RICCIOLI DI CONTADINA CON CREMA DI FORMAGGIO.
Ingredienti e dosi per 6 persone:
6 etti di riccioli di contadina,
2 etti di Caciocavallo affumicato,
2 etti di Caciocavallo podolico,
3 etti di prosciutto cotto in cubetti da ½ cm. di spigolo,
1 Bicchiere di latte fresco intero,
6 Tuorli D'uovo a temperatura ambiente,
½ etto di strutto,
1 spicchio d’aglio mondato e tritato,
1 Cucchiaino di Farina,
6 cucchiaiate di gherigli di noce tritati,
Pepe Bianco macinato a fresco q.s.
Sale grosso un pugno.
procedimento
Lessare al dente in 8 litri di acqua salata (pugno sale doppio) i riccioli di contadina; scolarli e versarli in una zuppiera calda. A seguire tagliare i formaggi a cubetti da ½ cm. di spigolo e metterli in una terrina. Aggiungere tanto latte quanto basta per coprirlo e lasciarlo riposare per quattro o cinque ore. Aprire le uova, scartare gli albumi e conservare ogni tuorlo in un mezzo guscio. Far fondere a fiamma dolce lo strutto in una casseruolina a fondo pesante e arrotondato,farvi dorare l’aglio, unirvi la farina, mescolare e, dopo un minuto, ritirar la pentolina dal fuoco ed aggiungere la dadolata di formaggi ed il latte usato. Sistemare la casseruolina in un bagnomaria caldo e cominciare a mescolare con una frustina mantenendo l'acqua ad un'ebollizione appena accennata. Mescolare continuamente e, quando il formaggio sarà completamente fuso, diventando un composto filante, unirvi i tuorli, uno alla volta, non unendo il successivo fino a quando il precedente non sarà stato amalgamato. Non appena la crema si sarà addensata completarla con una macinata di pepe bianco e versarla caldissima sulla pasta calda. Unire la dadolata di prosciutto; rimestare ed impiattare aggiungendo su ogni porzione un cucchiaio di gherigli di noce. Vini: secchi e profumati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
mercoledì 31 agosto 2011
PIRCIATIELLE ALLARDIATI
PIRCIATIELLE ALLARDIATI
Questa gustosissima preparazione rappresenta l’antenata campana dei famosi spaghetti alla amatriciana della cucina romana.
Difficile stabilire la primogenitura di questo piatto che sono praticamente uguali e si differenziano per il tipo di pasta usato (qui i pirciatielle che sono, con derivazione dal francese percier=perforare i bucatini napoletani sebbene un po’ piú doppi; e lí gli spaghetti) nonché per il tipo di lardo scelto (nella ricetta napoletana occorre fornirsi del grasso, gustoso lardo di fianco oppure e meglio di pancia o anche, ma solo come extrema ratio, anche del lardo di gola (lardiciello) nella ricetta romana si usa il lardo di gola ( conosciuto con il nome guanciale mentre il nome in napoletano del medesimo lardo di gola è appunto lardiciello).
Ingredienti e dosi per 6 persone
• 600 gr di perciatelli spezzettati a mano (4 cm.)
• 50 gr di pancetta tesa tagliata a cubetti,
• 200 gr. di lardo di fianco o preferibilmente di pancia oppure quale extrema ratio anche lardo di gola (lardiciello) finemente allacciato insieme ad uno spicchio d’aglio mondato,
• 5 grossi pomidoro maturi tipo ROMA o SAN MARZANO sbollentati e pelati.
• Un ciuffo di basilico lavato asciugato e spezzettato a mano (senza coltello!),
• 1 cipolla dorata
• 1/2 bicchiere di olio d'oliva e.v.p.s.a f.,
• Formaggio pecorino grattugiato 100 g.,
• sale doppio un pugno,
• sale fino e pepe nero q.s.
Nota: l’aggettivo allacciato, ovviamente non significa legato con un laccio, ma sta per tritato finissimamente sino a ridurre il lardo a consistenza quasi di pomata; infatti la voce napoletana allacciato è il part. passato aggettivato dell’infinito allaccià = tritare, sminuzzare derivato da un tardo latino parlato *ad+aciare→ addacciare→allacciare= inferir tagli.
Preparazione
• Sistemare tutto il lardo su di un tagliere di legno e servendosi dapprima d’un batticarne ed a seguire di un pesante coltello a lama larga ed affilatissima triturare tutto il lardo assieme ad un aglio mondato, assestando ripetuti colpi inferti tenendo la lama del coltello perpendicolarmente rispetto al tagliere, raccogliendo a mano a mano in un unico mucchietto il lardo pestato e ripetendo piú volte l’operazione fino ad ottenere un trito in consistenza quasi di pomata. Indi in una padella soffriggere con tutto l'olio la cipolla sbucciata e tritata e la pancetta tagliata a dadini assieme al trito finissimo di lardo di fianco o preferibilmente di pancia oppure quale extrema ratio anche lardo di gola (lardiciello) ed aglio mondato;
Appena sarà tutto rosolato, unire i pomidoro spezzettati, salare e mescolare; far cuocere per circa 20’; verso la fine unire il basilico lavato asciugato e spezzettato a mano (senza coltello!).
Lessare la pasta al dente, sgrondarla benissimo e versarla nella padella con il sugo, rimestare, aggiungere il formaggio grattugiato ed il pepe, rimestare ancora, impiattare e servire ben caldo.
Gustosissimo piatto di tradizione antica! E l’antica tradizione esige il lardo di fianco o preferibilmente quellodi pancia e non quello di groppa, che è molto piú magro e perciò meno saporito! Concludo rammentando che si s’à dda fà ‘nu peccato, facimmolo murtale (se occorre fare un peccato, facciamolo mortale!) e cioè se dobbiamo usare il lardo, usiamo quello piú saporito, quello piú grasso cioè e preferibilmente quello di pancia; se invece non intendiamo peccare, evitiamo i bucatini allardiati. Ma ci priviamo di una squisitezza!
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute!Scialàteve e dicíteme: Grazzie!
raffaele bracale
Questa gustosissima preparazione rappresenta l’antenata campana dei famosi spaghetti alla amatriciana della cucina romana.
Difficile stabilire la primogenitura di questo piatto che sono praticamente uguali e si differenziano per il tipo di pasta usato (qui i pirciatielle che sono, con derivazione dal francese percier=perforare i bucatini napoletani sebbene un po’ piú doppi; e lí gli spaghetti) nonché per il tipo di lardo scelto (nella ricetta napoletana occorre fornirsi del grasso, gustoso lardo di fianco oppure e meglio di pancia o anche, ma solo come extrema ratio, anche del lardo di gola (lardiciello) nella ricetta romana si usa il lardo di gola ( conosciuto con il nome guanciale mentre il nome in napoletano del medesimo lardo di gola è appunto lardiciello).
Ingredienti e dosi per 6 persone
• 600 gr di perciatelli spezzettati a mano (4 cm.)
• 50 gr di pancetta tesa tagliata a cubetti,
• 200 gr. di lardo di fianco o preferibilmente di pancia oppure quale extrema ratio anche lardo di gola (lardiciello) finemente allacciato insieme ad uno spicchio d’aglio mondato,
• 5 grossi pomidoro maturi tipo ROMA o SAN MARZANO sbollentati e pelati.
• Un ciuffo di basilico lavato asciugato e spezzettato a mano (senza coltello!),
• 1 cipolla dorata
• 1/2 bicchiere di olio d'oliva e.v.p.s.a f.,
• Formaggio pecorino grattugiato 100 g.,
• sale doppio un pugno,
• sale fino e pepe nero q.s.
Nota: l’aggettivo allacciato, ovviamente non significa legato con un laccio, ma sta per tritato finissimamente sino a ridurre il lardo a consistenza quasi di pomata; infatti la voce napoletana allacciato è il part. passato aggettivato dell’infinito allaccià = tritare, sminuzzare derivato da un tardo latino parlato *ad+aciare→ addacciare→allacciare= inferir tagli.
Preparazione
• Sistemare tutto il lardo su di un tagliere di legno e servendosi dapprima d’un batticarne ed a seguire di un pesante coltello a lama larga ed affilatissima triturare tutto il lardo assieme ad un aglio mondato, assestando ripetuti colpi inferti tenendo la lama del coltello perpendicolarmente rispetto al tagliere, raccogliendo a mano a mano in un unico mucchietto il lardo pestato e ripetendo piú volte l’operazione fino ad ottenere un trito in consistenza quasi di pomata. Indi in una padella soffriggere con tutto l'olio la cipolla sbucciata e tritata e la pancetta tagliata a dadini assieme al trito finissimo di lardo di fianco o preferibilmente di pancia oppure quale extrema ratio anche lardo di gola (lardiciello) ed aglio mondato;
Appena sarà tutto rosolato, unire i pomidoro spezzettati, salare e mescolare; far cuocere per circa 20’; verso la fine unire il basilico lavato asciugato e spezzettato a mano (senza coltello!).
Lessare la pasta al dente, sgrondarla benissimo e versarla nella padella con il sugo, rimestare, aggiungere il formaggio grattugiato ed il pepe, rimestare ancora, impiattare e servire ben caldo.
Gustosissimo piatto di tradizione antica! E l’antica tradizione esige il lardo di fianco o preferibilmente quellodi pancia e non quello di groppa, che è molto piú magro e perciò meno saporito! Concludo rammentando che si s’à dda fà ‘nu peccato, facimmolo murtale (se occorre fare un peccato, facciamolo mortale!) e cioè se dobbiamo usare il lardo, usiamo quello piú saporito, quello piú grasso cioè e preferibilmente quello di pancia; se invece non intendiamo peccare, evitiamo i bucatini allardiati. Ma ci priviamo di una squisitezza!
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute!Scialàteve e dicíteme: Grazzie!
raffaele bracale
VARIE 1405
1.CHISTO È N'ATO D''A PASTA FINA.
Letteralmente: Costui è un altro della pasta fine. Id est: anche questo fa parte di un gruppo di brutti ceffi, di cui diffidare. La locuzione nacque allorché, alla fine del '800, in Napoli alcuni comorristi erano soliti riunirsi in una bettola tenuto da un tal Pastafina. Letta tenendo presente questa annotazione, la locuzione assume una sua valenza di offesa.
2. 'O CONTE MMERDA ‘A PUCERIALE.
Letteralmente: Il conte Merda da Poggioreale. Così, per dileggio vien definito dal popolo colui che vanti falsamente illustri progenitori, o colui che si dia arie da nobiluomo incedendo con sussiego ed alterigia. Ma il personaggio in epigrafe esistette veramente in Napoli e tale nomignolo fu affibbiato dal popolo al patriarca di una famiglia napoletana che aveva il possesso di una villa nella zona di Poggioreale. Tale signore ebbe, sul finire del 1800, in appalto la gestione delle latrine comunali e si meritò ipso facto il soprannome, pur se affidò in pratica la conduzione dell’appalto ad un suo fidato dipendente che rispondeva al famoso nome di Ernesto a Furia.
3.'AMICE E VINO ÀNNO 'A ESSERE VIECCHIE!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data.Va da sé che il vino stagionato sia migliore di quello novello, tal quali gli amici di vecchia data che abbiano già dato piú prove dei loro sentimenti amicali.
4.'A MEGLIA VITA È CCHELLA D''E VACCARE PECCHÉ, TUTTA 'A JURNATA, MANEJANO ZIZZE E DENARE.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
5.'O TURCO FATTO CRESTIANO, VO' 'MPALÀ TUTTE CHILLE CA GHIASTEMMANO.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
6.'O PATATERNO ADDÓ VEDE 'A CULATA, LLA SPANNE 'O SOLE
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
7.'O GALANTOMO APPEZZENTÚTO, ADDIVENTA 'NU CHIAVECO.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
8.'E FRAVECATURE, CACANO 'NU POCO PE PPARTE E NUN PULEZZANO MAJE A NNISCIUNU PIZZO.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che ànno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
9. 'E VRUOCCOLE SO' BBUONE DINT’Ô LIETTO.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio à tutta l’aria d’esser nato quando i napoletani dismisero di esser mangiatori di foglia diventando mangiamaccheroni lasciando ai provinciali e/o cafoni il titolo di"mangiafoglie", quando cioè i cittadini napoletani ripudiarono ormai la verdura (‘e vruoccole) per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
10. STATTE BBUONO Ê SANTE: È ZUMPATA 'A VACCA 'NCUOLLO Ô VOJO!
Letteralmente: buonanotte!la vacca ha montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni così contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare.
11.QUANNO 'O VINO È DDOCE, SE FA CCHIÚ FORTE ‘ACÍTO.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, più aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe cosí cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
12. 'O DULORE È DE CHI 'O SENTE, NO 'E CHI PASSA E TÈNE MENTE.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
13. 'O FATTO D''E QUATTE SURDE.
Letteralmente: il racconto dei quattro sordi. Il raccontino che qui di seguito si narra, adombra il dramma della incomunicabilità e la locuzione in epigrafe viene pronunciata a Napoli a sapido commento in una situazione nella quale non ci si riesca a capire alla stregua di quei quattro sordi che viaggiatori del medesimo treno, giunti ad una stazione, così dialogarono: Il primo: Scusate simmo arrivate a Napule? (Scusate, siamo giunti a Napoli?) Il secondo: Nonzignore, cca è Napule!(Nossignore, qua è Napoli!) Il terzo: I' me penzavo ca stevamo a Napule (Io credevo che stessimo a Napoli). Il quarto concluse: Maje pe cumanno, quanno stammo a Napule, m'avvisate? (Per cortesia, quando saremo a Napoli, mi terrete informato?).
14. A 'NU CETRANGOLO SPREMMUTO, CHIAVECE 'NU CAUCIO 'A COPPA.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
15.CHI VA PE CHISTI MARE, CHISTI PISCE PIGLIA.
Letteralmente: chi corre questi mari può pescare solo questo tipo di pesce. Id est: chi si sofferma a compiere un tipo di operazione difficile e/o pericolosa, non può che sopportarne le conseguenze, né può attendersi risultati diversi o migliori.
16. AMMORE, TOSSE E RROGNA NUN SE PONNO ANNASCONNERE.
Amore, tosse e scabbia non si posson celare; le manifestazioni di queste tre situazioni sono così eclatanti che nessuno può nasconderle; per quanto ci si ingegni in senso opposto amore, tosse e scabbia saranno sempre palesi; la locuzione è usata sempre che si voglia alludere a situazioni non celabili.
17.'MPÀRATE A PARLÀ, NO A FATICÀ.
Letteralmente: impara a parlare, non a lavorare. Amaro,ironico ma ammiccante proverbio napoletano dal quale è facile comprendere la disistima tenuta dai napoletani per tutti coloro che non si guadagnano da vivere con un serio e duro lavoro, ma fondono la propria esistenza sul fumo dell'eloquio, ritenuto però estremamente utile al conseguimento di mezzi di sussistenza, molto piú dell'onesto e duro lavoro (FATICA).
In fondo la vita è dei furbi di quelli capaci di riempirti la testa di vuote chiacchiere e di non lavorare mai vivendo ugualmente benissimo.
18. 'A SOTTO P''E CHIANCARELLE.
Letteralmente:(Prestate attenzione, voi che siete) di sotto, ai panconcelli; id est: Attenti ai panconcelli! Esclamazione usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po' piú colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le sottili, ma resistenti assi trasversali di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano olim da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando Sanfelice che fattosi erigere un palazzo nella zona dtta della Sanità, vi appose un'epigrafe dittante: eques Ferdinandus Sanfelicius fecit(il cav. Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il Sanfelice paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali Levàteve 'a sotto! (toglietevi di sotto! ).
19. A 'STU NUNNO SULO 'O CÀNTERO È NICESSARIO.
Letteralmente: la sola cosa necessaria a questo mondo è il pitale. Id est: niente e - soprattutto - nessuno sono veramente necessarii alla buona riuascita dell'esistenza la sola cosa che conta è nutrirsi bene e digerire meglio. In effetti con la parola cantero - oggetto destinato ad accogliere gli esiti fisiologici - si vuole proprio adombrare la buona salute indicata da una buona digestione, che intanto avviene se si è avuta la possibilità di nutrirsi. Si tenga presente che la parola cantero non à l'esatto corrispettivo in italiano essendo il pitale(con la quale parola si è reso in italiano) destinato ad accogliere gli esiti prettamente liquidi, mentre il cantaro era destinato ad accogliere quelli solidi.
20.SPARTERSE 'A CAMMISA 'E CRISTO.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Cosí a Napoli si dice di chi, esoso al massimo,profitti di una situazione e si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato il Cristo sul Golgota , ne divisero, per appropriarsene, in quattro parti l'unica tunica di cui era ricoperto il Signore.
21. ESSERE AURIO 'E CHIAZZA E TRIBBULO 'E CASA.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e lamentarsi in casa. Cosí a Napoli si suole dire - specie di uomini che in piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto simpatico, mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche immotivato.
brak
Letteralmente: Costui è un altro della pasta fine. Id est: anche questo fa parte di un gruppo di brutti ceffi, di cui diffidare. La locuzione nacque allorché, alla fine del '800, in Napoli alcuni comorristi erano soliti riunirsi in una bettola tenuto da un tal Pastafina. Letta tenendo presente questa annotazione, la locuzione assume una sua valenza di offesa.
2. 'O CONTE MMERDA ‘A PUCERIALE.
Letteralmente: Il conte Merda da Poggioreale. Così, per dileggio vien definito dal popolo colui che vanti falsamente illustri progenitori, o colui che si dia arie da nobiluomo incedendo con sussiego ed alterigia. Ma il personaggio in epigrafe esistette veramente in Napoli e tale nomignolo fu affibbiato dal popolo al patriarca di una famiglia napoletana che aveva il possesso di una villa nella zona di Poggioreale. Tale signore ebbe, sul finire del 1800, in appalto la gestione delle latrine comunali e si meritò ipso facto il soprannome, pur se affidò in pratica la conduzione dell’appalto ad un suo fidato dipendente che rispondeva al famoso nome di Ernesto a Furia.
3.'AMICE E VINO ÀNNO 'A ESSERE VIECCHIE!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data.Va da sé che il vino stagionato sia migliore di quello novello, tal quali gli amici di vecchia data che abbiano già dato piú prove dei loro sentimenti amicali.
4.'A MEGLIA VITA È CCHELLA D''E VACCARE PECCHÉ, TUTTA 'A JURNATA, MANEJANO ZIZZE E DENARE.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
5.'O TURCO FATTO CRESTIANO, VO' 'MPALÀ TUTTE CHILLE CA GHIASTEMMANO.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
6.'O PATATERNO ADDÓ VEDE 'A CULATA, LLA SPANNE 'O SOLE
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
7.'O GALANTOMO APPEZZENTÚTO, ADDIVENTA 'NU CHIAVECO.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
8.'E FRAVECATURE, CACANO 'NU POCO PE PPARTE E NUN PULEZZANO MAJE A NNISCIUNU PIZZO.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che ànno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
9. 'E VRUOCCOLE SO' BBUONE DINT’Ô LIETTO.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio à tutta l’aria d’esser nato quando i napoletani dismisero di esser mangiatori di foglia diventando mangiamaccheroni lasciando ai provinciali e/o cafoni il titolo di"mangiafoglie", quando cioè i cittadini napoletani ripudiarono ormai la verdura (‘e vruoccole) per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
10. STATTE BBUONO Ê SANTE: È ZUMPATA 'A VACCA 'NCUOLLO Ô VOJO!
Letteralmente: buonanotte!la vacca ha montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni così contrarie alla norma che è impossibile raddrizzare.
11.QUANNO 'O VINO È DDOCE, SE FA CCHIÚ FORTE ‘ACÍTO.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, più aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe cosí cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
12. 'O DULORE È DE CHI 'O SENTE, NO 'E CHI PASSA E TÈNE MENTE.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
13. 'O FATTO D''E QUATTE SURDE.
Letteralmente: il racconto dei quattro sordi. Il raccontino che qui di seguito si narra, adombra il dramma della incomunicabilità e la locuzione in epigrafe viene pronunciata a Napoli a sapido commento in una situazione nella quale non ci si riesca a capire alla stregua di quei quattro sordi che viaggiatori del medesimo treno, giunti ad una stazione, così dialogarono: Il primo: Scusate simmo arrivate a Napule? (Scusate, siamo giunti a Napoli?) Il secondo: Nonzignore, cca è Napule!(Nossignore, qua è Napoli!) Il terzo: I' me penzavo ca stevamo a Napule (Io credevo che stessimo a Napoli). Il quarto concluse: Maje pe cumanno, quanno stammo a Napule, m'avvisate? (Per cortesia, quando saremo a Napoli, mi terrete informato?).
14. A 'NU CETRANGOLO SPREMMUTO, CHIAVECE 'NU CAUCIO 'A COPPA.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire e non dar quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
15.CHI VA PE CHISTI MARE, CHISTI PISCE PIGLIA.
Letteralmente: chi corre questi mari può pescare solo questo tipo di pesce. Id est: chi si sofferma a compiere un tipo di operazione difficile e/o pericolosa, non può che sopportarne le conseguenze, né può attendersi risultati diversi o migliori.
16. AMMORE, TOSSE E RROGNA NUN SE PONNO ANNASCONNERE.
Amore, tosse e scabbia non si posson celare; le manifestazioni di queste tre situazioni sono così eclatanti che nessuno può nasconderle; per quanto ci si ingegni in senso opposto amore, tosse e scabbia saranno sempre palesi; la locuzione è usata sempre che si voglia alludere a situazioni non celabili.
17.'MPÀRATE A PARLÀ, NO A FATICÀ.
Letteralmente: impara a parlare, non a lavorare. Amaro,ironico ma ammiccante proverbio napoletano dal quale è facile comprendere la disistima tenuta dai napoletani per tutti coloro che non si guadagnano da vivere con un serio e duro lavoro, ma fondono la propria esistenza sul fumo dell'eloquio, ritenuto però estremamente utile al conseguimento di mezzi di sussistenza, molto piú dell'onesto e duro lavoro (FATICA).
In fondo la vita è dei furbi di quelli capaci di riempirti la testa di vuote chiacchiere e di non lavorare mai vivendo ugualmente benissimo.
18. 'A SOTTO P''E CHIANCARELLE.
Letteralmente:(Prestate attenzione, voi che siete) di sotto, ai panconcelli; id est: Attenti ai panconcelli! Esclamazione usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po' piú colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le sottili, ma resistenti assi trasversali di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano olim da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando Sanfelice che fattosi erigere un palazzo nella zona dtta della Sanità, vi appose un'epigrafe dittante: eques Ferdinandus Sanfelicius fecit(il cav. Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il Sanfelice paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali Levàteve 'a sotto! (toglietevi di sotto! ).
19. A 'STU NUNNO SULO 'O CÀNTERO È NICESSARIO.
Letteralmente: la sola cosa necessaria a questo mondo è il pitale. Id est: niente e - soprattutto - nessuno sono veramente necessarii alla buona riuascita dell'esistenza la sola cosa che conta è nutrirsi bene e digerire meglio. In effetti con la parola cantero - oggetto destinato ad accogliere gli esiti fisiologici - si vuole proprio adombrare la buona salute indicata da una buona digestione, che intanto avviene se si è avuta la possibilità di nutrirsi. Si tenga presente che la parola cantero non à l'esatto corrispettivo in italiano essendo il pitale(con la quale parola si è reso in italiano) destinato ad accogliere gli esiti prettamente liquidi, mentre il cantaro era destinato ad accogliere quelli solidi.
20.SPARTERSE 'A CAMMISA 'E CRISTO.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Cosí a Napoli si dice di chi, esoso al massimo,profitti di una situazione e si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato il Cristo sul Golgota , ne divisero, per appropriarsene, in quattro parti l'unica tunica di cui era ricoperto il Signore.
21. ESSERE AURIO 'E CHIAZZA E TRIBBULO 'E CASA.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e lamentarsi in casa. Cosí a Napoli si suole dire - specie di uomini che in piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto simpatico, mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche immotivato.
brak
VARIE 1404
1.'A VECCHIA Ê TRENTA 'AUSTO, METTETTE 'O TRAPANATURO Ô FFUOCO.
Letteralmente: la vecchia ai trenta d'agosto (per riscaldarsi) mise nel fuoco l'aspo. Il proverbio viene usato a mo' di avvertenza, soprattutto nei confronti dei giovani o di chi si atteggi a giovane, che si lasciano cogliere impreparati alle prime avvisaglie dei freddi autunnali che già si avvertano sul finire del mese di agosto, freddi che - come dice l'esperienza - possono essere perniciosi al punto da indurre i piú esperti (la vecchia) ad usare come combustibile persino un utile oggetto come un aspo, l'arnese usato per ammatassare la lana filata. Per estensione, il proverbio si usa con lo stesso fine di ammonimento, nei confronti di chiunque si lasci cogliere impreparato non temendo un possibile inatteso rivolgimento di fortuna - quale è il freddo in un mese ritenuto caldo.
trapanaturo = aspo, bindolo per ammatassare dal greco try/panon, deriv. di trypân=girare, forare
2. JÍ ZUMPANNO ASTECHE E LAVATORE.
Letteralmente: andar saltando per terrazzi e lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in altoed in basso ;
asteche=lastrici solai,terrazzi dal greco astrakon=coccio)
lavatore (lavatoi) (dal lat. tardo lavatoriu(m), deriv. di lavare 'lavare' erano olim ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare.
3. PARE CA MO TE VECO VESTUTO 'A URZO.
Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso, giacché tu non ài né la forza, né la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle. La frase viene usata a commento delle azioni iniziate da chi sia ritenuto inetto al punto da non poter mai portare al termine nulla di ciò che intraprende.
4.'O CUCCHIERE 'E PIAZZA: TE PIGLIA CU 'O 'CCELLENZA E TE LASSA CU 'O CHI T'È MMUORTO.
Letteralmente: il vetturino da nolo: ti accoglie con l'eccellenza e ti congeda bestemmiandoti i morti.Il motto compendia una situazione nella quale chi vuole ottenere qualcosa, in principio si profonde in ossequi e salamelecchi esagerati ed alla fine sfoga il proprio livore represso, come i vetturini di nolo adusi a mille querimonie per attirare i clienti, ma poi - a fine corsa - pronti a riversare sul medesimo cliente immani contumelie, in ispecie allorché il cliente nello smontare dalla carrozza questioni sul prezzo della corsa, o - peggio ancora - non lasci al vetturino una congrua mancia.
5.JÍ CASCIA E TURNÀ BAUGLIO oppure JÍ STOCCO E TURNÀ BACCALÀ.
Letteralmente: andar cassa e tornare baúle oppure andare stoccafisso e tornare baccalà. Id est: non trarre profitto alcuno o dallo studio intrapreso o dall'apprendimento di un mestiere, come chi inizi l'apprendimento essendo una cassa e lo termini da baúle ossia non muti la sua intima essenza di vacuo contenitore, o - per fare altro esempio - come chi inizi uno studio essendo dello stoccafisso e lo termini diventando baccalà, diverso in forma, ma sostanzialmente restando un immutato merluzzo. Con il proverbio in epigrafe, a Napoli, si è soliti commentare le maldestre applicazioni di chi non trae profitto da ciò che tenta di fare, perchè vi si applica maldestramente o con cattiva volontà. Cascia: etimologicamente dal latino capsa (da capio) attraverso uno spagnolo caja
Baúglio: etimologicamente deverbale metatetico del latino bajulare=portare s.m. = baúle, contenitore usato per portare merci o altro;altrove estensivamente gobba che insiste sul petto.
Stocco: etimologicamente dallo spagnolo/portoghese estoque =bastone
Baccalà: etimologicamente dallo sp. bacalao, e questo dal fiammingo kabeljauw.
6.TU MUSCIO-MUSCIO SIENTE E FRUSTA LLA, NO!
Letteralmente: Tu senti il richiamo(l'invito)e l'allontanamento no. Il proverbio si riferisce a quelle persone che dalla vita si attendono solo fatti o gesti favorevoli e fanno le viste di rifiutare quelli sfavorevoli comportandosi come gatti che accorrono al richiamo per ricevere il cibo, ma scacciati, non vogliono allontanarsi; comportamento tipicamente fanciullesco che rifiuta di accettare il fatto che la vita è una continua alternanza di dolce ed amaro e tutto deve essere accettato, il termine frusta (lla) discende dal greco froutha-froutha col medesimo significato di :allontanati, sparisci.
7.'E DENARE SO' COMM'Ê CHIATTILLE: S'ATTACCANO Ê CUGLIUNE.
Letteralmente: i soldi son come le piattole: si attaccano ai testicoli. Nel crudo, ma espressivo adagio partenopeo il termine cugliune è pl. di cuglione(dal t. lat. coljone(m) per il class. coleone(m)) viene usato per intendere propriamente i testicoli, e per traslato, gli sciocchi e sprovveduti cioé quelli che annettono cosí tanta importanza al danaro da legarvisi saldamente.
Chiattille s.vo. m.le pl. di chiattillo= blatta, piattola (dal lat. blatta +suff. dim. illo: blattillo→chiattillo.
8.HÊ 'A MURÍ RUSECATO DA 'E ZZOCCOLE E 'O PRIMMO MUORZO TE LL'À DA DÀ MAMMÈTA
Che possa morire rosicchiato dai grossi topi di fogna ed il primo morso lo devi avere da tua madre. Icastica maledizione partenopea giocata sulla doppia valenza del termine zoccola (dal tardo lat. sorcula(m) che, a Napoli, identifica sia il topo di fogna che la donna di malaffare. è chiaro che la frase in esame compendia una gratuita offesa alla mamma di colui contro cui è lanciata la maledizione, mamma che viene accreditata di essere ovviamente una meretrice e non un topo di fogna!
9.MA TE FÓSSE JUTO 'O LLICCESE 'NCAPO?
Letteralmente: ma ti fosse andato il leccese in testa? Id est: fossi impazzito? Avessi perso l'uso della ragione? Icastica espressione che, a Napoli, viene usata nei confronti di chi, senza motivo, si comporti irrazionalmente. Il liccese= leccese dell'espressione non è - chiaramente - un abitante di Lecce, ma un tipo di famoso tabacco da fiuto, prodotto, temporibus illis, nei pressi del capoluogo pugliese; l'espressione paventa il fatto che il tabacco fiutato possa- ma non si sa bene come! - aver raggiunto, attraverso le coani nasali il cervello e leso cosí le facoltà raziocinanti del... fiutatore.
