domenica 19 agosto 2012

ALTRI ANTICHI MESTIERI NAPOLETANI.

ALTRI ANTICHI MESTIERI NAPOLETANI. Sollecitato dalla richiesta dell’amico P.G. (del quale per i consueti problemi di riservatezza indico le sole iniziali delle generalità) che mi si disse molto soddisfatto ed interessato di ciò che alibi scrissi sull’antico mestiere del rammariello, qui di sèguito illustro alcuni altri vecchi e desueti mestieri napoletani, sperando di interessare lui e qualcun altro dei miei consueti ventiquattro lettori. Principio perciò con il parlare del VRENNAJUOLO o (secondo un’antica terminologia del D’Ambra SCIUSCELLARO. Questo antichissimo mestiere era molto diffuso nel tardo ottocento quando il mezzo di trasporto piú usato non era certo l'automobile, ma il cavallo. Questo sciuscellaro o vrennajuolo era un venditore che alienava ai suoi numerosi clienti(vatecare provvisti di carretto e cavallo per il trasporto delle merci,titolari di imprese di pompe funebri che per il trasporto dei defunti usavano mastodontiche carrozze trainate da numerosi cavalli, vetturini da nolo, borghesi facoltosi con carrozza padronale) orzo, fieno, crusca (in napoletano vrenna),e carrube(in napoletano sciuscelle), tutti elementi necessari nella gestione dei cavalli. Ò parlato di tardo ottocento,ma rammento bene che,negli anni ’50 del 1900 quand'ero ragazzo, c'era ancóra forse l’ultimo negozio di vrennajuolo alla fine di Via Foria,proprio all’angolo con la chiesa di S.Antonio Abate dove oggi, se non erro, mi pare che ci sia (in quel medesimo locale) un venditore di ferramenta cioè di assortimento di minuterie ed oggetti metallici per uso domestico ed artigianale;rammento che lí in quella bottega di vrennajuolo, benché mia madre mi vietasse di farlo, compravo (prelevate da sacchi polverosi e – devo riconoscere – poco igienici) delle carrube o sciuscelle che mangiavo voracemente.Prima di soffermarci sulle parole incontrate ricordo che il piú importante vrennajuolo di fine ‘800 fu il capintesta camorrista don Ciccio Cappuccio, successore del famosissimo Salvatore De Crescenzo (noto con il nome di Tore ‘e Criscienzo; costui era nato nel 1816, appartenente ad una famiglia di saltimbanchi molto conosciuta ed apprezzata nella zona di Porta Capuana. Ma, la vita del circo, non gli si confaceva; ad appena 14 anni infatti entrò a far parte della Bella Società Riformata ed a soli 33 divenne capo indiscusso della stessa, gridando: “Ò trentatré anni, l'età di Cristo. E se a trentatré anni Cristo salí al cielo, "Tore 'e Criscienzo" può ben diventare un capintesta “;fu per lungo tempo la massima autorità cittadina in fatto di camorra contrastato da un altro celebre guappo quel Totonno ‘e Porta Massa che finí i suoi giorni assassinato per ordine della Gran Mamma il 3 ottobre del 1862,ed alla sua morte Tore 'e Criscienzo, vecchio e stanco si ritirò dando campo libero a don Ciccio Cappuccio che soprannominato ‘o signurino per i suoi modi eleganti ed educati, aveva avuto come scuola l’Imbrecciata ‘e san Francisco, violenta zona nel cuore della Vicaria, dove il padre aveva una bettola. Ciccio Cappuccio conobbe presto il carcere della Vicaria ed ivi nacque la leggenda intorno al suo personaggio, quando, circondato (come era in uso) - dai camorristi che gli chiedevano l’ “olio per la lampada”, ovvero che lo sottoponevano ad estorsione, Ciccio si rifiutò di pagare e da solo lottò contro dodici carcerati. In seguito fu mandato a Ventotene. Al ritorno lasciò la zona della Vicaria per trasferirsi in Piazza S. Ferdinando, e lí come copertura della sua attività camorristica aprí, nei locali dove oggi c'è un negozio di oggetti in pelle, un negozio di crusca e carrube, mercato strategico che gli permetteva di avere il controllo della compravendita dei cavalli e dell’attività dei