aggettivato dell’infinito alliccà; letteralmente vale leccato,lisciato, unto rifinito; Etimologicamente il verbo alliccà è dal lat. volg. ad→al+ *ligicare, connesso con lingere 'leccare'.
Mettere/menà dint’ ô stipo granne/largo Letteralmente: mettere/buttare nello stipo grande o largo; détto di chi agendo alla carlona lasci cadere in terra o getti via una cosa e lo faccia per sbadataggine colpevole di cui poi allegramente si giustifica dicendo d’aver comunque dato una sistemazione alla cosa buttata via a casaccio.
mettere = disporre, collocare, porre (anche fig.) indossare, vestire etc. dal lat. mittere 'mandare' e poi 'porre, mettere';
menà = buttare, sospingere dentro o fuori ed anche, ma meno comunemente, trascorrere, passare, vivere ed estensivamente assestare, dare con forza, picchiare; l’etimo è dal tardo lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce';
dint’ ô prep. art. nel/nello; rammento che con la preposizione in in italiano si ànno nel = in+il, nello/a= in+lo/la nelle = in+ le, negli = in+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria dinto (dentro – indal lat. d(e) int(r)o→dinto); come ò già détto e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno nel napoletano tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre indefettibilmente aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: dentro la stanza, ma nel napoletano si esige dentro alla stanza e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da dinto a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente dint’ô dint’â, dint’ê che rendono rispettivamente nel/néllo,nélla,negli/nelle.
stipo s.vo m.le armadio, spesso di legno pregiato, in cui si ripongono oggetti di valore, carte, documenti;etimologicamente deverbale di (a)stipà = conservare, riporre etc. dal lat. stipare;
granne agg.vo m.le = grande, vasto, che supera la misura ordinaria in dimensioni, quantità, forza, intensità, durata o altro; etimologicamente dal lat. grande(m)→granne per ass. progressiva;
largo agg.vo m.le = ampio, vasto, esteso, spazioso, capace; etimologicamente dal lat. largu(m);
Paré ‘
nu scavamento ‘e Pumpeje: letteralmente sembrare uno scavo di Pompei; détto in maniera iperbolica di luogo e segnatamente di una casa diroccata, fatiscente,pericolante e/o in rovina quasi si trattasse di reperti archeologici tal quali templi, anfiteatri, case, botteghe emersi dagli scavi sull’area dell’antica Pompei;
paré voce verbale: infinito parere, sembrare etc.; il verbo parere/paré (che etimologicamente deriva dal latino volg. *paríre→parere = apparire,manifestarsi come ) è quel verbo intransitivo con ausiliare avere che, come nell’italiano, sta per: 1 avere una certa apparenza; apparire, sembrare (può indicare contrapposizione tra apparenza e realtà): pareva ‘nu santo; me pare ‘na brava perzona; me pare sincero (pareva un santo; mi pare una brava persona; mi pare sincero) | pare ajere (pare ieri), di fatto accaduto molto tempo fa, ma che si ricorda come se fosse recente | pare impossibile, per esprimere disappunto, collera, stupore: me pare ‘mpussibbile ca nun capisce maje chello ca lle dico ( mi pare impossibile che non capisca mai quello che gli si dice) | nun me pare overo! (non mi par vero!), espressione con cui si manifesta contentezza, soddisfazione,gioia;
2 essere di una determinata opinione; credere, pensare: me pare ch’ aggiu capito bbuono…(mi pare di aver capito bene); me pareva ca fosse ll’ora ‘e partí(mi pareva che fosse tempo di partire) | con una determinazione che ne precisa il valore: me pare justo ca tu lle cirche scusa!(mi pare giusto che tu le chieda scusa); me pare fosse ora ca tu ‘a fernisce(mi pare ora che tu la smetta); che te ne pare ‘e chella perzona?, (che ti pare di quella persona?) | me pareva (bbuono)!(mi pareva (bene)!), avevo pensato, visto giusto | te pare?(ti pare?), nun te pare pure a tte?(non sembra anche a te?), per sollecitare l'assenso di altri, per chiedere l'approvazione: aggio raggione io , nun te pare?(ò ragione io, non ti pare?); si adopera anche per esprimere il proprio dissenso o per schermirsi e come formula di cortesia: «Sî stato tu a ffarlo?» «Ma te pare!»; («Sei stato tu a farlo?» «Ma ti pare!»); «Dongo ‘mpiccio?» «Ma te pare!» («Disturbo?» «Ma ti pare!») | (fam.) volere:fa’ comme te pare! (fai un po' come ti pare!)
