mercoledì 30 aprile 2014
ARROSTO DI ANNECCHIA* AL FORNO CON SALSA D’AGRUMI
ARROSTO DI ANNECCHIA* AL FORNO CON SALSA D’AGRUMI
Per la preparazione di questa succulenta ricetta, se si vuole ottener il miglior risultato occorre fornirsi in macelleria di un pezzo abbastanza grosso di carne non di manzo, ma rigorosamente di vitello/a anzi di *annecchia che con derivazione dal lat. annicula→anniclja→annecchia indica il vitello o la vitella molto giovane quella bestia cioè che sia stata macellata quando non abbia superato l’anno d’età ed abbia gustose carni sode, morbide e non grasse (occorrerà infatti avvolgerle con del lardo).
Ingredienti per 6 persone:
Un pezzo da 1,5 kg. a 2 kg. di pezza a cannella(altrove noce) di vitello/a giovanissimi,
1 grossa cipolla dorata mondata e tritata,
4 arance,
2 limoni,
50 gr di zucchero,
½ bicchiere d'aceto di vino rosso,
1 bicchiere dl di vino rosso,
1 cucchiaio colmo di fecola di mais o di patate,
2 cucchiai di sugna,
2 etti di lardo di fianco affettati sottilmente,
sale fino e pepe nero q.s.
procedimento
Salate e pepate la carne ed avvolgetela con le fettine di lardo. Mettetela in una pirofila verniciata di strutto con la cipolla mondata e tritata e cuocetela nel forno preriscaldato a 220° per 1 ora. Se dovesse scurire troppo, abbassate a 190°. Durante la cottura, irroratela spesso con dell’acqua bollente.
Prelevate la scorzetta di due arance con l'aiuto di un pelapatate in modo da non intaccare la parte bianca. Dividete le scorzette in striscioline sottilissime e scottatele per 1 minuto in acqua bollente, quindi scolatele. Pelate a vivo due arance e tagliatele a fette. Spremete i limoni e le altre due arance. Raccogliete i succhi e l'aceto in una ciotola e unitevi le scorzette.
Togliete la carne dalla pirofila e tenetela da parte al caldo. Versate il sugo in un pentolino e portatelo a ebollizione. Sfumate con il vino e abbassate la fiamma al minimo.
Mettete lo zucchero in un altro pentolino con 2 gocce di succo di limone e fate caramellare a fuoco medio. Quando il colore sarà ambrato, versate i succhi e l'aceto e fate ridurre di metà. Riunite i due liquidi in una pentola e unitevi le fette di arancia. Lasciate bollire per 1 minuto, quindi unite la fecola diluita con un cucchiaio di acqua e mescolate per 1 minuto ancora.
Disponete la carne su un piatto di portata caldo e distribuite intorno un po'di scorzette e di fettine d'arancia.
Servite la salsa caldissima a parte.
Questo gustoso arrosto può essere accompagnato oltre che con la sua salsina aromatica, con un contorno di patate fritte o in umido o con verdure bollite o cotte al vapore e condite all’agro con olio,aglio, sale e limone o aceto bianco.
P.S. Con lo stesso procedimento si può cucinare un grosso pezzo di arista di maiale evitandola di avvolgerla nel lardo in quanto già grassa e morbida di suo, con l’accortezza però di servirla caldissima.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute!Scialàteve e dicíteme: Grazzie!
raffaele bracale
Agnellone alla molisana
Agnellone alla molisana
gustosissimo modo di approntare lo spezzato di agnello per un secondo salutare che non necessita di ulteriori contorni, essendo cotto assieme a delle patate.
ingredienti e dosi per 6 persone
1,500 kg di di groppa d’agnellone in pezzi di cm. 5x3x 2,
1 kg. di patate vecchie a pasta gialla,
2 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
2 pomidoro tondi ramati lavati asciugati e divisi in 4 spicchi,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.,
1 cucchiaio d’origano,
2 prese di sale fino alle erbette,
pepe bianco q.s.