10. FÀ 'E SCARPE A QUACCHED'UNO.oppure FARLE ‘NU VESTITO
Letteralmente: Fare le scarpe a qualcuno.oppure confezionargli un vestito. Id est: conciar male, ridurre a cattivo partito qualcuno fino al punto di approntargli la morte. L'espressione deriva dall'antica usanza che si teneva a Napoli, per l'ultimo viaggio, - di fare indossare un vestito nuovo e/o di far calzare scarpe nuove ai morti in origine di un certo rango, poi a quelli appartenenti alla media borghesia ed infine a chiunque a qualunque ceto sociale appartenesse; vestito e scarpe nuovi erano conservati all'uopo dai familiari.
brak
Letteralmente: la vecchia ai trenta d'agosto (per riscaldarsi) mise nel fuoco l'aspo. Il proverbio viene usato a mo' di avvertenza, soprattutto nei confronti dei giovani o di chi si atteggi a giovane, che si lasciano cogliere impreparati alle prime avvisaglie dei freddi autunnali che già si avvertano sul finire del mese di agosto, freddi che - come dice l'esperienza - possono essere perniciosi al punto da indurre i piú esperti (la vecchia) ad usare come combustibile persino un utile oggetto come un aspo, l'arnese usato per ammatassare la lana filata. Per estensione, il proverbio si usa con lo stesso fine di ammonimento, nei confronti di chiunque si lasci cogliere impreparato non temendo un possibile inatteso rivolgimento di fortuna - quale è il freddo in un mese ritenuto caldo.
trapanaturo = aspo, bindolo per ammatassare dal greco try/panon, deriv. di trypân=girare, forare
2. JÍ ZUMPANNO ASTECHE E LAVATORE.
Letteralmente: andar saltando per terrazzi e lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in altoed in basso ;
asteche=lastrici solai,terrazzi dal greco astrakon=coccio)
lavatore (lavatoi) (dal lat. tardo lavatoriu(m), deriv. di lavare 'lavare' erano olim ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare.
3. PARE CA MO TE VECO VESTUTO 'A URZO.
Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso, giacché tu non ài né la forza, né la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle. La frase viene usata a commento delle azioni iniziate da chi sia ritenuto inetto al punto da non poter mai portare al termine nulla di ciò che intraprende.
4.'O CUCCHIERE 'E PIAZZA: TE PIGLIA CU 'O 'CCELLENZA E TE LASSA CU 'O CHI T'È MMUORTO.
Letteralmente: il vetturino da nolo: ti accoglie con l'eccellenza e ti congeda bestemmiandoti i morti.Il motto compendia una situazione nella quale chi vuole ottenere qualcosa, in principio si profonde in ossequi e salamelecchi esagerati ed alla fine sfoga il proprio livore represso, come i vetturini di nolo adusi a mille querimonie per attirare i clienti, ma poi - a fine corsa - pronti a riversare sul medesimo cliente immani contumelie, in ispecie allorché il cliente nello smontare dalla carrozza questioni sul prezzo della corsa, o - peggio ancora - non lasci al vetturino una congrua mancia.
5.JÍ CASCIA E TURNÀ BAUGLIO oppure JÍ STOCCO E TURNÀ BACCALÀ.
Letteralmente: andar cassa e tornare baúle oppure andare stoccafisso e tornare baccalà. Id est: non trarre profitto alcuno o dallo studio intrapreso o dall'apprendimento di un mestiere, come chi inizi l'apprendimento essendo una cassa e lo termini da baúle ossia non muti la sua intima essenza di vacuo contenitore, o - per fare altro esempio - come chi inizi uno studio essendo dello stoccafisso e lo termini diventando baccalà, diverso in forma, ma sostanzialmente restando un immutato merluzzo. Con il proverbio in epigrafe, a Napoli, si è soliti commentare le maldestre applicazioni di chi non trae profitto da ciò che tenta di fare, perchè vi si applica maldestramente o con cattiva volontà. Cascia: etimologicamente dal latino capsa (da capio) attraverso uno spagnolo caja
Baúglio: etimologicamente deverbale metatetico del latino bajulare=portare s.m. = baúle, contenitore usato per portare merci o altro;altrove estensivamente gobba che insiste sul petto.
Stocco: etimologicamente dallo spagnolo/portoghese estoque =bastone
Baccalà: etimologicamente dallo sp. bacalao, e questo dal fiammingo kabeljauw.
6.TU MUSCIO-MUSCIO SIENTE E FRUSTA LLA, NO!
Letteralmente: Tu senti il richiamo(l'invito)e l'allontanamento no. Il proverbio si riferisce a quelle persone che dalla vita si attendono solo fatti o gesti favorevoli e fanno le viste di rifiutare quelli sfavorevoli comportandosi come gatti che accorrono al richiamo per ricevere il cibo, ma scacciati, non vogliono allontanarsi; comportamento tipicamente fanciullesco che rifiuta di accettare il fatto che la vita è una continua alternanza di dolce ed amaro e tutto deve essere accettato, il termine frusta (lla) discende dal greco froutha-froutha col medesimo significato di :allontanati, sparisci.
7.'E DENARE SO' COMM'Ê CHIATTILLE: S'ATTACCANO Ê CUGLIUNE.
Letteralmente: i soldi son come le piattole: si attaccano ai testicoli. Nel crudo, ma espressivo adagio partenopeo il termine cugliune è pl. di cuglione(dal t. lat. coljone(m) per il class. coleone(m)) viene usato per intendere propriamente i testicoli, e per traslato, gli sciocchi e sprovveduti cioé quelli che annettono cosí tanta importanza al danaro da legarvisi saldamente.
Chiattille s.vo. m.le pl. di chiattillo= blatta, piattola (dal lat. blatta +suff. dim. illo: blattillo→chiattillo.
8.HÊ 'A MURÍ RUSECATO DA 'E ZZOCCOLE E 'O PRIMMO MUORZO TE LL'À DA DÀ MAMMÈTA
Che possa morire rosicchiato dai grossi topi di fogna ed il primo morso lo devi avere da tua madre. Icastica maledizione partenopea giocata sulla doppia valenza del termine zoccola (dal tardo lat. sorcula(m) che, a Napoli, identifica sia il topo di fogna che la donna di malaffare. è chiaro che la frase in esame compendia una gratuita offesa alla mamma di colui contro cui è lanciata la maledizione, mamma che viene accreditata di essere ovviamente una meretrice e non un topo di fogna!
9.MA TE FÓSSE JUTO 'O LLICCESE 'NCAPO?
Letteralmente: ma ti fosse andato il leccese in testa? Id est: fossi impazzito? Avessi perso l'uso della ragione? Icastica espressione che, a Napoli, viene usata nei confronti di chi, senza motivo, si comporti irrazionalmente. Il liccese= leccese dell'espressione non è - chiaramente - un abitante di Lecce, ma un tipo di famoso tabacco da fiuto, prodotto, temporibus illis, nei pressi del capoluogo pugliese; l'espressione paventa il fatto che il tabacco fiutato possa- ma non si sa bene come! - aver raggiunto, attraverso le coani nasali il cervello e leso cosí le facoltà raziocinanti del... fiutatore.
10. FÀ 'E SCARPE A QUACCHED'UNO.oppure FARLE ‘NU VESTITO
Letteralmente: Fare le scarpe a qualcuno.oppure confezionargli un vestito. Id est: conciar male, ridurre a cattivo partito qualcuno fino al punto di approntargli la morte. L'espressione deriva dall'antica usanza che si teneva a Napoli, per l'ultimo viaggio, - di fare indossare un vestito nuovo e/o di far calzare scarpe nuove ai morti in origine di un certo rango, poi a quelli appartenenti alla media borghesia ed infine a chiunque a qualunque ceto sociale appartenesse; vestito e scarpe nuovi erano conservati all'uopo dai familiari.
brak
FANNULLONE,BIGHELLONE etc.
FANNULLONE,BIGHELLONE etc.
Facciamo, questa volta un breve, veloce excursus dei termini napoletani che rendono quelli toscani dell’epigrafe:
- fannullones.vo m.le = propriamente la persona oziosa che non vuole e vorrebbe fare nulla; etimologicamente comp. di fa ( 3ª p. sing.ind. pres. del verbo fare) e nulla, col suff. accrescitivo –one):
- bighellone s.vo m.le = chi perde il suo tempo, andando in giro senza addivenire a nulla; etimologicamente è una voce di difficile origine;il Pianegiani ipotizza un derivato di un bigollo/pigollo=trottola voce, probabilmente dialettale per la quale però non ò trovato altre attestazioni nel significato di trottola, ma solo una come stanga per il trasporto di un doppio secchio ; ai piú (e tra di essi il D.E.I.) bighellone appare un adattamento di un precedente bigolone accrescitivo (per il tramite del suffisso one) di un antico bigolo voce veneta che vale in primis «spaghetto», ma per metafora lubrica anche pene e per traslato persona stupida) non è chiaro tuttavia il collegamento semantico tra spaghetto/pene ed il perdigiorno,mentre se ne potrebbe cogliere quello tra la voce trottola e chi va in giro improduttivamente..., ed appena accetabile appare quello tra lo stupido ed il perdigiorno;del tutto arzigogolato ed inattendibile poi il da alcuni (Flecchia, Caix) proposto collegamento etimologico/semantico di bighellone con il lat. bombix = baco/bigo;
sfaticato/a s.vo ed agg.vo m.le o f.le = chi si sottrae volontariamente e per scelta di vita al lavoro e alla fatica, , etimologicamente p. p. di faticare (dal lat. volg. fatigare 'prostrare, stancare' con un prefisso s di tipo distrattivo).
In napoletano abbiamo:
- funa fraceta s.vo ed agg.vo m.le e f.le id est: fune fradicia dunque inservibile e quindi inoperosa; il s.vo funa è dal lat. volg. *funa(m) per il cl. fune(m); l’aggettivo fraceta è per metatesi dal latino: fradicia(m)→fracida(m)→fraceta(m) dal verbo fracere=infradicire,
- francalasso/a s.vo ed agg.vo m.le o f.le che è propriamente il bighellone, colui che ozia andandosene in giro senza meta e/o scopo; etimologicamente formato, come il suo omologo michelasso, dall’addizione di un nome proprio (qui franco, là michele)semanticamente degradati a nomi comuni e dell’aggettivo lasso che è dal lat. lassu(m); cfr. lassare = 'stancare'da intendersi in senso ironico ed antifrastico, atteso che chi non lavora, non può stancarsi; il perché di quei due nomi e non altri è ignoto,ma forse non gli è estraneo il fatto che in napoletano franco sta per libero, senza costrizioni e dunque senza impegni, mentre michele è usato nel senso duro, ma affettuoso di sciocco, inetto, una persona cui non si affiderebbe un lavoro o impegno, nel timore che lo mancasse;
- pierdetiempo s.vo ed agg.vo m.le e f.le che è esattamente il perdigiorno toscano; etimologicamente formato dall’unione della seconda persona, piuttosto che della terza di solito usata in simili unioni (pierde invece del perde che ci si sarebbe atteso) dell’ind. presente del verbo perdere che è dal lat. perdere, comp. di per 'al di là, oltre' e dare 'dare' con il sostantivo tiempo= tempo; tiempo è, come il toscano tempo, dal latino tempu(s)ma con tipica dittongazione della sillaba breve d’avvio.
- sfatecato/a e sfacennato/a s.vi ed agg.vi m.le o f.le che sono l’esatto adattamento dialettale dei toscani sfaticato e sfaccendato; al primo abbiamo già accennato; il secondo: sfacennato è marcato su sfaccendato con sincope di una c, assimilazione regressiva n→d da un latino facienda particio futuro passivo di facere (cose da farsi ) con il prefisso distrattivo s: senza cose da fare, id est: chi non à niente da fare;
Veniamo ora a ad altri termini partenopei che pur essi designano il fannullone, il bighellone e simili, ma non trovano somiglianza nel toscano; e sono
- scemiatore/a s.vo ed agg.vo m.le o f.le di per sé ed in primis il finto tonto, il falso sciocco, poi il furbacchione, colui che per non ottemperare ad un quid richiestogli, fa l’indiano o come piú correttamente détto in napoletano fa ‘o francese dando ad intendere di non aver compreso, esimendosi perciò dal prestare la propria opera; ricorderò che fà ‘o francese ad litteram è fare il francese; id est: far vista di non intendere ciò che venga detto, fingere di non comprendere soprattutto quando il comprendere , comporterebbe il dover eseguire per es. un ordine ricevuto o comporterebbe il doversi applicare in azioni o operazioni faticose e perciò sgradite. La locuzione napoletana fà ‘o francese= fare il francese corrisponde all’incirca come ricordato, al fare l’indiano della lingua italiana; ma l’espressione napoletana è, per i napoletani, molto piú storicamente corretta di quella italiana , non risultando che i partenopei abbiano avuto grandi frequentazioni e/o rapporti con gli indiani sia delle Indie che delle Americhe, mentre ebbero molto a che spartire con gli invasori francesi coi quali si crearono grandi problemi di comprensione reciproca.
- scemiatore è un deverbale (attraverso il noto suffisso di scopo o fine: tore) di scemià che è il comportarsi come or ora cennato, ed etimologicamente è da un basso latino ex-simare,
- Stracquachiazze s.vo ed agg.vo m.le e f.le propriamente il bighellone aduso ad un cosí lungo, continuo, ma inconferente girovagare tale da addirittura consumare, stancar le piazze; di per sé il verbo stracquà che con il sostantivo chiazze plurale di chiazza (=piazza dal latino platea) indicherebbe lo spiovere, il venir meno della pioggia, ma qui estensivamente sta per il venir meno… delle forze o della consistenza strutturale delle ipotetiche piazze calpestate, senza tregua dal perdigiorno di turno, sperticcio/a agg.vo m.le o f.le antica voce che significò bighellone/a, perdigiorno ed indicò più esattamente chi andasse in giro senza meta, quasi perduto/a nel suo girovagare; etimologicamente deverbale di sperdere costruito sul part. pass. spierto di cui fu un rafforzativo furbesco e di dileggio; morfologicamente voce formata partendo da spierto→sperto addizionato del suffisso iccio/a suffisso derivativo e alterativo di aggettivi, che continua il lat. -iciu(m) ed esprime diminuzione, imperfezione, approssimazione e sim., per lo piú con valore peggiorativo.
- strafalario/a s.vo ed agg.vo m.le o f.le esattamente lo scansafatiche inveterato, il fannullone patentato: parola che riproduce quasi in pieno lo spagnolo estrafàlario→(e)strafalario di medesimo significato.
Questo strafalario è parola che al mio orecchio suona molto bene e non nascondo che, innamoratomene, mi occorse di usarla talvolta in qualche compito, al tempo del liceo, in un contesto di lingua nazionale, accapigliandomene poi con il professore di lettere.
Raffaele Bracale - Napoli
Facciamo, questa volta un breve, veloce excursus dei termini napoletani che rendono quelli toscani dell’epigrafe:
- fannullones.vo m.le = propriamente la persona oziosa che non vuole e vorrebbe fare nulla; etimologicamente comp. di fa ( 3ª p. sing.ind. pres. del verbo fare) e nulla, col suff. accrescitivo –one):
- bighellone s.vo m.le = chi perde il suo tempo, andando in giro senza addivenire a nulla; etimologicamente è una voce di difficile origine;il Pianegiani ipotizza un derivato di un bigollo/pigollo=trottola voce, probabilmente dialettale per la quale però non ò trovato altre attestazioni nel significato di trottola, ma solo una come stanga per il trasporto di un doppio secchio ; ai piú (e tra di essi il D.E.I.) bighellone appare un adattamento di un precedente bigolone accrescitivo (per il tramite del suffisso one) di un antico bigolo voce veneta che vale in primis «spaghetto», ma per metafora lubrica anche pene e per traslato persona stupida) non è chiaro tuttavia il collegamento semantico tra spaghetto/pene ed il perdigiorno,mentre se ne potrebbe cogliere quello tra la voce trottola e chi va in giro improduttivamente..., ed appena accetabile appare quello tra lo stupido ed il perdigiorno;del tutto arzigogolato ed inattendibile poi il da alcuni (Flecchia, Caix) proposto collegamento etimologico/semantico di bighellone con il lat. bombix = baco/bigo;
sfaticato/a s.vo ed agg.vo m.le o f.le = chi si sottrae volontariamente e per scelta di vita al lavoro e alla fatica, , etimologicamente p. p. di faticare (dal lat. volg. fatigare 'prostrare, stancare' con un prefisso s di tipo distrattivo).
In napoletano abbiamo:
- funa fraceta s.vo ed agg.vo m.le e f.le id est: fune fradicia dunque inservibile e quindi inoperosa; il s.vo funa è dal lat. volg. *funa(m) per il cl. fune(m); l’aggettivo fraceta è per metatesi dal latino: fradicia(m)→fracida(m)→fraceta(m) dal verbo fracere=infradicire,
- francalasso/a s.vo ed agg.vo m.le o f.le che è propriamente il bighellone, colui che ozia andandosene in giro senza meta e/o scopo; etimologicamente formato, come il suo omologo michelasso, dall’addizione di un nome proprio (qui franco, là michele)semanticamente degradati a nomi comuni e dell’aggettivo lasso che è dal lat. lassu(m); cfr. lassare = 'stancare'da intendersi in senso ironico ed antifrastico, atteso che chi non lavora, non può stancarsi; il perché di quei due nomi e non altri è ignoto,ma forse non gli è estraneo il fatto che in napoletano franco sta per libero, senza costrizioni e dunque senza impegni, mentre michele è usato nel senso duro, ma affettuoso di sciocco, inetto, una persona cui non si affiderebbe un lavoro o impegno, nel timore che lo mancasse;
- pierdetiempo s.vo ed agg.vo m.le e f.le che è esattamente il perdigiorno toscano; etimologicamente formato dall’unione della seconda persona, piuttosto che della terza di solito usata in simili unioni (pierde invece del perde che ci si sarebbe atteso) dell’ind. presente del verbo perdere che è dal lat. perdere, comp. di per 'al di là, oltre' e dare 'dare' con il sostantivo tiempo= tempo; tiempo è, come il toscano tempo, dal latino tempu(s)ma con tipica dittongazione della sillaba breve d’avvio.
- sfatecato/a e sfacennato/a s.vi ed agg.vi m.le o f.le che sono l’esatto adattamento dialettale dei toscani sfaticato e sfaccendato; al primo abbiamo già accennato; il secondo: sfacennato è marcato su sfaccendato con sincope di una c, assimilazione regressiva n→d da un latino facienda particio futuro passivo di facere (cose da farsi ) con il prefisso distrattivo s: senza cose da fare, id est: chi non à niente da fare;
Veniamo ora a ad altri termini partenopei che pur essi designano il fannullone, il bighellone e simili, ma non trovano somiglianza nel toscano; e sono
- scemiatore/a s.vo ed agg.vo m.le o f.le di per sé ed in primis il finto tonto, il falso sciocco, poi il furbacchione, colui che per non ottemperare ad un quid richiestogli, fa l’indiano o come piú correttamente détto in napoletano fa ‘o francese dando ad intendere di non aver compreso, esimendosi perciò dal prestare la propria opera; ricorderò che fà ‘o francese ad litteram è fare il francese; id est: far vista di non intendere ciò che venga detto, fingere di non comprendere soprattutto quando il comprendere , comporterebbe il dover eseguire per es. un ordine ricevuto o comporterebbe il doversi applicare in azioni o operazioni faticose e perciò sgradite. La locuzione napoletana fà ‘o francese= fare il francese corrisponde all’incirca come ricordato, al fare l’indiano della lingua italiana; ma l’espressione napoletana è, per i napoletani, molto piú storicamente corretta di quella italiana , non risultando che i partenopei abbiano avuto grandi frequentazioni e/o rapporti con gli indiani sia delle Indie che delle Americhe, mentre ebbero molto a che spartire con gli invasori francesi coi quali si crearono grandi problemi di comprensione reciproca.
- scemiatore è un deverbale (attraverso il noto suffisso di scopo o fine: tore) di scemià che è il comportarsi come or ora cennato, ed etimologicamente è da un basso latino ex-simare,
- Stracquachiazze s.vo ed agg.vo m.le e f.le propriamente il bighellone aduso ad un cosí lungo, continuo, ma inconferente girovagare tale da addirittura consumare, stancar le piazze; di per sé il verbo stracquà che con il sostantivo chiazze plurale di chiazza (=piazza dal latino platea) indicherebbe lo spiovere, il venir meno della pioggia, ma qui estensivamente sta per il venir meno… delle forze o della consistenza strutturale delle ipotetiche piazze calpestate, senza tregua dal perdigiorno di turno, sperticcio/a agg.vo m.le o f.le antica voce che significò bighellone/a, perdigiorno ed indicò più esattamente chi andasse in giro senza meta, quasi perduto/a nel suo girovagare; etimologicamente deverbale di sperdere costruito sul part. pass. spierto di cui fu un rafforzativo furbesco e di dileggio; morfologicamente voce formata partendo da spierto→sperto addizionato del suffisso iccio/a suffisso derivativo e alterativo di aggettivi, che continua il lat. -iciu(m) ed esprime diminuzione, imperfezione, approssimazione e sim., per lo piú con valore peggiorativo.
- strafalario/a s.vo ed agg.vo m.le o f.le esattamente lo scansafatiche inveterato, il fannullone patentato: parola che riproduce quasi in pieno lo spagnolo estrafàlario→(e)strafalario di medesimo significato.
Questo strafalario è parola che al mio orecchio suona molto bene e non nascondo che, innamoratomene, mi occorse di usarla talvolta in qualche compito, al tempo del liceo, in un contesto di lingua nazionale, accapigliandomene poi con il professore di lettere.
Raffaele Bracale - Napoli
martedì 30 agosto 2011
FÀ ‘NU BELL’ACCÀTTETO.
FÀ ‘NU BELL’ACCÀTTETO.
Ad litteram: fare un bell’acquisto Ironica locuzione da intendersi chiaramente in senso antifrastico che si riferisce a chi à fatto un pessimo affare, un cattivo acquisto e magari à sborsato una somma esorbitante rispetto alla quantità o, piú spesso, alla qualità del bene acquisito; per traslato la locuzione viene riferita, a mo’ di dileggio a chi abbia impalmato una sposa rivelatasi poi meno virtuosa o meno docile di quel che apparisse.
accàtteto letteralmente: acquisto, compera, guadagno (anche in senso figurato) etimologicamente voce deverbale di accattà = acquistare, comprare e talvolta prendere, sottrarre come nel caso dell’espressione: ‘o sorice s’è accattato ‘o furmaggio: il topo (finito in trappola) à preso il formaggio (senza esser catturato); il verbo accattà/are è, a sua volta, dal basso latino ad-captare→accaptare→accattare intensivo di capere = prendere.
Raffaele Bracale
Ad litteram: fare un bell’acquisto Ironica locuzione da intendersi chiaramente in senso antifrastico che si riferisce a chi à fatto un pessimo affare, un cattivo acquisto e magari à sborsato una somma esorbitante rispetto alla quantità o, piú spesso, alla qualità del bene acquisito; per traslato la locuzione viene riferita, a mo’ di dileggio a chi abbia impalmato una sposa rivelatasi poi meno virtuosa o meno docile di quel che apparisse.
accàtteto letteralmente: acquisto, compera, guadagno (anche in senso figurato) etimologicamente voce deverbale di accattà = acquistare, comprare e talvolta prendere, sottrarre come nel caso dell’espressione: ‘o sorice s’è accattato ‘o furmaggio: il topo (finito in trappola) à preso il formaggio (senza esser catturato); il verbo accattà/are è, a sua volta, dal basso latino ad-captare→accaptare→accattare intensivo di capere = prendere.
Raffaele Bracale
GUAGLIONE – SIGNIFICATO ED ETIMOLOGIA.
GUAGLIONE – SIGNIFICATO ED ETIMOLOGIA.
La parola in epigrafe, pur se accolta in tutti i lessici della lingua toscana, nasce a Napoli e poi di qui trasmigra, come tante altre parole quali camorra e suoi derivati, guappo e consimili e con il termine guaglione viene indicato l’adolescente, il ragazzo poco piú che decenne che abbia eletto per proprio regno la strada nel cui
rutilante chiasso, si diverte, gioca e magari presta la sua piccola opera servizievole nell’intento di lucrare piccolo guadagno: ‘o guaglione d’’e servizie o guaglione ‘e puteca quando si tratti di ragazzo avviato ad un lavoro piú o meno stabilmente retribuito Pertanto con il termine guaglione a Napoli non si indica il bambino, che è detto propriamente: criaturo o anche ninno o nennillo e – quando si tratti di piccolissimo anche anema ‘e Ddio.
Per ciò che riguarda l’etimologia, la questione è di non poca cosa,
avendo il vocabolo scatenato la fantasia di addetti ai lavori o filologi della domenica e sono state avanzate le ipotesi piú disparate ed è molto difficile bordeggiandole attingere un sicuro approdo.
Ecco perché mi limiterò a dare un sommario elenco di dette ipotesi, e a suggerire alla fine, l’ipotesi che ritengo piú perseguibile.
A – si cominciò, temporibus illis, a scomodare il greco kallos, kallion: bellino, grazioso, nella pretesa forse che il guaglione dovesse essere per forza grazioso, ma chiunque si può render conto che si trattava di una pretesa non supportata da alcuna documentata prova, per cui escluderei senz’altro l’ipotesi.
B –Si congetturò pure che guaglione potesse derivare sempre dal greco, ma dalla parola gala = latte, ma non si vede cosa possa mettere in rapporto il latte con il ragazzo di strada che non è certamente un poppante; l’ipotesi è pertanto – a mio avviso - da scartare.
Come è, a mio avviso, da scartare l’ipotesi C, sebbene caldeggiata, se non proposta originariamente dall’Alessio nel suo dottissimo D.E.I., che fa derivare la parola di cui ci occupiamo dal latino gàneone(m) che sta ad indicare il frequentatore di bettole, l’ubriacone, o peggio! il frequentatore di postriboli: personaggi che non posson certo configurare, d’acchito, il guaglione. Non nego che, talvolta, il guaglione possa aver alzato il gomito o frequentato bordelli, ma da ciò a ritenerle sue precipue attività (tanto da farne derivare il nome...)mi pare ce ne corra!
D – Ugualmente non perseguibile mi pare l’opinione espressa dal pur grandissimo Ròlfs, che accosta la parola guaglione a guagnone e cioè: colui che piange, ma anche questa mi pare una petizione di principio inconferente; perché mai il guaglione dovrebbe tanto piangere, da far trarre da ciò l’origine della parola?
E – Ipotesi ugualmente da scartare son quelle che che tirano in causa pretestuose voci latine come : qualus= cesto e qualis= quale, termini che semanticamente sono chiaramente inconferenti rispetto la sostanza del nostro guaglione;
F – Si è cercato, da qualcuno di coinvolgere il francese con la parola garçon, che –è vero – indica il ragazzo di bottega, ma da esso lemma in napoletano è derivato guarzone, per cui scarto l’ipotesi.
G. – Neppure mi convince l’idea, espressa marginalmente dall’ amico prof. C. Jandolo nel suo conciso Dizionario etimologico napoletano, che guaglione possa derivare da un ipotizzato valione(m) dal verbo valére: valido, vispo; non mi risulta infatti che tutti i guagliuni siano necessariamente vispi, validi e valenti…
H -Scarto altresí la pretestuosa derivazione dal francese gaillard, amologa del nostro gagliardo, giacché non è scritto da nessuna parte che ‘o guaglione debba essere forte e muscoloso.
I - Sempre nell’ambito della lingua francese riporto quanto ebbe a dire il giornalista A. Fratta scrivendo sul Mattino di Napoli allorché affermò di avere udito in quel di Marsiglia apostrofare i ragazzi di strada con il termine vuaiú (voyou) stranamente simile al suono del nostro guagliú; si tratta di una tentazione, ma se si esclude il tenue legame del francese voie = strada con il guaglione partenopeo troppe sono le discrepanze semantiche che ostano a che si possa accettare simile discendenza.
Per concludere mi pare si possa proporre l’ipotesi di far discendere dal sempre vivo basso latino galione(m)= giovane mozzo,servo sulle galee)la parola guaglione soprattutto tenendo presente quel ragazzo dei servizi o guaglione ‘e puteca di cui sopra.
RaffaeleBracale
La parola in epigrafe, pur se accolta in tutti i lessici della lingua toscana, nasce a Napoli e poi di qui trasmigra, come tante altre parole quali camorra e suoi derivati, guappo e consimili e con il termine guaglione viene indicato l’adolescente, il ragazzo poco piú che decenne che abbia eletto per proprio regno la strada nel cui
rutilante chiasso, si diverte, gioca e magari presta la sua piccola opera servizievole nell’intento di lucrare piccolo guadagno: ‘o guaglione d’’e servizie o guaglione ‘e puteca quando si tratti di ragazzo avviato ad un lavoro piú o meno stabilmente retribuito Pertanto con il termine guaglione a Napoli non si indica il bambino, che è detto propriamente: criaturo o anche ninno o nennillo e – quando si tratti di piccolissimo anche anema ‘e Ddio.
Per ciò che riguarda l’etimologia, la questione è di non poca cosa,
avendo il vocabolo scatenato la fantasia di addetti ai lavori o filologi della domenica e sono state avanzate le ipotesi piú disparate ed è molto difficile bordeggiandole attingere un sicuro approdo.
Ecco perché mi limiterò a dare un sommario elenco di dette ipotesi, e a suggerire alla fine, l’ipotesi che ritengo piú perseguibile.
A – si cominciò, temporibus illis, a scomodare il greco kallos, kallion: bellino, grazioso, nella pretesa forse che il guaglione dovesse essere per forza grazioso, ma chiunque si può render conto che si trattava di una pretesa non supportata da alcuna documentata prova, per cui escluderei senz’altro l’ipotesi.
B –Si congetturò pure che guaglione potesse derivare sempre dal greco, ma dalla parola gala = latte, ma non si vede cosa possa mettere in rapporto il latte con il ragazzo di strada che non è certamente un poppante; l’ipotesi è pertanto – a mio avviso - da scartare.
Come è, a mio avviso, da scartare l’ipotesi C, sebbene caldeggiata, se non proposta originariamente dall’Alessio nel suo dottissimo D.E.I., che fa derivare la parola di cui ci occupiamo dal latino gàneone(m) che sta ad indicare il frequentatore di bettole, l’ubriacone, o peggio! il frequentatore di postriboli: personaggi che non posson certo configurare, d’acchito, il guaglione. Non nego che, talvolta, il guaglione possa aver alzato il gomito o frequentato bordelli, ma da ciò a ritenerle sue precipue attività (tanto da farne derivare il nome...)mi pare ce ne corra!
D – Ugualmente non perseguibile mi pare l’opinione espressa dal pur grandissimo Ròlfs, che accosta la parola guaglione a guagnone e cioè: colui che piange, ma anche questa mi pare una petizione di principio inconferente; perché mai il guaglione dovrebbe tanto piangere, da far trarre da ciò l’origine della parola?
E – Ipotesi ugualmente da scartare son quelle che che tirano in causa pretestuose voci latine come : qualus= cesto e qualis= quale, termini che semanticamente sono chiaramente inconferenti rispetto la sostanza del nostro guaglione;
F – Si è cercato, da qualcuno di coinvolgere il francese con la parola garçon, che –è vero – indica il ragazzo di bottega, ma da esso lemma in napoletano è derivato guarzone, per cui scarto l’ipotesi.