3 (ant.) manifestarsi, mostrarsi, comparire:pare ‘na pupata ‘e ficusecche (sembra come una pupattola…) | ancóra usato in talune particolari espressioni esclamative : vo’ paré! (a fforza ‘nu bbuonu guaglione) ( vuol sembrare ad ogni costo!,ma non è una brava persona), voler apparire, mettersi in mostra come…;pare a tte! (sembra cosí a te,ma in realtà non è come pensi!)cosí appare al tuo giudizio, ma ti sbagli. pe nun paré(per non apparire), per passare inosservato ||| v. intr. impers. apparire probabile, verosimile; sembrare: pare ca vo’ chiovere (sembra che voglia piovere); «È arraggiato?» «Pare».
(«È arrabbiato?» «Pare»).
scavamento s.vo m.le scavo; etimologicamente deverbale di scavare che è dal lat. excavare, comp. di ex- e cavare «rendere cavo»] con il suff. mento suffisso derivato dal lat. -mentu(m), presente in sostantivi deverbali di origine latina o di formazione moderna indicanti azione, risultato, effetto (cambiamento, nutrimento).
Pumpeje = Pompei nome della città in provincia di Napoli che a seguito dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. fu devastata dalla lava e sepolta sotto una pioggia di cenere e lapilli; la città di Pompei ebbe origini antiche quanto quelle di Roma, infatti la gens Pompeia (da cui la città mutuò il nome) discendeva da uno dei primi popoli italici, gli Oschi. Solo dopo la metà del VII secolo a.C., un primitivo insediamento si stabilí sul luogo della futura Pompei: forse non un abitato vero e proprio, ma piú probabilmente un piccolo agglomerato intorno al nodo commerciale che vedeva l'incrocio di tre importanti strade, ricalcate in piena epoca storica dalle vie provenienti da Cuma, da Nola e da Castellammare di Stabia. Gli scavi per riportare alla luce tutti gli edifici dell’antica città furono voluti e cominciati dal re Carlo di Borbon (per la precisioneCarlos Sebastián de Borbón y Farnesio; Madrid, 20 gennaio 1716 – †Madrid, 14 dicembre 1788) fu duca di Parma e Piacenza con il nome di Carlo I dal 1731 al 1735 (de jure fino al 1738), re di Napoli e Sicilia senza utilizzare numerazioni (gli sarebbe toccato il nome di Carlo VII secondo l'investitura papale, ma rifiutò tale ordinale) dal 1735 (de jure dal 1738) al 1759, e da quest'anno fino alla morte re di Spagna con il nome di Carlo III (Carlos III). Nel 1734, durante la guerra di successione polacca, al comando delle armate spagnole conquistò i vicereami austriaci di Napoli e di Sicilia, e l'anno successivo fu riconosciuto come legittimo re delle Due Sicilie dai trattati di pace, in cambio della rinuncia ai ducati farnesiani e medicei. Capostipite della dinastia dei Borbone di Napoli, restituí alla città l'antica indipendenza dopo oltre due secoli di dominazione straniera, inaugurando un lungo periodo di rinascita politica e ripresa economica.Alla morte del fratellastro Ferdinando VI nel 1759, fu chiamato a succedergli sul trono di Spagna, dove allo scopo di modernizzare il paese fu promotore di una politica riformista che gli valse la fama di monarca illuminato. In politica estera raccolse tuttavia diversi insuccessi a causa dell'alleanza con la Francia, sancita dal terzo patto di famiglia borbonico, che lo portò a contrapporsi con sorti alterne alla potenza marittima della Gran Bretagna)nel 1748 dopo che della città quasi si era perduta la memoria, al punto che, quando alla fine del XVI secolo l'architetto Domenico Fontana (Melide, Lugano, 1543 - †Napoli 1607)., nel costruire un canale di derivazione del Sarno, scoprí alcune epigrafi e persino edifici con le pareti affrescate, non vi riconobbe i resti dell'antica Pompei. Come ò détto i primi veri scavi nell'area di Pompei ebbero inizio solo nel 1748 per volontà delsovrano Borbone ma furono piuttosto irregolari e non seguirono alcun metodo scientifico. Spesso gli edifici a mano a mano portati alla luce venivano spogliati di oggetti ed opere d'arte e quindi nuovamente ricoperti. Nella prima metà dell'Ottocento, sotto Ferdinando II di Borbone (Palermo, 12 gennaio 1810 – †Caserta, 22 maggio 1859) i lavori procedettero molto piú speditamente, e portarono all'esplorazione di molti edifici privati