procedimento
Sbucciare le patate e tagliarle a mezzaluna; sistemarle sul fondo d’un capace tegame da forno provvisto di coperchio;aggiungere un poco del trito d’aglio, alcuni spicchi di pomidoro, sale, pepe ed origano; adagiare sullo strato di patate i pezzi d’agnellone ed aggiungere altro aglio, pomidoro, sale, pepe ed origano; ripetere le operazioni fino ad esaurire patate ed agnellone; irrorare il tutto con il bicchiere d’olio, versare tanta acqua fredda fino a coprire lo strato superiore che deve essere d’agnellone; incoperchiare; preriscaldare al massimo (250°) il forno, infornare, abbassare a 200° e tenere in forno circa 90 minuti;impiattare súbito e servire caldo di forno.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
Agnello con le patate al forno
Agnello con le patate al forno
ingredienti e dosi per 6 persone
2 kg di spezzato di groppa di agnello con l'osso,
2 kg di patate vecchie a pasta bianca,
1 bicchiere e mezzo di olio d'oliva e.v.,
2 spicchi d'aglio mondati e tritati,
mezza cipolla dorata mondata e tritata, ,
3 cucchiai di pangrattato,
20 pomidoro d’’o piennulo,
un rametto di rosmarino fresco,
1 bicchiere di vino bianco secco,
sale fino e pepe nero q.s..
procedimento
In una grande teglia di alluminio, che possa andar bene sia sulla fiamma di fornello che nel forno, si metta il bicchiere d'olio d'oliva e.v. , quindi si mettano i pezzi d'agnello ben lavati sotto acqua corrente ed asciugati. Si uniscano gli spicchi d'aglio mondati e tritati e gli aghi di rosmarino, distribuendoli su tutta la superficie della carne. Si ponga la teglia sulla fiamma alta di fornello e si faccia rosolare l'agnello nell'olio,dopo 10 minuti di cottura si unisca la cipolla mondata e tritata, quindi si pelino le patate e, dopo averle tagliate a spicchi grossi, si mescolino all'agnello, si condiscano ad libitum con il sale e il pepe, si mescolino ancora utilizzando una grossa spatola,ed infine si metta la teglia in forno già caldo a 220° e si faccia completare la cottura di agnello e patate, spruzzando dapprima col vino bianco e poi, se necessario, anche con un mestolino di acqua calda.
5 minuti prima di togliere l'agnello dal forno, si cosparga di pangrattato e si faccia rosolare sotto il grill.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale
AGNELLO AL PECORINO
AGNELLO AL PECORINO
Ingredienti (per 6 persone):
2 kg di spezzatino di groppa d'agnello,(pezzi di cm. 5x5x3)
1 bicchiere di aceto,
il succo di due limoni non trattati,
2 spicchi d'aglio in camicia schiacciati,
500 gr. di pomidoro da sugo ben maturi,
3 peperoni quadrilobati (due gialli ed uno rosso) ,
100 gr. di olive nere di Itri/Gaeta denocciolate, 1 cucchiaio di capperini di Pantelleria dissalati e sciacquati,
1 rametto di rosmarino, 3 foglie di alloro fresco,
200 gr. di formaggio pecorino laticauda in cubetti di un cm. di spigolo,
1 bicchiere d’olio d'oliva e.v.p.s. a f.,
sale fino e pepe nero q.s.
Preparazione: In una terrina mettete la carne d'agnello
tagliata a spezzatino, bagnatela dapprima con l'aceto e poi con il succo di limone, salate e pepate ad libitum.
Unite qualche foglia di alloro e lasciate marinare per un paio d'ore. Togliete dalla marinata la carne e in una casseruola rosolatela con l'olio, aggiungete gli spicchi d'aglio e i peperoni tagliati in falde della grandezza d’un pollice. Mescolate qualche minuto e poi unite la polpa dei pomidoro scottati, spellati e tagliati in cubetti; aggiungete il rametto di rosmarino e cuocete, a pentola coperta, per circa un'ora a fuoco moderato e mescolando di tanto in tanto; salate ancóra se occorre e se il sugo si restringesse troppo diluitelo con una tazza da tè di acqua calda.
Unite le olive snocciolate, i capperi dissalati ed il formaggio pecorino tagliato a cubettini.Mescolate e mantenete su fuoco vivo ancóra per 5 minuti. Servite súbito caldo di fornello questo gustosissimo agnello.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
E facíteve ‘a scarpetta!
raffaele bracale
LA QUESTIONE DELLA H ETIMOLOGICA NEL VERBO AVERE & DINTORNI.
LA QUESTIONE DELLA H ETIMOLOGICA NEL VERBO AVERE & DINTORNI.
Prima questione.
