venerdì 14 giugno 2013

VERÓLA & VERULÀRO

VERÓLA & VERULÀRO Questa volta intendo soffermarmi sui due sostantivi in epigrafe ( di cui il secondo è un evidente derivato del primo) nel tentativo, m’auguro non vano, di fornire un’ipotesi etimologica piú o meno convincente del primo e conseguenzialmente del secondo sostantivo atteso che all’attualità, circa l’etimo della voce veróla ,tra gli addetti ai lavori non ci sono idendità di vedute, né ch’io speri di poterle suscitare mettendo d’accordo piú teste: in primis perché non sono uno studioso patentato, né un addetto ai lavori, ma solo un appassionato cultore di linguistica, e poi perché uno dei paludati addetti che forní una prima ipotesi etimologica non è piú di questo mondo (F.sco D’Ascoli) e servirebbe a poco convincere il suo epigono Antonio Altamura o qualche altro che al D’Ascoli si rifà; d’altro canto l’altra corrente di pensiero etimologico (Carlo Iandolo) è un parto troppo recente perché mi possa permetter di convincere il suo fautore a darle immatura sepoltura! Tanto premesso entriamo in medias res e diciamo che veróla è un s.vo f.le sg. = caldarrosta, bruciata, castagna arrostita; è voce diffusa, specialmente al plurale veróle (cfr. sagra delle veróle(castagne arrostite) e delle valleni (castagne bollite)) sia nella Campania che nel Lazio che nelle Marche; verúlaro è un s.vo m.le sg. = padellone bucherellato per arrostirvi le castagne;ma è voce quasi esclusivamente campana. E veniamo alla questione che ci occupa: quella etimologica: Secondo F.sco D’Ascoli ed i suoi epigoni alla base del sostantivo veróla ci sarebbe il sostantivo latino viria con il diminutivo viriŏla→veróla; l’opinione del D’Ascoli è assai poco convincente zoppicante com’è dal punto di vista fonetico ed ancór piú da quello semantico: in realtà, a parte che normalmente una breve (ŏ) dittonga (iò) o al meno apre (ò) e non chiude (ó), la voce latina viriŏla indicò in quella lingua un braccialetto e fu voce poi attestata nell’italiano come viròla indicando nell’ordine: 1. elemento «maschio» di una giunzione, di un collegamento meccanico, costituito da un corpo filettato: se ne ànno esempî nell’innesto a vite delle lampade elettriche, nel bocchettone di scarico idraulico (nel quale, costruita in rame, collega le diramazioni di scarico di piombo con le colonne di scarico di ghisa), ecc. 2. negli orologi meccanici a bilanciere, è l’anello tagliato che collega l’estremità interna della molla a spirale all’asse del bilanciere. 3. ciascuno dei pezzi cilindrici di un serbatoio che, saldati insieme, costituiscono la parete laterale del serbatoio stesso. Mi chiedo: Quale salto mortale semantico ci chede di fare il D’Ascoli per ricondurre uno dei elementi summenzionati ad una caldarrosta,cosa ànno da spartire braccialetti, innesti a vite, bilancieri o pezzi di saldature con le gustose caldarroste? No, no, in questa occasione il defunto prof. D’Ascoli o uno dei suoi negri cui affidò la voce prese, a mio avviso, un fantasioso abbaglio! D’altro canto neppure mi convice l’idea etimologica dell’amico prof. Carlo Iandolo che scrive testualmente: A proposito di questo lemma dalla forma iniziale “beròla” attestata dal vocabolario ottocentesco del solo D’Ambra e dal significato indicante “castagna”, la spiegazione etimologica del D’Ascoli col richiamo al latino “veru = spiedo” (??) è senz’altro non convincente sia per motivi fonetici che semantici, per cui è forse meno azzardata la nostra congettura, che fa appello al latino “badius” corrispondente al sabino “basus”, entrambi col significato di “castagna marrone”. Se supponiamo una forma diminutiva femminilizzata *badíola (sott. “castanea”), poi divenuta *badiòla nel latino popolare sulla scia di “filia → filíola → filiòla”, ma con iniziale vocale tonica chiusa com’è nei dittonghi ascendenti del latino indigeno campano *badióla; se congetturiamo non solo il normale passaggio “b → v” come attestano “bíbere → vèvere, barca →varca, butte(m) → vótta, basiu(m)→vaso” ecc., ma anche l’alternanza quasi solita “d /r” come comprovano “Madonna/ Maronna, il brodo → ’o bbroro, i pièdi →’e piére, (lat. “gradus” >) ’e ggrare = le scale ecc., a questo punto già si delinea la prima forma d’avvio *varióla, poi con cambio dell’accento fonico, divenuto aperto: *variòla. All’amico prof. Carlo contesto innanzitutto l’inesatta lettura dell’ipotesi del D’Ascoli (ipotesi che però in ogni caso anch’io ò bocciato) e gli contesto altresí il significato di castagna marrone attribuito al lemma badius che nel Badellino e Calonghi e nel dizionario latino