cocchieri, gruppo, quest’ultimo, sul quale 'o signurino aveva un ascendente fortissimo e sul quale aveva il monopolio delle tangenti. Devotissimo alla Madonna di Montevergine, Ciccio morí di malattia il 6 dicembre del 1892. vrennajuolo s.vo m.le = venditore di crusca,biada ed affini voce denominale di vrenna (da un lat. med. brinna,)con l’aggiunta del suffisso aiolo/aiuolo/ajuolo suffisso costituito per accumulo dei suff. -aio e -olo, accumulo presente in sostantivi indicanti chi esercita un mestiere (legnajuolo/legnaiolo, vignajuolo/vignaiolo) o chi à inclinazione per qualcosa (donnajuolo/donnaiolo, forcajolo), oppure in aggettivi che stabiliscono una relazione di tempo o di luogo (marzaiolo, prataiolo). sciuscellaro s.vo m.le = venditore di carrube, crusca,biada ed affini; voce denominale di sciuscella (e mi dilungo a seguire)con l’aggiunta del suffisso aro variante di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali (calamaro, zampognaro),suffisso che continua il lat. -arius→a(r)io/ar(i)o e che compare in sostantivi, derivati dal latino o formati in italiano, che indicano mestiere; sciuscella= carruba La voce femminile sciuscella (plur. sciuscelle) traduce in napoletano ciò che in italiano è (con derivazione dall’arabo harruba ) carruba cioè il frutto del carrubo (albero sempreverde con fiori rossi in grappoli e foglie paripennate; i frutti, grosse silique bruno-nere ricche di sostanze zuccherine, si usano come foraggio per cavalli e buoi (fam. Leguminose) ed un tempo vennero usati come passatempo goloso per bambini ; mentre come termine gergale la voce carruba vale carabiniere (per il colore nero della divisa, che richiama appunto quello bruno-nero della carruba). Il frutto del carrubo viene usato però non solo come foraggio per cavalli e buoi, o – un tempo - come passatempo dolcissimo per bambini, ma è usato altresí (per l’alto contenuto di sostanze zuccherine) nella preparazione di confetture e per l’estrazione di liquidi da usarsi in distelleria (rosolî) o quali bevande medicinali. Nell’idioma napoletano la voce femminile sciuscella conserva tutti i significati dell’italiano carruba, ma è usata anche per indicare qualsiasi oggetto che sia di poca consistenza e/o resistenza con riferimento semantico alla cedevolezza del frutto del carrubo, frutto che è privo di dura scorza, risultando morbido e facilmente masticabile da parte dei bambini sprovvisti di dentature aggressive; infatti ad esempio di un mobile che non sia di stagionato legno pregiato (noce, palissandro etc.), ma di cedevoli fogli di compensato assemblati a caldo con collanti chimici s’usa dire: È ‘na sciuscella! che vale: È inconsistente! Alla medesima maniera ci si esprime nei riguardi di ogni altro oggetto privo di consistenza e/o resistenza. Rammento, prima di affrontare la questione etimologica, che nell’idioma napoletano vi fu un tempo una voce maschile (o neutra) ora del tutto desueta che suonò sciusciello voce che ripeteva all’incirca il siculo ed il calabrese sciuscieddu, il salentino sciuscille ed addirittura il genovese giuscello, tutte voci che rendono, nelle rammentate parlate regionali, l’italiano brodetto, uova cotte in fricassea brodosa etc. E veniamo all’etimologia della voce in epigrafe. Dico súbito che questa volta non posso addivenire,circa la voce sciuscella , a ciò che nel suo conciso, pur se curato, Dizionario Etimologico Napoletano dice l’amico prof. Carlo Jandolo che elimina del tutto la voce sciusciello ed accoglie solo sciuscella in ordine alla quale però sceglie pilatescamente di trincerarsi dietro un etimo sconosciuto.né – stranamente per il suo temperamento – azzarda ipotesi propositive! Mi pare invece che sia correttamente perseguibile l’idea sposata da Cortelazzo, D’Ascoli ed altri i quali, per la voce