Il problema del mantenimento della H etimologica nella coniugazione del verbo avere (dal lat. habere) affonda le sue radici lontano nel tempo: nell’italiano antico la sua presenza era di gran lunga maggiore rispetto all’uso moderno, in cui è limitato alle forme verbali hanno, ha, ho, hai (come sostanzialmente sancisce in modo definitivo il Vocabolario degli Accademici della Crusca, a partire dalla terza edizione, del 1691). In queste quattro forme la h è stata mantenuta per una questione diacritica, perché consentiva di distinguer le voci verbali da altre omofone (cioè “che ànno lo stesso suono, la stessa pronuncia”) anno (sostantivo), a (preposizione), o (congiunzione) e ai (preposizione articolata); ma, visto che una discriminazione di questo tipo costituisce un’eccezione nel sistema grafico italiano, alcuni ànno proposto l’eliminazione della h,che in fondo all’attualità, a malgrado della sua presenza etimologica, non è che una consonante diacritica,e non v’à ragione di mantenerla se non in presenza di voci omofone da distinguere(ed in effetti in parecchie parole derivate da voci latine principianti per h (cfr. homo→uomo, honestas→onestà etc.) nel passaggio all’italiano l’aspirata iniziale è o sparita del tutto (cfr. onestà ) o al massimo à procurato dittongazione della sillaba iniziale (cfr. homo→uomo, heri→ieri); dicevo che alcuni ànno proposto l’eliminazione della h, suggerendo di affrontare il problema della trasparenza delle forme con un’indicazione diacritica (cioè indicativa) diversa, meno invasiva quale quella dell’accento.La questione, dicevo viene di lontano e già sul finire del 1700 si propose da qualcuno l’adozione delle voci accentate ò,ài,à,ànno in luogo di ho,hai,ha,hanno ma bisognò attendere il1911 quando il Congresso della “Società Ortografica Italiana” avanzò la proposta di indicare questa differenza con l’ausilio dell’accento sulle quattro voci verbali. La questione si è trascinata a lungo nel periodo tra le due guerre (un grande sostenitore di questa tesi è stato Ferdinando Martini, docente di Letteratura Italiana presso la Scuola Normale Superiore di Pisa), ed à avuto un suo epilogo anche nel secondo dopoguerra: nel Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi (recentemente pubblicato anche in versione elettronica su CD-ROM) l’editore sceglie questa soluzione per indicare le quattro voci verbali, con un risparmio, come afferma in un suo scritto, di un centinaio di pagine. Pure nell’usatissimo e completissimo Grande Dizionario della Lingua Italiana Garzanti le forme accentate vengono segnalate come esatte anche se rare e mi meraviglio molto che il Treccani non dia le medesime indicazioni! Va però confermato che attualmente le forme con la h sono senz’altro le piú diffuse ed indicate come corrette dai grammatici e dai linguisti sessantottini(?) iconoclasti di tutto quel che à sapore di passato;ad esempio: nella Grammatica di Luca Serianni(cattedratico a LA SAPIENZA di Roma) si trova una breve sintesi sulla questione e si precisa che “ le forme à, ài, ànno ed ò oggi appaiono grafie non certo erronee, ma di uso raro e di tono popolare; tuttavia non sono poche le persone che le usano, soprattutto se la loro formazione scolastica è stata compiuta nella prima metà del secolo scorso”; Ora io dico che lo spocchioso Serianni deve mettersi d’accordo con se stesso; prima infatti afferma che le forme à, ài, ànno ed ò son di uso raro, poi confessa che non sono poche le persone che le usano. Ubi veritas? Una cosa è certa: nella pluriennale questione è emerso che si insegnava la praticabilità delle forme à, ài, ànno ed ò anche in alcune scuole elementari degli anni Cinquanta e Sessanta; sono i cattedratici giovani che storcono il naso e respingono l’uso delle forme à, ài, ànno ed ò pur senza indicare convincenti, adeguati motivi del loro dissentire.
Seconda questione.
Col verbo avere si è sempre piú diffusa nell'italiano parlato di ogni regione l'inclusione dell'elemento ci, dando quasi luogo a un paradigma diverso: non ho, hai, ha, ma ciò, ciai, cià. Quando però forme del genere, tipiche dell'oralità, devono ricevere rappresentazione scritta sorgono problemi. Naturalmente non è possibile adottare scrizioni come *c'ho..., *c’ha…,*c’hai… *c’hanno atteso che è noto, o dovrebbe esser noto (almeno a chi abbia fatto delle buone scuole elementari e medie…) che la vocale i si può elidere solo davanti ad altra i oppure può essere elisa la i di ci davanti alla e, elisione che comunque continua a mantenere il suono palatale della consonante (c) d’accompagnamento e non genera un suono gutturale come invece avviene per l’ impossibile elisione della i di ci davanti a, o,u (cfr. ci è →c’è che si legge ce (di cesto), mentre non si può elidere la i di ci abbiamo perché c’abbiamo si legge o leggerebbe cabbiamo, e non si può elidere la i di ci ostacolano perché c’ostacolano si legge o leggerebbe costacolano, né si può elidere, sempre per esempio la i di ci usano perché c’usano si legge o leggerebbe cusano. Va da sé che il problema non si pone per la i di altri digrammi (ti – di – si) per i quale l’elisione della i è sempre consentita davanti a tutte le vocali, atteso che non si generano mutamenti di suoni consonantici.