on line è riportato non come castagna marrone, ma come baio ( uno dei mantelli del cavallo): cosa ànno da spartire i cavalli con le castagne (inutilmente indicate marrone atteso che non mi pare vi siano castagne di colore diverso dal marrone)?, a meno che il buon prof. Iandolo scrivendo castagna marrone non abbia zompato una virgola scrivendo castagna marrone e non castagna, marrone. Infine all’amico prof. Carlo contesto l’affermazione che in napoletano l’accento fonico sia aperto e si abbia veròla/ veròle; ciò è inesatto; i napoletani di Napoli e non dell’entroterra o della provincia son usi a pronunciare veróla/ veróle e non veròla/ veròle Del resto se il lemma di partenza fosse veròla con la ò aperta la voce derivata sarebbe verolàro e non verulàro come invece è e dove è leggibile l’ulteriore chiusura in u di un ó di partenza!(verularo ← veróla +il suffisso di pertinenza aro←arius). Esaurita cosí la parte destruens, veniamo a quella costruens; premesso che non è cosa semplicissima formulare una accettabile e comprovabile ipotesi etimologica della voce veróla, ò in animo di proporne due: A)nel primo caso ipotizzo una partenza dal lat. vídua che già diede il napoletano vérola = vedova; si potrebbe pensare ad un adattamento di vérola in veróla con cambio d’accento per distinguere la vérola= vedova dalla veróla =castagna arrostita, semanticamente vedova del suo consueto abito (riccio). B) nel secondo caso ipotizzo che la voce veróla sia sia ricavata partendo dalla voce Berolasim riportata nel Du Cange pag. 600 apud Car. du Fresne in Epistola Iohannis VIII. cuius hic titulus; Omnibus Episcopis Caietam, Neapolim, Capuam, Berolasim, et Amalfim, Beneventum et Salernum incolentibus: locus est in veter Capua ad S. Stephanum, vulgari nuncupatione hodieque dictus li Vorlasci, Anonymo Casinensi Berealis, Heremperto Berelasis, Latine loquentibus Amphitheatrum. Neque mirum, si Episcopus in veter. Capua constitutus Suricorum vel Berelasis nuncupabatur, cum illis in vicis insigniores Ecclesiae essent. Vide eundem Iohannem Ep. 265. et Ughellum in Episcopis Capuanis. Si può ragionevolmente ipotizzare cioè che in quella località del capuano Berolasim si coltivassero e raccogliessero delle castagne identificate con una adattamento del nome del paese: Berolasim→ Berola(sim) →Veróla con consuenta alternanza partenopea di b→v“ cfr. bibere→vevere, basium→bas(i)u(m)→vaso, botte→votte, barca→varca etc. E qui faccio punto augurandomi che chi dovesse correggere il mio scritto non usasse troppi freghi blu! P.S. Ò sottoposto lo scritto al prof. Iandolo che cosí testualmente mi à strapazzato: Carissimo don Raffaele, contesto tutto ciò che ha scritto, perché io ho cercato di dare una spiegazione fono-morfologica etica (i cui passaggi sono inappuntabili: scusi la vanità!) e semantica su base razionale, laddove quel che Lei proprone è completamente vacillante e campato in aria da una visuale linguistica. Non può assolutamente immaginarsi "vidua" che, dopo avér dato "vérola =vedova", avrebbe comportato l'estensione dell'abito scuro del lutto al colore similare delle castagne (!!), per giunta con fantasioso cambio d'accento per distinguere il lemma da quello collaterale ben diverso (veròle): far nascere cosí parole di diversa semantica e famiglia linguistica rientra nel regno d'una fantasia incontrollata e incontrollabile. E' egualmente assurdo che dal paese chiamato anticamente "Berosalim" sia venuto quello delle "verole" perché lí (solo lí, poi?) si producevano castagne, anche perché la conseguenza fono-morfologica probabilmente sarebbe stata *verosale (a meno che non s'immagina la caduta di "-sa-", che non sappiamo se tonica o atona, con un'indubbia fantascienza propriziatrice della propria tesi: ma cosí si può arrivare sulla Luna! 2) Ancóra: Lei si è fermato al Calonghi-Georges (semplice vocabolario scolastico), ma se avesse letto la "Lingua latina" del grande linguista inglese L. R. Palmer, nella traduzione italiana della Piccola Biblioteca Einaudi 1977, a piè di pag. 48 c'è la seguente affermazione documentaria, a sostegno del fatto che "il dialetto sabino fin dai tempi assai antichi era talmente influenzato dal latino che la sua stessa classificazione nel gruppo osco-umbro è dubitativa. Ma a rendere probabilmente corretta tale classificazione sono i nomi sabini come Pompilius (che mostra l'osco-umbro p- per la latina qu-) e Clausus (per Claudius, con l'assibilazione non latina della -di-, esemplificata anche nella parola basus = badius : castagna marrone" (senza virgole distintive: annotazione mia di rimando) 3) E' vero che il D'Ascoli proponeva un avvio da "viria - viríola", ma alla fine connetteva la voce con "veru = spiedo" 4) infine la mia supposizione *veróle (con accento fonico chiuso) parte dall'ovvia deduzione fonetica che i dittonghi ascendenti in napoletano hanno appunto suono eccezionalmente chiuso, e la diversa fonicità può non esser stata avvertita a suo tempo dal D'Ambra; ma, come poi Le è sfuggito, ho anche ipotizzato che –se il tipo d'accento fonico aperto di "veròla" documentato dal D'Ambra fosse esatto– può ipotizzarsi un livellamento del nesso "-rio"- sul tipo di "filíola > (lat. volg.) figliòla", che ha propiziato tale sviluppo fonico italiano. 