e di quasi tutto il Foro. Allorché poi dopo il 1860 i lavori furono affidati alla direzione di Giuseppe Fiorelli (Archeologo (Napoli 1823 - †ivi 1896). antigovernativo fu incarcerato nel 1849-50), segretario del conte di Siracusa (fratello di Ferdinando II) e intermediario tra lui e il Cavour, fu dopo l'annessione professore di archeologia nell'università di Napoli (1860-63), direttore del museo di Napoli e degli scavi di Pompei, senatore del regno (1865), successivamente direttore generale per le antichità e belle arti; pubblicò opere specialmente di numismatica e di argomenti pompeiani) furon condotti con sistematicità e rigoroso metodo scientifico. Il Fiorelli intuí fra l'altro la possibilità di ottenere calchi dalle vittime dell'eruzione colando del gesso liquido nel vuoto lasciato dai corpi, ormai dissolti, nella cenere solidificata: questi calchi, nell'Antiquarium di Pompei, costituiscono una delle più tragiche testimonianze della catastrofe.Oggi Pompei, a malgrado l’incuria di taluni amministratori, ci appare in quasi tutta la sua estensione e ci riporta al giorno in cui il destino fermò il corso della sua storia. Le scritte elettorali sui muri, le suppellettili domestiche, le botteghe, tutto sembra ancora vivo: la tragedia di Pompei non ha distrutto la città, vi ha solo fermato il tempo per restituircela con l'aspetto che essa aveva in quel preciso giorno del 79 .
È ‘na Babbilonia/Babbèla: Letteralmente È una Babilonia (o) una Babele; détto iperbolicamente in riferimento ad un avvenimento o situazione cosí confuso e/o caotico da non offrire speranza di soluzione; l’espressione prende a modello l’episodio biblico riportato nel libro della Genesi: 11,1-9. « Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco". Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: "Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro". Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. »
Rammento che la città di Babele fu nota anche con il nome di Babilonia di talché con la locuzione napoletana riferita ad una
grande confusione si può alternativamente parlare di Babbilonia o Babbela lasciando inalterato il significato.
Babele nota, come ò détto, anche come Babilonia, fu la piú importante metropoli dell'Asia anteriore, capitale naturale dei paesi eufratici e città imperiale per eccellenza. Esistente forse già nel periodo sumero (3° millennio a.C.), B. conobbe devastazioni e ricostruzioni sotto dinastie ittite, assire, caldee e persiane fino alla definitiva distruzione nel 126-125 a.C. Le rovine si trovano presso l'odierno villaggio di al-Hillah (Iraq).
È ‘nu mausuleo/mautone : Letteralmente è sepolcro monumentale, una tomba grandiosa:(ad es. il m. di Augusto, a Roma; il m. di Cecilia Metella, sulla via Appia, a Roma; il m. di Teodorico, a Ravenna); in senso fig. e iron.: un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo m. di sabbia (Leopardi). In similitudini e come termine di paragone, detto di edificio, mobile e sim. dall’aspetto tetro e imponente: ‘a libbreria nova è ‘nu vero mausuleo !(la nuova libreria è un vero mausoleo!); o di persona grossa e lenta nei movimenti: chillu mautone ‘e zíeta nun riusceva a trasí dint’â machina !(quel m. di tua zia non riusciva a entrare nell’automobile ! in senso ironico è détto di un oggetto ingombrante, vecchio e desueto e/o non adatto all’ambiente. Rammento che l’espressione originaria prevedeva l’uso del termine mausoleo(che è dal lat. mausolēum, gr. μαυσώλειον, der. di Μαύσωλος «Mausolo», nome del satrapo della Caria che nel 4° sec. a. C. fece edificare ad Alicarnasso una tomba monumentale considerata poi una delle sette meraviglie del mondo).Successivamente nell’uso del parlato della città bassa il termine dotto mausoleo fu corrotto in mausone poi mautone con riferimento a qualsiasi oggetto anche poco ingombrante, ma che fosse vecchio, desueto e sorpassato (come ad. es. un macinino da caffé meccanico al tempo dei primi macinacaffé elettrici. –
Paré na pupata ‘e Guidotte
Letteralmente: Sembrare una bambola di Guidotti; id est: essere bella affascinante ed elegante tal quale una figura di Guidotti.