G. – Neppure mi convince l’idea, espressa marginalmente dall’ amico prof. C. Jandolo nel suo conciso Dizionario etimologico napoletano, che guaglione possa derivare da un ipotizzato valione(m) dal verbo valére: valido, vispo; non mi risulta infatti che tutti i guagliuni siano necessariamente vispi, validi e valenti…
H -Scarto altresí la pretestuosa derivazione dal francese gaillard, amologa del nostro gagliardo, giacché non è scritto da nessuna parte che ‘o guaglione debba essere forte e muscoloso.
I - Sempre nell’ambito della lingua francese riporto quanto ebbe a dire il giornalista A. Fratta scrivendo sul Mattino di Napoli allorché affermò di avere udito in quel di Marsiglia apostrofare i ragazzi di strada con il termine vuaiú (voyou) stranamente simile al suono del nostro guagliú; si tratta di una tentazione, ma se si esclude il tenue legame del francese voie = strada con il guaglione partenopeo troppe sono le discrepanze semantiche che ostano a che si possa accettare simile discendenza.
Per concludere mi pare si possa proporre l’ipotesi di far discendere dal sempre vivo basso latino galione(m)= giovane mozzo,servo sulle galee)la parola guaglione soprattutto tenendo presente quel ragazzo dei servizi o guaglione ‘e puteca di cui sopra.
RaffaeleBracale
REMMEDIE P’’E MALE etc.
REMMEDIE P’’E MALE
zoè a ddicere:
ANTICA MMEDICINA POPOLARE NAPULITANA
*Contro â ròsula (ggelune).
‘Nfunniteve ‘a ròsula bbuono bbuono cu ‘a piscia cavera ‘e ‘nu criaturo ‘e sette mise primma ‘e ve mettere dinto ô lietto. Facitelo pe quatto o ccinche sere ‘e sèguito, e ve faccio avvedé ca ‘a ròsula ve passarrà!
Pe sanà ‘a ròsula fa pure bbene ‘nu cataplasemo ‘e malva cotta, o ‘e sarvia, o puramente d'aglio pesato dint’ô murtaro, o ‘e mele cotte, ‘e fravole mature o ‘e farina ‘e cicere. Se po’ pure auntarla (ungerla) cu ‘nu poco ‘e ‘nzogna ‘e panza ‘e ‘nu puorco masculo:ce se prova assaje rifriggerio.
*
Si po ve vulite fà passà chellu rrusso ca dà tanto turmiento specialmente ê ccriature, ‘a sera prmima ’e ve cuccà, mettite a scarfà ‘nu poco d'acqua, e ppo mettitece ‘e piede a mmòllo pe ‘na dicina ‘e minute.
Vedite che mmana santa!
*Contro ô male ‘e rine.
Accattate ‘nu sordo o duje ‘e lardo ‘e panza ‘e ‘nu puorco masculo, strufinàtavillo bbuono bbuono ‘ncopp’ â parte che vve dôle, e vedite ca doppo ‘nu poco ‘e tiempo v’ ‘a sentite arrefriscata(risollevata).
Naturalmente, v’avite ‘a cummiglià ‘e rine cu 'na pezza ‘e lana scarfata cu ‘o fierro pe stirà.
*Contro ê puórre.
Pe levasse ‘o ‘mpiccio d’’e puórre nun ce vo’ niente.
Ghiate a dd’’o chianchiere e accattate ‘nu bbellu piezzo ‘e cotena ‘e curazza (cotica di groppa) ‘e ‘nu puorco masculo, e strufinàteve bbuono bbuono tutte ‘e puórre ca tenite p’’o cuorpo e p’’a faccia. Fatta 'sta funzione pigliàte chella stessa mmedesema cotena e ghiàtela a ghittà a ‘nu sito addó, doppo ca ce ll’avite jettata nun ce avite ‘a passà cchiú pe tutto ‘o tiempo d’’a vita vosta; pecché si, puta caso, ce passate, ‘e puórre ve tornano a vení e nun ve passanno cchiú.Quanno po’ chella cótena medesema ca v'è sservuta resulta tutta quanta seccata, allora ‘e puórre ca tenite se ne càdono ‘a ppe lloro.
*
Si no,putite fà n’ata cosa: strufinàteve ‘ncopp’ ê puórre ‘nu cicero o ‘nu fasulo, ca però ànn’’a essere arrubbate ca si no nun vale; e ppo menate ‘o cicero o ‘o fasulo dint’ ô cesso e menate ll’acqua!
*
Ce sta pure chi l’attacca cu ‘nu capuzziello ‘e filo ‘e seta culor russo cardinale(è ‘mpurtante assaje ‘o culore!) ‘nfino a cche nun le se seccano e ppo le càdono a ppe lloro.
*
N’ atu remmedio pe ffà sparí ‘e puórre è chillo ‘e ‘nfonnerle pe ddoje o tre vvote cu chillu sango ‘e quanno ‘na femmena tène ‘e ccose soje
*
O puramente accattàte ‘nu mazzetto p’’o broro e strufinatavillo bbuono buono ‘ncopp’ ê puórre pe paricchi vvote e ppe ddiverzi juorne.
Quanno ve site servuto ‘e chillu mazzetto, mettitelo a seccarlo ô sóle. ‘Na vota seccato ‘o mazzetto, pure ‘e puórre se séccano e se ne càdono!
* Contro l'adropisia.(idropisia)
Faciteve dà da ‘o sempricista(erborista medicinale) chella ràdica (ca mo nun saccio ccome se chiamma a llengua nosta) ca tène ll'uocchie, ‘o naso, ‘a vocca, ‘e bbraccia e ‘e gamme comme a ‘nu crestiano (1) , facítela vollere dinto a ‘na tianella ‘e terraglia, chiena d'acqua, e bbevitavella pe 'na ventina ‘e juorne, â matina a ddiune e ve passa tutto cosa!
(1). - La pianta che à la radice a forma umana è la Mandragola.
(nota originale coeva (1750))
*Contro ê ’nturzamiente (gonfiori),contro ê bbotte(colpi) e contro ê fferite.
‘Nfromme ‘na persona ave zoè s’abbusca ‘na mazzata,o ‘nu punio o pure ‘na ferita, llà ppe llà le fa súbbeto bbene si nce mette paricchia chiara d’uovo sbattuta cu ‘nu pizzeco ‘e sale o puramente ‘nu poco ‘e farina ‘e posema fatta a ‘nchiasto, o ‘nu poco ‘e ‘nzogna ‘e panza ‘e ‘nu puorco masculo stesa ‘ncopp’ a ‘nu piezzo ‘e carta straccia.
*
N’ ata mano santa è metterce ‘nu poco ‘e chella ‘nguenta gialla, naturale, ca sta dint’ ê rrecchie, o pure ‘nu ‘nchiastillo fatto cu ‘a póvera pe sparà e ‘na presa d’ànnese.
Anze ve dico ca nun ce sta nisciuno remmedio meglio ‘e ‘stu gnastillo lloco pe sanà ‘a fora ê ‘nturzamiente, bbotte e ferite, pure ‘e sfoghe ‘e pelle e tanti ati malanne! Nun se trova niente ‘e meglio!
* Pe stagnà ‘o sango ch'esce p’’o naso.
Ce stanno ‘nu sacco ‘e remmedie: uno meglio ‘e ll’ato.
1) Se fa ‘na croce cu ddoje mazzarelle e se mette ‘ncapo â persona ca lle jesce ‘o sango da ‘o naso.
2) Cu ‘a féde d’’a mugliera o cu chella d’’o marito o pure d’’a cummara o d’’o cumparo se ségna ‘na croce ‘ncapa a chillo o a cchella ca lle cola ‘o sango p’’o naso.
3) Se fa mettere ‘a persona ca tene ‘o sango ca lle scorre da ‘o naso, ‘ncopp’ ê pponte d’’e piede, e à dda starse ccu ‘e ddoje mane aizate tese cchiú ca se po’ ‘nfacci’ ô muro, ‘nfino a ttanto ca nun se ferma ‘o sango.
4) Cierte vvote ‘o sango se stagna aizanno ‘e ddoje bbraccia.
Presempio: si ‘o sango ve cola p’’a fròcia dritta s'aiza ‘o vraccio dritto; s'invece ve cóla da ‘a fròcia mancina allora aizate ‘o vraccio mancino.
5) Fa pure bbene pe chi le cóla ‘o sango a vuttarle all’intrasatta ‘nu poco dd'acqua gelata addereto ô cuollo.
Chella ‘mmpressione nce ‘o stagna lla ppe lla.
*Contro la ‘moraggía moroidale.
Beviteve l’acqua vulluta cu ‘e ràdeche d'ellera e ‘nu cucchiarino ‘e mèle.Stateve però attiente a prucurarve chelli ràdeche ca cresceno dinto ê mmura; pecché si fósseno ‘e chelle ca nàsceno ‘mmiezo ê tterre, nun ve faciarriano ‘o riesto ‘e niente!
* ’Na cura pe farse sicche.
S'accummencia a bevere â matina, a ddiuno, ‘nu dito d'acito, ma ‘e chellu fforte; po a mmano a mmano,’mmece ‘e ‘nu dito, ddoje dete, po miezu bicchiere, e si uno ce ‘a fa , pure ‘nu bicchiere sano. Ma s’à dda jí chianu chianillo, pecché cchi fa 'sta cura si nun se sta attiento po’ farse accussí ssicco ca terque quaterque nce po’
rummanerce adderittura!
raffaele bracale
(da un testo anonimo di fine 1700 ripreso anche dal poeta romano GIGI ZANAZZO.)
zoè a ddicere:
ANTICA MMEDICINA POPOLARE NAPULITANA
*Contro â ròsula (ggelune).
‘Nfunniteve ‘a ròsula bbuono bbuono cu ‘a piscia cavera ‘e ‘nu criaturo ‘e sette mise primma ‘e ve mettere dinto ô lietto. Facitelo pe quatto o ccinche sere ‘e sèguito, e ve faccio avvedé ca ‘a ròsula ve passarrà!
Pe sanà ‘a ròsula fa pure bbene ‘nu cataplasemo ‘e malva cotta, o ‘e sarvia, o puramente d'aglio pesato dint’ô murtaro, o ‘e mele cotte, ‘e fravole mature o ‘e farina ‘e cicere. Se po’ pure auntarla (ungerla) cu ‘nu poco ‘e ‘nzogna ‘e panza ‘e ‘nu puorco masculo:ce se prova assaje rifriggerio.
*
Si po ve vulite fà passà chellu rrusso ca dà tanto turmiento specialmente ê ccriature, ‘a sera prmima ’e ve cuccà, mettite a scarfà ‘nu poco d'acqua, e ppo mettitece ‘e piede a mmòllo pe ‘na dicina ‘e minute.
Vedite che mmana santa!
*Contro ô male ‘e rine.
Accattate ‘nu sordo o duje ‘e lardo ‘e panza ‘e ‘nu puorco masculo, strufinàtavillo bbuono bbuono ‘ncopp’ â parte che vve dôle, e vedite ca doppo ‘nu poco ‘e tiempo v’ ‘a sentite arrefriscata(risollevata).
Naturalmente, v’avite ‘a cummiglià ‘e rine cu 'na pezza ‘e lana scarfata cu ‘o fierro pe stirà.
*Contro ê puórre.
Pe levasse ‘o ‘mpiccio d’’e puórre nun ce vo’ niente.
Ghiate a dd’’o chianchiere e accattate ‘nu bbellu piezzo ‘e cotena ‘e curazza (cotica di groppa) ‘e ‘nu puorco masculo, e strufinàteve bbuono bbuono tutte ‘e puórre ca tenite p’’o cuorpo e p’’a faccia. Fatta 'sta funzione pigliàte chella stessa mmedesema cotena e ghiàtela a ghittà a ‘nu sito addó, doppo ca ce ll’avite jettata nun ce avite ‘a passà cchiú pe tutto ‘o tiempo d’’a vita vosta; pecché si, puta caso, ce passate, ‘e puórre ve tornano a vení e nun ve passanno cchiú.Quanno po’ chella cótena medesema ca v'è sservuta resulta tutta quanta seccata, allora ‘e puórre ca tenite se ne càdono ‘a ppe lloro.
*
Si no,putite fà n’ata cosa: strufinàteve ‘ncopp’ ê puórre ‘nu cicero o ‘nu fasulo, ca però ànn’’a essere arrubbate ca si no nun vale; e ppo menate ‘o cicero o ‘o fasulo dint’ ô cesso e menate ll’acqua!
*
Ce sta pure chi l’attacca cu ‘nu capuzziello ‘e filo ‘e seta culor russo cardinale(è ‘mpurtante assaje ‘o culore!) ‘nfino a cche nun le se seccano e ppo le càdono a ppe lloro.
*
N’ atu remmedio pe ffà sparí ‘e puórre è chillo ‘e ‘nfonnerle pe ddoje o tre vvote cu chillu sango ‘e quanno ‘na femmena tène ‘e ccose soje
*
O puramente accattàte ‘nu mazzetto p’’o broro e strufinatavillo bbuono buono ‘ncopp’ ê puórre pe paricchi vvote e ppe ddiverzi juorne.
Quanno ve site servuto ‘e chillu mazzetto, mettitelo a seccarlo ô sóle. ‘Na vota seccato ‘o mazzetto, pure ‘e puórre se séccano e se ne càdono!
* Contro l'adropisia.(idropisia)
Faciteve dà da ‘o sempricista(erborista medicinale) chella ràdica (ca mo nun saccio ccome se chiamma a llengua nosta) ca tène ll'uocchie, ‘o naso, ‘a vocca, ‘e bbraccia e ‘e gamme comme a ‘nu crestiano (1) , facítela vollere dinto a ‘na tianella ‘e terraglia, chiena d'acqua, e bbevitavella pe 'na ventina ‘e juorne, â matina a ddiune e ve passa tutto cosa!
(1). - La pianta che à la radice a forma umana è la Mandragola.
(nota originale coeva (1750))
*Contro ê ’nturzamiente (gonfiori),contro ê bbotte(colpi) e contro ê fferite.
‘Nfromme ‘na persona ave zoè s’abbusca ‘na mazzata,o ‘nu punio o pure ‘na ferita, llà ppe llà le fa súbbeto bbene si nce mette paricchia chiara d’uovo sbattuta cu ‘nu pizzeco ‘e sale o puramente ‘nu poco ‘e farina ‘e posema fatta a ‘nchiasto, o ‘nu poco ‘e ‘nzogna ‘e panza ‘e ‘nu puorco masculo stesa ‘ncopp’ a ‘nu piezzo ‘e carta straccia.
*
N’ ata mano santa è metterce ‘nu poco ‘e chella ‘nguenta gialla, naturale, ca sta dint’ ê rrecchie, o pure ‘nu ‘nchiastillo fatto cu ‘a póvera pe sparà e ‘na presa d’ànnese.
Anze ve dico ca nun ce sta nisciuno remmedio meglio ‘e ‘stu gnastillo lloco pe sanà ‘a fora ê ‘nturzamiente, bbotte e ferite, pure ‘e sfoghe ‘e pelle e tanti ati malanne! Nun se trova niente ‘e meglio!
* Pe stagnà ‘o sango ch'esce p’’o naso.
Ce stanno ‘nu sacco ‘e remmedie: uno meglio ‘e ll’ato.
1) Se fa ‘na croce cu ddoje mazzarelle e se mette ‘ncapo â persona ca lle jesce ‘o sango da ‘o naso.
2) Cu ‘a féde d’’a mugliera o cu chella d’’o marito o pure d’’a cummara o d’’o cumparo se ségna ‘na croce ‘ncapa a chillo o a cchella ca lle cola ‘o sango p’’o naso.
3) Se fa mettere ‘a persona ca tene ‘o sango ca lle scorre da ‘o naso, ‘ncopp’ ê pponte d’’e piede, e à dda starse ccu ‘e ddoje mane aizate tese cchiú ca se po’ ‘nfacci’ ô muro, ‘nfino a ttanto ca nun se ferma ‘o sango.
4) Cierte vvote ‘o sango se stagna aizanno ‘e ddoje bbraccia.
Presempio: si ‘o sango ve cola p’’a fròcia dritta s'aiza ‘o vraccio dritto; s'invece ve cóla da ‘a fròcia mancina allora aizate ‘o vraccio mancino.
5) Fa pure bbene pe chi le cóla ‘o sango a vuttarle all’intrasatta ‘nu poco dd'acqua gelata addereto ô cuollo.
Chella ‘mmpressione nce ‘o stagna lla ppe lla.
*Contro la ‘moraggía moroidale.
Beviteve l’acqua vulluta cu ‘e ràdeche d'ellera e ‘nu cucchiarino ‘e mèle.Stateve però attiente a prucurarve chelli ràdeche ca cresceno dinto ê mmura; pecché si fósseno ‘e chelle ca nàsceno ‘mmiezo ê tterre, nun ve faciarriano ‘o riesto ‘e niente!
* ’Na cura pe farse sicche.
S'accummencia a bevere â matina, a ddiuno, ‘nu dito d'acito, ma ‘e chellu fforte; po a mmano a mmano,’mmece ‘e ‘nu dito, ddoje dete, po miezu bicchiere, e si uno ce ‘a fa , pure ‘nu bicchiere sano. Ma s’à dda jí chianu chianillo, pecché cchi fa 'sta cura si nun se sta attiento po’ farse accussí ssicco ca terque quaterque nce po’
rummanerce adderittura!
raffaele bracale
(da un testo anonimo di fine 1700 ripreso anche dal poeta romano GIGI ZANAZZO.)
“'O SANCO SAGLIE 'NCANNA E T'AFFOCA” & dintorni
“'O SANCO SAGLIE 'NCANNA E T'AFFOCA” & dintorni
Questa volta risponderò alla cortese richiesta della mia amica S.G. ( della quale i consueti problemi di riservatezza mi impongono l’indicazione delle sole iniziali di nome e cognome)che mi à chiesto se conoscessi di illustrare significato e portata del proverbio in epigrafe ed in caso positivo di illustrali a lei ed a gli altri consueti ventiquattro lettori delle mie paginette. Le ò risposto testualmente nel modo seguente: Sí cara amica
conosco il proverbio che viene di lontano, ma fu sempre usato – a mia memoria quasi a completamento avversativo di altri due proverbi che furono: 1)'O SANGO NUN è ACQUA, 2)'O SANCO VO' DICERE, MA NUN VO' SENTERE che erano – come ò détto - completati in maniera avversativa con la precisazione E ciò a malgrado del fatto che 3)'O SANCO SAGLIE 'NCANNA E T'AFFOCA; Entriamo in medias res e chiariamo súbito che in tutti e tre i proverbi il fenomeno ematico è ovviamente usato non in senso reale ma in quello figurato per indicare i legami di parentela e/o affetti. Nel caso sub 1) si afferma che il legame di sangue è fortissimo e di valore ben superiore a quello dell’acqua a cui non si apparenta; nel caso sub 2) si afferma che si è pronti a sparlar della propria parentela, ma non si accetta che ne parlino male i terzi; nel caso sub 3) si afferma che i legami di sangue, per fortissimi ed importanti che siano possono diventare cosí insidiosi facendosi pericolosi fino a nuocerti! Soffermiamoci su qualche voce.
- sanco s.vo neutro = sàngue [ voce dall’acc.vo lat. sangue(m) accus. collaterale di sanguĭnem attraverso un metaplasmo del lat. volg. *sangu(m)→sancu(m) con passaggio espressivo della occlusiva velare sonora (g) a quella sorda (c).]
1.
a. Liquido organico, opaco, viscoso, di colore rosso (rosso vivo il sangue arterioso, rosso scuro il venoso) che, sotto l’impulso dell’attività cardiaca, circola nell’apparato cardiovascolare (cuore, arterie, capillari, vene), distribuendosi in tutti i distretti dell’organismo, nei quali esplica fondamentali funzioni di nutrizione; è fisicamente una sospensione, risultante di una parte corpuscolata (globuli rossi o eritrociti, globuli bianchi o leucociti e piastrine) e di una parte liquida, il plasma; funzionalmente, rappresenta il vero tessuto di correlazione dell’organismo: per suo mezzo, infatti, gli organismi aerobici attuano lo scambio di ossigeno e di anidride carbonica fra l’ambiente esterno e i proprî tessuti (v. respirazione), e in esso passano i principî nutritivi assorbiti a livello della mucosa intestinale per essere trasportati e distribuiti ai varî organi e tessuti, dove sono utilizzati a scopi energetici e plastici oppure immagazzinati come materiali di riserva. Locuzioni: s. arterioso, s. venoso (anche, s. rosso, s. blu); la formazione del s., o emopoiesi; la circolazione del s.; s. ricco, s. povero di globuli rossi; animali a (o di) s. caldo, i vertebrati che ànno la temperatura corporea costante, come i mammiferi e gli uccelli (detti perciò omeotermi); animali a (o di) s. freddo, i vertebrati con temperatura interna variabile in relazione alla temperatura ambiente, come i rettili, gli anfibî, i pesci (detti perciò eterotermi); coagulazione del s.; prelievo di s.; analisi, esame del s.; trasfusione di s.; datori o donatori di s. (anche volontarî del s.), v. datore. Nel linguaggio com.: avere il s. sano, essere di buon s.; avere il s. malato, guasto, infetto; pop., avere il s. grosso o ingrossato, avere la pressione alta (espressione che risale alla vecchia teoria umorale, nella quale si contrapponeva a s. sottile); prov., il riso fa buon s., fa bene alla salute; occhi iniettati di s., espressione con cui si indica comunem. l’iperemia dei vasi superficiali dell’occhio, soprattutto in quanto sia conseguente a uno stato di violenta eccitazione.
b. Il liquido organico stesso considerato nel suo apparire all’esterno dell’organismo, in quanto eliminato o perduto per cause fisiche, patologiche, traumatiche, ecc.: un getto, un fiotto, un grumo, una goccia, una stilla di s.; s. rosso, nerastro; la ferita fa s., getta s.; perdere s. (fam. fare s.); dal taglio il s. esce, spiccia, sprizza, sgorga abbondante; filare s., quando esce con getto continuo (la mano ferita gli filava s.); nell’uso com., perdere s. dal naso, avere un’epistassi; avere una perdita di s., un’emorragia; sputare s., avere uno sbocco di s., avere un’emottisi; fermare, fare stagnare o ristagnare il s., quando viene perduto per una ferita o un’emorragia; cavare, levare il s., fare un salasso; non avere s. nelle vene, non rimanere piú s. nelle vene, in usi fig. (v. vena2, n. 1 b); un apporto di s. fresco, in senso fig., un apporto di elementi nuovi, giovani, freschi, capaci di ridare vigore a situazioni in stato di debolezza, precarietà, esaurimento (la concessione del mutuo rappresenta un apporto di s. fresco per l’azienda). Per il modo prov., scherz., levare o cavare s. da una rapa. Pietra del s. (o sanguinella), altro nome del diaspro rosso, cosí chiamato perché anticamente ritenuto efficace contro le emorragie.
c. Con riferimento al colore: rosso come il s., o, in funzione appositiva, rosso sangue, rosso vivo, fiammante (a volte anche rosso di s.); con allusione al colore della carnagione: à gote latte e s.; quel bambino è tutto latte e s., à un viso bianco e rosso, segno di buona salute.
d. In frasi di tono enfatico, con allusione al fatto che il sangue è essenziale alla vita, e quindi cosa assai preziosa: amare qualcuno piú del proprio s.; darei metà del mio s., tutto il mio s. pur di vederlo guarito.
e. Come simbolo di fatica e dolore, in senso sia fisico sia morale: costare s., sudare s., richiedere, sopportare un’enorme fatica; piangere lacrime di s., piangere amaramente, sconsolatamente; succhiare il s., esigere da una persona tutto ciò, o anche piú di ciò, ch’essa possa dare, per quanto riguarda il lavoro, un’attività e, soprattutto, il denaro: governo, fisco che succhia il s. dei cittadini; usurai arricchitisi succhiando il s. della povera gente.
2.
a. Sangue umano uscito dal corpo in seguito a ferite, spec. mortali, inferte volontariamente: battere, percuotere, mordere a s., con tanta violenza da far sanguinare; duello all’ultimo s., combattere fino all’ultimo s., fino a che uno dei contendenti resti ucciso (propriam., fino a che rimanga nel corpo ancora una goccia di sangue); duello al primo s., battersi al primo s., con l’accordo di sospendere il duello alla prima ferita; iperb., la vittima giaceva in una pozza, in un lago, in un mare di sangue.
b. Con valore simbolico, ferimento, uccisione, strage: spargere s., commettere delitti, stragi: Io che sparsi di s. ampio torrente (T. Tasso), che feci grandi stragi; sacrificio con, senza, spargimento di s., cruento, incruento; delitto, reato, crimine di s.; nella cronaca giornalistica, un grave fatto di s., un delitto; uomo di s., sanguinario, portato alla violenza: io ’l vidi omo di s. e di crucci (Dante); avere le mani lorde di s., imbrattate di s., che grondano s., che ànno ucciso; lavare un’offesa nel s., onta vendicata col s., con la vita dell’offensore; il s. innocente grida vendetta; che il suo s. ricada su di voi!; prezzo del s., presso popoli antichi o primitivi, somma di denaro che dev’esser pagata dall’omicida ai congiunti dell’ucciso come riscatto del proprio delitto (con altro senso, ottenere, raggiungere qualche cosa a prezzo del s., a costo della vita); avere sete, essere assetato di s., essere spinto al delitto da follia omicida o da grande desiderio di vendetta: Sangue sitisti, e io di sangue t’empio (Dante); al contrario, aborrire il s., aver orrore del s., di persona d’animo mite, aliena per natura dalla violenza. Il fiume di s. bollente, nell’Inferno dantesco, il Flegetonte (Inf. XII, 47-48: La riviera del s. in la qual bolle Qual che per vïolenza in altrui noccia), che attraversa il cerchio 7° e nel quale sono puniti i violenti contro il prossimo.
c. In partic., sangue versato nelle lotte o discordie civili, nelle guerre, o comunque per motivi politici o sociali: temprando lo scettro a’ regnatori, Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela Di che lagrime grondi e di che sangue (Foscolo); spargere, versare s. fraterno, nelle lotte intestine; soffocare una rivolta nel s., uccidendo i ribelli; l’insurrezione è finita in un bagno di s., si è conclusa con un massacro; scorreva per le vie il s. dei cittadini; notte di s., giornate di s., in cui siano state compiute gravi stragi di cittadini, di avversarî politici, ecc.; Natale di s. (v. natale, n. 2 b); in tono enfatico, essere scritto a lettere o a caratteri di s., di eventi storici grandi e solenni che siano maturati attraverso lotte dolorose e con molte perdite di vite umane. Con sign. piú prossimo a «vita umana»: dare, versare il s. per la patria, morendo sul campo di battaglia; Ove fia santo e lagrimato il sangue Per la patria versato (Foscolo); essere pronto a donare il s. per un’idea, per un ideale, a sacrificare la vita; l’indipendenza fu conquistata con il s. degli eroi; una vittoria che costò molto s.; quanto s. è costata la riconquista della libertà!; pagare un tributo di s., subire gravi perdite di vite umane. Nel linguaggio religioso e nella storia della Chiesa: fede rinvigorita dal s. dei martiri; battesimo di s., il martirio (v. battesimo, n. 1 a); l’umanità è stata redenta dal s. di Gesú; Nel tempo che ’l buon Tito ... vendicò le fóra Ond’uscí ’l sangue per Giuda venduto (Dante); il preziosissimo S., o il S. preziosissimo, anche senz’altra determinazione, quello sparso da Gesú Cristo sulla croce, e nel quale si trasforma quotidianamente il vino nel sacrificio della Messa.
3. In senso fig.:
a. Essenza vitale, sede della vita e dei sentimenti: non avere piú una goccia di s. nelle vene, sentire che la vita, le forze vengono meno; avere (una qualità) nel s., avere una disposizione, buona o cattiva, profondamente radicata in sé (à la musica nel s.; à la disonestà nel sangue); sentirsi qualcosa nel s., avere un presentimento particolarmente vivo e insistente; con riferimento a persona, avere qualcuno nel s., amarlo profondamente, essergli intimamente assai legato.
b. Lo stato d’animo, l’insieme degli atteggiamenti spirituali e delle passioni, spec. violente, di una persona, in quanto tutto ciò sembra essere in stretta relazione con diversi stati della circolazione del sangue, esercitando influenza su questi o, al contrario, essendone influenzato: guastarsi il s., irritarsi fortemente, arrabbiarsi; farsi cattivo s. (o il s. cattivo; anche, il s. amaro), tormentarsi, rodersi l’animo, prendersela molto a cuore; avere, non avere buon s. per qualcuno, averlo o no in simpatia; ant., andare a s., andare a genio; tra loro non corre buon s., non ci sono buoni rapporti, esiste animosità, acredine; il s. gli salí alla faccia, come manifestazione esteriore d’ira, di sdegno, di vergogna; il s. gli andò o gli montò alla testa, di chi è improvvisamente invaso dalla collera, dal furore; sentirsi rimescolare, rivoltare il s., provare grande turbamento, avvertire un sentimento di ribellione, di ripugnanza, di sdegno; sentirsi ribollire il s., esser vicino a scattare per lo sdegno, per l’ira; il s. gli fece un tuffo, a causa di una violenta e improvvisa emozione; sentirsi gelare o agghiacciare il s., allibire per il terrore; avere il s. caldo, il s. bollente, avere un temperamento focoso, facilmente infiammabile d’ira, d’amore, di passione, o anche d’entusiasmo; con senso affine, sentirsi bollire o ribollire il s. nelle vene; al contrario, non avere s. nelle vene, essere di temperamento freddo, insensibile, incapace di entusiasmo, di calore, di reazione e sim. (con sign. analogo, bisognerebbe non avere s. nelle vene, per non sdegnarsi, per non reagire, per non sentirsi invasi dalla passione o dall’entusiasmo). Come locuz. avv., a s. caldo, nel pieno dell’entusiasmo, dell’ira, della passione; piú com. il contrario, a s. freddo, a mente fredda, con piena consapevolezza delle proprie azioni, oppure freddamente, senza scomporsi: lo uccise a s. freddo. In altri casi, s. freddo, impassibilità, piena padronanza di sé e dei proprî nervi, che permette la visione realistica delle cose e una fredda obiettività di giudizio: tra tanti appassionati, c’eran pure alcuni piú di s. freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l’acqua s’andava intorbidando (Manzoni); conservare, mantenere il s. freddo; non gridavano, non perdevano il s. freddo (Ottieri); mostrare s. freddo; e come raccomandazione a mantenere il controllo di sé: s. freddo, mi raccomando!; calma e s. freddo!, spesso in tono iron. con riferimento a chi si agita troppo o mostra impazienza.