sciusciello, rimandano ad un lat. iuscellum = brodetto. Partendo da tale iuscellum→sciusciello congetturo che per sciuscella si possa correttemente pensare ad un derivato neutro plur. iuscella→sciuscella=cose molli, cedevoli, lente come brodi; quel neutro plurale fu poi inteso femminile. Semanticamente forse la faccenda si spiega (a mio avviso) con il fatto (come ò già accennato) che dalla carruba (sciuscella) si traggono liquidi e bevande medicinali che posson far forse pensare a dei brodini. E passiamo al/alla PATERNUSTRARO/A mestiere antico ma protrattosi fino a tutto il 1950 quando ancóra lo esercitava in via Martiri d’Otranto adiacenze Benedetto Cairoli una portiera détta ‘a sié Curdella; Curdella non era il suo cognome, ma un soprannome probabilmente in relazione ai cordini che usava per fabbricare corone del santo Rosario; in effetti il/la paternustraro/a era colui o piú spesso colei che,con pazienza certosina, fabbricava corone del santo Rosario, infilando, uno ad uno,con un sottile filo di spago i semi delle carrubbe (sciuscelle), bucati all’uopo con un rabberciato, artigianale trapano a mano per far passare nei forellini il filo ed i semi venivano poi fermati in posizione con successivi minuscoli nodi. La voce paternustraro/a deriva dall’agglutinazione delle voci latine pater noster→paternustr addizionate del consueto suffisso aro variante di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali (calamaro, zampognaro),suffisso che continua il lat. -arius→a(r)io/ar(i)o e che compare in sostantivi, derivati dal latino o formati in italiano, che indicano mestiere; monosillabo che è usato per indicare la voce signora; si tratta di sié monosillabo che è usato per indicare la voce signora;per il vero non si tratta dell’apocope di si(gnora) che se cosí fósse esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della parlata napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere recentemente in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come Dicette 'o zi' moneco,a’ zi’ Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." invece che correttamemente Dicette 'o si' moneco,â sié Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." ed ovviamente il fatto scorretto non consiste soltanto nell’avere usato a’ al posto di â per dire alla, quanto per avere usato impropriamente zi' moneco, e zi’ Badessa al posto di si' moneco, e sié Badessa. E passo ora a dire de ‘O ZARELLARO (molto più spesso, 'a zarellara), mestiere antico, ma ancóra in uso quantunque ridimensionato per ciò che riguarda numero e tipo di mercanzia smerciata. Un tempo fino a tutto il 1950 ‘o/’a zarellaro/a aveva una bottega dove si poteva trovava di tutto, una sorta di emporio ante litteram dove si smerciava ago e filo per cucire, spago,nastri e trine, bottoni, forbici e forbicine, elastici,bottoni e stecche per colletti, puntine da disegno,punte per grammofoni, spugne marine, spugnette metalliche ,sapone per bucato in pezzi e da taglio (sapone ‘e piazza), soda solvay, secchi in legno o in metallo/ banda stagnata, scope, mazze pe lavà 'nterra(odierni spazzoloni), con relativi strazze ‘e terra,ma pure mercanzia poi divenuta di competenza dei cartolai o dei supermarket: quaderni, blocchi di fogli per il disegno, matite e penne comuni con relativi pennini,boccette d’inchiostro, gomme per cancellare,squadrette e righe per il disegno geometrico, portapenne, nettapenne, pastelli e portapastelli; non mancavano piccoli giocattoli come cavallucci in legno o di cartapesta, bilancine e bamboline o bambolotti,nonché scopini (scupilli) per la pulizia del gabinetto di decenza, spilli di ferro o di acciaio,spille da balia (spingule 'e nutriccia o spingule francese), stringhe per scarpe, lucido per pulirle (‘a crumatina) e relative spazzole, siringhe