5) Ciascuno difende –a suo modo, ma con lo stesso calore del Suo– le proprie criature, ma sul presupposto della razionalità e della scientificità innanzitutto fono-morfologica, poi semantica. Avevo promesso al caro professore di lacerare il mio scritto, ma me ne è mancato il coraggio e proprio pe nun passà completamente pe ffesso debbo ulteriormente precisare: 1) io non ò mai ipotizzato (come invece il prof. Iandolo m’accusa d’aver fatto) un'estensione dell'abito scuro del lutto al colore similare delle castagne (!!),ma ò solo ipoteticamente messo fantasiosamente in relazione lo stato vedovile di chi è privata del marito, con un ipotetico stato vedovile della castagna che per esser arrostita deve esser privata del riccio, che normalmente l’accompagna! Tuttavia accetto di buon grado la critica che sia fantasioso il cambio d'accento per distinguere il lemma (vérola) da quello collaterale ben diverso (veròla); sí far nascere cosí parole di diversa semantica e famiglia linguistica rientra nel regno d'una fantasia incontrollata e incontrollabile e di ciò mi pento! 2) se è vero ch’io non ò consultato la "Lingua latina" del grande linguista inglese L. R. Palmer, è parimenti vero che al nostro fine m’appaia inconferente il fatto che "il dialetto sabino fin dai tempi assai antichi sia stato talmente influenzato dal latino che la sua stessa classificazione nel gruppo osco-umbro è dubitativa; come ancóra, m’appare appena conferente col nostro fine il fatto che una classificazione dei nomi sabini come Pompilius (che mostra l'osco-umbro p- per la latina qu-) e Clausus (per Claudius, con l'assibilazione non latina della -di-, esemplificata anche nella parola basus = badius : castagna marrone"; insomma che basus sia lo stesso che badius può esser probabile, ma non certo, come è invece certa la inutilità d’aggiungere marrone (ribadito aggettivo dal prof. Iandolo) alla voce castagna (che mai è attestata di colore diverso dal marrone!), né d’altro canto il carissimo prof. Iandolo m’indica una fonte certa dove riscontrare che la sua basus (= badius) sia attestata come castagna marrone e non come mantello baio. 3) l’altro punto dove invece mi sento di concordare completamente è che sia molto improbabile che dal nome del paese chiamato anticamente "Berosalim" sia venuto il nome delle "veróle" perché la conseguenza fono-morfologica probabilmente sarebbe stata *verosale ( poi che si potrebbe solo immaginare, ma non comprovare la caduta di "-sa-", che non sappiamo se tonica o atona). A questo punto perciò temo che allo stato dei fatti, messe da parte tutte e sottolineo tutte le ipotesi fin qui esaminate bisognerà ancóra lavorare sulla voce veróla/verularo e chi sa se mai se ne verrà a capo d’una accettabile etimologia! Ed a tale scopo, prima di mettere il punto ò un’ultimissima idea etimologica da proporre, idea che chiama in causa il francese brûler (bruciare, rostire) di cui veróla potrebbe essere un deverbale secondo il seguente percorso morfologico in cui leggere l’alternanza partenopea b/v, ed una epentesi vocalica della prima e: brûler→ vrûler→veruler→verola. Satis est. E spero che il prof. Iandolo non m’accusi d’aver lavorato troppo di fantasia. P.S. 2 Ò inoltrato questo scritto al prof. Iandolo che, nel rispondere, cosí à inteso metter fine alla questione scrivendomi testualmente: Carissimo don Raffaele, chiudiamo qui la questione (di modo che ciascuno rimane fermamente convinto della sua ipotesi), evitando d'evidenziare un'altra carrellata di abbagli miei e suoi, in rilievo reciproco nell'ultimo scritto. Accolgo l’invito e non replico oltre restandomene però fermamente convinto nella mia ultima idea, confortato in ciò da una lunga lettera che m’à inviato – accogliendo la mia ultima tesi – l’altro amico il notissimo napoletanista avv.to Renato de Falco! Raffaele Bracale

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