Tornando al problerma della scrizione,si potrebbe optare per la grafia ci ho, ci hai ci ha, ci hanno - che è quella a cui ricorse un grande scrittore sensibile alla rappresentazione del parlato, il Verga; però molti arroganti linguisti non ritengono soddisfacente la soluzione del Verga,ma non ne spiegano il motivo, né se ne capisce il perché; io dico che usando le antiche, raccomandate forme à, ài, ànno ed ò si risolverebbe la questione ottenendo ci ò, ci ài, ci à, ci ànno di tranquilla, corretta lettura ci-ò, ci-ài, ci-à, ci-ànno e corretta scrizione.
Un’ultima notazione.
Le forme à, ài, ànno ed ò usate in luogo di ho, hai, ha,hanno trovano il dissenso non solo dei linguisti imberbi e sessantottini, ma pure dei redattori dei giornali, redattori che son usi a correggere in ho, hai, ha,hanno le forme à, ài, ànno ed ò usate da qualche lettore che scrive ai giornali, motivando tali indebite correzioni con l’affermare che i giornali vanno nelle mani d’un pubblico eterogeneo: persone istruite (che forse sanno della possibilità della doppia grafia dell’indicativo presente del verbo avere) e persone ignoranti (che resterebbero interdetti davanti alle voci verbali accentate del tipo ànno usate in luogo delle piú comuni come hanno. E poiché oggi sono i media che dirigono la musica e le redazioni dei giornali brulicano di iconoclasti ragazzini settantottini, figli del marxismo dilagante ragazzini che ànno preso la mano anche ai redattori nati negli anni quaranta e cinquanta, non resta che accettare le correzioni del redattore di turno e tenerse ‘a posta sia pure obtorto collo! Ma quando non si scrive ai giornali forse ci si potrà riprender la libertà di scrivere ò, à, ài, ànno in luogo di ho, hai, ha,hanno impipandosene dei redattori dei giornali e dei linguisti sessantottini e tenendo fede agli insegnamenti delle maestre come la mia (classe 1911, che Iddio l’abbia in gloria)che mi insegnò che le forme con l’accento ò, à, ài, ànno in luogo di ho, hai, ha,hanno, non solo sono corrette, ma anche piú eleganti!
Raffaele Bracale
VARIE 3024
1.Fà acqua 'a pippa.
Letteralmente:La pipa versa acqua. Id est: la miseria è grande. la locuzione è usata a commento del grave stadio di indigenza di qualcuno.. La pipa in questione non è l'attrezzo per fumare,ma neppure la botticella spagnola oblunga chiamata pipa nella quale si usa conservare vino o liquore,(botticella che qualora invece versasse acqua ivi contenuta indicherebbe che il proprietario è in uno stato di cosí grave miseria da non poter conservare né vino, né liquore, ma solo acqua...), bensì il membro maschile che quando non versasse più sperma, ma solo urina indicherebbe la sopravvenuta incapacità e dunque miseria dell'uomo.
2.Sant'Antuono, sant' Antuono teccote 'o viecchio e damme 'o nuovo e dammillo forte forte, comme 'a varra 'e areto a' porta...
Sant' Antonio, sant' Antonio eccoti il vecchio e dammi il nuovo, e dammelo forte, forte come la stanga di dietro la porta. La filastrocca veniva recitata dai bambini alla caduta di un dente, anche se non si capisce perché si invochi sant' Antonio, che poi non è il santo da Padova, ma è il santo anacoreta egizio.
3.Facesse 'na culata e ascesse 'o sole!
Letteralmente: Facessi un bucato e spuntasse il sole!Id est: avessi un po' di fortuna...La frase viene profferita con amarezza da chi veda il proprio agire vanificato o per concomitanti contrari avvenimenti o per una imprecisata sfortuna che ponga il bastone tra le ruote, come avverrebbe nel caso ci si sia dedicati a fare il bucato e al momento di sciorinarlo ci si trovi a doversi adattare ad una giornata umida e senza sole ,cosa che impedisce l'ascigatura dei panni lavati. 'a culata è appunto il bucato ed è detto colata per indicare il momento della colatura ossia del versamento sui panni, sistemanti in un grosso capace contenitore,dell'acqua bollente fatta colare sui panni attraverso un telo sul quale , temporibus illis, era sistemata la cenere ricca di per sé di soda(in sostituzione di chimici detergenti), e pezzi di arbusti profumati(per conferire al bucato un buon odore di pulito)...