4. Sempre in senso fig.:
a. Veicolo dei caratteri ereditarî, espressione della costituzione genetica (secondo un concetto scientificamente superato, ma tuttora vivo nel linguaggio com.): essere di s. nobile (pop. o scherz., di s. blu), di s. patrizio, appartenere a una famiglia di origine nobile, patrizia; al contr., essere di s. popolano, plebeo; príncipi di s. reale, discendenti di una famiglia reale; con sign. piú ristretto, príncipi del s., quelli che appartengono alla famiglia stessa del sovrano; uomo ... per costumi o per virtú, molto piú che per nobiltà di s., chiarissimo (Boccaccio); buon s. non mente, frase prov. che si usa pronunciare nel vedere risvegliarsi o manifestarsi in una persona, spec. un giovane o un bambino, certe inclinazioni, buone o cattive, che si ritengono ereditarie.
b. Sempre in senso fig.come nel caso che ci occupa:
Relazione di parentela, continuità della famiglia, della stirpe, in quanto si ritiene che il sangue si trasmetta dai genitori nei figli: ci sono tra loro stretti vincoli di s.; legami di s. tra due famiglie, tra due tribú, tra due popoli; avere lo stesso s., essere dello stesso s., appartenere allo stesso s.; tutti quelli del suo s., tutti i suoi parenti; la voce del s., l’istinto che fa riconoscere o amare i proprî parenti (sentire, ascoltare la voce del s.); il s. non è acqua, frase prov. che esprime, come ò anticipato la forza con cui si fanno spesso sentire i legami di parentela (con altro senso, la frase serve a giustificare la facile eccitabilità dell’animo, gli impulsi all’amore, all’ira, allo sdegno, e sim.).
c. Con sign. concr., famiglia, stirpe; piú spesso, unito ad un agg. possessivo, indica i membri di una stessa famiglia, i discendenti, i figli, o anche un singolo parente, un singolo figlio; ll’aggi’ ‘a ajutà è pur’isso sanco mio(devo aiutarlo, è anche lui s. mio); piú enfaticamente,è ssanco d’ ‘o sanco mio (è s. del mio s.), con riferimento a un figlio);lle vuleva bbene comme fósse sanco suĵo (l’amava come se fosse s. suo).
d. Con riferimento a unità etniche: essere di s. italiano, di s. tedesco, di s. arabo; à s. gitano nelle vene; s. misto, v. sanguemisto; anche, il complesso dei caratteri piú genuini e distintivi di un popolo: si vede che à s. siciliano; è il vero s. latino. Con sign. concr. e collettivo, l’insieme dei componenti di una stirpe o progenie, di una nazione, di un’unità etnica; non com., un bel s., una bella stirpe, una bella razza.
e. Analogam., nel linguaggio degli allevatori di cavalli e di altri animali domestici, puro s. (animale, cavallo di puro s., piú spesso in funzione di sost., un puro s., anche in grafia unita: v. purosangue), animale di razza pura; mezzo s. (anche in grafia unita: v. mezzosangue), l’ibrido o meticcio fra due razze diverse; quarto di s., l’individuo che discende da un mezzosangue, incrociato a sua volta con un’altra razza.
5. Sangue di un animale macellato: il sanguinaccio si fa con il s. di maiale; bistecca al s., poco cotta. Sangue di bue, nome con cui viene comunem. indicato in commercio un concime organico azotato ottenuto dal sangue di bovini macellati, seccato e ridotto in polvere, che viene poi usato di solito diluito in acqua.
6. Come elemento di espressioni esclamative o imprecative, in tono talvolta scherz. talvolta volg.: sanco ‘e Giuda!; sanco. ‘e Bacco! sanco ‘e chi t’è vvivo/’e chi t’è mmuortoecc.; (s. di Giuda!; s. di Bacco!; sangue di chi ti è vivo/ di chi ti è morto!)
- saglie voce verbale qui 3ª p. sg. ind. pr. dell’infinito saglí/sàgliere = salire, montar su (voce da un lat. volg. *salíjere→sàljere per il class. salíre, con cambio di coniugazione e consueto passaggio di lj a gli+ vocale come in olju(m)→uoglio, allju(m)→ aglio); alibi anche 2ª p. sg. imperativo del medesimo infinito.
- ‘ncanna= in gola espressione usata sia in senso reale come nel caso di funa ‘ncanna= corda alla gola – annuzzà ‘ncanna= soffocare per non riuscire a deglutire un boccone di cibo finito per traverso oppure in senso figurato come nel caso che ci occupa, oppure in senso metaforico restà ‘ncanna= restare in gola détto di ciò a cui non sia pervenuti e/o non si sia potuto conseguire; ‘ncanna è: in+canna→(i)ncanna→’ncanna; (canna deriva dal latino/greco kanna e questo dal semitico qaneh) dove ovviamente con canna si intende il canale della gola); l’altra voce usata per indicare propriamente il canale della gola il gorgozzúle (dall'ant. gorgozzo o gorgozza, che è dal lat. volg. *gurgutiam, per il class. gurges -gitis 'gola’) è cannarone palesemente accrescitivo della pregressa canna; cannarone tuttavia non dovrebbe indicare la trachea (dal lat. tardo trachia(m), dal gr. trachêia (artìría), propr. '(arteria) ruvida', f. sost. dell'agg. trachys 'ruvido', perché al tatto risultano sensibili i passaggi fra un anello cartilagineo e l'altro) che è poi l’organo dell'apparato respiratorio a forma di tubo, costituito da una serie di anelli cartilaginei, compreso fra la laringe e i bronchi, organo cui si fa riferimento con il napoletano canna; cannarone è usato infatti soprattutto nelle espressioni in cui occorra sottolineare una pretesa vastità del tratto del tubo digerente che va dalla faringe allo stomaco, cioè dell’esofago (dal gr. oisophágos, comp. di óisein 'portare, trasportare' e phaghêin 'mangiare') di chi ingurgiti molto cibo e lo faccia voracemente; possiamo perciò dire che in napoletano – contrariamente da ciò che ritengono i piú avvezzi a far d’ogni erba un fascio, la voce canna corrisponde alla trachea mentre il cannarone è l’esofago.
A margine rammenterò che nell’uso del parlato soprattutto provinciale e/o dell’entroterra accanto al termine cannarone ne esistono altri due da esso derivati e che ne sono una sorta di dispregiativo e sono: cannaruozzo e cannaruozzolo; il suffisso ozzo/uozzo di matrice tardo latino volgare fu usato per indicare (cfr. Rohlfs G.S.D.L.I.E S.D. sub 1040 )qualcosa di rozzo, grossolano, contadinesco e dunque di pertinenza di voci dispregiative; tuttavia nel caso di cannaruozzolo ci troviamo in presenza di una sorta di divertente ossimoro determinato dall’aggiunta d’un suffisso diminutivo olus→olo ad un termine accrescitivo e dispregiativo come cannaruozzo (che in origine è cannar(one)+uozzo).
-affoca voce verbale 3ª p. sg. ind. pr. dell’infinito
affocare v. tr. usato soprattutto nella forma riflessiva affucarse; nella forma normale à svariati significati:
1 uccidere qualcuno immergendolo in acqua o altro liquido; annegare, soffocare;
2 (fig.) spegnere: affogare una delusione nell'alcol, bere per dimenticarla ||| v. intr. [aus. essere]
1 morire per soffocamento in acqua o altro liquido; annegare: cadde nel fiume e affogò | affogare in un bicchier d'acqua, (fig.) perdersi di fronte alle più piccole difficoltà | o bere o affogare, (fig.) dover scegliere fra due cose ugualmente sgradite
2 (fig. non com.) essere oppresso, oberato: affogare nei debiti
affucarse v. rifl. che ci occupa come sinonimo dei precedenti vale:
1 togliersi la vita per annegamento; annegarsi
2 (fig. fam.) immergersi totalmente: affogarsi nel lavoro
(fig. fam. ed è il caso che ci occupa) mangiare con grandissima avidità, con tale voracità da restarne soffocati.
Etimologicamente è da un lat. volg. *affocare per offocare 'strozzare', da ob e fauces, pl. di faux -cis 'gola'.
E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amica S.G. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
Raffaele Bracale
Questa volta risponderò alla cortese richiesta della mia amica S.G. ( della quale i consueti problemi di riservatezza mi impongono l’indicazione delle sole iniziali di nome e cognome)che mi à chiesto se conoscessi di illustrare significato e portata del proverbio in epigrafe ed in caso positivo di illustrali a lei ed a gli altri consueti ventiquattro lettori delle mie paginette. Le ò risposto testualmente nel modo seguente: Sí cara amica
conosco il proverbio che viene di lontano, ma fu sempre usato – a mia memoria quasi a completamento avversativo di altri due proverbi che furono: 1)'O SANGO NUN è ACQUA, 2)'O SANCO VO' DICERE, MA NUN VO' SENTERE che erano – come ò détto - completati in maniera avversativa con la precisazione E ciò a malgrado del fatto che 3)'O SANCO SAGLIE 'NCANNA E T'AFFOCA; Entriamo in medias res e chiariamo súbito che in tutti e tre i proverbi il fenomeno ematico è ovviamente usato non in senso reale ma in quello figurato per indicare i legami di parentela e/o affetti. Nel caso sub 1) si afferma che il legame di sangue è fortissimo e di valore ben superiore a quello dell’acqua a cui non si apparenta; nel caso sub 2) si afferma che si è pronti a sparlar della propria parentela, ma non si accetta che ne parlino male i terzi; nel caso sub 3) si afferma che i legami di sangue, per fortissimi ed importanti che siano possono diventare cosí insidiosi facendosi pericolosi fino a nuocerti! Soffermiamoci su qualche voce.
- sanco s.vo neutro = sàngue [ voce dall’acc.vo lat. sangue(m) accus. collaterale di sanguĭnem attraverso un metaplasmo del lat. volg. *sangu(m)→sancu(m) con passaggio espressivo della occlusiva velare sonora (g) a quella sorda (c).]
1.
a. Liquido organico, opaco, viscoso, di colore rosso (rosso vivo il sangue arterioso, rosso scuro il venoso) che, sotto l’impulso dell’attività cardiaca, circola nell’apparato cardiovascolare (cuore, arterie, capillari, vene), distribuendosi in tutti i distretti dell’organismo, nei quali esplica fondamentali funzioni di nutrizione; è fisicamente una sospensione, risultante di una parte corpuscolata (globuli rossi o eritrociti, globuli bianchi o leucociti e piastrine) e di una parte liquida, il plasma; funzionalmente, rappresenta il vero tessuto di correlazione dell’organismo: per suo mezzo, infatti, gli organismi aerobici attuano lo scambio di ossigeno e di anidride carbonica fra l’ambiente esterno e i proprî tessuti (v. respirazione), e in esso passano i principî nutritivi assorbiti a livello della mucosa intestinale per essere trasportati e distribuiti ai varî organi e tessuti, dove sono utilizzati a scopi energetici e plastici oppure immagazzinati come materiali di riserva. Locuzioni: s. arterioso, s. venoso (anche, s. rosso, s. blu); la formazione del s., o emopoiesi; la circolazione del s.; s. ricco, s. povero di globuli rossi; animali a (o di) s. caldo, i vertebrati che ànno la temperatura corporea costante, come i mammiferi e gli uccelli (detti perciò omeotermi); animali a (o di) s. freddo, i vertebrati con temperatura interna variabile in relazione alla temperatura ambiente, come i rettili, gli anfibî, i pesci (detti perciò eterotermi); coagulazione del s.; prelievo di s.; analisi, esame del s.; trasfusione di s.; datori o donatori di s. (anche volontarî del s.), v. datore. Nel linguaggio com.: avere il s. sano, essere di buon s.; avere il s. malato, guasto, infetto; pop., avere il s. grosso o ingrossato, avere la pressione alta (espressione che risale alla vecchia teoria umorale, nella quale si contrapponeva a s. sottile); prov., il riso fa buon s., fa bene alla salute; occhi iniettati di s., espressione con cui si indica comunem. l’iperemia dei vasi superficiali dell’occhio, soprattutto in quanto sia conseguente a uno stato di violenta eccitazione.
b. Il liquido organico stesso considerato nel suo apparire all’esterno dell’organismo, in quanto eliminato o perduto per cause fisiche, patologiche, traumatiche, ecc.: un getto, un fiotto, un grumo, una goccia, una stilla di s.; s. rosso, nerastro; la ferita fa s., getta s.; perdere s. (fam. fare s.); dal taglio il s. esce, spiccia, sprizza, sgorga abbondante; filare s., quando esce con getto continuo (la mano ferita gli filava s.); nell’uso com., perdere s. dal naso, avere un’epistassi; avere una perdita di s., un’emorragia; sputare s., avere uno sbocco di s., avere un’emottisi; fermare, fare stagnare o ristagnare il s., quando viene perduto per una ferita o un’emorragia; cavare, levare il s., fare un salasso; non avere s. nelle vene, non rimanere piú s. nelle vene, in usi fig. (v. vena2, n. 1 b); un apporto di s. fresco, in senso fig., un apporto di elementi nuovi, giovani, freschi, capaci di ridare vigore a situazioni in stato di debolezza, precarietà, esaurimento (la concessione del mutuo rappresenta un apporto di s. fresco per l’azienda). Per il modo prov., scherz., levare o cavare s. da una rapa. Pietra del s. (o sanguinella), altro nome del diaspro rosso, cosí chiamato perché anticamente ritenuto efficace contro le emorragie.
c. Con riferimento al colore: rosso come il s., o, in funzione appositiva, rosso sangue, rosso vivo, fiammante (a volte anche rosso di s.); con allusione al colore della carnagione: à gote latte e s.; quel bambino è tutto latte e s., à un viso bianco e rosso, segno di buona salute.
d. In frasi di tono enfatico, con allusione al fatto che il sangue è essenziale alla vita, e quindi cosa assai preziosa: amare qualcuno piú del proprio s.; darei metà del mio s., tutto il mio s. pur di vederlo guarito.
e. Come simbolo di fatica e dolore, in senso sia fisico sia morale: costare s., sudare s., richiedere, sopportare un’enorme fatica; piangere lacrime di s., piangere amaramente, sconsolatamente; succhiare il s., esigere da una persona tutto ciò, o anche piú di ciò, ch’essa possa dare, per quanto riguarda il lavoro, un’attività e, soprattutto, il denaro: governo, fisco che succhia il s. dei cittadini; usurai arricchitisi succhiando il s. della povera gente.
2.
a. Sangue umano uscito dal corpo in seguito a ferite, spec. mortali, inferte volontariamente: battere, percuotere, mordere a s., con tanta violenza da far sanguinare; duello all’ultimo s., combattere fino all’ultimo s., fino a che uno dei contendenti resti ucciso (propriam., fino a che rimanga nel corpo ancora una goccia di sangue); duello al primo s., battersi al primo s., con l’accordo di sospendere il duello alla prima ferita; iperb., la vittima giaceva in una pozza, in un lago, in un mare di sangue.
b. Con valore simbolico, ferimento, uccisione, strage: spargere s., commettere delitti, stragi: Io che sparsi di s. ampio torrente (T. Tasso), che feci grandi stragi; sacrificio con, senza, spargimento di s., cruento, incruento; delitto, reato, crimine di s.; nella cronaca giornalistica, un grave fatto di s., un delitto; uomo di s., sanguinario, portato alla violenza: io ’l vidi omo di s. e di crucci (Dante); avere le mani lorde di s., imbrattate di s., che grondano s., che ànno ucciso; lavare un’offesa nel s., onta vendicata col s., con la vita dell’offensore; il s. innocente grida vendetta; che il suo s. ricada su di voi!; prezzo del s., presso popoli antichi o primitivi, somma di denaro che dev’esser pagata dall’omicida ai congiunti dell’ucciso come riscatto del proprio delitto (con altro senso, ottenere, raggiungere qualche cosa a prezzo del s., a costo della vita); avere sete, essere assetato di s., essere spinto al delitto da follia omicida o da grande desiderio di vendetta: Sangue sitisti, e io di sangue t’empio (Dante); al contrario, aborrire il s., aver orrore del s., di persona d’animo mite, aliena per natura dalla violenza. Il fiume di s. bollente, nell’Inferno dantesco, il Flegetonte (Inf. XII, 47-48: La riviera del s. in la qual bolle Qual che per vïolenza in altrui noccia), che attraversa il cerchio 7° e nel quale sono puniti i violenti contro il prossimo.
c. In partic., sangue versato nelle lotte o discordie civili, nelle guerre, o comunque per motivi politici o sociali: temprando lo scettro a’ regnatori, Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela Di che lagrime grondi e di che sangue (Foscolo); spargere, versare s. fraterno, nelle lotte intestine; soffocare una rivolta nel s., uccidendo i ribelli; l’insurrezione è finita in un bagno di s., si è conclusa con un massacro; scorreva per le vie il s. dei cittadini; notte di s., giornate di s., in cui siano state compiute gravi stragi di cittadini, di avversarî politici, ecc.; Natale di s. (v. natale, n. 2 b); in tono enfatico, essere scritto a lettere o a caratteri di s., di eventi storici grandi e solenni che siano maturati attraverso lotte dolorose e con molte perdite di vite umane. Con sign. piú prossimo a «vita umana»: dare, versare il s. per la patria, morendo sul campo di battaglia; Ove fia santo e lagrimato il sangue Per la patria versato (Foscolo); essere pronto a donare il s. per un’idea, per un ideale, a sacrificare la vita; l’indipendenza fu conquistata con il s. degli eroi; una vittoria che costò molto s.; quanto s. è costata la riconquista della libertà!; pagare un tributo di s., subire gravi perdite di vite umane. Nel linguaggio religioso e nella storia della Chiesa: fede rinvigorita dal s. dei martiri; battesimo di s., il martirio (v. battesimo, n. 1 a); l’umanità è stata redenta dal s. di Gesú; Nel tempo che ’l buon Tito ... vendicò le fóra Ond’uscí ’l sangue per Giuda venduto (Dante); il preziosissimo S., o il S. preziosissimo, anche senz’altra determinazione, quello sparso da Gesú Cristo sulla croce, e nel quale si trasforma quotidianamente il vino nel sacrificio della Messa.
3. In senso fig.:
a. Essenza vitale, sede della vita e dei sentimenti: non avere piú una goccia di s. nelle vene, sentire che la vita, le forze vengono meno; avere (una qualità) nel s., avere una disposizione, buona o cattiva, profondamente radicata in sé (à la musica nel s.; à la disonestà nel sangue); sentirsi qualcosa nel s., avere un presentimento particolarmente vivo e insistente; con riferimento a persona, avere qualcuno nel s., amarlo profondamente, essergli intimamente assai legato.
b. Lo stato d’animo, l’insieme degli atteggiamenti spirituali e delle passioni, spec. violente, di una persona, in quanto tutto ciò sembra essere in stretta relazione con diversi stati della circolazione del sangue, esercitando influenza su questi o, al contrario, essendone influenzato: guastarsi il s., irritarsi fortemente, arrabbiarsi; farsi cattivo s. (o il s. cattivo; anche, il s. amaro), tormentarsi, rodersi l’animo, prendersela molto a cuore; avere, non avere buon s. per qualcuno, averlo o no in simpatia; ant., andare a s., andare a genio; tra loro non corre buon s., non ci sono buoni rapporti, esiste animosità, acredine; il s. gli salí alla faccia, come manifestazione esteriore d’ira, di sdegno, di vergogna; il s. gli andò o gli montò alla testa, di chi è improvvisamente invaso dalla collera, dal furore; sentirsi rimescolare, rivoltare il s., provare grande turbamento, avvertire un sentimento di ribellione, di ripugnanza, di sdegno; sentirsi ribollire il s., esser vicino a scattare per lo sdegno, per l’ira; il s. gli fece un tuffo, a causa di una violenta e improvvisa emozione; sentirsi gelare o agghiacciare il s., allibire per il terrore; avere il s. caldo, il s. bollente, avere un temperamento focoso, facilmente infiammabile d’ira, d’amore, di passione, o anche d’entusiasmo; con senso affine, sentirsi bollire o ribollire il s. nelle vene; al contrario, non avere s. nelle vene, essere di temperamento freddo, insensibile, incapace di entusiasmo, di calore, di reazione e sim. (con sign. analogo, bisognerebbe non avere s. nelle vene, per non sdegnarsi, per non reagire, per non sentirsi invasi dalla passione o dall’entusiasmo). Come locuz. avv., a s. caldo, nel pieno dell’entusiasmo, dell’ira, della passione; piú com. il contrario, a s. freddo, a mente fredda, con piena consapevolezza delle proprie azioni, oppure freddamente, senza scomporsi: lo uccise a s. freddo. In altri casi, s. freddo, impassibilità, piena padronanza di sé e dei proprî nervi, che permette la visione realistica delle cose e una fredda obiettività di giudizio: tra tanti appassionati, c’eran pure alcuni piú di s. freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l’acqua s’andava intorbidando (Manzoni); conservare, mantenere il s. freddo; non gridavano, non perdevano il s. freddo (Ottieri); mostrare s. freddo; e come raccomandazione a mantenere il controllo di sé: s. freddo, mi raccomando!; calma e s. freddo!, spesso in tono iron. con riferimento a chi si agita troppo o mostra impazienza.
4. Sempre in senso fig.:
a. Veicolo dei caratteri ereditarî, espressione della costituzione genetica (secondo un concetto scientificamente superato, ma tuttora vivo nel linguaggio com.): essere di s. nobile (pop. o scherz., di s. blu), di s. patrizio, appartenere a una famiglia di origine nobile, patrizia; al contr., essere di s. popolano, plebeo; príncipi di s. reale, discendenti di una famiglia reale; con sign. piú ristretto, príncipi del s., quelli che appartengono alla famiglia stessa del sovrano; uomo ... per costumi o per virtú, molto piú che per nobiltà di s., chiarissimo (Boccaccio); buon s. non mente, frase prov. che si usa pronunciare nel vedere risvegliarsi o manifestarsi in una persona, spec. un giovane o un bambino, certe inclinazioni, buone o cattive, che si ritengono ereditarie.
b. Sempre in senso fig.come nel caso che ci occupa:
Relazione di parentela, continuità della famiglia, della stirpe, in quanto si ritiene che il sangue si trasmetta dai genitori nei figli: ci sono tra loro stretti vincoli di s.; legami di s. tra due famiglie, tra due tribú, tra due popoli; avere lo stesso s., essere dello stesso s., appartenere allo stesso s.; tutti quelli del suo s., tutti i suoi parenti; la voce del s., l’istinto che fa riconoscere o amare i proprî parenti (sentire, ascoltare la voce del s.); il s. non è acqua, frase prov. che esprime, come ò anticipato la forza con cui si fanno spesso sentire i legami di parentela (con altro senso, la frase serve a giustificare la facile eccitabilità dell’animo, gli impulsi all’amore, all’ira, allo sdegno, e sim.).
c. Con sign. concr., famiglia, stirpe; piú spesso, unito ad un agg. possessivo, indica i membri di una stessa famiglia, i discendenti, i figli, o anche un singolo parente, un singolo figlio; ll’aggi’ ‘a ajutà è pur’isso sanco mio(devo aiutarlo, è anche lui s. mio); piú enfaticamente,è ssanco d’ ‘o sanco mio (è s. del mio s.), con riferimento a un figlio);lle vuleva bbene comme fósse sanco suĵo (l’amava come se fosse s. suo).
d. Con riferimento a unità etniche: essere di s. italiano, di s. tedesco, di s. arabo; à s. gitano nelle vene; s. misto, v. sanguemisto; anche, il complesso dei caratteri piú genuini e distintivi di un popolo: si vede che à s. siciliano; è il vero s. latino. Con sign. concr. e collettivo, l’insieme dei componenti di una stirpe o progenie, di una nazione, di un’unità etnica; non com., un bel s., una bella stirpe, una bella razza.
e. Analogam., nel linguaggio degli allevatori di cavalli e di altri animali domestici, puro s. (animale, cavallo di puro s., piú spesso in funzione di sost., un puro s., anche in grafia unita: v. purosangue), animale di razza pura; mezzo s. (anche in grafia unita: v. mezzosangue), l’ibrido o meticcio fra due razze diverse; quarto di s., l’individuo che discende da un mezzosangue, incrociato a sua volta con un’altra razza.
5. Sangue di un animale macellato: il sanguinaccio si fa con il s. di maiale; bistecca al s., poco cotta. Sangue di bue, nome con cui viene comunem. indicato in commercio un concime organico azotato ottenuto dal sangue di bovini macellati, seccato e ridotto in polvere, che viene poi usato di solito diluito in acqua.
6. Come elemento di espressioni esclamative o imprecative, in tono talvolta scherz. talvolta volg.: sanco ‘e Giuda!; sanco. ‘e Bacco! sanco ‘e chi t’è vvivo/’e chi t’è mmuortoecc.; (s. di Giuda!; s. di Bacco!; sangue di chi ti è vivo/ di chi ti è morto!)
- saglie voce verbale qui 3ª p. sg. ind. pr. dell’infinito saglí/sàgliere = salire, montar su (voce da un lat. volg. *salíjere→sàljere per il class. salíre, con cambio di coniugazione e consueto passaggio di lj a gli+ vocale come in olju(m)→uoglio, allju(m)→ aglio); alibi anche 2ª p. sg. imperativo del medesimo infinito.
- ‘ncanna= in gola espressione usata sia in senso reale come nel caso di funa ‘ncanna= corda alla gola – annuzzà ‘ncanna= soffocare per non riuscire a deglutire un boccone di cibo finito per traverso oppure in senso figurato come nel caso che ci occupa, oppure in senso metaforico restà ‘ncanna= restare in gola détto di ciò a cui non sia pervenuti e/o non si sia potuto conseguire; ‘ncanna è: in+canna→(i)ncanna→’ncanna; (canna deriva dal latino/greco kanna e questo dal semitico qaneh) dove ovviamente con canna si intende il canale della gola); l’altra voce usata per indicare propriamente il canale della gola il gorgozzúle (dall'ant. gorgozzo o gorgozza, che è dal lat. volg. *gurgutiam, per il class. gurges -gitis 'gola’) è cannarone palesemente accrescitivo della pregressa canna; cannarone tuttavia non dovrebbe indicare la trachea (dal lat. tardo trachia(m), dal gr. trachêia (artìría), propr. '(arteria) ruvida', f. sost. dell'agg. trachys 'ruvido', perché al tatto risultano sensibili i passaggi fra un anello cartilagineo e l'altro) che è poi l’organo dell'apparato respiratorio a forma di tubo, costituito da una serie di anelli cartilaginei, compreso fra la laringe e i bronchi, organo cui si fa riferimento con il napoletano canna; cannarone è usato infatti soprattutto nelle espressioni in cui occorra sottolineare una pretesa vastità del tratto del tubo digerente che va dalla faringe allo stomaco, cioè dell’esofago (dal gr. oisophágos, comp. di óisein 'portare, trasportare' e phaghêin 'mangiare') di chi ingurgiti molto cibo e lo faccia voracemente; possiamo perciò dire che in napoletano – contrariamente da ciò che ritengono i piú avvezzi a far d’ogni erba un fascio, la voce canna corrisponde alla trachea mentre il cannarone è l’esofago.
A margine rammenterò che nell’uso del parlato soprattutto provinciale e/o dell’entroterra accanto al termine cannarone ne esistono altri due da esso derivati e che ne sono una sorta di dispregiativo e sono: cannaruozzo e cannaruozzolo; il suffisso ozzo/uozzo di matrice tardo latino volgare fu usato per indicare (cfr. Rohlfs G.S.D.L.I.E S.D. sub 1040 )qualcosa di rozzo, grossolano, contadinesco e dunque di pertinenza di voci dispregiative; tuttavia nel caso di cannaruozzolo ci troviamo in presenza di una sorta di divertente ossimoro determinato dall’aggiunta d’un suffisso diminutivo olus→olo ad un termine accrescitivo e dispregiativo come cannaruozzo (che in origine è cannar(one)+uozzo).
-affoca voce verbale 3ª p. sg. ind. pr. dell’infinito
affocare v. tr. usato soprattutto nella forma riflessiva affucarse; nella forma normale à svariati significati:
1 uccidere qualcuno immergendolo in acqua o altro liquido; annegare, soffocare;
2 (fig.) spegnere: affogare una delusione nell'alcol, bere per dimenticarla ||| v. intr. [aus. essere]
1 morire per soffocamento in acqua o altro liquido; annegare: cadde nel fiume e affogò | affogare in un bicchier d'acqua, (fig.) perdersi di fronte alle più piccole difficoltà | o bere o affogare, (fig.) dover scegliere fra due cose ugualmente sgradite
2 (fig. non com.) essere oppresso, oberato: affogare nei debiti
affucarse v. rifl. che ci occupa come sinonimo dei precedenti vale:
1 togliersi la vita per annegamento; annegarsi
2 (fig. fam.) immergersi totalmente: affogarsi nel lavoro
(fig. fam. ed è il caso che ci occupa) mangiare con grandissima avidità, con tale voracità da restarne soffocati.
Etimologicamente è da un lat. volg. *affocare per offocare 'strozzare', da ob e fauces, pl. di faux -cis 'gola'.
E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amica S.G. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
Raffaele Bracale
PRONTUARIO DI MONOSILLABI DELLA PARLATA NAPOLETANA.
PRONTUARIO DI MONOSILLABI DELLA PARLATA NAPOLETANA.
Elenco qui di sèguito un congruo numero di monosillabi in uso nella parlata napoletana, indicandone volta a volta oltre significato ed (ove possibile) etimo anche quella che è (a mente delle regole di grammatica e linguistica) la maniera piú corretta di scriverli.
Cominciamo con i piú semplici monosillabi e cioè gli articoli; abbiamo gli articoli determinativi
‘A = la art. determ. f.le sing. si premette ai vocaboli femminili singolari; deriva dal lat. (ill)a(m), f.le di ille 'quello'; la caduta per aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘);
‘O/’U = lo/il art. determ. m. sing. si premette ai vocaboli maschili o neutri singolari; la forma ‘u è forma antica di ‘o ora ancóra in uso in talune parlate provinciali e/o dell’entroterra; la derivazione sia di ‘o che di ‘u è dal lat. (ill)u(m), acc.vo di ille 'quello'; la caduta per aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘); la particolarità di questo articolo è che quando sia posto innanzi ad un vocabolo inteso neutro, ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.: ‘o pate voce maschile, ma ‘o ppane voce neutra etc.).
O’ non è come a prima vista potrebbe apparire un’errata scrittura del precedente articolo ‘o (lo/il), errata scrittura (tutti possiamo sbagliare!) che talvolta mi è capitato di ritrovare inopinatamente in talune pagine di giornali, vergata da indegni pennaruli che per mancanza di tempo o ignavia non usano piú rileggere e/o correggere ciò che scrivono (....mi rifiuto infatti di credere che un giornalista non sappia che in napoletano gli artt. lo/il vanno resi con ‘o e non con o’) a meno che quei tali pennaruli nel loro scrivere non errino lasciandosi condizionare dalla dimestichezza con lo O’ (apocope dello of inglese che vale l’italiano de/De).
