SAN MARTINO & DINTORNI
Ancóra una volta tenterò di dare adeguata risposta ad una richiesta dell’amico P.G. (al solito, motivi di riservatezza mi impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) che,suggestionato dalla presenza del nome Martino presente in tre locuzioni antiche partenopee mi à chiesto di mettere a fuoco portata, significato e valenza di tali antiche espressioni molto usate un tempo e che ancóra si possono cogliere sulle labbra dei napoletani d’antan. Le tre espressioni che mi sono state proposte sono nell’ordine:
1)Jí a san Martino a ffà ‘o priore. 2)Arapí ‘a prucessione ‘e san Martino. 3)Chiave ‘ncinta e Martino dinto! Comincio súbito a precisare che le prime due fan riferimento ambedue alla figura di un antico santo della tradizione cattolica, mentre il Martino della terza espressione abbenché scritto con l’iniziale maiuscola non si riferisce né al santo, né ad un nome proprio di persona, ma sia solo una furbesca relazione al membro maschile e ne dirò quando illustrerò la locuzione. Procediamo con ordine: 1)Jí a san Martino a ffà ‘o priore. Ad litteram: Andare a san Martino a fare il priore. Per intendere, fuor del velame de li versi strani, il significato sotteso dell’espressione occorre in primis dire del san Martino della tradizione cattolica; san Martino di Tours nacque (316/317) in Pannonia (oggi in Ungheria) a Sabaria da pagani. Venne istruito sulla dottrina cristiana ma non venne battezzato. Figlio di un ufficiale dell'esercito romano, abbandonato dalla moglie, si arruolò da giovanissimo, nella cavalleria imperiale, prestando poi servizio in Gallia. Era ancóra catecumeno quando si rese protagonista di un famoso episodio allorché con la spada tagliò in due il suo mantello militare, per difendere un mendicante dal freddo, mendicante che poi si rivelò essere il Cristo stesso celato nelle sembianze di un povero. Ricevuto il battesimo, lasciò le armi e condusse presso Ligugé vita monastica in un cenobio da lui stesso fondato, sotto la guida di sant’Ilario di Poitiers (315? – †367). Ordinato infine sacerdote ed eletto vescovo di Tours nel 371 ,incarnò la figura del buon pastore, fondando parrocchie nei villagi ed altri monasteri (tanto da esser ritenuto in Francia il fondatore stesso del monachesimo) istruendo e riconciliando il clero ed evangelizzando i contadini. Per qualche tempo, tuttavia, non risiedette in Tours, ma in un altro monastero da lui fondato a quattro chilometri dalla città, e chiamato Marmoutier. Di qui intraprese la sua missione, ultraventennale azione per cristianizzare le campagne, per le quali Cristo era ancóra "il Dio che si adora nelle città". Non ebbe certo la cultura di Ilario, ed un po’ rimase il soldato sbrigativo che era, come quando abbatté edifici e simboli dei culti pagani, ispirando piú risentimenti che adesioni. L’evangelizzazione tuttavia gli riuscí perché l’impetuoso vescovo si fece protettore dei poveri contro lo spietato fisco romano, promuovendo la giustizia tra deboli e potenti. Con lui le plebi rurali rialzarono la testa. Sapere che c’era lui metteva coraggio. Questo spiega l’enorme popolarità in vita e la crescente venerazione successiva.
Infatti quando nel 397( 8 nov.) morí a Candes, verso la mezzanotte di una domenica, si disputarono il corpo gli abitanti di Poitiers e quelli di Tours. Questi ultimi, di notte, lo portarono poi nella loro città per via d’acqua, lungo i fiumi Vienne e Loire. La sua festa si celebrerà nell’anniversario della sepoltura (11 nov. 397), e la cittadina di Candes da allora verrà chiamata Candes-Saint-Martin. Ben quattromila chiese gli furono dedicate in Francia, ed il suo nome venne dato a migliaia di paesi e villaggi; la sua fama si estese rapidamente dalla Francia all’Italia
e ad altre parti d’Europa e delle Americhe; in Italia la venerazione per il prelato Martino fu molto sentita a Roma e nel meridione tutto ed in primis a Napoli dove nel 1325, sulla sommità della collina del Vomero, accanto a Castel Sant'Elmo, Carlo duca di Calabria (Napoli, 1298 – † ivi 9 novembre 1328), primogenito di Roberto d'Angiò detto il Saggio (Torre di S. Erasmo, casale di S. Erasmo in capitolio, 1277 – †Napoli, 16 gennaio 1343), figlio di Carlo II d'Angiò, re di Napoli), fece erigere un monastero dedicato al santo di Tours ed ivi nel 1337 entrarono i certosini (uno dei piú rigorosi ordini monastici della Chiesa cattolica, ordine che prende il nome dal Massiccio della Certosa (Massif de la Chartreuse) nelle prealpi francesi, dove san Bruno e sei compagni cercarono la solitudine per dedicarsi alla vita contemplativa). La caratteristica della vita certosina condotta da " uomini solitari riuniti come fratelli" è la scelta eremitica ed i certosini rifuggono da ogni tentazione della vita mondana dedicandosi alla contemplazione uniti in quella che è détta "famiglia certosina" ). Nel 1368 sotto il regno di Giovanna d'Angiò fu consacrata la chiesa interna del monastero cui però potevano accedere, nella festività del santo, i soli uomini ed ivi lucrare le indulgenze previste per tutti i visitatori della Chiesa. Successivamente tra la fine del 16° secolo ed i principi del 17° fu edificata ad opera di Giovanni Antonio Dosio (San Gimignano, 1533 – †Caserta, 1611) e successivamente di Cosimo Fanzago (Clusone, 12 ottobre 1591 – †Napoli, 13 febbraio 1678) l’ adiacente chiesa cosiddetta Chiesa delle Donne, voluta per permettere alle donne cui era vietato l’ingresso alla chiesa interna del monastero di poter lucrare le indulgenze recandosi a pregare, nella festività di san Martino in una chiesa tutta per loro, donde il nome Chiesa delle Donne. Nel monastero tra quei solitari frati certosini convennero numerosi mariti che, vista malamente conclusa la loro vita coniugale, spesso per i tradimenti continuati delle consorti, piuttosto che dar vita a tragedie cruente, preferirono abbandonare il mondo e ritirarsi in vita contemplativa; di talché nell’inteso comune il monastero della Certosa di san Martino fu pensato come un munastero di cornuti/dei traditi e san Martino fu eletto loro santo protettore. A tale inteso son da collegare ambedue le espressioni: 1)Jí a san Martino a ffà ‘o priore. 