4.Carta vène e giucatore s'avanta...
La sorte lo soccorre fornendoglii carte buone che gli permettono di vincere, ed il giocatore se ne vanta, come se il merito della vittoria fosse da attribuire alla sua abilità e non alla fortuna di aver avuto un buon corredo di carte vincenti. La locuzione è usata per commentare l'eccessiva autoesaltazione di taluni che voglion far credere di essere esperti e capaci, laddove son solo fortunati!
5.'A femmena è 'nu vrasiere, ca s'ausa sulo a' sera.
La donna è un braciere che si usa solo di sera. Locuzione violentemente antifemminista che riduce la donna ad un dispensatore di calore da usare però parsimoniosamente solo a sera, nel letto
6.Ammore, tosse e rogna nun se ponno annasconnere.
Amore, tosse e scabbia non si posson celare:ànno manifestazioni troppo palesi.
7.Parono 'o serveziale e 'o pignatiello.
Sembrano il clistere e il pentolino. La locuzione viene usata per indicare due persone che difficilmente si separano, come accadeva un tempo quando i barbieri che erano un po' anche cerusici,chiamati per praticare un clistere si presentavano recando in mano l'ampolla di vetro atta alla bisogna ed un pentolino per riscaldarvi l'acqua occorrente...
8.Quanno chiovono passe e ficusecche.
Letteralmente: quando piovono uva passita e fichi secchi - Id est: mai. La locuzione viene usata quando si voglia sottolineare l'impossibilità di un accadimento che si pensa possa avverarsi solo quando dal cielo piovano leccornie, cosa che avvenne una sola volta quando il popolo ebraico ricevette il dono celeste della manna...
9.Chi ato nun tène, se cocca cu 'a mugliera...
Chi non à altre occasioni, si accontenta di sua moglie, id est:far di necessità virtú.
10.Nun sputà 'ncielo ca 'nfaccia te torna!
Non sputare verso il cielo, perché ti ricadrebbe in volto! Id est: le azioni malevole fatte contro la divinità, ti si ritorcono contro.
11.Chijarsela a libbretta.
Letteralmente:piegarsela a libretto. E' il modo piú comodo dper consumare una pizza, quando non si può farlo comodamente seduti al tavolo e si è costretti a farlo in piedi. Si procede alla piegatura in quattro parti della pietanza circolare che assume quasi la forma di un piccolo libro e si può mangiarla riducendo al minimo il pericolo di imbrattarsi di condimento. Id est: obtorto collo, per necessità far buon viso a cattivo gioco.
12.Vennere 'a scafarea pe sicchietiello.
Letteralmente:Vendere una grossa insalatiera presentandola come un secchiello.Figuratamente,la locuzione la si adopera nei confronti di chi decanta la nettezza dei costumi di una donna, notoriamente invece è stata conosciuta biblicamente da parecchi.
13.S'è arreccuto Cristo cu 'nu paternostro.
Illudersi di cavarsela con poca fatica e piccolo impegno, come chi volesse ingraziarsi Iddio e trarlo dalla propria parte con la semplice recita di un solo pater.
14.'E sàbbato, 'e súbbeto e senza prevete!
Di sabato, di colpo e senza prete! E' il malevolo augurio che si lancia all'indirizzo di qualcuno cui si augura di morire in un giorno prefestivo, cosa che impedisce la sepoltura il giorno successivo, di morire di colpo senza poter porvi riparo e di non poter godere nemmeno del conforto religioso
15.A ppesielle ne parlammo.
Letteralmente: Parliamone al tempo dei piselli -(quando cioè avremo incassato i proventi della raccolta e potremo permetterci nuove spese...) Id est: Rimandiamo tutto a tempi migliori.
16.Jí cercanno ova 'e lupo e piettene 'e quinnice.
Letteralmente:Andare alla ricerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti). Id est: andare alla ricerca di cose introvabili o impossibili; nulla quaestio per le uova di lupo che è un mammifero per ciò che concerne i pettini bisogna sapere che un tempo i piú conosciuti nel popolo erano i pettini dei cardalana e tali attrezzi non contavano mai piú di tredici denti...
17.Chi tène mali ccerevelle, tène bboni ccosce...
Chi à cattivo cervello, deve avere buone gambe, per sopperire con il moto alle dimenticanze o agli sbagli conseguenti del proprio cattivo intendere.
18.Mettere 'o ppepe 'nculo a' zòccola.