L’ o’ napoletano a margine è anch’esso un apocope, quella del vocativo oj→o’=oh e viene usata nei vocativi esclamativi del tipo o’ fra’!= fratello! oppure o’ no’!= nonno! La forma intera oj è usata in genere nei vocativi come oj ne’! – oj ni!’= ragazza! – ragazzo!. Rammento che il corretto vocativo oj viene – quasi sempre e nella maggioranza degli anche famosi e famosissi scrittori e/o poeti partenopei – riportato in una scorrettissima forma oje con l’aggiunta di una pletorica inesatta semimuta e, aggiunta che costringe il vocativo oj a trasformarsi nel sostantivo oje = oggi con derivazione dal lat. (h)o(di)e→oje; ah, se tutti i sedicenti scrittori e/o poeti partenopei prima di mettere nero sul bianco facessero un atto di umiltà e consultassero una buona grammatica del napoletano, o quanto meno compulsassero un qualche dizionario, quante inesattezze o strafalcioni si eviterebbero! Purtroppo tra i piú o meno famosi o famosissimi scrittori e/o poeti partenopei che reputano d’esser titolari di scienza infusa, l’umiltà non trova terreno fertile! Il Cielo perdoni la loro supponenza spocchiosa...
‘E = gli, le art. determ. m.le e f.le plurale. si premette ai vocaboli maschili o femminili plurali; deriva dal lat. (ill)ae(s), 'quelli 'di influsso osco; la caduta per aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘);la particolarità di questo articolo è che quando sia posto innanzi ad un vocabolo femminile , ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.: ‘e pate voce maschile, ma ‘e mmamme voce femminile, ‘e figlie= i figli voce maschile, ma ‘e ffiglie= le figlie voce femminile etc.);
i’ = io pron. pers. m. e f. di prima pers. sing.
s. m. invar.
1 il proprio essere, la propria persona;
2 il soggetto pensante in quanto à coscienza di sé, contrapposto al mondo esterno, al non-io; (voce dal
lat. volg. *eo→io→i(o)→i’, per il class. ego).
‘Í = vedi; è l’aferesi dell’imperativo esclamativo (ved)i del verbo vedere; di per sé si potrebbe rendere correttamente anche con ‘i dove il segno d’aferesi (‘) indicherebbe la caduta della sillaba (ved); ò invece optato per ‘í perché ‘i fuor del contesto potrebbe crear confusione con l’antico art. m.le pl. (ll)i→’i; rammento che questo ‘í a margine è sempre usato in unione dei pronomi(posti in posizione proclitica) ‘o oppure ‘a nelle epressioni: ‘o ‘í ccanno(eccolo qui vicino); ‘o ‘í lloco (eccolo lí) ‘o ‘í llanno (eccolo laggiú) ‘a ‘í ccanno(eccola qui vicino); ‘a ‘í lloco (eccola lí) ‘a‘í llanno (eccola laggiú). Rammento e me ne dolgo che l’amico avv.to Renato de Falco abbia scelto nel suo Il Napoletanario una assurda morfologia che rende i corretti ‘o ‘í ccanno ‘o ‘í lloco ‘o ‘í llanno con degli scorretti oi’ ccanno oi’ lloco oi’ llanno atteso che non si capisce proprio da quale grammatica o dizionario, l’amico de Falco abbia tratto quei suoi assurdi oi’ comunque tradotti: vedilo. Come è vero che quandoque bonus dormitat Homerus! (talora anche il buon Omero sonnecchia!).
E passiamo a gli articoli indeterminativi: abbiamo
‘NO/’NU = corrispondono ad un ed uno della lingua italiana dove sono agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm. [ in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s. o agg. che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa indifferentemente ‘no/‘nu davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa la forma tronca un (ad es.: un osso), nella parlata napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)nu(m) l’apocope della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il vezzo di scrivereno/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile ;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘NA = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una; l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)na(m) l’apocope della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il vezzo di scrivere l’articolo na privo di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, mi ripeto, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile.
E passiamo alle preposizioni cioè quella parte invariabile del discorso che, preposta a sostantivi, aggettivi, pronomi, infiniti di verbi, indica la relazione che passa tra quelli e altri nomi e verbi, serve cioè a formare dei complementi; ricordato che, cosí come nell’idioma italiano, anche in quello napoletano si ànno preposizioni proprie che sono ‘E/DE =di, A= a, ‘A/DA =da, CU = con, PE= per, ‘NFRA = fra e si ànno preposizioni improprie che sono: annante/ze= davanti, arreto= dietro, doppo=dopo, vicino l ecc. nonché ' preposizioni articolate, che sono quelle che risultano dalla fusione di una preposizione propria (in napoletano di solito la a con un articolo determinativo.
Posto che come indicato in epigrafe qui ci interessano i monosillabi, tenendo da parte le preposizioni improprie dirò di quelle proprie:
‘e/de corrisponde all’italiano di e 1) serve a stabilire una relazione di specificazione, in cui determina il concetto piú ampio espresso dal nome da cui dipende, continuando la funzione che era stata del genitivo latino: ‘o calore d’’o (=de ‘o) sole; ‘o profumo d’’e(=de ‘e) rrose; ‘e rummure d’’a(=de ‘a) strata; 2) rientrano nell'ambito della specificazione talune relazioni particolari; di possesso o appartenenza: ‘a casa ‘efràtemo; ‘e guagliune d’’o salumiere etc. | rispetto ad un'opera, l'appartenenza può essere riferita al suo autore, inventore ecc.: ‘nu libbro’e Marotta; ‘a «Pietà» ‘e Michelangelo etc. | di parentela: ‘a mugliera d’’o duttore; ‘a sora ‘e Salvatore etc. 3) in dipendenza da nomi che indicano quantità, insieme, numero, oppure da aggettivi sostantivati o pronomi che indicano una quantità indefinita, introduce ciò a cui quella quantità o quell'insieme si riferisce: ‘nu chilò ‘e pane; ‘na duzzina d’ ova; ‘na ‘nzerta ‘e rafanielle; ‘nu sacco ‘e patane etc.; 4) davanti a un nome proprio (spec. di città, località, persona) in funzione denominativa, stabilisce una relazione di tipo appositivo: ‘a città ‘e Roma;’a repubblica ‘e matu Rrafele; ‘o nomme ‘e Salvatore è assaje ausato a Napule; 5) limita l'ambito, l'aspetto per cui è valida una qualità, una condizione: sano ‘e cuorpo; buono ‘e core; tardo ‘e refresse; cunoscere quaccheduno sulo ‘e nome | la qualità o la condizione può implicare un concetto di abbondanza o di povertà, privazione: n’ommo chino ‘e ‘ngegno; ; mancà ‘e ‘sperienza; ‘nu paese privo ‘e mezzi | di colpa o di pena: accusato ‘e ‘nu ‘micidio; accusà ‘e trarimento; multà ‘e cientumila lire etc; 6) introduce l'argomento di un discorso, di uno scritto, di un'opera: discutere ‘e pallone; parlà bbuono ‘e quaccheduno ; ‘nu trattato ‘e pasticciaria ;’na pellicula ‘e spionaggio; 7) nelle comparazioni può introdurre il secondo termine di paragone: Mario è cchiú aveto ‘e Giuanne; Bologna è cchiú a nord ‘e Firenze
8) esprime una modalità: essere ‘e buon umore; jí ‘e corza; ; ridere ‘e core; vevere ‘e unu surzo. etimologicamente la prep. ‘e= de deriva lal lat. dí;
‘A /DA corrisponde alla preposizione da dell’italiano in tutte le sue funzioni ed accezioni : 1) introduce un moto da luogo: vengo ‘a casa 2) esprime allontanamento, separazione, distacco: me ne vaco ‘a/da cca! 3) in dipendenza da taluni verbi, in correlazione con a, indica quantità approssimativa: pesa ‘a quaranta a ccinquanta chile (peserà da quaranta a cinquanta chili; 4) con il verbo al passivo introduce l'agente o la causa efficiente: Pumpeje fuje distrutta dô Vesuvio; ‘a porta fuje sbattuta dô viento (Pompei fu distrutta dal Vesuvio; la porta fu sbattuta dal vento); 5) con significato temporale, indica il momento o l'epoca, l'età in cui ha avuto inizio un'azione o una situazione si è determinata: venimmo a villeggià cca ‘a paricchi anne; è ‘a Natale ca nun aggio cchiú nutizie soje; 6) unita a nomi propri di persona, a pronomi che si riferiscono a persona, a nomi che indicano mestiere, professione, condizione, grado, relazione di parentela, di amicizia, di lavoro e sim., introduce uno stato in luogo, per lo più con il valore di 'presso': fermarse a durmí a ddu quaccheduno; ‘ncuntrarse a dd’ ‘o nutaro ; restà a cenà a ddu n’amico 7) seguita dagli stessi elementi lessicali indicati al punto precedente e in dipendenza da verbi di movimento, esprime moto a luogo: vaco a dd‘o farmacista; arrivo a ddu mio figlio appena pozzo; 8) con valore variamente modale: aggi’ a campà ‘a signore; aggi’ ‘a vivere ‘a marchese; | apparentemente modale, in realtà in funzione rafforzativa: faccio ‘a ppe mme; pigliatello ‘a ppe tte; chi fa ‘a ppe sé fa pe ttre | con sfumatura di limitazione: cecato ‘a n’ occhio; zuoppo ‘a ‘nu pere. 9) introduce la destinazione, il fine, lo scopo a cui qualcosa o anche un animale è adibito: rezza ‘a pesca ma piú spesso rezza pe piscà; cavallo ‘a corza ma piú spesso cavallo ’e corza; ; lente ‘a sole ma piú spesso lente p’’o sole; | in talune locuzioni, apparentemente di questo stesso tipo, prevale la funzione attributiva: carta ‘a bollo; festa ‘a bballo; messa ‘a requiem ma piú spesso messa ‘e requiem. l’etimo della preposizione da/’a è dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; e dal lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc.
CU corrisponde all’italiano con in tutte le sue funzioni ed accezioni : 1) esprime relazione di compagnia, se è seguito da un nome che indica essere animato (può essere rafforzato da insieme): è partito cu ‘o pato ; à magnato cu ll’ amice; campa (‘nzieme) cu ‘a sora; 2) in senso piú generico, introduce il termine cui si riferisce una qualsiasi relazione: s’è appiccecato cu ‘o frato; à sfugato cu mme; 3) con valore propriamente modale: restà cu ll’uocchie nchiuse; vulé bbene cu tutto ‘o cuore; trattà cu ‘e guante gialle( cioè con rispetto e dedizione quelli dovuti ai nobili che usavano indossare guanti di camoscio in tinta chiara) | con valore tra modale e di qualità: pasta cu ‘e ssarde; stanza cu ‘o bbagno; casa cu ‘o ciardino; 4) introduce una determinazione di mezzo o di strumento: cu ‘a bbona vulontà s’ave tutto; ‘o vino se fa cu ll'uva; scrivere cu ‘a penna stilografica; partí cu ‘o treno ;
5) indica una circostanza, stabilendo un rapporto di concomitanza: nun ascí cu ll’acqua!; 6) può avere valore concessivo o avversativo, assumendo il significato di 'non ostante,a malgrado': cu tutte ‘e guaje ca tène, riesce ancòra a ridere; cu tutta ‘a bbona vulontà, ma è proprio impossibbile. L’etimo della preposizione a margine è dal lat. cum. Rammento qui e valga anche a futura memoria che tutte le parole che abbiano un etimo da voce latina terminante per consonante (che nella parola formata cade) non necessitano di alcun segno diacritico in quanto il segno diacritico dell’apocope (accento o apostrofo) è necessario apporlo graficamente quando a cadere sia una sillaba e non una o due consonanti; nel caso in esame cum dà cu e non l’inesatto cu’ che spesso mi è occorso di trovare negli scritti anche di famosi autori, sedicenti esperti della parlata napoletana. Ciò che ò appena detto vale anche per la preposizione seguente cioè
PE che (con etimo dal lat. per) corrisponde all’italiano per in tutte le sue funzioni ed accezioni :
1) determina il luogo attraversato da un corpo in movimento o attraverso il quale passa qualcosa che à un'estensione lineare (anche fig.): il ‘o treno è passato pe Caserta; ‘o curteoà sfilato pe ‘o corzo;’o mariuolo è trasuto p’’a fenesta; | può anche specificare lo spazio circoscritto entro cui un moto si svolge e, per estens., la cosa, l'ambito entro cui un fenomeno, una condizione si verificano: passiggià p’’o ciardino;jí pe mmare e pe tterra; tené delure pe tutt’’a vita | indica anche la direzione del moto: saglí e scennere p’’e scale; arrancà pe tutta ‘a sagliuta
2) indica una destinazione: partí pe Pparigge; ‘ncammenarse p’’a città; piglià ‘a strata p’’o mare; ‘o treno pe Rroma | (estens.) esprime la persona o la cosa verso cui si à una disposizione affettiva, un'inclinazione: tené simpatia pe quaccheduno; avé passione p’’a museca ;
3) introduce una determinazione di stato in luogo, che si riferisce per lo piú a uno spazio di una certa estensione: ‘ncuntrà quaccheduno p’’a strata; ce stanno cierti giurnale pe tterra;
4) esprime il tempo continuato durante il quale si svolge un'azione o un evento si verifica (può anche essere omesso): aspettà (pe) ore e ore; faticà (pe) anne e nun cacciarne niente; sciuccaje (pe) tutta ‘a notte; durarrà (pe) tutta ‘a vita | se introduce una determinazione precisa di tempo, esprime per lo piú una scadenza nel futuro: turnarrà p’’e ddiece; êsse ‘a essere pronto pe Nnatale
5) introduce un mezzo: mannà pe pposta; spedí pe ccurriere; dirlo pe ttelefono; parlà pe bbocca ‘e n’ato;
6) esprime la causa: era stracquo p’’a fatica; alluccava p’’o dulore; non ve preoccupate pe nnuje; supportaje tutto p’ ammore sujo; condannà pe ‘mmicidio;
7) introduce il fine o lo scopo: libbro pe gguagliun; pripararse pe ‘nu viaggio; attrezzarse p’’a montagna; | in dipendenza da verbi che indicano preghiera, giuramento, promessa, esortazione e sim., indica l'ente, la persona, il principio ideale per cui o in nome di cui si prega, si giura, si promette ecc.: facítelo pe Ddio; pe ccarità, facite ca nun se vene a sapé in giro; giurà pe ll’uocchie suoje; ll’à prummiso pe qquanto tène ‘e cchiú ccaro |, Pe ttutte ‘e diavule!, p’’a miseria! e sim., formule di esclamazione o di imprecazione
8) introduce la persona o la cosa a vantaggio o a svantaggio della quale un'azione si compie o una circostanza si verifica: faciarria qualsiasi cosa pe tte; accussí nun va bbuono pe nnuje; piezzo e ppejo pe cchi nun vo’ capí; n’aria ca nun è bbona p’’a salute; murí p’’ammore d’’e figlie; pregàe p’’e muorte; avutà pe n’amico ; ‘a partita è fernuta tre a ddoje p’’a squadra ‘e casa ;
9) determina il limite, l'ambito entro cui un'azione, un modo di essere, uno stato ànno validità: pe ll’intelliggenza è ‘o meglio d’’a classe; p’’e tiempe ‘e mo, è pure assaje; pe chesta vota sarraje perdunato; pe lloro è comme a ‘nu figlio; pe mme, state sbaglianno; pe quanto te riguarda, ce penzo io personalmente ;
10) introduce il modo, la maniera in cui un'azione si compie: ; parlà pe ttelefono; chiammà pe nnomme ; pavà pe ccuntante; tené pe mmano; assumere pe ccuncorzo;
11) indica un prezzo, una stima: aggio accattato pe ppochissimi sorde ‘nu bbellu mobbile antico; vennere ‘na casa pe cciento meliune; nun ‘o faciarria pe ttutto ll'oro d’’o munno;
12) in funzione distributiva: marcià pe dduje;metterse pe ffile; uno pe vvota; duje pacche pe pperzona; juorno pe gghiuorno | per estensione, indica la percentuale (pe cciento, nell'uso scritto %): ‘nu ‘nteresse d’’o diece pe cciento (o 10%) | nelle operazioni matematiche, dice quante volte un numero si moltiplica o divide (nel secondo caso può essere omesso): multiplicà cinche pe ddoje 5 ; diciotto diviso (pe ttre dà seje; da qui l'uso assol. di pe a indicare un prodotto (nell'uso scritto rappresentato dal segno X)
13) introduce una misura o un'estensione: ‘a strata è ‘nzagliuta pe pparicchie chilometri; l'esercito avanzaje pe ccinche miglia e cchiú;
14) introduce una funzione predicativa, equivalendo a come: averlo p’ amico; pigliarla pe mmugliera; tené pe ccerto; pavà ‘nu tot pe ccaparra;
15) indica scambio, sostituzione, equivalendo alle locuzioni in vece, in cambio, in luogo di e sim.: l’aggiu pigliato p’’o frato; t’’o ddice isso pe mme; capí ‘na cosa pe n’ata;
16) indica origine, provenienza familiare nella loc. pe pparte ‘e: parente pe pparte ‘e mamma;
17) il pe seguito dal verbo all'infinito introduce una prop. finale: l’hê scritto p’’o ringrazziarlo?; ce ne vo’ pe tte cunvincere!; | causale: fuje malamente cazziato p’ avé risposto malamente; era assaje stanco pe nun avé durmuto tutt’’a notte| consecutiva: è troppo bbello p’ essere overo; sî abbastanza crisciuto pe ccapirlo
18) nelle loc. perifrastiche , stare/stà pe, essere sul punto, in procinto di: stongo pe ppartí; steva quase pe sse cummuovere;
19) concorre alla formazione di numerose loc. avverbiali: p’’o mumento; pe qquanno è ‘o caso; pe ttiempo; pe lluongo; pe llargo; pe ccerto; pe ll'appunto; pe ccaso; pe ccumbinazzione; pe ppoco | congiuntive: p’’o fatto ca; pe vvia ca | pe ppoco (assaje, bello, brutto, caro e sim.) ca è o ca fosse , con valore concessivo: pe ppoco ca è, meglio ‘e niente.
Rammento, come ò già detto, che derivando il napoletano pe dal lat. pe(r) non necessità di alcun segno diacritico (accento o apostrofo) e pertanto va sempre scritta semplicemente pe e non nel modo scorretto pe’ che purtroppo ò spesso trovato anche fra i grandi autori partenopei accreditati, ingiustamente!, di essere esperti della parlata napoletana; ovviamente il pe usato davanti a vocale va eliso in p’,(ed è chiaro che l’apostrofo non indica la caduta del gruppo originario er ma della sola vocale e di pe); usato invece davanti a consonante il pe esige la geminazione della consonante per cui avremo pe pparlà e non pe parlà e cosí via.
Esaurito il discorso sulle preposizioni semplici, passo alle articolate che comunque si risolvono in un monosillabo.
Preciso súbito che nel napoletano non si ritrovavano (almeno fino ad una mia scelta di codificare una forma per le preposizioni articolate formate con la preposizione semplice da e cioè dal/dallo, dalla, dalle e dai/dagli, forme che ò pensato debbano essere rispettivamente rese con dô, dâ e dê ) non si ritrovavano preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli articoli con le preposizioni semplici di, da,con, per ma solo preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli articoli con la preposizione semplice a. In napoletano infatti non si avranno mai preposizioni del tipo dello, della,dallo,dagli etc. preferendosi per esse la forma disagglutinata ‘e ‘o – ‘e ‘a ed anche de ‘o – de ‘a – da ‘o – da ‘a/ra ‘a o anche d’ ‘o, d’ ‘a, d’ ‘e sia usando la preposizione semplice di, sia usando da dando luogo ad evidenti confusioni che per essere evitate necessitavano il ricorso al contesto; con la mia scelta di usare le scrizioni
DÔ, DÂ e DÊ per le preposizioni corrispondenti a dal/dallo, dalla, dalle e dai/dagli non c’è più pericolo di confusione ed anche fuor di contesto si coglie subito di quali preposizioni si tratti.
Abbiamo invece sempre le seguenti forme di preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli articoli con la preposizione semplice a; analiticamente abbiamo:
1)Ô che è la scrittura contratta di a + ‘o= a +il,lo e tale preposizione articolata ( derivata dal lat. ad+ (ill)u(m), acc.vo di ille 'quello' va sempre usata, in corretto e pretto napoletano, da sola per significare al, allo o unita alle cosiddette preposizioni improprie e/o avverbi: annante/ze= davanti, arreto= dietro,’ncoppa= sopra, sotto, doppo=dopo, vicino, comme etc.perché il napoletano mentalmente non elabora ad es. davanti il,dietro il o vicino il, come il etc. come accade per l’italiano, ma elabora davanti al,dietro al o vicino al, come al etc. elaborazioni che correttamente messe per iscritto vanno rese annante ô, arreto ô o vicino ô, comme ô etc. e non annante ‘o, arreto ‘o o vicino ‘o, comme ‘o come invece spesso (per non dire quasi sempre) mi è occorso di trovare negli autori napoletani (anche famosi e famosissimi), ma con molta probabilità a digiuno delle esatte regole grammaticali e sintattiche della parlata napoletana che è diversa dalla lingua nazionale, alla quale, con ogni probabilità, ma errando, quegli autori intesero uniformarsi pur nello scrivere in napoletano che – mi ripeto – è cosa affatto diversa dalla lingua nazionale, quantunque generata dal medesimo padre: il latino volgare e parlato!
2)Â (derivata dal lat. ad+ (ill)a(m)) che è la scrittura contratta di a + ‘a e sta per alla preposizione articolata femminile,per la quale valgono i medesimi campi applicativi della precedente ô = al, allo;
3)Ê che è la scrittura contratta di a + ‘e e sta o per alle o per a gli. preposizione art. plurale valida per il maschile ed il femminile; preposizione per la quale valgono i medesimi campi applicativi visti per ô ed â nonché per gli art. plurali ‘e essa preposizione si premette ai vocaboli maschili o femminili plurali; deriva dal lat.ad + (ill)ae(s), 'quelli 'di influsso osco; quando è posta innanzi ad un vocabolo femminile , ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.:êpate= ai padri, voce maschile, ma ê mmamme= alle mamme, voce femminile.
Esaurita cosí la trattazione relativa alle preposizioni semplici ed articolate, passiamo ad altri monosillabi in uso nel napoletano; parlerò prima delle voci verbali monosillabiche e poi degli avverbi, pronomi, sostantivi, congiunzioni ed infine avverbi.
SO’ forma apocopata di songo corrispondente all’italiano sono voce verbale (1° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse la forma songo/so’ marcata etimologicamente sul lat. su(m)→so presenta un suffisso –ngo, poi apocopato sulla scia di altre forme verbali: do-ngo – ve-ngo etc.
SÎ corrispondente all’italiano sei voce verbale (2° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse la forma sî derivata etimologicamente dal lat. si(s) esige un segno diacritico (accento circonflesso) non etimologica per distinguere la voce verbale a margine da altri omofoni si presenti nel napoletano e di cui parlerò successivamente;
STA corrispondente all’italiano sta voce verbale (3° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito stare dal lat. stare; la forma a margine, come la corrispondente dell’italiano, è marcata etimologicamente sul lat. sta(t) e non esige quindi segni diacritici atteso che a cadere è una semplice consonante e non una sillaba (ovviamente vocalica);
STO’ forma apocopata di stongo corrispondente all’italiano sto voce verbale (1° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito stare dal lat. stare la forma stongo/sto’ è marcata etimologicamente sul lat. sto ma presenta un suffisso forse del parlato –ngo, poi apocopato sulla scia di altre forme verbali: do-ngo – ve-ngo etc.; l’apocope della sillaba ngo comporta il segno dell’apostrofe per cui si avrà sto’ per stongo;
DÀ = dà voce verbale (3° p.s. indicativo pres.) o anche infinito del verbo dare/dà derivato del lat. dare; è pur vero che in napoletano non esiste la preposizione da che in napoletano è sempre (cfr. antea) ‘a per cui non essendovi possibilità di confusione fra voci omofone la voce verbale 3° p.s. indicativo pres. potrebbe anche scriversi tranquillamente da evitando un pleonastico accento sulla a (dà), ma per non essere accusato da qualche sprovveduto (ignaro che i raffronti occorre farli nell’ambito della medesima lingua) dicevo per non essere accusato da qualche sprovveduto di non sapere che la3° p.s. indicativo pres.del verbo dare esige l’accento (dà) preferisco nun mettere carne a cocere (evitare polemiche) e pro bono pacis faccio una forzatura alle mie conoscenze e convinzioni linguistiche ed adeguo (sia pure a malincuore) il dà napoletano al dà dell’italiano. Diverso è il discorso per il dà (forma tronca dell’infinito dare). Premesso che, normalmente occorre accentare sull’ultima sillaba tutte le voci verbali degli infiniti (per lo meno bisillabi) tronchi o apocopati (ess.: magnà, purtà, pusà, cadé, rummané etc.) per modo che si possa facilmente individuare la sillaba su cui poggiare il tono della parola, cosa che non avverrebbe se in luogo di accentare il verbo si procedesse ad apostrofarlo per indicarne l’apocope dell’ultima sillaba; in tal caso infatti non spostandosi l’accento tonico si altererebbe completamente la lettura del verbo; facciamo un esempio: il verbo spàrtere (dividere) che apocopato dell’ultima sillaba diventa spartí se in luogo dell’accento fosse scritto con il segno dell’apocope sparti’ dovrebbe leggersi col primitivo accento spàrti e non indicherebbe piú l’infinito, ma – forse - la 2° pers. sing. dell’ind. pres. Premesso tutto ciò, a mio sommesso, ma deciso avviso è opportuno – per una sorta di omogeneità accentare sull’ultima sillaba tutti i verbi al modo infinito anche quelli monosillabici (ovviamente quando si tratti di autentici verbi presenti nel napoletano e non presi in prestito dall’italiano!, come impropriamente fa qualcuno che annovera tra gli infiniti del napoletano un inesistente dí contrabbandato per infinito apocopato del verbo dícere laddove è risaputo che il napoletano pretto e corretto usa sempre la forma dícere e mai l’apocopato dí e chi lo facesse o avesse fatto, sbaglierebbe o si sarebbe sbagliato quand’anche si chiamasse Di Giacomo! ) ottenendosi perciò:
DÀ = dare( apocope del lat. dare) , FÀ = fare ( apocope del lat. facere, DÍ = dire usato soprattutto in poesia (apocope di dicere) evitando di scrivere – come invece propone qualcuno – da’ o fa’ o di’ che potrebbero esser confusi con gli imperativi da’= dai o fa’= fai o di’? dici.
JÍ= andare; infinito del verbo jí usato anche nella forma ghí/gghí(cfr. a gghí a gghí) verbo derivato dal lat. ire.Rammento che è scorretto usare il detto infinito nella forma í atteso che la j= gh fa parte integrante del tema del verbo e non può essere impunemente eliminata!
Continuando con le voci verbali monosillabiche avremo:
va’ da non confondersi con va la voce va’ è dell’ imperativo 2° p. sg. e corrisponde a vai di cui è apocope, mentre va = va dell’italiano è la 3° p. sg. dell’indicativo presente ambedue dell’infinito jí= andare etimologicamente il verbo jí è dal lat. ire, ma per le forme del presente ind. vaco, vaje, va e per l’imperativo va’ cioè per tutte le forme che ànno per tema vac- occorre risalire al lat. vacare 'andare';
Vi’ corrisponde a vi(de) imperativo 2° p. sg. dell’infinito vedé con etimo dal lat. vidíre;
‘Í altra forma del precedente vi’ qui con aferesi della v iniziale sostituita dall’apostrofo e con sostituzione della i apostrofata (i’) con una í per evitare l’appesantimento di due apostrofi uno iniziale ed uno finale nella medesima voce; anche questa ‘í sta per vi(de ) soprattutto nelle espressioni quali ‘a ‘í lloco= vedila lí= eccola lí, ‘o ‘í ccanno= vedilo qui= eccolo qui);
HÊ = scrittura contratta di aje (2° per. sg. ind. pres. del verbo avé) corrispondente all’italiano hai che personalmente preferisco ed uso scrivere ài evitando l’inelegante consonante diacritica h sostituita da un elegante accento, cosí come mi insegnò negli anni ’50 la mia insegnante delle scuole elementari , sostituzione che si ripete altrove quando à sostituisce ha, ài sostituisce hai ànno sostituisce hanno ; i medesimi motivi di eleganza stilistica mi spingono a consigliare, anche per il napoletano d’usare à, ài, ànno piuttosto che ha, hai, hanno; nella voce a margine è stato giocoforza usare un’ acca diacritica che segnalasse la differenza tra ê= ai, a gli, alle e la (h)ê voceverbale del verbo avé; ricordo che il verbo avé, in tutti i suoi tempi, seguito dalla preposizione ‘a (da) e da un infinito vale il verbo dovere e tavolta è usato per indicare un’azione futura: ess.: m’hê ‘a stà a ssèntere = ài da starmi ad ascoltare =mi devi ascoltare; dimane m’aggi’’a taglià ‘e capille = domani ò da tagliarmi i capelli= domani mi taglierò i capelli o anche:dimane aggi’’’a jí a d’’o barbiere = domani andrò dal barbiere azione che, rammento, può essere espressa però acconciamente anche con un verbo al presente: dimane vaco a d’’o barbiere= domani vado (andrò) dal barbiere ;
ME’ voce verbale apocopata di mena = spingi, butta e nell’iterativo mena, me’= tira via, lascia correre! (2° p. sg. dell’imperativo) dell’infinito menà che è dal tardo lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce'
TRA’ voce verbale apocopata di trase = entra,vieni dentro, e nell’iterativo trase, tra’= suvvia, non perder tempo, entra ! (2° p. sg. dell’imperativo) dell’infinito trasí/tràsere che è dal lat. transire→*trasire;
‘NFRA = fra preposizione semplice dal lat. infra→(i)nfra→’nfra.
CU’ voce verbale apocopata di cu(rre) = corri,fa’ presto, affrettati, soprattutto nell’iterativo curre, cu’= suvvia, non perder tempo,sbrigati ! (2° p. sg. dell’imperativo) dell’infinito correre che è dal lat. currere;la voce a margine non va confusa con l’omofona cu = con di cui parlerò in appresso; del resto questo cu = con, come chiarirò, va scritto senza alcun segno diacritico;
PO’ corrisponde all’italiano puó (3° p. sg. ind. pres.) dell’infinito puté con etimo dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -entis; la grafia usata per la voce a margine è l’ apocope di po(test) per cui la preferisco a pô dove nella ô si riconoscerebbe la contrazione del dittongo uo di puó; ma chi indicasse questa via non mi convincerebbe atteso che sotto sotto vorrebbe far passare l’idea che il napoletano sia un derivato dell’italiano; ma non è assolutamente cosí: il napoletano non è mai, proprio mai!, tributario dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato;
VO’ corrisponde all’italiano vuole (3° p. sg. ind. pres.) dell’infinito vulé con etimo dal lat. volg. *vōlere (accanto al lat. class. velle); normale il passaggio della vocale lunga o ad u; la grafia usata per la voce a margine è stata scelta in quanto vo’ è l’ apocope di vole) per cui la preferisco a vô (proposta da qualche pur valente linguista) dove però nella ô si riconosce la contrazione del dittongo uo di vuole; ma accettando tale tesi si corre il grosso rischio forse di far passare l’idea che il napoletano sia un derivato dell’italiano; ma non è assolutamente cosí: il napoletano, ripeto e sottolineo non è mai, proprio mai tributario dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato.