ed aghi per iniezioni con pentolino, ovatta, alcool, insetticidi,ed in prossimità della Festa di piedigrotta sciosciamosche, mazzarielle, cuppulune, cappielle ‘e carta e carta crespata, carta velina, carta oleata e cartoncino per la fabbricazione dei vestitini di carta, ed infine finanche "pappagalli" e "pale" per gli ammalati allettati. Qualche zarellaro, ovviamente senza averne la licenza, vendeva anche paparelle 'e zuccaro, caramelle, bacchette ‘e divinizia, franfellicche e bomboloni.Dopo il 1950 ‘o zarellaro dismise il nome, prese quello italiano di merceria e ridimensionò la vendita limitandosi al commercio di ago e filo per cucire, spago,nastri e trine, bottoni, spilli di ferro o di acciaio,spille da balia, bottoni automatici e chiusure zip e per tutto il resto fu giocoforza servirsi dei magazzini STANDA ed UPIM. zarellaro/a, zagrellaro/a, zagarellaro/a = merciaioa son voci derivate da zagarella/ zarella/ziarella che etimologicamente nella triplice morfologia (la seconda e terza voce son solo delle semplificazioni d’uso popolare della prima voce)sono adattamenti collaterali di zaganella diminutivo di zàgana s.vo f.le che è voce region., di area umbro-laziale, dove indica una sottile treccia di lana o di seta per rifinitura di abiti femminili;quanto all’etimo di questa zàgana da cui àn preso derivazione zaganella nonché le voci in esame che – ripeto – ne son collaterali, atteso che zàgana è voce affine a sagola di cui pare addirittura un metaplasmo regionale, si può sospettare un adattamento della voce portoghese soga (fune, corda) secondo il percorso soga→sogana →sagana→zagana sempre che la voce zàgana non sia un adattamento dell’arabo zahara ( chiaro,splendente) poi che in origine la zàgana (nastro, fettuccia) fu esclusivamente bianco usato per agghindare il capo delle fanciulle in abito bianco da prima comunione). E veniamo a parlare de ‘O SANZARO s.vo m.le e solo m.le è rarissimo l’ uso di adattato al femminile ‘a sanzara indicò in primis il mediatore, l’intermediario per la compravendita di prodotti agricoli e di bestiame; in seguito la mediazione si estese ad altre attività: sanzaro ‘e nòleto (mediatore di noleggi), chi svolgeva attività di mediazione nel mercato dei noli, intervenendo e agevolando le trattative fra noleggianti e noleggiatori; sanzaro ‘e mare (intermediario marittimo, mediatore di noli, o di compravendita, di assicurazioni e di altri affari nel campo dei traffici marittimi. sanzaro ‘e terra (intermediario per la compravendita o affitto di case e/o terreni). Da ultimo con significato. ancora piú ampio: sanzaro ‘e matremmonie (procacciatore di matrimonî.) poteva essere il mediatore per fittare case o anche quello che procurava matrimoni.Costui s’ebbe il nomignolo di cauzette rosse in quanto per una sorta di identificazione alla strega dei cosidetti paglietti (cfr. ultra)che indossavano il tipico copricapo in paglia nera, per farsi distinguere, indossava calze di color rosso come quelle dei canonici capitolari del Tesoro di san Gennaro i quali spesso si assumevano il compito di far da mediatori fra nubendi.Ancóra oggi,nella città bassa, quando qualcuno cerca di procurare occasioni d'incontro affiché due ragazzi si fidanzino per giungere al matrimonio s’usa accreditarlo di aver indossato cauzette rosse. etimologicamente la voce sanzaro è dall'ar. simsar, che è dal persiano sapsar. E passiamo ora a dire del mestiere dei pagliette = avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti; letteralmente la voce a margine risulta esser plurale di paglietta che di per sé è femminile ed al plurale va scritta correttamente ‘e ppagliette (= cappelli di paglia, solitamente usati dagli uomini) e va letta con la geminazione iniziale della p; scritta però con la iniziale p scempia ‘e pagliette, la