Letteralmente:introdurre pepe nel deretano di un ratto. Figuratamente: Istigare,sobillare, metter l'uno contro l'altro. Quando ancora si navigava, capitava che sui bastimenti mercantili, assieme alle merci solcassero i mari grossi topi, che facevano gran danno. I marinai, per liberare la nave da tali ospiti indesiderati, avevano escogitato un sistema strano, ma efficace: catturati un paio di esemplari, introducevano un pugnetto di pepe nero nell'ano delle bestie, poi le liberavano. Esse, quasi impazzite dal bruciore che avvertivano si avventavano in una cruenta lotta con le loro simili. Al termine dello scontro, ai marinai non restava altro da fare che raccogliere le vittime e buttarle a mare, assottigliando cosí il numero degli ospiti indesiderati. L'espressione viene usata con senso di disappunto per sottolineare lo scorretto comportamento di chi, in luogo di metter pace in una disputa, gode ad attizzare il fuoco della discussione...
19.Pure 'e pulice tenono 'a tosse...
Anche le pulci tossiscono - Id est: anche le persone insignificanti tossiscono, ossia voglione esprimere il proprio parere.
20.Dice bbuono 'o ditto 'e vascio quanno parla della donna: una bbona ce ne steva e 'a facettero Madonna...
Ben dice il detto terrestre allorché parla della donna: ce n'era una sola che era buona ma la fecero Madonna... Id est: La donna è un essere inaffidabile - La quartina, violentemente misogina è tratta dal poemetto 'MPARAVISO del grande poeta Ferdinando Russo
21.Dicere 'a messa cu 'o tezzone.
Celebrare la messa con un tizzone ardente(in mancanza di ceri...)Id est: quando c'è un dovere da compiere, bisogna farlo quale che siano le condizioni in cui ci si trovi.
22.Jammo, ca mo s'aiza!
Muoviamoci ché ora si leva(il sipario)! - Era l'avviso che il servo di scena dava agli attori per avvertirli di tenersi pronti , perché lo spettacolo stava per iniziare. Oggi lo si usa per un avviso generico sull'imminenza di una qualsiasi attività.
23.Chello è bbello 'o prutusino, va 'a gatta e ce piscia ‘a coppa...
Il prezzemolo non è rigoglioso, poi la gatta vi minge sopra - Amaro commento di chi si trova in una situazione precaria e non solo non riceve aiuto per migliorarla, ma si imbatte in chi la peggiora maggiormente...
24.Quanno vide 'o ffuoco a' casa 'e ll'ate, curre cu ll'acqua â casa toja...
Quando noti un incendio a casa d'altri, corri a spegnere quello in casa tua - Cioè: tieni per ammonimento ed avvertimento ciò che capita agli altri per non trovarti impreparato davanti alla sventura.
25.Giorgio se ne vò jí e 'o vescovo n' 'o vo’ mannà.
Giorgio intende andar via e il vescovo vuole cacciarlo. L'icastica espressione fotografa un rapporto nel quale due persone intendono perseguire il medesimo fine, ma nessuno à il coraggio di prendere l'iniziativa, come nel caso del prelato e del suo domestico...
26.Fa mmiria ô tre 'e bastone.
Fa invidia al tre di bastoni- Ironico riferimento ad una donna che abbia il labbro superiore provvisto di eccessiva peluria, tale da destare l'invidia del 3 di bastoni, che nel mazzo di carte napoletano è rappresentato con nell'incrocio di tre randelli un mascherone di uomo provvisto di esorbitanti baffi a manubrio.
27.Si 'a fatica fosse bbona, 'a facessero 'e prievete.
Se il lavoro fosse una cosa buona lo farebbero i preti(che per solito non fanno niente. Nella considerazione popolare il ministero sacerdotale è ritenuto cosa che non implica lavoro.
28.Avimmo cassato n' atu rigo 'a sott' a 'o sunetto.
Letteralmente: Abbiamo cancellato un altro verso dal sonetto, che - nella sua forma classica - conta appena 14 versi. Cioè: abbiamo ulteriormernte diminuito le nostre già esigue pretese. La frase è usata con senso di disappunto tutte le volte che mutano in peggio situazioni di per sè non abbondanti...
29.È gghiuto 'o caso 'a sotto e 'e maccarune 'a coppa.
È finito il cacio sotto e i maccheroni al di sopra. Cioè: si è rivoltato il mondo.
30.À fatto marenna a sarachielle.