PUÓ – VUÓ / BBUÓ rispettivamente puoi e vuoi (2° pers. sg. ind. pres.) degli infiniti puté e vulé/bulé degli etimi ò detto precedentemente sub po’ e vo’; qui mi preme sottolineare la mia scelta di accentare i tre monosillabi in luogo di apocoparli puo’ – vuo’ / bbuo’ come suggerisce e fa qualcuno, operando una scelta che non mi convince poi che . come ò detto alibi – l’apostrofe dell’apocope non può indicare su quale delle vocali del dittongo deve cadere l’accento per una corretta pronuncia! Non tutti son tenuti a sapere che uò è un dittongo ascendente con la vocale accentata che segue la semivocale...., meglio indicare la precisa pronuncia accentando la vocale tonica!
Esaurite, o almeno considerate molte voci verbali monosillabiche (le prime che mi son venute in mente...) passiamo oltre e trattiamo i pronomi: cominciamo con
I’ apocope di io (sempre proclitico), pron. pers. m. e f. di prima pers. sing. indica la persona che parla; si impiega solo in funzione di soggetto o come predicativo quando il soggetto è ugualmente di prima persona singolare (nelle altre funzioni è sostituito dalla forma tonica me o dalla forma atona me); come soggetto può essere sottinteso, ma è sempre espresso quando possono sorgere dubbi sulla persona del verbo, quando si stabilisce una contrapposizione, quando è coordinato con un altro soggetto, quando lo si vuole sottolineare enfaticamente: (i’) nun crero a cchello ca se dice; quanno parlo (io) nun voglio essere interrotto; si (i’) nun facessi accussí, nun fosse o sarria cchiú io; forze è mmeglio ca i’ me ne vaco ; fallo tu, i’ nun ce riesco; i’ e isso continuammo a faticà ‘nzieme; ‘o faccio io!; io,a dicere ‘na cosa ‘e chesta? | si rafforza se è seguito da stesso o preceduto da anche, neanche, nemmeno, proprio, appunto ecc. : vengo i’ stesso; neanch'io so’ stato ‘nfurmato; sono stato proprio io a dicerlo ; l’etimo è dal lat. volg. eo per il class. ego.
‘O promome maschile o neutro proclitico che vale lo è usato come compl. ogg. e comporta, nel caso sia riferito al neutro, la geminazione della consonte d’avvio del verbo; riferito al maschile non lo esige; ess.: Chellu ppane? ‘O ffacette Nunziatina - Chillu ‘mpiccio ‘o facette isso!
‘A promome femminile proclitico che vale la ed è usato come compl. ogg. per solito innanzi a consonanti; innanzi a vocali si usa nella forma lla apostrofato →ll’ ess.: ‘a purtaje isso fino â casa.- ‘a sentettemo ‘a vascio ê scale! ll’âmmo (avimmo) sagliuta fino a ‘ncoppa! – ll’îmmo (avimmo)’ntisa ‘a vascio ê scale;
CE/NCE corrisponde all’italiano ce o ci ed è pron. pers. di prima persona pl. atono; usato come compl. di termine in presenza delle forme pronominali atone‘o, ‘a, , ‘e e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] a noi: nce ‘o dicette; nce ‘a dette sana e salva; ce ‘o rialaje ; nce ‘o dette ; ce ne vulettero assaje; mannatecello; datencille; parlacene
tale ce/nce è usato anche come part. avverbiale [ in presenza delle forme pronominali atone ‘o, ‘a, , ‘e e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] qui, in questo luogo; lí, in quel luogo; nel luogo di cui si parla: nun ce ‘o truvaje; mettimmoncelo; ce n’êsseno (avesseno) essercene ancòra; nce ne stanno parecchie; l’etimo è dal lat. volg. *(hic)ce, forse per il class. hic 'qui’.
SÉ particella pronominale tonica corrispondente a quella dell’italiano sé= se stesso/a/i/e particella di cui forse non metterebbe conto di parlare, perché poco usata nel napoletano se non in particolari costrutti; ad ogni buon conto dirò che si tratta d’un pron. pers. rifl. m. e f. di terza pers. sing. e pl. si usa solo quando si riferisce al soggetto della proposizione, altrimenti è sostituito da isso, essa, lloro; è sempre sostituito da lloro quando vi sia reciprocità d'azione (parlavano tra lloro e non tra sé); si usa talvolta nei complementi retti da preposizione, spesso rafforzato da stesso o medesimo quantunque nel’uso gli si preferiscano i pronomi isso, essa, lloro;: se preoccupano solo ‘e lloro stessi; è suddisfatto d’isso; à fatto molto parlare ‘d’essa ; attirare a ssé; | come compl. oggetto, in luogo della forma atona se, acquista particolare risalto, soprattutto nelle contrapposizioni (e per lo piú seguito da stesso o medesimo): invece di se cunsidera cchiú ‘e ll’ate si può avere cunsidera sé stessocchiú ‘e ll’ate; aggenno accussí danneggia sé stesso e nun giova all’ate; ma meglio: aggenno accussí se danneggia e nun giova all’ate | | penzà sultanto a ssé, comportarsi egoisticamente | dinto di sé, fra sé e sé, nel proprio intimo: pensare qualcosa dentro d’isso, tra sé e ssé | ‘nzé =in sé, ‘nzé stesso = in sé stesso, ‘nzé e nzé e ppe ssé, si dice di cosa che viene considerata soltanto nella sua essenza, nella sua singolarità: ‘a cosa nzé tene poco valore; è ‘na risposta nzé e ppe ssé abbastanza nzipeta | a ssé, a parte, separatamente: è ‘nu caso a ssé; va cunsiderato a ssé | ‘a sé =da solo, senza l'aiuto di altri, senza che altri intervengano: vo’ fà tutto ‘a sé; ma meglio: vo’ fà tutto ‘a ppe isso;l’etimo di questo sé è il lat. sí.
e passiamo ora altre varie particolari voci monosillabiche prima di affrontare avverbi, congiunzioni ed altro;
OJ/O’ - fonema esclamativo che si premette ad un vocativo ad es.: oj ne’ (ragazza!) oj ni’ (ragazzo); esprime, secondo il tono con cui è pronunciata ed a seconda del soggetto cui è diretto, dolore, piacere, meraviglia, sdegno, dubbio, sospetto, compassione, paura o altro. Trattandosi di un fonema esclamativo à un’origine quasi certamente espressiva e non è possibile azzardarne una qualche etimologia; rammento che ò trovato (anche in grandi scrittori (o intesi tali) partenopei la voce a margine oj riportata come oje e tutti costoro ànno inteso con tale oje, formulare un richiamo esclamativo, ma tutti sono incorsi nel medesimo errore poi che in pretto e corretto napoletano la voce oje non è un’esclamazione, ma un sostantivo che con derivazione dal lat. volg. hodie→(h)oje significa oggi: la forma apocopata o’ è usata in espressioni esclamative del tipo o’ fra’ (fratello!)te ll’aggiu ditto – o’ no’ (nonno!)lassàteme fà!
QUA’ forma apocopata dell’agg.vo interrogativo o esclamativo qua(le) ‘a qua’ parte sî venuto? – qua’ giacchetta t’ hê miso! l’etimo è dal lat. quale(m). rammento che contrariamente a ciò che avviene nella lingua nazionale, in napoletano quale oltre che apocopato può essere tranquillamente eliso davanti a vocoli non esistendo in napoletano la forma tronca qual;
NO avv. olofrastico come il corrispondente no dell’italiano è negazione equivalente ad una intera frase negativa, usata specialmente nelle risposte (si contrappone a sí): «ll'hê visto?» «No»; «Parte oje?» «No, dimane!» («l’ài visto?» «No»; «Parte oggi?» «No, domani!»).
PO avv. di tempo = poi voce dal lat. post→po(st)→po, avverbio che in napoletano non esige nessun segno diacritico finale (come invece succede quando a cadere è una sillaba vocalica e non un gruppo consonantico (cfr. qua(le)→qua,ed invece mo (ora)←mo(x), re(monarca)←re(x)).
NU avv. negativo apocope non sillabica di nun corrispondente al non dell’italiano serve a negare il concetto espresso dal verbo a cui si riferisce o a rafforzare una frase che contiene già un pron. negativo: nun venette; nu pparlaje pe tutt’’a jurnata parlò ; nun c'è verzo d’’o fà capace! ; nun c'è prubblema; nu nce sta nisciuno; nun esiste ‘o riesto ‘e niente come il precedente l’etimo è nel lat. non. per la voce a margine, trattandosi di un’apocope non sillabica (con la sola caduta di una consonante (n) non è necessaria l’apposizione di alcun segno diacritico cosí come è avvenuto per il precedente pe←per e come avverrà quando si parlerà dell’avverbio mo e ciò a malgrado di qualcuno che consiglia la grafia nu’ forse nel timore che il nu potesse confondersi con l’articolo indeterminativo nu che taluno invece di vergar ‘nu à il gusto di scrivere privo del necessario segno distintivo d’aferesi...
NE particella pronominale o locativa atona corrispondente al ne dell’italiano e come per l’italiano è pron. m. e f. , sing. e pl. [forma atona che si usa in posizione sia enclitica sia proclitica; è sempre posposta ad altro pron. atono che l'accompagni e si può elidere davanti a vocale]
1) riferito a persona o a persone già nominate in precedenza, di lui, di lei, di loro (può assumere funzione partitiva, di compl. di specificazione e d'argomento): mancavano ‘e ggiuvane: a chella festa nun ce ne steva nisciuno; appena ‘o cunuscette,addivintajene amice; ne parlano comme ‘e ‘na perzona capace | in usi pleonastici:n’aggi’ntiso pure troppe!
2) riferito a cosa nominata precedentemente, di questo, di questa, di questi, di queste o di quello, di quella, di quelli, di quelle (può assumere funzione partitiva, di compl. di specificazione, d'argomento, di causa e, nell'uso ant. o lett., anche di mezzo): damme ‘na caramella, io nun ne tengo cchiú ; aggio avuto ‘nu libbro libro e ggià n’asggiu liggiuto parecchie paggine; è ‘na cosa troppo/a delicata, preferisco nun parlarne; | in usi pleonastici: ne avimmo mangiate troppo/e assaje ‘e sfugliatelle!; nun ne tenesse, pe fatte mieje ‘e guaje! | in espressioni ellittiche: farne ‘e tutt’’e culure; sapernecchiú ‘e ll’ate; ce ne à ditto ‘nu sacco e ‘na sporta;
3) con valore neutro, riferito a un'intera frase o a un concetto già espressi in precedenza, equivale a 'di ciò': è proprio accussí, ma tu nun ne sî cunvinto; chesta è ‘a verità: è ‘na perzona scustumata, è impossibile nun tenerne cunto | in usi rafforzativi: nun avertene a mmale!; nun ne vale ‘a pena!
4) da ciò, da questo, da quello (indica derivazione, provenienza; in senso fig., conseguenza logica): s’ avvicinaje all'albero e ne spezzaje parecchi ffronne;nun putarria tirarne ata cuncrusione; pígliate ‘e responsabbilità tojele cu tutto chello ca ne dipende | riferito a persona, da lui, da parte sua, da loro, da parte loro: è stata sempe gentile cu tte , ma nun ne à avuto ca malazzione!;avimmo presentato a lloro ‘a richiesta nosta cchiú ‘e ‘na vota , ma non ne avimmo maje ricavato niente!:
Questo ne è usato anche come avverbio ed à i medesimi usi sintattici del pron.: di lí, di là, di qui, di qua (indica allontanamento da un luogo, in senso proprio o fig.): «Sî stato a Napule?» «Sí, mo ne sto’ turnanno »; ‘na vota trasuto dint’ â ‘rotta, nun fuje cchiú capace ‘e ascirne; era ‘na situazzione difficile, ma ne venette fora cu ‘a bbona sciorta | in usi pleonastici: me ne vaco subbeto; se ne fujette ‘e corza | in taluni usi verbali ( jirsene, venirsene, starsene ecc.) è una semplice componente fraseologica: se ne veneva tinco tinco; se ne steva là sulo sulo.
L’etimo della voce a margine è dal lat. inde.
Procediamo oltre:
NE’ è un’apocope in funzione vocativa del sostantivo nenna
cfr. antea oj ne’ l’etimo di nenna = fanciulla, ragazza è forse dal greco neanías ma qualcuno prospetta (forse a ragione) lo spagnolo niña o il catalano nina→ninna→nenna;
NI’ che è un’apocope in funzione vocativa del sostantivo ninno cfr. antea oj ni’ l’etimo di ninno è il medesimo di nenna di cui è maschilizzazione;
ME/ MME pron. pers. m. e f. di prima persona sing.
1) forma complementare tonica del pron. pers. io; si usa come compl. ogg., quando gli si vuole dare particolare rilievo, e nei complementi introdotti da preposizioni: cercano proprio a mme; parlavano ‘e me; ll’ànno cunzignato a mme; a mme nun me ne ‘mporta; è vvenuto addu me ajere; l'à fatto pe mme; nun pigliartela cu mme ; tra me e tte non c'è stato nisciuna putecarella; raramente è anche rafforzato da stesso o medesimo: me metto scuorno ‘e me stesso | da me, da solo, senza l'aiuto altrui: ll’aggiu fatto ‘a ppe mme | per me, per quel che mi riguarda: pe mme, puó ffà chello ca vuó | secondo me, a mio parere: , pe mme è tutto sbagliato | quanto a me, per quanto mi riguarda: quanto a mme puó stà dint’ ê tranquille | tra me (o tra me e me), dentro di me, nel mio intimo: parlavo tra me e mme; | nun sapé né ‘e me né ‘e te,
2) si usa quasi sempre preceduto dalla preposizione a come soggetto nelle esclamazioni e nelle comparazioni dopo come e quanto: povero a mme!; niru me !; nun sî comme a mme; ne sapevano quanto a mme | non è quasi mai usato come predicato nominale dopo i verbi essere, parere, sembrare,
3) si usa come compl. di termine in luogo del pron. pers. mi in presenza delle forme pronominali atone lo, la, li, le e della particella ne, sia in posizione enclitica sia proclitica: m’’o dicette; me ll’à date n’ata vota; me neà fatte tante e tante; mannàtemelo; pàrlamene. L’etimo della voce a margine è dal lat. me.
MA’ che è un’apocope in funzione vocativa del sostantivo mamma cfr.ad es.: oj ma’ l’etimo della voce mamma è dal lat. mamma(m) 'mammella, poppa' e nel linguaggio infantile 'mamma, mammà’
E andiamo oltre; abbiamo i pronomi
CHE pron. rel. invar. corrispondente all’italiano che, ma in napoletano è spesso usato nella forma ca
1) il quale, la quale, i quali, le quali (si riferisce sia a persona sia a cosa, e si usa normalmente nei casi diretti): chillu signore ch’ è trasuto mo è ‘o direttore; ‘e perzone ca tu hê visto, so’ perzone meje tu hai visto; ‘o ggiurnale che staje liggenno è chillo d’ajere
2) talvolta è usato come compl. indiretto, con o senza prep.) soprattutto nel linguaggio pop., spec. col valore di in cui (temporale e locale):’a staggiona ca ce simmo ‘ncuntrate; paese ca vaje ausanze che truove; piú fortemente popolare o dialettale in funzione di altri compl.: è cchesta ‘a carne ca ('con cui') se fa ‘o broro | in altre espressioni dell'uso comune: (nun) tene ‘e che se lamentà, (non) ne ha motivo; (nun) tene ‘e che vivere, (non) à risorse economiche; | nun c'è che dicere, espressione di consenso
3) la quale cosa (con valore neutro, preceduto dall'art. o da una prep.): te sî miso a sturià, il che te fa onore; nun s’ è ffatto cchiú vedé, dal che aggiu capito ca nun le passa manco p’’a capa chill’affare; | come pron. interr. [solo sing.] quale cosa è usato in prop. interr. dirette e indirette): che ne sarrà ‘e lloro?; che staje dicenno?; a che pienze?; ma ‘e che te miette paura?; nun saccio che fà; nun capisco ‘e che ti lamiente; è spesso rafforzato/seguíto o, nel linguaggio familiare, sostituito da cosa: (che) cosa vuó?; nun saccio (che) cosa penza ‘e fà | che cc’ è, che nun cc’ è, (fam.) tutt'a un tratto, improvvisamente | a cche?, a quale scopo?, a qual pro? | ‘e che?/ e cche?, ‘o che?, ma che?, rafforzativi di interrogazione che esprimono stupore polemico: e che? einisse che dicere? |talora come pron. escl. [solo sing.] quale cosa: che dice!; che m’aveva capità!; ma che m’ at- tocca ‘e sèntere! | come inter., nell'uso familiare, esprime meraviglia, stupore: «Ce vaje?» «Che! (ma piú spesso Addó?) Ma neanche a dicerlo!»; «Che! Staje pazzianno?» | ma che!, lo stesso che macché ||| come pron. indef. indica qualcosa di indeterminato (solo in partic. locuzioni): ‘nu che, nun saccio che, ‘nu certo che, ‘nu certo nun saccio che, | (‘nu) gran che, (una) gran cosa: oje nun aggiu cunchiuso (‘nu) gran che; ne parlano tutti buono, ma pe mme nun è (‘nu) gran che | un, ogni minimo che, un, ogni nonnulla: ‘ncazzarse p’ ògne minimu che
come agg. interr. invar. quale, quali: che tipo è?; a che ora venarrà?; che llibre liegge ‘e solito?; nun saccio ch’ idee tene p’’a capa ||| come agg. escl. invar. quale, quali: ma che idee!; che bbella jurnata!; che perzone antipatiche! | (fam.) molto diffuso l'uso dell'agg. escl. in unione a un semplice agg., senza altra specificazione, in frasi del tipo: che bello!, che bellezza, com'è bello; che strano!, che stranezza, com'è strano | diffusa anche l'anteposizione dell'agg. qualificativo: scemo ca sî!, sei proprio stupido!
rarissimamente è s. m. anzi è usato solo nell'espressione il che e il come e sue varianti, nel senso di 'ogni cosa, tutto': voglio sapé bbuono ‘o cche e ‘o ccomme; t’addimannarrà ‘o cche, ‘o ccome e ’o quanno. L’etimo del che è dal lat. quid mentre la forma ca è forse un prestito di comodo della congiunzione di cui qui di seguito, congiunzione per la quale qualcuno ipotizza, ma poco convincentemente un’aferesi di (poc)ca=poiche mentre mi appare piú corretto l’etimo dal lat. quia→q(ui)a→qa→ca; oltretutto se il ca congiunzione fosse derivata da un’aferesi (poc)ca sarebbe buona norma scrivere il ca congiunzione con un segno d’aferesi ‘ca che distinguesse anche visivamente il ‘ca congiunzione dal ca pronome!Ma i fatti, fortunatamente, non stanno cosí! Proseguiamo
CA congiunzione che corrisponde all’italiano che
1) introduce prop. dichiarative (soggettive e oggettive) con il v. all’ind. o talvolta al congiunt..: se dice ca è partuto; fosse ora ca te decidisse; nun penzo ca chillo vene; te dico ca nun è overo; è inutile ca tu liegge chillu cartello, manco ‘o capisce... | può essere omesso quando il v. è al congiunt.: spero fosse accussí | con valore enfatico: nun è ca sta malato, pe ccerto è assaje stanco; è ca ‘e juorne nun passano maje!; forze ca nun ‘o sapive?
2) introduce prop. consecutive, con il v. all'indic. o al congiunt. (spesso in correlazione con accussí, tanto, talmente, tale ecc.): cammina ca pare ‘nu ‘mbriaco; parla pe mmodo ca te putesse capí; era talmente emozzionato ca nun riusciva a pparlà; stevo accussí stanco ca m’addurmette súbbeto; | entra nella formazione di locuzioni, come ô punto ca, pe mmodo ca etc : continuaje a bbevere pe mmodo ca se ‘mbriacaje;
3) introduce prop. causali con il v. all'indic. o al congiunt.: cummògliate ca fa friddo; nun è ca m’’a vulesse scapputtà
4) introduce prop. finali con il v. all’indicativo o al congiunt.: fa' ca tutto prucede bbuono! ; se stevano accorte ca nun se facesse male;
5) introduce prop. temporali con il v. all'indic., nelle quali à valore di quando, da quando: te ‘ncuntraje ca era ggià miezojuorno; aspetto ca isso parte; sarranno dduje mesi ca nun ‘o veco | entra nella formazione di numerose loc. cong., come ‘na volta ca, doppo ca, primma ca, ògne vvota ca, d’’o juorno ca,: ll’hê ‘a farlo, primma ca è troppo tarde; ògne vvota ca ‘a ‘ncontro me saluta sempe;
6) introduce prop. comparative: tutto è fernuto primma ca nun sperasse
7) introduce prop. condizionali con il v. al congiunt., in loc. come posto ca,datosi ca, ‘ncaso ca, a ppatto ca, nell'ipotesi ca ecc.: posto ca avesse tutte ‘e ragioni, nun s’aveva ‘acumportarse comme à fatto!; t’’o ffaccio, ‘ncaso ca t’’o mierete;datosi ca hê ‘a partí, te ‘mpresto ‘sta balicia;
8) introduce prop. eccettuative (in espressioni negative, correlata con ato, ati, ‘e n’ata manera, per lo piú sottintesi): non fa (ato) ca dicere fessaríe ; nun aggio potuto (altro) ca dicere ‘e sí!; nun putarria cumpurtarme (‘e n’ata manera) ca accussí | entra a far parte delle loc. cong. tranne ca, salvo ca, a meno ca, senza ca: tutto faciarria o facesse, tranne ca darle raggione; vengo a truvarte, a meno ca tu nun staje ggià ‘nampagna; è partuto senza ca nesciuno ne fosse ‘nfurmato;
9) introduce prop. imperative e ottative con il v. al congiunt.: ca nisciuno trasesse!; ca ‘o Cielo t’aonna! Dio ; ca ‘stu sparpetuo fernesse ampressa;
10) introduce prop. limitative con il v. al congiunt., con il valore di 'per quanto': ca i’ sapesse non à telefonato nisciuno;
11) con valore coordinativo in espressioni correlative sia ca... sia ca; o ca... o ca: sia ca te piace sia ca nun te piace,stasera avimm’’a ascí ;i’ parto oca chiove o ca nun chiove...;
12) introduce il secondo termine di paragone nei comparativi di maggioranza e di minoranza, in alternativa a di (‘e) (ma è obbligatorio quando il paragone si fa tra due agg., tra due part., tra due inf., tra due s. o pron. preceduti da prep.): Firenze è meno antica ca (o ‘e) Roma; sto’ cchiú arrepusato oje ca (o ‘e) ajere;tu sî cchiú sturiuso ca ‘nteliggente;; è cchiú difficile fà ca dicere; à scritto meglio dinto a ‘sta lettera ca dinto a cchella d’’o mese passato | (fam.) in correlazione con tanto, in luogo di quanto, nei comparativi di eguaglianza: la cosa riguarda tanto a mme ca a vvuje | in espressioni che ànno valore di superl.: songo cchiú ca certo; songo cchiú ccerto ca maje;
13) entra nella formazione di numerose cong. composte e loc. congiuntive: affinché, benché, cosicché, perché, poiché; sempe ca, in quanto ca, nonostante ca, pe mmodo ca e sim.
Dell’etimo di questa congiunzione ò già detto sub che come sempre sub che ò parlato del pronome ca = che.
Procediamo oltre. Un’ altra congiunzione molto usata nel napoletano è la congiunzione
SI corrispondente all’italiano se
1) posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico): si se mette a pparlà,nun ‘a fernesce cchiú; si i’ fosse a tte ,me ne jesse a ffà ‘na scampagnata ; si tu avisse sturiato ‘e cchiú ,fusse o sarriste stato prumosso; si fosse dipeso ‘a me, mo nun ce truvarriamo o truvassemo a chistu punto; si fusse stato cchiú accorto , non te fusse o sarriste i truvato dinto a ‘sta situazziona (o pop.: si ire cchiú accorto , non te truvave dinto a ‘sta situazziona ) | in espressioni enfatiche, in frasi incidentali che attenuano un'affermazione o in espressioni di cortesia: ca me venesse ‘na cosa si nun è overo!; pure tu, si vulimmo sî ‘nu poco troppo traseticcio; si nun ve dispiace, vulesse ‘nu bicchiere ‘e vino; pecché, si è llecito,aggio ‘a jrce semp’i’? | può essere rafforzata da avverbi o locuzioni avverbiali: si pe ccaso cagne idea, famme ‘o ssapé; si ‘mmece nun è propeto pussibbile, facimmo ‘e n’ata manera | in alcune espressioni enfatiche e nell'uso fam. l'apodosi è spesso sottintesa: ma si non capisce ‘o riesto ‘e niente!; si vedisse comme è crisciuto!; se sapessi!; se ti prendo...!; e se provassimo di nuovo...? | si maje, nel caso che: si maje venisse, chiàmmame; anche, col valore di tutt'al più: simmo nuje, si maje, ca avimmo bisogno ‘e te;
2) fosse che, avvenisse che (con valore desiderativo): si vincesse â lotteria!; si putesse turnarmene â casa mia!; si ll’ avesse saputo primma!
3) dato che, dal momento che (con valore causale): si ne sî proprio sicuro, te crero; si ‘o ssapeva, pecché nun ce ll’ à ditto?
4) con valore concessivo nelle loc. cong. se anche, se pure: si pure se pentesse, ormaje è troppo tarde; si anche à sbagliato, no ppe cchesto ‘o cundanno
5) preceduto da come, introduce una proposizione comparativa ipotetica: aggisce comme si nun te ne ‘mportasse niente; me guardava comme si nun avesse capito; comme si nun si sapesse chi è!
6) introduce proposizioni dubitative e interrogative indirette: me dimanno si è ‘na bbona idea; nun sapeva si avarria o avesse fernuto pe ttiempo; nun saccio che cosa fà, si partí o restà; s’addimannava si nun se fosse pe ccaso sbagliato | si è overo?, si tengo pacienza?, sottintendendo 'mi chiedi', 'mi domandi' ecc.
Rammento che questa congiunzione si napoletana non viene mai usata come sost. m. invar. come invece capita con il corrispettivo se dell’italiano.
Lasciando da parte altre congiunzioni monosillabiche che non sono tipiche del napoletano in quanto corrispondenti in tutto e per tutto a quelle della lingua nazionale ( e, ma, o= oppure etc.) mi lascio portar per mano dalla congiunzione si per illustrare l’omofono, ma non omografo
SI’ che è l’apocope di si(gnore) e pertanto esige il segno diacritico dell’apostrofo. viene usato per solito davanti ad un sostantivo comune o davanti a nome proprio di persona (ad es.: ‘o si’ prevete= il signor prete, ‘o si’ Giuanne = il signor Giovanni.) L’etimo del lemma signore da cui l’apocope a margine si’ è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano.
Ricordo che càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé – come ò sottolineato - è l’apocope di si(gnore) ) con uno scorretto
ZI’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) ed usato quasi esclusivamente nei vocativi (o’ zi’!) per cui si ottenengono gli scorretti zi’prevete o zi’ Giuanne.
Per restare nel tema suggerito dal si’= signore parlo di un altro monosillabo: SIÉ che è usato per indicare la voce signora; per il vero non si tratta dell’apocope di si(gnora) che se cosí fósse esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto
zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere recentemente in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come e pertanto esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto
zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere recentemente in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come Dicette 'o zi' moneco,a’ zi’ Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." infece che correttamemente Dicette 'o si' moneco,â sié Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." ed ovviamente il fatto scorretto non consiste soltanto nell’avere usato a’ al posto di â per dire alla, quanto per avere usato impropriamente zi' moneco, e zi’ Badessa al posto di si' moneco, e sié Badessa.
Ciò detto passiamo agli avverbi monosillabici, cominciando con il
SÍ avverbio olofrastico affermativo corrispondente all’italiano sí
1) si usa dunque nelle risposte come equivalente di un'intera frase affermativa (può essere ripetuto o rafforzato): "Ệ capito?" "Sí"; "Venono pure lloro?" "Sí"; anche, "Sí, sí", "Sí certo", "Comme!Sí!", "Sí overamente ", "Ma sí!" | ' dicere ‘e sí, acconsentire ' risponnere ‘e sí, affermativamente ' paré, sperà, crerere ecc. ‘e sí, che sia cosí ' | e ssí ca = e dire che ' sí, dimane, (fam. iron.) no, assolutamente no
2) spesso contrapposto a no: dimme sí o no!; un giorno sí e n’ato no, a giorni alterni ' sí e nno, a malapena ' ti muove, sí o no?, esprimendo impazienza ' cchiú ssí ca no, probabilmente sì ;
3) con valore di davvero, in espressioni enfatiche: chesta sí ca è bbella!; chesta sí ch’è ‘na nuvità!
talvolta è usato come s. m. invar.
1) risposta affermativa, positiva: m’aspettavo ‘nu sí; risponnere cu ‘nu un bellu sí; ‘e spuse ànno ggià ditto ‘o sí; stare tra ‘o sí e o no, essere incerto; decidersi p’’o ssí, decidere di fare qualcosa '
2) pl. voti favorevoli: si songo avute tre ssí e quatto no.
L’etimo di questo sí è dal lat. sic 'cosí', forma abbreviata della loc. sic est 'cosí è'; poi che la voce in esame deriva da un si(c) con la caduta di una consonante e non di una sillaba non sarebbe previsto alcun segno diacrito sulla parola derivata, ma è stato giocoforza accentare la i di questo sí per con confonderlo anche graficamente dal si congiunzione o dal si’ apocope di signore.
Di... segno opposto l’avverbio olofrastico negativo
NO scritto privo di qualsiasi segno diacritico, da non confondersi con l’omofono,ma non omografo art. indeterminativo ‘nu/’no
CCA avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che in parlata napoletana (così come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto SEMPRE senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; in parlata napoletana esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = (che), congiunzione e pronome che però si rendono ambedue con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti scrittori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’con un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico !
R.Bracale
Elenco qui di sèguito un congruo numero di monosillabi in uso nella parlata napoletana, indicandone volta a volta oltre significato ed (ove possibile) etimo anche quella che è (a mente delle regole di grammatica e linguistica) la maniera piú corretta di scriverli.
Cominciamo con i piú semplici monosillabi e cioè gli articoli; abbiamo gli articoli determinativi
‘A = la art. determ. f.le sing. si premette ai vocaboli femminili singolari; deriva dal lat. (ill)a(m), f.le di ille 'quello'; la caduta per aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘);
‘O/’U = lo/il art. determ. m. sing. si premette ai vocaboli maschili o neutri singolari; la forma ‘u è forma antica di ‘o ora ancóra in uso in talune parlate provinciali e/o dell’entroterra; la derivazione sia di ‘o che di ‘u è dal lat. (ill)u(m), acc.vo di ille 'quello'; la caduta per aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘); la particolarità di questo articolo è che quando sia posto innanzi ad un vocabolo inteso neutro, ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.: ‘o pate voce maschile, ma ‘o ppane voce neutra etc.).
