- ACCENTO, APOCOPE & ALTRO NELLA GRAFIA DELLE PARLATE DIALETTALI.
Durante le mie numerose letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni autori che, ritenendo di fare cosa esatta, usano per le parole apocopate dell’ultima sillaba, perciò rese tronche (soprattutto infiniti) usano il segno diacritico dell' apocope (') in luogo dell' accento tonico e non si rendono conto che solamente l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,ed indicarne graficamente l'esatta pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi in altri maldestri autori e, tra essi addirittura uno spocchioso compilatore di dizionario (peraltro (cfr. alibi) fautore d’una scrittura dell’idioma napoletano privo di raddoppi consonantici o geminazioni iniziali....) che per tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti, ma poi presuntuosamente da asini e supponenti, spocchiosi, tronfi, saccenti,quali mostran d’ essere!..., osano accusare di ignoranza e faciloneria chi non si adegua al loro inesatto modo di scrivere! In effetti nella grafia della parlata napoletana non v’à ragione (checché ne dica ad es. A. Altamura) per accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico apostrofo ad indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba:l'accento, inglobando la doppia funzione, è piú che sufficiente alla bisogna ; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia operare un taglio ad un termine mantenendone però il primitivo accento tonico.
Per esempio il verbo èssere può essere apocopato (soprattutto in poesia, per particolari esigenze metriche e/o espressive) in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancora ad es. il verbo tégnere, può, per particolari esigenze espressive o metriche, essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si dovrebbe leggere càde e non cadé!
Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono giustamente resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: vede e non vedé.
A margine e completamento di tutto quanto fin qui detto rammento che – checché ne dicano taluni pedestri vocabolaristi i quali (poggiandosi sul fatto che la voce apocope in greco indica appunto il troncamento) confondono l’apocope con il troncamento; quest’ultimo è infatti la caduta di un suono in fine di parola: es. fior per fiore o anche pur per pure, qual per quale, tal per tale etc.; l’apocope ( cfr. nel napoletano si’ che sta per si(gnore) è pur essa la caduta di uno o piú suoni in fine di parola, ma tale caduta è, nella stragrande maggioranza dei casi, caduta di una o piú sillabi finali ad es. nell’italiano: san per santo e (almeno per ciò che riguarda il napoletano (nell’italiano tale esigenza non è contemplata salvo che per talune parole come fra’ che è da fra(te), po’che è da po(co)) l’apocope (caduta di suoni rappresentati da una o piú sillabe finali, non di una sola consonante; infatti come si ricava dalla medesima parola la consonante non è titolare d’un suono proprio che le viene offerto da una vocale d’accompagnamento... ) dev’essere indicata con un segno diacritico (‘) quando la caduta della sillaba non esiga addirittura l’accento come ad es.in tutti gli infiniti dei verbi dove la caduta della sillaba finale (re) lascia una parola terminante per vocale che va accentata tonicamente (cfr. parlà che è da parla(re) – capí che è da capi(re) e cosí via; in questo caso mettere il segno dell’apocope (‘) porterebbe ad avere parla’ – capi’ che non consentirebbero l’esatta pronuncia di parlà o capí, ma andrebbero pronunciati parla e capi; l’accento in luogo dell’apocope mette le cose a posto e pertanto è inutile e pleonastico scrivere (come pure inopinatamente (cfr. A.Altamura) m’è occorso di trovare scritto parlà’ e capí’ abbondando in pletorici segni diacriti quali i due apostrofi accanto a vocali già accentate.
In napoletano i monosillabi apocopati di una o piú consonanti (che come visto non son rappresentative da sole di un suono) non necessitano di alcun segno diacritico (ad. es. mo =ora, adesso (che è da mox e non da mo(do)), cu= con (da cum),pe=per (da per)po= poi (da post) etc.) Mi dilungo al proposito sull’avverbio di tempo mo.
Mo’, mo ed altro.