Cioè: À fatto merenda con piccole salacche affumicate – riferito a quelle situazioni incresciose in cui qualcuno in luogo di avere un congruo, atteso ritorno del proprio solerte operare si è dovuto accontentare di ben poca cosa; in effetti una merenda (quale pranzo da asporto) che fosse costituita da un po’ di pane con qualche filetto di salacca affumicata anche se accompagnati da anelli di cipolla ed irrorati d’olio d’oliva e.v.p. s. a f. sarebbe veramente una povera cosa; sarachielle s.vo m.le pl. di sarachiello che è il diminutivo maschilizzato (per significare la contenutezza dell’oggetto di riferimento: in napoletano infatti un oggetto che sia femminile diventa maschile se diminuisce di dimensione (cfr. ad es.: cucchiaro (piú piccolo) e cucchiara (piú grande) carretto (piú piccolo) e carretta (piú grande) tina (piú grande) e tino( piú piccolo) carretta (piú grande) e carretto ( piú piccolo);fanno eccezione caccavo (piú grande) e caccavella ( piú piccola) e tiano (piú grande) e tiana( piú piccolo)), dicevo che sarachiello è il diminutivo (vedi i suff. i+ ello maschilizzato di sàraca= salacca, aringa affumicata; la voce sàraca etimologicamente è da collegarsi ad un tardo greco sàrax (all’acc.vo sàraka) che trova riscontri anche nel calabrese sàrica e nel salentino zàrica.
31.Fà ll'arte 'e Michelasso: magnà, vevere e gghí a spasso.
Fare il mestiere di Michelaccio:mangiare, bere e andar bighellonando - cioè la quintessenza del dolce far niente...
32.So' ghiute 'e prievete 'ncopp'ô campo
Sono scesi a giocare a calcio i preti - Cioè: è successa una confusione indescrivibile:i preti erano costretti a giocare indossando la lunga talare che contribuiva a render difficili le operazioni del giuoco...
33.Nun vulè nè tirà, nè scurtecà...
Non voler né tendere, né scorticare - Cioè: non voler assumere alcuna responsabilità, come certi infingardi operai conciatori di pelle che non volevano né mantener tese le pelli, né procedere alla scuoiatura.
34.Purtà'e fierre a sant' Aloja.
Recare i ferri a Sant'Eligio. Alla chiesa di sant'Eligio i vetturini da nolo solevano portare, per ringraziamento, i ferri dismessi dei cavalli ormai fuori servizio.Per traslato l'espressione si usa con riferimento furbesco agli uomini che per raggiunti limiti di età, non possono piú permettersi divagazioni sessuali...
35.'O Pataterno 'nzerra 'na porta e arape 'nu purtone.
Il Signore Iddio se chiude una porta, apre un portoncino - Cioè: ti dà sempre una via di scampo
36.Nun tené pile 'nfaccia e sfottere ô barbiere
Non aver peli in volto e infastidire il barbiere - Cioè: esser presuntuosi al punto che mancando degli elementi essenziali per far alcunchè ci si erge ad ipercritico e spaccone.
37.Accunciarse quatt' ove dinto a 'nu piatto.
Sistemarsi quattro uova in un piatto - cioè:assicurarsi una comoda rendita di posizione, magari a danno di altra persona (per solito la porzione canonica di uova è in numero di due...).
38.Farse 'nu purpetiello.
Bagnarsi fino alle ossa come un piccolo polpo tirato su grondante d'acqua.
39.Jí a ppère 'e chiummo.
Andare con i piedi di piombo - Cioè: con attenzione e cautela.
40.Tené'a sciorta 'e Maria Vrenna.
Avere la sorte di Maria DI Brienne - Cioè:perder tutti propri beni ed autorità come accadde a Maria di Brienne sfortunata consorte di Ladislao di Durazzo, ridotta alla miseria alla sua morte (1414) dalla di lui sorella Giovanna II succedutagli sul trono.
41Jí ô bbattesimo, senza criatura.
Recarsi a battezzare un bimbo senza portarlo... - Cioè comportarsi in maniera decisamente errata, mettendosi nella situazione massimamente avversa all'opera che si vorrebbe intraprendere.
42.Pare ca s''o zucano 'e scarrafune...
Sembra che se lo succhino gli scarafaggi.- E' detto di persona cosí smunta e rinsecchita da sembrar che abbia perduto la propria linfa vitale preda degli scarafaggi, notoriamente avidi di liquidi.
43.Abbruscià 'o paglione...
Incendiare il pagliericcio - Cioè darsi alla fuga, alla latitanza, lasciando dietro di sé terra bruciata, come facevano le truppe sconfitte che incendiavano i propri accampamenti, dandosi alla fuga.(procurare un danno definitivo)
44.Ogne scarrafone è bbello a mmamma soja...
Ogni blatta(per schifosa che sia)è bella per la sua genitrice - Ossia: per ogni autore la sua opera è bella e meritevole di considerazione.