O’ non è come a prima vista potrebbe apparire un’errata scrittura del precedente articolo ‘o (lo/il), errata scrittura (tutti possiamo sbagliare!) che talvolta mi è capitato di ritrovare inopinatamente in talune pagine di giornali, vergata da indegni pennaruli che per mancanza di tempo o ignavia non usano piú rileggere e/o correggere ciò che scrivono (....mi rifiuto infatti di credere che un giornalista non sappia che in napoletano gli artt. lo/il vanno resi con ‘o e non con o’) a meno che quei tali pennaruli nel loro scrivere non errino lasciandosi condizionare dalla dimestichezza con lo O’ (apocope dello of inglese che vale l’italiano de/De).
L’ o’ napoletano a margine è anch’esso un apocope, quella del vocativo oj→o’=oh e viene usata nei vocativi esclamativi del tipo o’ fra’!= fratello! oppure o’ no’!= nonno! La forma intera oj è usata in genere nei vocativi come oj ne’! – oj ni!’= ragazza! – ragazzo!. Rammento che il corretto vocativo oj viene – quasi sempre e nella maggioranza degli anche famosi e famosissi scrittori e/o poeti partenopei – riportato in una scorrettissima forma oje con l’aggiunta di una pletorica inesatta semimuta e, aggiunta che costringe il vocativo oj a trasformarsi nel sostantivo oje = oggi con derivazione dal lat. (h)o(di)e→oje; ah, se tutti i sedicenti scrittori e/o poeti partenopei prima di mettere nero sul bianco facessero un atto di umiltà e consultassero una buona grammatica del napoletano, o quanto meno compulsassero un qualche dizionario, quante inesattezze o strafalcioni si eviterebbero! Purtroppo tra i piú o meno famosi o famosissimi scrittori e/o poeti partenopei che reputano d’esser titolari di scienza infusa, l’umiltà non trova terreno fertile! Il Cielo perdoni la loro supponenza spocchiosa...
‘E = gli, le art. determ. m.le e f.le plurale. si premette ai vocaboli maschili o femminili plurali; deriva dal lat. (ill)ae(s), 'quelli 'di influsso osco; la caduta per aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘);la particolarità di questo articolo è che quando sia posto innanzi ad un vocabolo femminile , ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.: ‘e pate voce maschile, ma ‘e mmamme voce femminile, ‘e figlie= i figli voce maschile, ma ‘e ffiglie= le figlie voce femminile etc.);
i’ = io pron. pers. m. e f. di prima pers. sing.
s. m. invar.
1 il proprio essere, la propria persona;
2 il soggetto pensante in quanto à coscienza di sé, contrapposto al mondo esterno, al non-io; (voce dal
lat. volg. *eo→io→i(o)→i’, per il class. ego).
‘Í = vedi; è l’aferesi dell’imperativo esclamativo (ved)i del verbo vedere; di per sé si potrebbe rendere correttamente anche con ‘i dove il segno d’aferesi (‘) indicherebbe la caduta della sillaba (ved); ò invece optato per ‘í perché ‘i fuor del contesto potrebbe crear confusione con l’antico art. m.le pl. (ll)i→’i; rammento che questo ‘í a margine è sempre usato in unione dei pronomi(posti in posizione proclitica) ‘o oppure ‘a nelle epressioni: ‘o ‘í ccanno(eccolo qui vicino); ‘o ‘í lloco (eccolo lí) ‘o ‘í llanno (eccolo laggiú) ‘a ‘í ccanno(eccola qui vicino); ‘a ‘í lloco (eccola lí) ‘a‘í llanno (eccola laggiú). Rammento e me ne dolgo che l’amico avv.to Renato de Falco abbia scelto nel suo Il Napoletanario una assurda morfologia che rende i corretti ‘o ‘í ccanno ‘o ‘í lloco ‘o ‘í llanno con degli scorretti oi’ ccanno oi’ lloco oi’ llanno atteso che non si capisce proprio da quale grammatica o dizionario, l’amico de Falco abbia tratto quei suoi assurdi oi’ comunque tradotti: vedilo. Come è vero che quandoque bonus dormitat Homerus! (talora anche il buon Omero sonnecchia!).
E passiamo a gli articoli indeterminativi: abbiamo
‘NO/’NU = corrispondono ad un ed uno della lingua italiana dove sono agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm. [ in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s. o agg. che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa indifferentemente ‘no/‘nu davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa la forma tronca un (ad es.: un osso), nella parlata napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)nu(m) l’apocope della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il vezzo di scrivereno/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile ;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘NA = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una; l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)na(m) l’apocope della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il vezzo di scrivere l’articolo na privo di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, mi ripeto, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile.
E passiamo alle preposizioni cioè quella parte invariabile del discorso che, preposta a sostantivi, aggettivi, pronomi, infiniti di verbi, indica la relazione che passa tra quelli e altri nomi e verbi, serve cioè a formare dei complementi; ricordato che, cosí come nell’idioma italiano, anche in quello napoletano si ànno preposizioni proprie che sono ‘E/DE =di, A= a, ‘A/DA =da, CU = con, PE= per, ‘NFRA = fra e si ànno preposizioni improprie che sono: annante/ze= davanti, arreto= dietro, doppo=dopo, vicino l ecc. nonché ' preposizioni articolate, che sono quelle che risultano dalla fusione di una preposizione propria (in napoletano di solito la a con un articolo determinativo.
Posto che come indicato in epigrafe qui ci interessano i monosillabi, tenendo da parte le preposizioni improprie dirò di quelle proprie:
‘e/de corrisponde all’italiano di e 1) serve a stabilire una relazione di specificazione, in cui determina il concetto piú ampio espresso dal nome da cui dipende, continuando la funzione che era stata del genitivo latino: ‘o calore d’’o (=de ‘o) sole; ‘o profumo d’’e(=de ‘e) rrose; ‘e rummure d’’a(=de ‘a) strata; 2) rientrano nell'ambito della specificazione talune relazioni particolari; di possesso o appartenenza: ‘a casa ‘efràtemo; ‘e guagliune d’’o salumiere etc. | rispetto ad un'opera, l'appartenenza può essere riferita al suo autore, inventore ecc.: ‘nu libbro’e Marotta; ‘a «Pietà» ‘e Michelangelo etc. | di parentela: ‘a mugliera d’’o duttore; ‘a sora ‘e Salvatore etc. 3) in dipendenza da nomi che indicano quantità, insieme, numero, oppure da aggettivi sostantivati o pronomi che indicano una quantità indefinita, introduce ciò a cui quella quantità o quell'insieme si riferisce: ‘nu chilò ‘e pane; ‘na duzzina d’ ova; ‘na ‘nzerta ‘e rafanielle; ‘nu sacco ‘e patane etc.; 4) davanti a un nome proprio (spec. di città, località, persona) in funzione denominativa, stabilisce una relazione di tipo appositivo: ‘a città ‘e Roma;’a repubblica ‘e matu Rrafele; ‘o nomme ‘e Salvatore è assaje ausato a Napule; 5) limita l'ambito, l'aspetto per cui è valida una qualità, una condizione: sano ‘e cuorpo; buono ‘e core; tardo ‘e refresse; cunoscere quaccheduno sulo ‘e nome | la qualità o la condizione può implicare un concetto di abbondanza o di povertà, privazione: n’ommo chino ‘e ‘ngegno; ; mancà ‘e ‘sperienza; ‘nu paese privo ‘e mezzi | di colpa o di pena: accusato ‘e ‘nu ‘micidio; accusà ‘e trarimento; multà ‘e cientumila lire etc; 6) introduce l'argomento di un discorso, di uno scritto, di un'opera: discutere ‘e pallone; parlà bbuono ‘e quaccheduno ; ‘nu trattato ‘e pasticciaria ;’na pellicula ‘e spionaggio; 7) nelle comparazioni può introdurre il secondo termine di paragone: Mario è cchiú aveto ‘e Giuanne; Bologna è cchiú a nord ‘e Firenze
8) esprime una modalità: essere ‘e buon umore; jí ‘e corza; ; ridere ‘e core; vevere ‘e unu surzo. etimologicamente la prep. ‘e= de deriva lal lat. dí;
‘A /DA corrisponde alla preposizione da dell’italiano in tutte le sue funzioni ed accezioni : 1) introduce un moto da luogo: vengo ‘a casa 2) esprime allontanamento, separazione, distacco: me ne vaco ‘a/da cca! 3) in dipendenza da taluni verbi, in correlazione con a, indica quantità approssimativa: pesa ‘a quaranta a ccinquanta chile (peserà da quaranta a cinquanta chili; 4) con il verbo al passivo introduce l'agente o la causa efficiente: Pumpeje fuje distrutta dô Vesuvio; ‘a porta fuje sbattuta dô viento (Pompei fu distrutta dal Vesuvio; la porta fu sbattuta dal vento); 5) con significato temporale, indica il momento o l'epoca, l'età in cui ha avuto inizio un'azione o una situazione si è determinata: venimmo a villeggià cca ‘a paricchi anne; è ‘a Natale ca nun aggio cchiú nutizie soje; 6) unita a nomi propri di persona, a pronomi che si riferiscono a persona, a nomi che indicano mestiere, professione, condizione, grado, relazione di parentela, di amicizia, di lavoro e sim., introduce uno stato in luogo, per lo più con il valore di 'presso': fermarse a durmí a ddu quaccheduno; ‘ncuntrarse a dd’ ‘o nutaro ; restà a cenà a ddu n’amico 7) seguita dagli stessi elementi lessicali indicati al punto precedente e in dipendenza da verbi di movimento, esprime moto a luogo: vaco a dd‘o farmacista; arrivo a ddu mio figlio appena pozzo; 8) con valore variamente modale: aggi’ a campà ‘a signore; aggi’ ‘a vivere ‘a marchese; | apparentemente modale, in realtà in funzione rafforzativa: faccio ‘a ppe mme; pigliatello ‘a ppe tte; chi fa ‘a ppe sé fa pe ttre | con sfumatura di limitazione: cecato ‘a n’ occhio; zuoppo ‘a ‘nu pere. 9) introduce la destinazione, il fine, lo scopo a cui qualcosa o anche un animale è adibito: rezza ‘a pesca ma piú spesso rezza pe piscà; cavallo ‘a corza ma piú spesso cavallo ’e corza; ; lente ‘a sole ma piú spesso lente p’’o sole; | in talune locuzioni, apparentemente di questo stesso tipo, prevale la funzione attributiva: carta ‘a bollo; festa ‘a bballo; messa ‘a requiem ma piú spesso messa ‘e requiem. l’etimo della preposizione da/’a è dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; e dal lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc.
CU corrisponde all’italiano con in tutte le sue funzioni ed accezioni : 1) esprime relazione di compagnia, se è seguito da un nome che indica essere animato (può essere rafforzato da insieme): è partito cu ‘o pato ; à magnato cu ll’ amice; campa (‘nzieme) cu ‘a sora; 2) in senso piú generico, introduce il termine cui si riferisce una qualsiasi relazione: s’è appiccecato cu ‘o frato; à sfugato cu mme; 3) con valore propriamente modale: restà cu ll’uocchie nchiuse; vulé bbene cu tutto ‘o cuore; trattà cu ‘e guante gialle( cioè con rispetto e dedizione quelli dovuti ai nobili che usavano indossare guanti di camoscio in tinta chiara) | con valore tra modale e di qualità: pasta cu ‘e ssarde; stanza cu ‘o bbagno; casa cu ‘o ciardino; 4) introduce una determinazione di mezzo o di strumento: cu ‘a bbona vulontà s’ave tutto; ‘o vino se fa cu ll'uva; scrivere cu ‘a penna stilografica; partí cu ‘o treno ;
5) indica una circostanza, stabilendo un rapporto di concomitanza: nun ascí cu ll’acqua!; 6) può avere valore concessivo o avversativo, assumendo il significato di 'non ostante,a malgrado': cu tutte ‘e guaje ca tène, riesce ancòra a ridere; cu tutta ‘a bbona vulontà, ma è proprio impossibbile. L’etimo della preposizione a margine è dal lat. cum. Rammento qui e valga anche a futura memoria che tutte le parole che abbiano un etimo da voce latina terminante per consonante (che nella parola formata cade) non necessitano di alcun segno diacritico in quanto il segno diacritico dell’apocope (accento o apostrofo) è necessario apporlo graficamente quando a cadere sia una sillaba e non una o due consonanti; nel caso in esame cum dà cu e non l’inesatto cu’ che spesso mi è occorso di trovare negli scritti anche di famosi autori, sedicenti esperti della parlata napoletana. Ciò che ò appena detto vale anche per la preposizione seguente cioè
PE che (con etimo dal lat. per) corrisponde all’italiano per in tutte le sue funzioni ed accezioni :
1) determina il luogo attraversato da un corpo in movimento o attraverso il quale passa qualcosa che à un'estensione lineare (anche fig.): il ‘o treno è passato pe Caserta; ‘o curteoà sfilato pe ‘o corzo;’o mariuolo è trasuto p’’a fenesta; | può anche specificare lo spazio circoscritto entro cui un moto si svolge e, per estens., la cosa, l'ambito entro cui un fenomeno, una condizione si verificano: passiggià p’’o ciardino;jí pe mmare e pe tterra; tené delure pe tutt’’a vita | indica anche la direzione del moto: saglí e scennere p’’e scale; arrancà pe tutta ‘a sagliuta
2) indica una destinazione: partí pe Pparigge; ‘ncammenarse p’’a città; piglià ‘a strata p’’o mare; ‘o treno pe Rroma | (estens.) esprime la persona o la cosa verso cui si à una disposizione affettiva, un'inclinazione: tené simpatia pe quaccheduno; avé passione p’’a museca ;
3) introduce una determinazione di stato in luogo, che si riferisce per lo piú a uno spazio di una certa estensione: ‘ncuntrà quaccheduno p’’a strata; ce stanno cierti giurnale pe tterra;
4) esprime il tempo continuato durante il quale si svolge un'azione o un evento si verifica (può anche essere omesso): aspettà (pe) ore e ore; faticà (pe) anne e nun cacciarne niente; sciuccaje (pe) tutta ‘a notte; durarrà (pe) tutta ‘a vita | se introduce una determinazione precisa di tempo, esprime per lo piú una scadenza nel futuro: turnarrà p’’e ddiece; êsse ‘a essere pronto pe Nnatale
5) introduce un mezzo: mannà pe pposta; spedí pe ccurriere; dirlo pe ttelefono; parlà pe bbocca ‘e n’ato;
6) esprime la causa: era stracquo p’’a fatica; alluccava p’’o dulore; non ve preoccupate pe nnuje; supportaje tutto p’ ammore sujo; condannà pe ‘mmicidio;
7) introduce il fine o lo scopo: libbro pe gguagliun; pripararse pe ‘nu viaggio; attrezzarse p’’a montagna; | in dipendenza da verbi che indicano preghiera, giuramento, promessa, esortazione e sim., indica l'ente, la persona, il principio ideale per cui o in nome di cui si prega, si giura, si promette ecc.: facítelo pe Ddio; pe ccarità, facite ca nun se vene a sapé in giro; giurà pe ll’uocchie suoje; ll’à prummiso pe qquanto tène ‘e cchiú ccaro |, Pe ttutte ‘e diavule!, p’’a miseria! e sim., formule di esclamazione o di imprecazione
8) introduce la persona o la cosa a vantaggio o a svantaggio della quale un'azione si compie o una circostanza si verifica: faciarria qualsiasi cosa pe tte; accussí nun va bbuono pe nnuje; piezzo e ppejo pe cchi nun vo’ capí; n’aria ca nun è bbona p’’a salute; murí p’’ammore d’’e figlie; pregàe p’’e muorte; avutà pe n’amico ; ‘a partita è fernuta tre a ddoje p’’a squadra ‘e casa ;
9) determina il limite, l'ambito entro cui un'azione, un modo di essere, uno stato ànno validità: pe ll’intelliggenza è ‘o meglio d’’a classe; p’’e tiempe ‘e mo, è pure assaje; pe chesta vota sarraje perdunato; pe lloro è comme a ‘nu figlio; pe mme, state sbaglianno; pe quanto te riguarda, ce penzo io personalmente ;
10) introduce il modo, la maniera in cui un'azione si compie: ; parlà pe ttelefono; chiammà pe nnomme ; pavà pe ccuntante; tené pe mmano; assumere pe ccuncorzo;
11) indica un prezzo, una stima: aggio accattato pe ppochissimi sorde ‘nu bbellu mobbile antico; vennere ‘na casa pe cciento meliune; nun ‘o faciarria pe ttutto ll'oro d’’o munno;
12) in funzione distributiva: marcià pe dduje;metterse pe ffile; uno pe vvota; duje pacche pe pperzona; juorno pe gghiuorno | per estensione, indica la percentuale (pe cciento, nell'uso scritto %): ‘nu ‘nteresse d’’o diece pe cciento (o 10%) | nelle operazioni matematiche, dice quante volte un numero si moltiplica o divide (nel secondo caso può essere omesso): multiplicà cinche pe ddoje 5 ; diciotto diviso (pe ttre dà seje; da qui l'uso assol. di pe a indicare un prodotto (nell'uso scritto rappresentato dal segno X)
13) introduce una misura o un'estensione: ‘a strata è ‘nzagliuta pe pparicchie chilometri; l'esercito avanzaje pe ccinche miglia e cchiú;
14) introduce una funzione predicativa, equivalendo a come: averlo p’ amico; pigliarla pe mmugliera; tené pe ccerto; pavà ‘nu tot pe ccaparra;
15) indica scambio, sostituzione, equivalendo alle locuzioni in vece, in cambio, in luogo di e sim.: l’aggiu pigliato p’’o frato; t’’o ddice isso pe mme; capí ‘na cosa pe n’ata;
16) indica origine, provenienza familiare nella loc. pe pparte ‘e: parente pe pparte ‘e mamma;
17) il pe seguito dal verbo all'infinito introduce una prop. finale: l’hê scritto p’’o ringrazziarlo?; ce ne vo’ pe tte cunvincere!; | causale: fuje malamente cazziato p’ avé risposto malamente; era assaje stanco pe nun avé durmuto tutt’’a notte| consecutiva: è troppo bbello p’ essere overo; sî abbastanza crisciuto pe ccapirlo
18) nelle loc. perifrastiche , stare/stà pe, essere sul punto, in procinto di: stongo pe ppartí; steva quase pe sse cummuovere;
19) concorre alla formazione di numerose loc. avverbiali: p’’o mumento; pe qquanno è ‘o caso; pe ttiempo; pe lluongo; pe llargo; pe ccerto; pe ll'appunto; pe ccaso; pe ccumbinazzione; pe ppoco | congiuntive: p’’o fatto ca; pe vvia ca | pe ppoco (assaje, bello, brutto, caro e sim.) ca è o ca fosse , con valore concessivo: pe ppoco ca è, meglio ‘e niente.
Rammento, come ò già detto, che derivando il napoletano pe dal lat. pe(r) non necessità di alcun segno diacritico (accento o apostrofo) e pertanto va sempre scritta semplicemente pe e non nel modo scorretto pe’ che purtroppo ò spesso trovato anche fra i grandi autori partenopei accreditati, ingiustamente!, di essere esperti della parlata napoletana; ovviamente il pe usato davanti a vocale va eliso in p’,(ed è chiaro che l’apostrofo non indica la caduta del gruppo originario er ma della sola vocale e di pe); usato invece davanti a consonante il pe esige la geminazione della consonante per cui avremo pe pparlà e non pe parlà e cosí via.
Esaurito il discorso sulle preposizioni semplici, passo alle articolate che comunque si risolvono in un monosillabo.
Preciso súbito che nel napoletano non si ritrovavano (almeno fino ad una mia scelta di codificare una forma per le preposizioni articolate formate con la preposizione semplice da e cioè dal/dallo, dalla, dalle e dai/dagli, forme che ò pensato debbano essere rispettivamente rese con dô, dâ e dê ) non si ritrovavano preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli articoli con le preposizioni semplici di, da,con, per ma solo preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli articoli con la preposizione semplice a. In napoletano infatti non si avranno mai preposizioni del tipo dello, della,dallo,dagli etc. preferendosi per esse la forma disagglutinata ‘e ‘o – ‘e ‘a ed anche de ‘o – de ‘a – da ‘o – da ‘a/ra ‘a o anche d’ ‘o, d’ ‘a, d’ ‘e sia usando la preposizione semplice di, sia usando da dando luogo ad evidenti confusioni che per essere evitate necessitavano il ricorso al contesto; con la mia scelta di usare le scrizioni
DÔ, DÂ e DÊ per le preposizioni corrispondenti a dal/dallo, dalla, dalle e dai/dagli non c’è più pericolo di confusione ed anche fuor di contesto si coglie subito di quali preposizioni si tratti.
Abbiamo invece sempre le seguenti forme di preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli articoli con la preposizione semplice a; analiticamente abbiamo:
1)Ô che è la scrittura contratta di a + ‘o= a +il,lo e tale preposizione articolata ( derivata dal lat. ad+ (ill)u(m), acc.vo di ille 'quello' va sempre usata, in corretto e pretto napoletano, da sola per significare al, allo o unita alle cosiddette preposizioni improprie e/o avverbi: annante/ze= davanti, arreto= dietro,’ncoppa= sopra, sotto, doppo=dopo, vicino, comme etc.perché il napoletano mentalmente non elabora ad es. davanti il,dietro il o vicino il, come il etc. come accade per l’italiano, ma elabora davanti al,dietro al o vicino al, come al etc. elaborazioni che correttamente messe per iscritto vanno rese annante ô, arreto ô o vicino ô, comme ô etc. e non annante ‘o, arreto ‘o o vicino ‘o, comme ‘o come invece spesso (per non dire quasi sempre) mi è occorso di trovare negli autori napoletani (anche famosi e famosissimi), ma con molta probabilità a digiuno delle esatte regole grammaticali e sintattiche della parlata napoletana che è diversa dalla lingua nazionale, alla quale, con ogni probabilità, ma errando, quegli autori intesero uniformarsi pur nello scrivere in napoletano che – mi ripeto – è cosa affatto diversa dalla lingua nazionale, quantunque generata dal medesimo padre: il latino volgare e parlato!
2)Â (derivata dal lat. ad+ (ill)a(m)) che è la scrittura contratta di a + ‘a e sta per alla preposizione articolata femminile,per la quale valgono i medesimi campi applicativi della precedente ô = al, allo;
3)Ê che è la scrittura contratta di a + ‘e e sta o per alle o per a gli. preposizione art. plurale valida per il maschile ed il femminile; preposizione per la quale valgono i medesimi campi applicativi visti per ô ed â nonché per gli art. plurali ‘e essa preposizione si premette ai vocaboli maschili o femminili plurali; deriva dal lat.ad + (ill)ae(s), 'quelli 'di influsso osco; quando è posta innanzi ad un vocabolo femminile , ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.:êpate= ai padri, voce maschile, ma ê mmamme= alle mamme, voce femminile.
Esaurita cosí la trattazione relativa alle preposizioni semplici ed articolate, passiamo ad altri monosillabi in uso nel napoletano; parlerò prima delle voci verbali monosillabiche e poi degli avverbi, pronomi, sostantivi, congiunzioni ed infine avverbi.
SO’ forma apocopata di songo corrispondente all’italiano sono voce verbale (1° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse la forma songo/so’ marcata etimologicamente sul lat. su(m)→so presenta un suffisso –ngo, poi apocopato sulla scia di altre forme verbali: do-ngo – ve-ngo etc.
SÎ corrispondente all’italiano sei voce verbale (2° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse la forma sî derivata etimologicamente dal lat. si(s) esige un segno diacritico (accento circonflesso) non etimologica per distinguere la voce verbale a margine da altri omofoni si presenti nel napoletano e di cui parlerò successivamente;
STA corrispondente all’italiano sta voce verbale (3° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito stare dal lat. stare; la forma a margine, come la corrispondente dell’italiano, è marcata etimologicamente sul lat. sta(t) e non esige quindi segni diacritici atteso che a cadere è una semplice consonante e non una sillaba (ovviamente vocalica);
STO’ forma apocopata di stongo corrispondente all’italiano sto voce verbale (1° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito stare dal lat. stare la forma stongo/sto’ è marcata etimologicamente sul lat. sto ma presenta un suffisso forse del parlato –ngo, poi apocopato sulla scia di altre forme verbali: do-ngo – ve-ngo etc.; l’apocope della sillaba ngo comporta il segno dell’apostrofe per cui si avrà sto’ per stongo;
DÀ = dà voce verbale (3° p.s. indicativo pres.) o anche infinito del verbo dare/dà derivato del lat. dare; è pur vero che in napoletano non esiste la preposizione da che in napoletano è sempre (cfr. antea) ‘a per cui non essendovi possibilità di confusione fra voci omofone la voce verbale 3° p.s. indicativo pres. potrebbe anche scriversi tranquillamente da evitando un pleonastico accento sulla a (dà), ma per non essere accusato da qualche sprovveduto (ignaro che i raffronti occorre farli nell’ambito della medesima lingua) dicevo per non essere accusato da qualche sprovveduto di non sapere che la3° p.s. indicativo pres.del verbo dare esige l’accento (dà) preferisco nun mettere carne a cocere (evitare polemiche) e pro bono pacis faccio una forzatura alle mie conoscenze e convinzioni linguistiche ed adeguo (sia pure a malincuore) il dà napoletano al dà dell’italiano. Diverso è il discorso per il dà (forma tronca dell’infinito dare). Premesso che, normalmente occorre accentare sull’ultima sillaba tutte le voci verbali degli infiniti (per lo meno bisillabi) tronchi o apocopati (ess.: magnà, purtà, pusà, cadé, rummané etc.) per modo che si possa facilmente individuare la sillaba su cui poggiare il tono della parola, cosa che non avverrebbe se in luogo di accentare il verbo si procedesse ad apostrofarlo per indicarne l’apocope dell’ultima sillaba; in tal caso infatti non spostandosi l’accento tonico si altererebbe completamente la lettura del verbo; facciamo un esempio: il verbo spàrtere (dividere) che apocopato dell’ultima sillaba diventa spartí se in luogo dell’accento fosse scritto con il segno dell’apocope sparti’ dovrebbe leggersi col primitivo accento spàrti e non indicherebbe piú l’infinito, ma – forse - la 2° pers. sing. dell’ind. pres. Premesso tutto ciò, a mio sommesso, ma deciso avviso è opportuno – per una sorta di omogeneità accentare sull’ultima sillaba tutti i verbi al modo infinito anche quelli monosillabici (ovviamente quando si tratti di autentici verbi presenti nel napoletano e non presi in prestito dall’italiano!, come impropriamente fa qualcuno che annovera tra gli infiniti del napoletano un inesistente dí contrabbandato per infinito apocopato del verbo dícere laddove è risaputo che il napoletano pretto e corretto usa sempre la forma dícere e mai l’apocopato dí e chi lo facesse o avesse fatto, sbaglierebbe o si sarebbe sbagliato quand’anche si chiamasse Di Giacomo! ) ottenendosi perciò:
DÀ = dare( apocope del lat. dare) , FÀ = fare ( apocope del lat. facere, DÍ = dire usato soprattutto in poesia (apocope di dicere) evitando di scrivere – come invece propone qualcuno – da’ o fa’ o di’ che potrebbero esser confusi con gli imperativi da’= dai o fa’= fai o di’? dici.
JÍ= andare; infinito del verbo jí usato anche nella forma ghí/gghí(cfr. a gghí a gghí) verbo derivato dal lat. ire.Rammento che è scorretto usare il detto infinito nella forma í atteso che la j= gh fa parte integrante del tema del verbo e non può essere impunemente eliminata!
Continuando con le voci verbali monosillabiche avremo:
va’ da non confondersi con va la voce va’ è dell’ imperativo 2° p. sg. e corrisponde a vai di cui è apocope, mentre va = va dell’italiano è la 3° p. sg. dell’indicativo presente ambedue dell’infinito jí= andare etimologicamente il verbo jí è dal lat. ire, ma per le forme del presente ind. vaco, vaje, va e per l’imperativo va’ cioè per tutte le forme che ànno per tema vac- occorre risalire al lat. vacare 'andare';
Vi’ corrisponde a vi(de) imperativo 2° p. sg. dell’infinito vedé con etimo dal lat. vidíre;
‘Í altra forma del precedente vi’ qui con aferesi della v iniziale sostituita dall’apostrofo e con sostituzione della i apostrofata (i’) con una í per evitare l’appesantimento di due apostrofi uno iniziale ed uno finale nella medesima voce; anche questa ‘í sta per vi(de ) soprattutto nelle espressioni quali ‘a ‘í lloco= vedila lí= eccola lí, ‘o ‘í ccanno= vedilo qui= eccolo qui);
HÊ = scrittura contratta di aje (2° per. sg. ind. pres. del verbo avé) corrispondente all’italiano hai che personalmente preferisco ed uso scrivere ài evitando l’inelegante consonante diacritica h sostituita da un elegante accento, cosí come mi insegnò negli anni ’50 la mia insegnante delle scuole elementari , sostituzione che si ripete altrove quando à sostituisce ha, ài sostituisce hai ànno sostituisce hanno ; i medesimi motivi di eleganza stilistica mi spingono a consigliare, anche per il napoletano d’usare à, ài, ànno piuttosto che ha, hai, hanno; nella voce a margine è stato giocoforza usare un’ acca diacritica che segnalasse la differenza tra ê= ai, a gli, alle e la (h)ê voceverbale del verbo avé; ricordo che il verbo avé, in tutti i suoi tempi, seguito dalla preposizione ‘a (da) e da un infinito vale il verbo dovere e tavolta è usato per indicare un’azione futura: ess.: m’hê ‘a stà a ssèntere = ài da starmi ad ascoltare =mi devi ascoltare; dimane m’aggi’’a taglià ‘e capille = domani ò da tagliarmi i capelli= domani mi taglierò i capelli o anche:dimane aggi’’’a jí a d’’o barbiere = domani andrò dal barbiere azione che, rammento, può essere espressa però acconciamente anche con un verbo al presente: dimane vaco a d’’o barbiere= domani vado (andrò) dal barbiere ;
ME’ voce verbale apocopata di mena = spingi, butta e nell’iterativo mena, me’= tira via, lascia correre! (2° p. sg. dell’imperativo) dell’infinito menà che è dal tardo lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce'
TRA’ voce verbale apocopata di trase = entra,vieni dentro, e nell’iterativo trase, tra’= suvvia, non perder tempo, entra ! (2° p. sg. dell’imperativo) dell’infinito trasí/tràsere che è dal lat. transire→*trasire;
‘NFRA = fra preposizione semplice dal lat. infra→(i)nfra→’nfra.