Per venire a capo dell’espressione occorre dire súbito di Guidòtti, Paolo, detto il Cavalier Borghese. - Pittore, scultore, architetto e scienziato (Lucca 1560 circa - †Roma 1629). Dipinse, prediligendo ampie forme tardomanieriste e una luce intensa e drammatica, affreschi e alcune pale d'altare a Roma (S. Luigi dei Francesi, S. Francesco a Ripa, ecc.), a Napoli (S. Maria del parto: Gesú, la presentazione al tempio), a Pisa, a Lucca, ecc. Come studioso del volo umano fu uno dei piú fedeli seguaci delle idee leonardesche, che arrivò a mettere personalmente in pratica in un tentativo, peraltro sfortunato, realizzato attraverso un paio di ali artificiali.
Le figure femminili dei suoi dipinti agghindate anacronisticamente sempre in abiti cinquecenteschi erano belle, formose ed elegantissime, al segno che a Napoli divenne proverbiale la locuzione in esame Paré ‘na pupata ‘e Guidotte (sembrare una bambola di Guidotti) per riferirsi ad una donna che apparisse molto bella ed affascinante e vestisse in maniera sontuosa e ricercata.
L’espressione che segue pure chiama in causa la pupata (bambola) ma lo fa in tutt’altro significato. Vediamo
Paré ‘na pupata ‘e ficusecche
Ad litteram:sembrare una pupattola di fichi secchi Antica locuzione, ora quasi desueta che si soleva un tempo riferire soprattutto alle attempate signore o piú spesso vecchie inguaribili nubili che andavano in giro con il volto cosparso di molta cipria o di più economica farina, nel vano tentativo di nascondere i danni del tempo; tali signorine erano paragonate alle pupattole che i venditori di frutta secca inalberavano sulle loro mostre durante le festività natalizie: le pupattole erano fatte con un congruo numero di fichi secchi imbiancati all’uopo di glassa zuccherina ed infilzati su sottili stecchi di vimini. Rammento che l’abitudine di cospargersi il volto di molta cipria o farina era anche di taluni uomini attempati, ma soprattutto di taluni attori che a malgrado fossero avanti con gli anni, si ostinavano a sostenere in teatro parti da attor giovane ed erano perciò costretti a ricorrere, per lenire i danni del tempo, al pesante trucco di cipria o farina; a ciò si riferisce l’espressione (che mi piace ricordare qui in coda: fà 'o farenella.
Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli (Andria, 24 gennaio 1705 – † Bologna, 16 settembre 1782), considerato il piú famoso cantante lirico castrato della storia. detto Farinelli, ma prende le mosse dall'ambito teatrale dove, come ò détto e ripeto, le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo non era piú tanto giovane e allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre piú che alla costosa cipria, alla economica farina.
pupata s.vo f.le = bambola, pupattola, pupazza e per traslato ragazza, giovane donna dalla bellezza alquanto leziosa o inespressiva. Voce dal lat. pupa(m).
ficusecche s.vo f.le = fichi secchi; in napoletano plurale della voce femminile: ficusecca con derivazione, con passaggio al femminile dal masch. lat. ficum(che corrisponde al greco sýcon con cambio s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile.
A margine della voce fica da cui poi ficusecca rammento che il passaggio al femminile dal maschile fico è determinato dal fatto che nel napoletano con la voce fica si intende un frutto piú grosso del fico atteso che in napoletano s’usa femminilizzare un termine maschile quando si voglia indicare una cosa intesa piú grande della corrispondente maschile (cfr. cucchiara= mestola del muratore piú grande di cucchiaro= cucchiaio da minestra, tina piú grande di tino,tavula piú grande di tavulo, tammorra piú grande di tammurro, carretta piú grande di carretto etc.Fanno eccezione tiana piú piccola di tiano e caccavella piú piccola del caccavo). Rammento infine che con la voce ficusecca usata in senso furbesco e malizioso, in napoletano, si identifica la vulva avvizzita d’una donna anziana e non piú appetita; al proposito preciso che anche in greco con la voce sýcon su cui fu marcato il latino ficu(m)= fico, si indica sia il frutto del fico che furbescamente la vulva. E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amica M.P.F ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.
Satis est.
RaffaeleBracale
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