2)Arapí ‘a prucessione ‘e san Martino. La prima che ad litteram è: “Andare a san Martino a far da priore” è usata sarcasticamente nei confronti di chi, ritenuto cosí tanto tradito dalla consorte, debba ritirarsi nel monastero della certosa suddetta ed addirittura andarvi a ricoprire il posto di priore, di capo atteso che lo si pensa come il maggiore dei cornuti in circolazione;va da sé che l’agg.vo cornuto ( dal lat. cornutu(m), deriv. di cornu 'corno' ) che in primis è usato per indicare chi sia provvisto di corna: animale curnuto (animale cornuto) figuratamente indica il dilemma in quanto consiste di due proposizioni contrapposte, détte corni: ' trascurzo curnuto, (argomento cornuto), nel caso che ci occupa è usato furbescamente per dire di persona tradita dal proprio coniuge. Tornando alle locuzioni in esame dirò che il medesimo valore della prima: Jí a san Martino a ffà ‘o priore (“Andare a san Martino a far da priore”) lo à anche la seconda locuzione, quella che recita: Arapí ‘a prucessione ‘e san Martino (Principiare, stare in testa alla processione di san Martino)atteso che anche in questa espressione chi fósse pensato come il maggiore dei cornuti in circolazione avrebbe dovuto aprire il corteo di quella processione che a Roma e Napoli sino a tutto il 1600 i frati certosini dei rispettivi monasteri , contravvenendo ai dettami della loro vita contemplativa, erano soliti fare l’ undici novembre festività di san Martino; orbene tale corteo processionale di natura religiosa, nel corso degli anni divenne occasione di disordini, tanto che le autorità civili furono costrette a negare il permesso di far defluire la processione per le strade cittadine mettendo fine a quel corteo nel quale, per dileggio , perché vi prendessero parte restando incolonnati al seguito dei frati spesso erano sospinti i poveri mariti che nell’inteso comune erano ritenuti troditi/cornuti. Va da sé che molto spesso dalle spinte ricevute per farli entrare nel corteo, con conseguenti resistenze dei sospinti deresi si degenerasse passando alle vie di fatto con ovvie conseguenze. A sèguito di tanto, come ò détto,la consuetudine della processione venne meno, ma perdurò l’espressione usata a dileggio beffa, burla dei mariti traditi o pensati tali. Rammento in coda che al di là dell’ inteso che il san Martino fósse stato abbandonato dalla propria consorte che l’aveva tradito e fatto becco, meritandogli il titolo di patrono dei mariti cornuti, penso si possa ritenere che san Martino sia ritenuto patrono dei mariti cornuti poiché la sua festività cade a gli undici di novembre ed al numero 11 - nella smorfia napoletana – accanto ai soldati,pensati quando siano allineati (come allineati sono le cifre che formano undici) - sono associate le corna stante che nel gesto della mano che le riproduce si tendono indice e mignolo, tenendo ripiegate le altre dita e tali dita tese fanno ad un dipresso la cifra 11, a meno che non si sia assegnato a tale cifra il significato di corna con riferimento alla festività di san Martino che cade appunto – come ò détto - a gli undici di novembre.
E veniamo alla terza locuzione quella: Chiave ‘ncinta e Martino dinto! che ad litteram è Chiave (infilata) nella cintola(ma ugualmente) il martino è dentro! e che usata a canzonatura, motteggio, irrisione del solito marito tradito al quale si vuol fare intendere che a malgrado lui porti infilata nella cintola la chiave (della cintura di castità della moglie), costei à trovato il modo di farsi possedere e tenga il “martino” dentro di sé. Ed ovviamente con il termine “martino” si intende furbescamente il membro maschile pensato come un coltello, una proditoria arma d’offesa atta a ferire e perforare tal quale un lungo acuminato coltello che prende gergalmente il nome di martino con riferimento alla spada di san Martino. Il fatto di far riferimento alla cintura di castità lascia intendere che si tratta d’una locuzione antichissima risalente al medio evo, ma ancóra in uso abbenché non esistano piú cinture di castità e chiavi da portare in cintola!A margine di quest’ultima espressione rammento che nel napoletano sempre con riferimento al “martino”, lungo acuminato coltello esiste la voce ammartenato che è precisamente colui che incede con aria di gradasso, di spavaldo, di prepotente , come chi sia – in linea con la etimologia – provvisto di martina/o voce furbesca – gergale con cui si indica, con riferimento al soldato san Martino, alternativamente la spada, lo stocco, il coltello, l’arma bianca insomma qualsiasi arma che offra sicurezza, quando non sicumera a chi ne sia provvisto;
E qui giunto mi fermo convinto d’avere esaurito l’argomento, d’aver adeguatamente risposto alla richiesta dell’amico P.G. e sperando d’avere interessato i miei consueti ventiquattro lettori.
Satis est.
R.Bracale Brak
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