CU’ voce verbale apocopata di cu(rre) = corri,fa’ presto, affrettati, soprattutto nell’iterativo curre, cu’= suvvia, non perder tempo,sbrigati ! (2° p. sg. dell’imperativo) dell’infinito correre che è dal lat. currere;la voce a margine non va confusa con l’omofona cu = con di cui parlerò in appresso; del resto questo cu = con, come chiarirò, va scritto senza alcun segno diacritico;
PO’ corrisponde all’italiano puó (3° p. sg. ind. pres.) dell’infinito puté con etimo dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -entis; la grafia usata per la voce a margine è l’ apocope di po(test) per cui la preferisco a pô dove nella ô si riconoscerebbe la contrazione del dittongo uo di puó; ma chi indicasse questa via non mi convincerebbe atteso che sotto sotto vorrebbe far passare l’idea che il napoletano sia un derivato dell’italiano; ma non è assolutamente cosí: il napoletano non è mai, proprio mai!, tributario dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato;
VO’ corrisponde all’italiano vuole (3° p. sg. ind. pres.) dell’infinito vulé con etimo dal lat. volg. *vōlere (accanto al lat. class. velle); normale il passaggio della vocale lunga o ad u; la grafia usata per la voce a margine è stata scelta in quanto vo’ è l’ apocope di vole) per cui la preferisco a vô (proposta da qualche pur valente linguista) dove però nella ô si riconosce la contrazione del dittongo uo di vuole; ma accettando tale tesi si corre il grosso rischio forse di far passare l’idea che il napoletano sia un derivato dell’italiano; ma non è assolutamente cosí: il napoletano, ripeto e sottolineo non è mai, proprio mai tributario dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato.
PUÓ – VUÓ / BBUÓ rispettivamente puoi e vuoi (2° pers. sg. ind. pres.) degli infiniti puté e vulé/bulé degli etimi ò detto precedentemente sub po’ e vo’; qui mi preme sottolineare la mia scelta di accentare i tre monosillabi in luogo di apocoparli puo’ – vuo’ / bbuo’ come suggerisce e fa qualcuno, operando una scelta che non mi convince poi che . come ò detto alibi – l’apostrofe dell’apocope non può indicare su quale delle vocali del dittongo deve cadere l’accento per una corretta pronuncia! Non tutti son tenuti a sapere che uò è un dittongo ascendente con la vocale accentata che segue la semivocale...., meglio indicare la precisa pronuncia accentando la vocale tonica!
Esaurite, o almeno considerate molte voci verbali monosillabiche (le prime che mi son venute in mente...) passiamo oltre e trattiamo i pronomi: cominciamo con
I’ apocope di io (sempre proclitico), pron. pers. m. e f. di prima pers. sing. indica la persona che parla; si impiega solo in funzione di soggetto o come predicativo quando il soggetto è ugualmente di prima persona singolare (nelle altre funzioni è sostituito dalla forma tonica me o dalla forma atona me); come soggetto può essere sottinteso, ma è sempre espresso quando possono sorgere dubbi sulla persona del verbo, quando si stabilisce una contrapposizione, quando è coordinato con un altro soggetto, quando lo si vuole sottolineare enfaticamente: (i’) nun crero a cchello ca se dice; quanno parlo (io) nun voglio essere interrotto; si (i’) nun facessi accussí, nun fosse o sarria cchiú io; forze è mmeglio ca i’ me ne vaco ; fallo tu, i’ nun ce riesco; i’ e isso continuammo a faticà ‘nzieme; ‘o faccio io!; io,a dicere ‘na cosa ‘e chesta? | si rafforza se è seguito da stesso o preceduto da anche, neanche, nemmeno, proprio, appunto ecc. : vengo i’ stesso; neanch'io so’ stato ‘nfurmato; sono stato proprio io a dicerlo ; l’etimo è dal lat. volg. eo per il class. ego.
‘O promome maschile o neutro proclitico che vale lo è usato come compl. ogg. e comporta, nel caso sia riferito al neutro, la geminazione della consonte d’avvio del verbo; riferito al maschile non lo esige; ess.: Chellu ppane? ‘O ffacette Nunziatina - Chillu ‘mpiccio ‘o facette isso!
‘A promome femminile proclitico che vale la ed è usato come compl. ogg. per solito innanzi a consonanti; innanzi a vocali si usa nella forma lla apostrofato →ll’ ess.: ‘a purtaje isso fino â casa.- ‘a sentettemo ‘a vascio ê scale! ll’âmmo (avimmo) sagliuta fino a ‘ncoppa! – ll’îmmo (avimmo)’ntisa ‘a vascio ê scale;
CE/NCE corrisponde all’italiano ce o ci ed è pron. pers. di prima persona pl. atono; usato come compl. di termine in presenza delle forme pronominali atone‘o, ‘a, , ‘e e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] a noi: nce ‘o dicette; nce ‘a dette sana e salva; ce ‘o rialaje ; nce ‘o dette ; ce ne vulettero assaje; mannatecello; datencille; parlacene
tale ce/nce è usato anche come part. avverbiale [ in presenza delle forme pronominali atone ‘o, ‘a, , ‘e e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] qui, in questo luogo; lí, in quel luogo; nel luogo di cui si parla: nun ce ‘o truvaje; mettimmoncelo; ce n’êsseno (avesseno) essercene ancòra; nce ne stanno parecchie; l’etimo è dal lat. volg. *(hic)ce, forse per il class. hic 'qui’.
SÉ particella pronominale tonica corrispondente a quella dell’italiano sé= se stesso/a/i/e particella di cui forse non metterebbe conto di parlare, perché poco usata nel napoletano se non in particolari costrutti; ad ogni buon conto dirò che si tratta d’un pron. pers. rifl. m. e f. di terza pers. sing. e pl. si usa solo quando si riferisce al soggetto della proposizione, altrimenti è sostituito da isso, essa, lloro; è sempre sostituito da lloro quando vi sia reciprocità d'azione (parlavano tra lloro e non tra sé); si usa talvolta nei complementi retti da preposizione, spesso rafforzato da stesso o medesimo quantunque nel’uso gli si preferiscano i pronomi isso, essa, lloro;: se preoccupano solo ‘e lloro stessi; è suddisfatto d’isso; à fatto molto parlare ‘d’essa ; attirare a ssé; | come compl. oggetto, in luogo della forma atona se, acquista particolare risalto, soprattutto nelle contrapposizioni (e per lo piú seguito da stesso o medesimo): invece di se cunsidera cchiú ‘e ll’ate si può avere cunsidera sé stessocchiú ‘e ll’ate; aggenno accussí danneggia sé stesso e nun giova all’ate; ma meglio: aggenno accussí se danneggia e nun giova all’ate | | penzà sultanto a ssé, comportarsi egoisticamente | dinto di sé, fra sé e sé, nel proprio intimo: pensare qualcosa dentro d’isso, tra sé e ssé | ‘nzé =in sé, ‘nzé stesso = in sé stesso, ‘nzé e nzé e ppe ssé, si dice di cosa che viene considerata soltanto nella sua essenza, nella sua singolarità: ‘a cosa nzé tene poco valore; è ‘na risposta nzé e ppe ssé abbastanza nzipeta | a ssé, a parte, separatamente: è ‘nu caso a ssé; va cunsiderato a ssé | ‘a sé =da solo, senza l'aiuto di altri, senza che altri intervengano: vo’ fà tutto ‘a sé; ma meglio: vo’ fà tutto ‘a ppe isso;l’etimo di questo sé è il lat. sí.
e passiamo ora altre varie particolari voci monosillabiche prima di affrontare avverbi, congiunzioni ed altro;
OJ/O’ - fonema esclamativo che si premette ad un vocativo ad es.: oj ne’ (ragazza!) oj ni’ (ragazzo); esprime, secondo il tono con cui è pronunciata ed a seconda del soggetto cui è diretto, dolore, piacere, meraviglia, sdegno, dubbio, sospetto, compassione, paura o altro. Trattandosi di un fonema esclamativo à un’origine quasi certamente espressiva e non è possibile azzardarne una qualche etimologia; rammento che ò trovato (anche in grandi scrittori (o intesi tali) partenopei la voce a margine oj riportata come oje e tutti costoro ànno inteso con tale oje, formulare un richiamo esclamativo, ma tutti sono incorsi nel medesimo errore poi che in pretto e corretto napoletano la voce oje non è un’esclamazione, ma un sostantivo che con derivazione dal lat. volg. hodie→(h)oje significa oggi: la forma apocopata o’ è usata in espressioni esclamative del tipo o’ fra’ (fratello!)te ll’aggiu ditto – o’ no’ (nonno!)lassàteme fà!
QUA’ forma apocopata dell’agg.vo interrogativo o esclamativo qua(le) ‘a qua’ parte sî venuto? – qua’ giacchetta t’ hê miso! l’etimo è dal lat. quale(m). rammento che contrariamente a ciò che avviene nella lingua nazionale, in napoletano quale oltre che apocopato può essere tranquillamente eliso davanti a vocoli non esistendo in napoletano la forma tronca qual;
NO avv. olofrastico come il corrispondente no dell’italiano è negazione equivalente ad una intera frase negativa, usata specialmente nelle risposte (si contrappone a sí): «ll'hê visto?» «No»; «Parte oje?» «No, dimane!» («l’ài visto?» «No»; «Parte oggi?» «No, domani!»).
PO avv. di tempo = poi voce dal lat. post→po(st)→po, avverbio che in napoletano non esige nessun segno diacritico finale (come invece succede quando a cadere è una sillaba vocalica e non un gruppo consonantico (cfr. qua(le)→qua,ed invece mo (ora)←mo(x), re(monarca)←re(x)).
NU avv. negativo apocope non sillabica di nun corrispondente al non dell’italiano serve a negare il concetto espresso dal verbo a cui si riferisce o a rafforzare una frase che contiene già un pron. negativo: nun venette; nu pparlaje pe tutt’’a jurnata parlò ; nun c'è verzo d’’o fà capace! ; nun c'è prubblema; nu nce sta nisciuno; nun esiste ‘o riesto ‘e niente come il precedente l’etimo è nel lat. non. per la voce a margine, trattandosi di un’apocope non sillabica (con la sola caduta di una consonante (n) non è necessaria l’apposizione di alcun segno diacritico cosí come è avvenuto per il precedente pe←per e come avverrà quando si parlerà dell’avverbio mo e ciò a malgrado di qualcuno che consiglia la grafia nu’ forse nel timore che il nu potesse confondersi con l’articolo indeterminativo nu che taluno invece di vergar ‘nu à il gusto di scrivere privo del necessario segno distintivo d’aferesi...
NE particella pronominale o locativa atona corrispondente al ne dell’italiano e come per l’italiano è pron. m. e f. , sing. e pl. [forma atona che si usa in posizione sia enclitica sia proclitica; è sempre posposta ad altro pron. atono che l'accompagni e si può elidere davanti a vocale]
1) riferito a persona o a persone già nominate in precedenza, di lui, di lei, di loro (può assumere funzione partitiva, di compl. di specificazione e d'argomento): mancavano ‘e ggiuvane: a chella festa nun ce ne steva nisciuno; appena ‘o cunuscette,addivintajene amice; ne parlano comme ‘e ‘na perzona capace | in usi pleonastici:n’aggi’ntiso pure troppe!
2) riferito a cosa nominata precedentemente, di questo, di questa, di questi, di queste o di quello, di quella, di quelli, di quelle (può assumere funzione partitiva, di compl. di specificazione, d'argomento, di causa e, nell'uso ant. o lett., anche di mezzo): damme ‘na caramella, io nun ne tengo cchiú ; aggio avuto ‘nu libbro libro e ggià n’asggiu liggiuto parecchie paggine; è ‘na cosa troppo/a delicata, preferisco nun parlarne; | in usi pleonastici: ne avimmo mangiate troppo/e assaje ‘e sfugliatelle!; nun ne tenesse, pe fatte mieje ‘e guaje! | in espressioni ellittiche: farne ‘e tutt’’e culure; sapernecchiú ‘e ll’ate; ce ne à ditto ‘nu sacco e ‘na sporta;
3) con valore neutro, riferito a un'intera frase o a un concetto già espressi in precedenza, equivale a 'di ciò': è proprio accussí, ma tu nun ne sî cunvinto; chesta è ‘a verità: è ‘na perzona scustumata, è impossibile nun tenerne cunto | in usi rafforzativi: nun avertene a mmale!; nun ne vale ‘a pena!
4) da ciò, da questo, da quello (indica derivazione, provenienza; in senso fig., conseguenza logica): s’ avvicinaje all'albero e ne spezzaje parecchi ffronne;nun putarria tirarne ata cuncrusione; pígliate ‘e responsabbilità tojele cu tutto chello ca ne dipende | riferito a persona, da lui, da parte sua, da loro, da parte loro: è stata sempe gentile cu tte , ma nun ne à avuto ca malazzione!;avimmo presentato a lloro ‘a richiesta nosta cchiú ‘e ‘na vota , ma non ne avimmo maje ricavato niente!:
Questo ne è usato anche come avverbio ed à i medesimi usi sintattici del pron.: di lí, di là, di qui, di qua (indica allontanamento da un luogo, in senso proprio o fig.): «Sî stato a Napule?» «Sí, mo ne sto’ turnanno »; ‘na vota trasuto dint’ â ‘rotta, nun fuje cchiú capace ‘e ascirne; era ‘na situazzione difficile, ma ne venette fora cu ‘a bbona sciorta | in usi pleonastici: me ne vaco subbeto; se ne fujette ‘e corza | in taluni usi verbali ( jirsene, venirsene, starsene ecc.) è una semplice componente fraseologica: se ne veneva tinco tinco; se ne steva là sulo sulo.
L’etimo della voce a margine è dal lat. inde.
Procediamo oltre:
NE’ è un’apocope in funzione vocativa del sostantivo nenna
cfr. antea oj ne’ l’etimo di nenna = fanciulla, ragazza è forse dal greco neanías ma qualcuno prospetta (forse a ragione) lo spagnolo niña o il catalano nina→ninna→nenna;
NI’ che è un’apocope in funzione vocativa del sostantivo ninno cfr. antea oj ni’ l’etimo di ninno è il medesimo di nenna di cui è maschilizzazione;
ME/ MME pron. pers. m. e f. di prima persona sing.
1) forma complementare tonica del pron. pers. io; si usa come compl. ogg., quando gli si vuole dare particolare rilievo, e nei complementi introdotti da preposizioni: cercano proprio a mme; parlavano ‘e me; ll’ànno cunzignato a mme; a mme nun me ne ‘mporta; è vvenuto addu me ajere; l'à fatto pe mme; nun pigliartela cu mme ; tra me e tte non c'è stato nisciuna putecarella; raramente è anche rafforzato da stesso o medesimo: me metto scuorno ‘e me stesso | da me, da solo, senza l'aiuto altrui: ll’aggiu fatto ‘a ppe mme | per me, per quel che mi riguarda: pe mme, puó ffà chello ca vuó | secondo me, a mio parere: , pe mme è tutto sbagliato | quanto a me, per quanto mi riguarda: quanto a mme puó stà dint’ ê tranquille | tra me (o tra me e me), dentro di me, nel mio intimo: parlavo tra me e mme; | nun sapé né ‘e me né ‘e te,
2) si usa quasi sempre preceduto dalla preposizione a come soggetto nelle esclamazioni e nelle comparazioni dopo come e quanto: povero a mme!; niru me !; nun sî comme a mme; ne sapevano quanto a mme | non è quasi mai usato come predicato nominale dopo i verbi essere, parere, sembrare,
3) si usa come compl. di termine in luogo del pron. pers. mi in presenza delle forme pronominali atone lo, la, li, le e della particella ne, sia in posizione enclitica sia proclitica: m’’o dicette; me ll’à date n’ata vota; me neà fatte tante e tante; mannàtemelo; pàrlamene. L’etimo della voce a margine è dal lat. me.
MA’ che è un’apocope in funzione vocativa del sostantivo mamma cfr.ad es.: oj ma’ l’etimo della voce mamma è dal lat. mamma(m) 'mammella, poppa' e nel linguaggio infantile 'mamma, mammà’
E andiamo oltre; abbiamo i pronomi
CHE pron. rel. invar. corrispondente all’italiano che, ma in napoletano è spesso usato nella forma ca
1) il quale, la quale, i quali, le quali (si riferisce sia a persona sia a cosa, e si usa normalmente nei casi diretti): chillu signore ch’ è trasuto mo è ‘o direttore; ‘e perzone ca tu hê visto, so’ perzone meje tu hai visto; ‘o ggiurnale che staje liggenno è chillo d’ajere
2) talvolta è usato come compl. indiretto, con o senza prep.) soprattutto nel linguaggio pop., spec. col valore di in cui (temporale e locale):’a staggiona ca ce simmo ‘ncuntrate; paese ca vaje ausanze che truove; piú fortemente popolare o dialettale in funzione di altri compl.: è cchesta ‘a carne ca ('con cui') se fa ‘o broro | in altre espressioni dell'uso comune: (nun) tene ‘e che se lamentà, (non) ne ha motivo; (nun) tene ‘e che vivere, (non) à risorse economiche; | nun c'è che dicere, espressione di consenso
3) la quale cosa (con valore neutro, preceduto dall'art. o da una prep.): te sî miso a sturià, il che te fa onore; nun s’ è ffatto cchiú vedé, dal che aggiu capito ca nun le passa manco p’’a capa chill’affare; | come pron. interr. [solo sing.] quale cosa è usato in prop. interr. dirette e indirette): che ne sarrà ‘e lloro?; che staje dicenno?; a che pienze?; ma ‘e che te miette paura?; nun saccio che fà; nun capisco ‘e che ti lamiente; è spesso rafforzato/seguíto o, nel linguaggio familiare, sostituito da cosa: (che) cosa vuó?; nun saccio (che) cosa penza ‘e fà | che cc’ è, che nun cc’ è, (fam.) tutt'a un tratto, improvvisamente | a cche?, a quale scopo?, a qual pro? | ‘e che?/ e cche?, ‘o che?, ma che?, rafforzativi di interrogazione che esprimono stupore polemico: e che? einisse che dicere? |talora come pron. escl. [solo sing.] quale cosa: che dice!; che m’aveva capità!; ma che m’ at- tocca ‘e sèntere! | come inter., nell'uso familiare, esprime meraviglia, stupore: «Ce vaje?» «Che! (ma piú spesso Addó?) Ma neanche a dicerlo!»; «Che! Staje pazzianno?» | ma che!, lo stesso che macché ||| come pron. indef. indica qualcosa di indeterminato (solo in partic. locuzioni): ‘nu che, nun saccio che, ‘nu certo che, ‘nu certo nun saccio che, | (‘nu) gran che, (una) gran cosa: oje nun aggiu cunchiuso (‘nu) gran che; ne parlano tutti buono, ma pe mme nun è (‘nu) gran che | un, ogni minimo che, un, ogni nonnulla: ‘ncazzarse p’ ògne minimu che
come agg. interr. invar. quale, quali: che tipo è?; a che ora venarrà?; che llibre liegge ‘e solito?; nun saccio ch’ idee tene p’’a capa ||| come agg. escl. invar. quale, quali: ma che idee!; che bbella jurnata!; che perzone antipatiche! | (fam.) molto diffuso l'uso dell'agg. escl. in unione a un semplice agg., senza altra specificazione, in frasi del tipo: che bello!, che bellezza, com'è bello; che strano!, che stranezza, com'è strano | diffusa anche l'anteposizione dell'agg. qualificativo: scemo ca sî!, sei proprio stupido!
rarissimamente è s. m. anzi è usato solo nell'espressione il che e il come e sue varianti, nel senso di 'ogni cosa, tutto': voglio sapé bbuono ‘o cche e ‘o ccomme; t’addimannarrà ‘o cche, ‘o ccome e ’o quanno. L’etimo del che è dal lat. quid mentre la forma ca è forse un prestito di comodo della congiunzione di cui qui di seguito, congiunzione per la quale qualcuno ipotizza, ma poco convincentemente un’aferesi di (poc)ca=poiche mentre mi appare piú corretto l’etimo dal lat. quia→q(ui)a→qa→ca; oltretutto se il ca congiunzione fosse derivata da un’aferesi (poc)ca sarebbe buona norma scrivere il ca congiunzione con un segno d’aferesi ‘ca che distinguesse anche visivamente il ‘ca congiunzione dal ca pronome!Ma i fatti, fortunatamente, non stanno cosí! Proseguiamo
CA congiunzione che corrisponde all’italiano che
1) introduce prop. dichiarative (soggettive e oggettive) con il v. all’ind. o talvolta al congiunt..: se dice ca è partuto; fosse ora ca te decidisse; nun penzo ca chillo vene; te dico ca nun è overo; è inutile ca tu liegge chillu cartello, manco ‘o capisce... | può essere omesso quando il v. è al congiunt.: spero fosse accussí | con valore enfatico: nun è ca sta malato, pe ccerto è assaje stanco; è ca ‘e juorne nun passano maje!; forze ca nun ‘o sapive?
2) introduce prop. consecutive, con il v. all'indic. o al congiunt. (spesso in correlazione con accussí, tanto, talmente, tale ecc.): cammina ca pare ‘nu ‘mbriaco; parla pe mmodo ca te putesse capí; era talmente emozzionato ca nun riusciva a pparlà; stevo accussí stanco ca m’addurmette súbbeto; | entra nella formazione di locuzioni, come ô punto ca, pe mmodo ca etc : continuaje a bbevere pe mmodo ca se ‘mbriacaje;
3) introduce prop. causali con il v. all'indic. o al congiunt.: cummògliate ca fa friddo; nun è ca m’’a vulesse scapputtà
4) introduce prop. finali con il v. all’indicativo o al congiunt.: fa' ca tutto prucede bbuono! ; se stevano accorte ca nun se facesse male;
5) introduce prop. temporali con il v. all'indic., nelle quali à valore di quando, da quando: te ‘ncuntraje ca era ggià miezojuorno; aspetto ca isso parte; sarranno dduje mesi ca nun ‘o veco | entra nella formazione di numerose loc. cong., come ‘na volta ca, doppo ca, primma ca, ògne vvota ca, d’’o juorno ca,: ll’hê ‘a farlo, primma ca è troppo tarde; ògne vvota ca ‘a ‘ncontro me saluta sempe;
6) introduce prop. comparative: tutto è fernuto primma ca nun sperasse
7) introduce prop. condizionali con il v. al congiunt., in loc. come posto ca,datosi ca, ‘ncaso ca, a ppatto ca, nell'ipotesi ca ecc.: posto ca avesse tutte ‘e ragioni, nun s’aveva ‘acumportarse comme à fatto!; t’’o ffaccio, ‘ncaso ca t’’o mierete;datosi ca hê ‘a partí, te ‘mpresto ‘sta balicia;
8) introduce prop. eccettuative (in espressioni negative, correlata con ato, ati, ‘e n’ata manera, per lo piú sottintesi): non fa (ato) ca dicere fessaríe ; nun aggio potuto (altro) ca dicere ‘e sí!; nun putarria cumpurtarme (‘e n’ata manera) ca accussí | entra a far parte delle loc. cong. tranne ca, salvo ca, a meno ca, senza ca: tutto faciarria o facesse, tranne ca darle raggione; vengo a truvarte, a meno ca tu nun staje ggià ‘nampagna; è partuto senza ca nesciuno ne fosse ‘nfurmato;
9) introduce prop. imperative e ottative con il v. al congiunt.: ca nisciuno trasesse!; ca ‘o Cielo t’aonna! Dio ; ca ‘stu sparpetuo fernesse ampressa;
10) introduce prop. limitative con il v. al congiunt., con il valore di 'per quanto': ca i’ sapesse non à telefonato nisciuno;
11) con valore coordinativo in espressioni correlative sia ca... sia ca; o ca... o ca: sia ca te piace sia ca nun te piace,stasera avimm’’a ascí ;i’ parto oca chiove o ca nun chiove...;
12) introduce il secondo termine di paragone nei comparativi di maggioranza e di minoranza, in alternativa a di (‘e) (ma è obbligatorio quando il paragone si fa tra due agg., tra due part., tra due inf., tra due s. o pron. preceduti da prep.): Firenze è meno antica ca (o ‘e) Roma; sto’ cchiú arrepusato oje ca (o ‘e) ajere;tu sî cchiú sturiuso ca ‘nteliggente;; è cchiú difficile fà ca dicere; à scritto meglio dinto a ‘sta lettera ca dinto a cchella d’’o mese passato | (fam.) in correlazione con tanto, in luogo di quanto, nei comparativi di eguaglianza: la cosa riguarda tanto a mme ca a vvuje | in espressioni che ànno valore di superl.: songo cchiú ca certo; songo cchiú ccerto ca maje;
13) entra nella formazione di numerose cong. composte e loc. congiuntive: affinché, benché, cosicché, perché, poiché; sempe ca, in quanto ca, nonostante ca, pe mmodo ca e sim.
Dell’etimo di questa congiunzione ò già detto sub che come sempre sub che ò parlato del pronome ca = che.
Procediamo oltre. Un’ altra congiunzione molto usata nel napoletano è la congiunzione
SI corrispondente all’italiano se
1) posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico): si se mette a pparlà,nun ‘a fernesce cchiú; si i’ fosse a tte ,me ne jesse a ffà ‘na scampagnata ; si tu avisse sturiato ‘e cchiú ,fusse o sarriste stato prumosso; si fosse dipeso ‘a me, mo nun ce truvarriamo o truvassemo a chistu punto; si fusse stato cchiú accorto , non te fusse o sarriste i truvato dinto a ‘sta situazziona (o pop.: si ire cchiú accorto , non te truvave dinto a ‘sta situazziona ) | in espressioni enfatiche, in frasi incidentali che attenuano un'affermazione o in espressioni di cortesia: ca me venesse ‘na cosa si nun è overo!; pure tu, si vulimmo sî ‘nu poco troppo traseticcio; si nun ve dispiace, vulesse ‘nu bicchiere ‘e vino; pecché, si è llecito,aggio ‘a jrce semp’i’? | può essere rafforzata da avverbi o locuzioni avverbiali: si pe ccaso cagne idea, famme ‘o ssapé; si ‘mmece nun è propeto pussibbile, facimmo ‘e n’ata manera | in alcune espressioni enfatiche e nell'uso fam. l'apodosi è spesso sottintesa: ma si non capisce ‘o riesto ‘e niente!; si vedisse comme è crisciuto!; se sapessi!; se ti prendo...!; e se provassimo di nuovo...? | si maje, nel caso che: si maje venisse, chiàmmame; anche, col valore di tutt'al più: simmo nuje, si maje, ca avimmo bisogno ‘e te;
2) fosse che, avvenisse che (con valore desiderativo): si vincesse â lotteria!; si putesse turnarmene â casa mia!; si ll’ avesse saputo primma!
3) dato che, dal momento che (con valore causale): si ne sî proprio sicuro, te crero; si ‘o ssapeva, pecché nun ce ll’ à ditto?
4) con valore concessivo nelle loc. cong. se anche, se pure: si pure se pentesse, ormaje è troppo tarde; si anche à sbagliato, no ppe cchesto ‘o cundanno
5) preceduto da come, introduce una proposizione comparativa ipotetica: aggisce comme si nun te ne ‘mportasse niente; me guardava comme si nun avesse capito; comme si nun si sapesse chi è!
6) introduce proposizioni dubitative e interrogative indirette: me dimanno si è ‘na bbona idea; nun sapeva si avarria o avesse fernuto pe ttiempo; nun saccio che cosa fà, si partí o restà; s’addimannava si nun se fosse pe ccaso sbagliato | si è overo?, si tengo pacienza?, sottintendendo 'mi chiedi', 'mi domandi' ecc.
Rammento che questa congiunzione si napoletana non viene mai usata come sost. m. invar. come invece capita con il corrispettivo se dell’italiano.
Lasciando da parte altre congiunzioni monosillabiche che non sono tipiche del napoletano in quanto corrispondenti in tutto e per tutto a quelle della lingua nazionale ( e, ma, o= oppure etc.) mi lascio portar per mano dalla congiunzione si per illustrare l’omofono, ma non omografo
SI’ che è l’apocope di si(gnore) e pertanto esige il segno diacritico dell’apostrofo. viene usato per solito davanti ad un sostantivo comune o davanti a nome proprio di persona (ad es.: ‘o si’ prevete= il signor prete, ‘o si’ Giuanne = il signor Giovanni.) L’etimo del lemma signore da cui l’apocope a margine si’ è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano.
Ricordo che càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé – come ò sottolineato - è l’apocope di si(gnore) ) con uno scorretto
ZI’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) ed usato quasi esclusivamente nei vocativi (o’ zi’!) per cui si ottenengono gli scorretti zi’prevete o zi’ Giuanne.
Per restare nel tema suggerito dal si’= signore parlo di un altro monosillabo: SIÉ che è usato per indicare la voce signora; per il vero non si tratta dell’apocope di si(gnora) che se cosí fósse esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto
zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere recentemente in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come e pertanto esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto
zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere recentemente in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come Dicette 'o zi' moneco,a’ zi’ Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." infece che correttamemente Dicette 'o si' moneco,â sié Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." ed ovviamente il fatto scorretto non consiste soltanto nell’avere usato a’ al posto di â per dire alla, quanto per avere usato impropriamente zi' moneco, e zi’ Badessa al posto di si' moneco, e sié Badessa.
Ciò detto passiamo agli avverbi monosillabici, cominciando con il
SÍ avverbio olofrastico affermativo corrispondente all’italiano sí
1) si usa dunque nelle risposte come equivalente di un'intera frase affermativa (può essere ripetuto o rafforzato): "Ệ capito?" "Sí"; "Venono pure lloro?" "Sí"; anche, "Sí, sí", "Sí certo", "Comme!Sí!", "Sí overamente ", "Ma sí!" | ' dicere ‘e sí, acconsentire ' risponnere ‘e sí, affermativamente ' paré, sperà, crerere ecc. ‘e sí, che sia cosí ' | e ssí ca = e dire che ' sí, dimane, (fam. iron.) no, assolutamente no
2) spesso contrapposto a no: dimme sí o no!; un giorno sí e n’ato no, a giorni alterni ' sí e nno, a malapena ' ti muove, sí o no?, esprimendo impazienza ' cchiú ssí ca no, probabilmente sì ;
3) con valore di davvero, in espressioni enfatiche: chesta sí ca è bbella!; chesta sí ch’è ‘na nuvità!
talvolta è usato come s. m. invar.
1) risposta affermativa, positiva: m’aspettavo ‘nu sí; risponnere cu ‘nu un bellu sí; ‘e spuse ànno ggià ditto ‘o sí; stare tra ‘o sí e o no, essere incerto; decidersi p’’o ssí, decidere di fare qualcosa '
2) pl. voti favorevoli: si songo avute tre ssí e quatto no.
L’etimo di questo sí è dal lat. sic 'cosí', forma abbreviata della loc. sic est 'cosí è'; poi che la voce in esame deriva da un si(c) con la caduta di una consonante e non di una sillaba non sarebbe previsto alcun segno diacrito sulla parola derivata, ma è stato giocoforza accentare la i di questo sí per con confonderlo anche graficamente dal si congiunzione o dal si’ apocope di signore.
Di... segno opposto l’avverbio olofrastico negativo
NO scritto privo di qualsiasi segno diacritico, da non confondersi con l’omofono,ma non omografo art. indeterminativo ‘nu/’no
CCA avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che in parlata napoletana (così come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto SEMPRE senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; in parlata napoletana esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = (che), congiunzione e pronome che però si rendono ambedue con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti scrittori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’con un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico !
R.Bracale