medesima voce plurale di paglietta è intesa maschile e per traslato indica appunto avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti quegli stessi che ad inizio del 1900 usavano indossare a mo’ di divisa comune la paglietta (cappello di paglia (donde il nome, partendo da un lat. palea(m)) da uomo, con cupolino alto bordato di nastro di seta,piatta, ampia tesa rigida il tutto rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, in ispecie nella bella stagione pagliette di color chiaro; ancóra oggi il mestiere del paglietta resiste ed è esercitato da quei giovani e quindi inesperti dottori in giurisprudenza che prestano la loro servizievole opera spesso gratuitamente presso studi legali di importanti avvocati nel tentativo di farsi le ossa ed imparare il mestiere. Ecco ora un altro mestiere antico e praticamente ormai desueto. Parlo de ‘o sapunaro s.vo m.le letteralmente venditore girovago che compra e rivende roba usata di scarso valore, rigattiere, robivecchi; tale venditore girovago aduso a comprare e rivendere, per poche lire, roba vecchia, usata, di scarso valore tra cui pentolame, cenci, ed abiti dismessi era solito offrire in cambio di détte merci in luogo di (sia pure poco) danaro, del sapone voce che è dal tardo lat. sapone(m), e che indicò in origine una 'miscela di cenere e sego per tingere i capelli', voce di orig. germ. ( sapp) solo successivamente la voce sapone indicò le paste usate quali detergenti. Rammenterò che i saponi conferiti dai saponari nei loro scambi, non erano le saponette industriali che conosciamo, ma un tipo di sapone artigianale molto morbido e di colore ambra (da usare per detergere abiti e biancheria e non per la pulizia personale), che veniva ceduto avvolto in fogli di carta oleata, a mo’ di fétte, staccandole con una lama da un parallelepipedo compatto; tale sapone era comunemente detto sapone ‘e piazza= sapone della piazza, forse perché venduto non in una qualche specifica bottega (come è invece per altre merci) , ma esclusivamente per istrada /piazza dai venditori girovaghi e/o rigattieri, robivecchi (saponari ) che ne erano anche i produttori artigianali secondo antiche ricette ; va da sé che la voce a margine deriva da sapone(m) + il suff. di competenza arius→aro. E chiudo queste paginette parlando di alcuni mestieri, due femminili gli altri maschili, irrimediabilmente spariti con il progresso ed il consumismo dilagante. Il primo mestiere esercitato dalle donne e solo dalle donne di cui dico fu quello di capera cioè pettinatrice girovaga che pettinava, con particolare attenzione e capacità ,giovani o mature popolane che (assise su di una sedia di paglia spesso en plein air all’imboccatura del proprio terraneo, ch’era bottega e/o abitazione) si affidavano alla sua esperienza e competenza. Quello della capera era un lavoro lungo e faticoso tenendo presente l’abbondanza della capigliatura di tante donne che amavano avere la chioma lunga da sistemare dapprima in trecce e poi raccogliere servendosi di ferretti, mollette e pettinesse, in crocchie che in napoletano si dicono tuppi. Come ò détto si trattava d’una pettinatrice che girando casa per casa,basso per basso, terraneo per terraneo,non si limitava a pettinare le sue clienti ma amava riportare sussurrando ai loro orecchi tutti i fatti soprattutto se piccanti appresi in altre case, per cui la capera era a tutta ragione considerata la pettegola del quartiere, quella per antonomasia. Va da sé che le notizie, apprese in gran segreto, circolavano súbito, diventando di dominio comune. capera s.vo f.le = in primis 1 pettinatrice, parrucchiera, acconciatrice. 