Nella parlata napoletana, vuoi nei testi scritti, che nel comune parlare si trova o si sente spessissimo il vocabolo a margine usato per significare: ora, adesso e, talvolta esso vocabolo trasmigra addirittura nell’italiano con il medesimo significato.Ciò che voglio trattare è innanzitutto il suono da assegnare alla vocale (o) che nella pronuncia cittadina è attestata e va pronunciata con timbro aperto (mò) mentre nella provincia scivola verso una pronuncia chiusa (mó).
Detto ciò passiamo ad un altro problema; come si scrive la parola in esame?
Il problema non è di facilissima soluzione posto che non v’è identità di vedute circa l’etimologia della parola, unica strada forse da percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta soluzione;
vi sono infatti parecchi scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di ora, adesso; ebbene, qualora si scegliesse questa strada sarebbe opportuno scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene apocopata di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente indicato dall’apposizione di un segno diacritico (‘).
Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino mox = ora, subito, come io reputo che sia, ecco che la faccenda diviene piú semplice e basterà scrivere mo
È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando un termine, per motivi etimologici, perde una sola lettera (consonante)in fin di parola e non per elisione allorché – come noto – a cadere è una vocale, non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una o piú intere sillabe;
ecco dunque che ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano,come ò detto e qui ribadisco per la parola cu (con) derivante dal latino cum e per pe (per) o anche per po (poi) dal lat. post dove cadendo una o piú semplici consonanti (r) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato, non rispondendo ad alcuna esigenza o regola grammaticale/linguistica!
Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe derivare da mox in quanto, pare, che una doppia consonante come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è possibile che accada specie per una dentale intervocalica come la d di modo. Premesso che ciò non sempre è vero (cfr. po ←post) anche in linguistica ogni regola può avere un eccezione e nulla vieta che tale eccezione sia rappresentata da una caduta di x che non lasci traccia, faccio notare che anche ammettendo che il napoletano mo discenda da modo e non da mox non si capisce perché esso andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola generale che i monosillabi vanno accentati solo quando, in una medesima lingua, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.D’altro canto poi non è vero che la caduta d’una consonante doppia (es.: x) debba comportare l’aggiunta d’un segno diacritico; anche in italiano infatti abbiamo la voce re (=sovrano, monarca) che deriva dritto per dritto dal lat. re(x) ed è scritta senza l’aggiunta d’un segno diacritico.
Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel toscano accentare il mò (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di modo (mo’), ma nel napoletano non esistendo il termine modo e la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi segno diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso).Sempre a proposito di cadute finali di consonanti faccio notare che l’avverbio di luogo che in italiano è là, in napoletano è lla senza alcun segno diacritico (accento o apostrofo in quanto derivato dal lat. (i)lla(c). Nell’italiano s’è reso necessario accentare l’avverbio là per evitare confusione con l’articolo la ;nel napoletano è assolutamente inutile accentare il lla avverbio di luogo in quanto nel napoletano non esiste l’articolo la (che è sempre – con l’eccezione di talune imperdonabili stravaganze digiacomiane (la luna nova ‘ncoppa a lu mare…) –attestato come ‘a )e pertanto non v’è pericolo di confusione atteso che, oltre tutto, l’avverbio napoletano, a differenza dell’articolo la che à la liquida scempia, esige la geminazione della liquida d’attacco: lla.
Rammento infine che allorché viene apocopata della sillaba finale una parola che lascia come residuo un monosillabo ecco che détto monosillabo potrebbe benissimo segnarsi con un apostrofo finale, atteso che trattandosi di monosillabo l’accento tonico non può che cadere che su quell’unica sillaba (cfr. in napoletano fa’ infinito di fa(re) – ji’ infinito di ghi(re)/i(re) ) tuttavia poi che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di voci verbali dell’infinito preferisco e suggerisco di accentare anche i monosillabi per mantenere una omogeneità di scrittura con gli infiniti degli altri verbi e dunque per l’infinito di andare meglio scrivere jí piuttosto che ji’ e per quello di fare:meglio scrivere fà piuttosto che fa’ il quale ultimo oltretutto potrebbe esser confuso con la seconda persona dell’imperativo: fa’ per fai
Raffaele Bracale
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