2 per traslato = pettegola, persona che à l’abitudine di fare e scambiare chiacchiere sul conto degli altri, riportando indiscretamente e con malevolenza fatti privati altrui e abbandonandosi con gusto ad allusioni e commenti maliziosi. voce dal lat. volg. *capa(m) addizionato del suff. f.le di pertinenza era; il m.le è iere (cfr. salumera ma salumiere, cantenera ma canteniere etc. ). tuppe s.vo m.le pl. del sg tuppo = tuppè, crocchia, chignon, rotolo o treccia di capelli avvolti a ciambella e fermati sopra la nuca; voce adattamento del fr. toupet L’altro mestiere tipicamente femminile fu quello della lavannara (lavandaia), mestiere che durò fino a tutti i primi anni ’60 del 1900 quando nelle case degli operai evoluti e della piccola borghesia apparvero le prime lavatrici/lavabiancheria elettriche domestiche provviste dapprima di vasca per il lavaggio e di rulli per la strizzatura, rulli poi sostituiti con piú funzionale cestello centrifuga. La lavannara (lavandaia) fu colei che con cadenza settimanale o bisettimanale nel caso di famiglie numerose passava di casa in casa ritirando la biancheria da detergere e sbiancare che poi provvedeva a lavare presso il proprio domicilio e riconsegnava alle clienti nel giro di un paio di giorni. Tale procedura era però seguita nella zona collinare della città dove domiciliavano le famiglie di professionisti o dell’alta borghesia e spesso nelle eleganti case di costoro non esisteva ‘o lavaturo (il lavatoio) in pietra essenziale per procedere all’operazione di lavatura dei panni; tale lavaturo ( lavatoio) esisteva in tutte le case della città bassa e la lavandaia dava corso alla sua opera settimanalmente o bisettimanalmente direttamente nel domicilio delle clienti. Nella nostra casa di via Foria in un passetto pensile attiguo alla cucina esistette (fino a che non fu demolito nel corso di un ammodernamento della casa) un lavatoio o lavatore (da un basso latino:lavatoriu(m) che era la vasca di pietra nella quale una grassoccia ed attempata donna,che - se non ricordo male - rispondeva al nome di Nannina, dai muscolosi avambracci e dai grossi polpacci segnati da gonfie vene varicose, per poche lire, lavava,servendosi di quel sapone ‘e piazza (di cui ò détto), settimanalmente la biancheria di casa, prima di sistemarla dentro la tina per procedere alla sbiancatura della colata, usando come pure ò già ricordato, la cenere del vicino focolare; terminata la colata poneva la biancheria cosí lavata in un capace cufenaturo ( voce forgiata sul greco kóphinos= conca metallica) per trasferirla ‘ncopp’ a ll’asteco (che è dal greco óstrakon→òst(r)ako(n)→àsteco = lastrico solare, loggia), dove la biancheria lavata era posta ad asciugarsi, adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra delle tre che limitavano il lastrico solare dove vento e sole la facevano da padroni. bucato s.vo m.le 1 lavatura della biancheria fatta con acqua, sapone, liscivia o altri detersivi: fare il bucato | lenzuola di bucato, appena lavate, pulitissime 2 la biancheria da lavare o già lavata: preparare, stendere il bucato. Deriv. del francone *bukon 'immergere' Culata s. f. 1 lavatura della biancheria fatta con acqua, sapone, liscivia o altri detersivi; 2 la biancheria già lavata. Deverbale di colare che è dal lat. colare deriv. di colum (filtro) Cennerale s. m. grosso telo (usato durante il bucato) a trama larga su cui venivano sistemati pezzi di arbusti odorosi ed un congruo strato di cenere (prelevata dal focolare domestico); sulla cenere ed i pezzi d’arbusto si lasciava colare dell’acqua bollente addizzionata, magari di altre essenze profumate; la voce a margine è un denominale del lat. cinere(m) (affine al gr. kónis 'polvere’)addizionato del suff. alis→ale un tempo usato per formare gli aggettivi, ma poi anche nomi concreti. E mi occupo infine di quattro mestieri esercitati, sino a tutta la prima metà del 1900 e poi irrimediabilmente spariti, come ò détto con il progresso ed il consumismo dilagante. , da uomini e solo da uomini. Abbiamo nell’ordine ‘o cenneraro s.vo m.le = ceneraio commerciante girovago che ,alla voce “Oj ne''o cenneraro",un tempo, comprava e rivendeva alle massaie cenere da usarsi per il bucato sistemata su di ungrosso telo a trama larga detto cennerale venduto a chi ne fósse sprovvisto dal medesimo cenneraro; sul telo, come ricordato, venivano sistemati arbusti odorosi ed un congruo strato di cenere; si lasciava poi colare sul tutto dell’acqua bollente addizzionata, magari di altre essenze profumate, quando tutta l’acqua era passata e la soda caustica contenuta nella cenere aveva compiuto la sua opera di sbiancare la biancheria, l’operazione era compiuta, la colata finita e dopo un ultimo veloce risciacquo, i panni potevano essere sciorinati al vento e al sole augurandosi che questo non mancato e anzi, fosse uscito facendo capolino tra le nuvole. ‘o cenneraro s.vo m.le è etimologicamente voce denominale di cennere ( dal lat. cinere(m),con raddoppiamento espressivo della nasale dentale (n) cinere(m) è affine al gr. kónis 'polvere')addizionato del suffisso di competenza arius→aro variante di -aio, comune soprattutto nelle regioni centromeridionali. E veniamo al conciambrielle s.vo m.le = ombrellaio, riparatore di parasole e parapioggia; artiere girovago che armato di pochi ferri del mestiere, qualche pezzo di ricambio (stecche d’acciaio brunito, fusti e manici, fil di ferro)e tanta pazienza riparava ombrelli illico et immediate, seduto sul marciapiedi all’imboccatura di bassi e palazzi.Rammento en passant che fino a tutto il 1950 il possesso di un ombrello elegante e funzionante forniva ai giovanotti l'occasione per contattare ragazze, offrendo loro adeguato riparo in caso di pioggia.Questo artiere girovago di cui dico svolgeva spesso anche il mestiere di conciatiane s.vo m.le = era colui che riparava stoviglie rotte di terracotta o ceramica. Il suo lavoro di riparatore era un lavoro di pazienza e precisione consistendo nel recuperare dapprima tutti i pezzi d’ una stoviglia rotta, spalmarne i lembi con del mastice adesivo di propria segreta produzione, far combaciare con precisione i pezzi e ricucirli , dopo avervi fatto (con un rabberciato artigianale trapano a mano provvisto di punta sottile) dei minuscoli fori entro cui infilare un fil di ferro dolce da fermare per torsione; il lavoro veniva completato spalmando ad abundantiam con mastice le connessure. la voce conciambrielle s.vo m.le è etimologicamente il risultato dell’agglutinazione della voce verbale acconcia→(ac)concia (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito accuncià = aggiustare, riparare (dal lat. *ad-comptiare, derivato di *comptium=preparazione per ornare; normale il passaggio della o atona ad u ) con il s.vo m.le pl. ‘mbrielle pl. metafonetico del sg. ‘mbrello ( adattamento al m.le del lat. tardo umbrella(m)→’mbrellu(m)→’mbrello, rifacimento, secondo umbra 'ombra', del lat. class. umbella 'parasole'). La voce conciatiane s.vo m.le è invece etimologicamente il risultato dell’agglutinazione della voce verbale acconcia→(ac)concia (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito accuncià = aggiustare, riparare (dal lat. *ad-comptiare, derivato di *comptium=preparazione per ornare; normale il passaggio della o atona ad u ) con il s.vo f.le pl. tiane pl. m del sg. tiana s.vo f.le = pentola, tegame a bordo alto; è voce che à un collaterale nel m.le tiano utilità simili se non uguali che si differenziavano secondo la grandezza della pentola, per solito usata per la lessatura di taluni cibi; etimologicamente ambedue dal greco tégano(n) collaterale di tàghenon; rammento che in questo caso si fa eccezione alla regola che vuole che in napoletano si consideri femminile un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo - tammorra piú grande, tino piú piccolo - tina piú grande, carretto piú piccolo – carretta piú grande, cucchiaro piú piccolo - cucchiara piú grande etc.; fanno eccezione appunto tiano piú grande - tiana piú piccola, caccavo piú grande - caccavella piú piccola. )ed il maschile tiano indica una pentola piú grande della femminile tiana; nella tiana si potevano preparare contenuti cibi lessi o da brasare, ma per preparare tronfie minestre vegetali fino alla ridondante menesta mmaretata(= minestra dal latino:minestra(m) maritata(denominale da un latino in + maritus)in quanto minestra vegetale unita, sposata, maritata con varî tipi di carni lesse) era giocoforza ricorrere al piú vasto e capace tiano maschile; Ed eccoci a dire di un desueto e quanto! mestiere: l’ultimo che lo esercitò fu un artiere del Borgo sant’Antonio Abate che dismise l’attività all’indomani della fine delle ostilità (1945). Sto parlando de ll’arganattore s.vo m.le che indicava un tintore di panni che usava una sostanza colorante: l’alcanna volgarmente détta détta arganetta (adattamento dell’ant. fr. arquanet diminutivo di arcanne= alcanna); da arganetta si trasse il nome del mestiere; l’alcanna (dal lat. mediev. alchanna(m), che è dall'ar. alhinna, cfr. henna) è un arbusto perenne con fiori profumati e foglie ovate (fam. Borraginacee), da cui si ricava una sostanza usata in tintoria e nella confezione di cosmetici e medicinali. E termino accennando al mestiere che non è piú errabondo dell’arrotino di forbici, di coltelli per usi domestici,ed artigianali (macellai, sellai etc.), di rasoi da barbiere, mestiere che perdura in qualche sparuta bottega: nella città bassa non v’è che una sola caotica botteguccia confinata in un angolo di piazza san Francesco. Sto dicendo de l'ammolafrobbice s.vo m.le = arrotino girovago che sospingeva, in giro per i rioni della città soprattutto bassa, un suo caratteristico carrettino sormontato dalla mola azionata da un pedale a tavoletta, corredata d’un supporto ligneo a cui era attaccato un barattolo di latta donde a goccia a goccia stillava dell’acqua per inumidir la mola e favorire l’affilatura delle lame; sul finire degli anni ’50 del 1900 l’arrotino che serviva i clienti di Foria dismise il suo carrettino sostituendolo con una bicicletta con manubrio da passeggio al quale era anteposta la mola con il suo ambaradan di piano d’appoggio e barattolo dell’acqua; una volta che avesse raggiunto un luogo consono a richiamar clienti e avesse dato stabilità alla bicicletta azionando il cavalletto,l’arrotino azionava la mola con sciolte pedalate. Poi invecchiò e smise di lavorare e noi di Foria dovemmo obtorto collo reperire l’arrotino all’angolo di piazza san Francesco. ammolafrobbice s.vo m.le = arrotino La voce è etimologicamente il risultato dell’agglutinazione della voce verbale ammola (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito ammulà = arrotare, molare, affilare ( dal lat. *ad-molare, derivato del lat. mola(m), dalla stessa radice di molere 'macinare'= mola, utensile rotante costituito da un disco di materiale abrasivo, usato in diverse macchine utensili (molatrici, affilatrici, levigatrici, rettificatrici ecc.); normale il passaggio della o atona ad u ) con il s.vo f.le pl. frobbice = forbici; la voce napoletana è una lettura metatetica del lat. volg. *forbice(m)→ *frobice(m)→ *frobbice(m) per il class. forfice(m), nom. forfex con il tipico raddoppiamento espressivo della occlusiva bilabiale sonora (b) E cosí penso proprio d’avere contentato l’amico P.G. ed interessato anche qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e di poter concludere con il consueto satis est. R.Bracale

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