45.S’è aunito, ‘a funicella corta e ‘o strummolo a ttiriteppe…
Si sono uniti lo spago corto e la trottolina scentrata - Cioè si è verificata l'unione di elementi negativi che compromettono la riuscita di un'azione...
46.Chi saglie ‘ncopp’ê ccorna ‘e chillo, po’ ddà ‘a mano ô Pataterno.
Chi si inerpica sulle corna di quello, può stringer la mano al Signore -(tanto sono alte...)- Iperbole per indicare un uomo molto tradito dalla moglie.
47.Quanno 'o diavulo tuojo jeva â scola, 'o mio era masto.
Quando il tuo diavolo era scolaro, il mio era maestro - Cioè: non credere di essermi superiore in intelligenza e perspicacia.
48.'O cane mozzeca ô stracciato.
IL CANE ASSALE CHI VESTE DIMESSO - Cioè: il destino si accanisce contro il diseredato.
49.Tre songo 'e putiente:'o papa, 'o rre e chi nun tène niente...
TRE SONO I POTENTI DELLA TERRA:IL PAPA, IL RE E CHI NON POSSIEDE NULLA
50.'A fessa è gghiuta 'mmano êccriature, 'a carta 'e musica 'mmano ê barbiere, 'a lanterna 'mmano ê cecate...
La vulva è finita nelle mani dei bambini, lo spartito musicale in mano ai barbieri, la lanterna nelle mani dei ciechi. - l'espressione viene usata, con senso di disappunto, quando qualcosa di importante finisca in mani inesperte o inadeguate che pertanto non possono apprezzare ed usarla al meglio, come accadrebbe nel caso del sesso finito nelle mani dei fanciulli o ancora come l'incolto barbiere alle prese con uno spartito musicale o un cieco cui fosse affidata una lanterna che di per sè dovrebbe rischiarare l'oscurità.
51.S' a' dda jí addô patuto, no addô miedeco.
Bisogna recarsi a chiedere consiglio da chi à patito una malattia, non dal medico - Cioè:la pratica val piú della grammatica.
52.Aúrio senza canisto, fa' vedé ca nun l'hê visto.
Augurio senza dono, mostra di non averlo ricevuto - Cioè: alle parole occorre accompagnare i fatti.
53.Ȏ pirchio pare ca 'o culo ll'arrobba 'a pettula...
All'avaro sembra che il sedere gli rubi la pettola della camicia - Cioè: chi è avaro vive sempre nel timore d'esser derubato.
54.Chi fatica'na saraca e cchi nun fatica, 'na saraca e mmeza.
Chi lavora guadagna una salacca, chi non lavora, una salacca mezza - Cioè: spesso nella vita si è premiati oltre i propri meriti.
55.'A mamma d’’e fesse è ssempe prena!
LA MAMMA DEGLI SCIOCCHI è SEMPRE INCINTA - Cioè: il mondo brulica di stupidi.
56. Dicette 'o pappice vicino â noce: Damme 'o tiempo ca te spertoso!
L'insetto punteruolo disse alla noce: Dammi tempo e ti perforerò - Cioè: chi la dura la vince!
57.A gghiennere e nnepute, chello ca faje è tutto perduto.
A generi e nipoti quel che fai, è tutto perso - Cioè: va perduto il bene fatto ai parenti prossimi
58.'O figlio muto, 'a mamma 'o 'ntenne.
Il figlio muto è compreso dalla madre - Lo si dice di due persone che abbiano un'intesa perfetta.
59.San Luca nce s'è spassato...
San Luca ci si è divertito...- Lo si dice di una donna cosí bella che sembra dipinta dal pennello di San Luca, che la tradizione vuole pittore. Ma lo si dice anche, in senso ironico antifrastico, quando ci si imbatte in una donna decisamente brutta.
60.Quanno siente 'o llatino d' 'e fesse, sta venenno 'a fine d' 'o munno...
Quando senti i fessi parlare in latino, s'approssima la fine del mondo. Cioè: quando gli sciocchi prendono il comando a parole e con i fatti, si preparono tempi grami.
61.Quanno dduje se vònno, ciento nun ce pònno...
Quando due si vogliono, cento non possono contrastarli... Cioè: E' inutile opporsi all'amore di due persone che si amano
62.Me staje abbuffanno 'e zifere 'e viento.
Mi stai riempiendo di refoli di vento. - Cioè: mi stai riempiendo la testa di fandonie
63.Passa 'a vacca...
Transita la vacca. - Cioè: è poverissimo. L'espressione dialettale è una corruzione derivativa dal latino mediovale : passat vacuus, usata nelle dogane latine per indicare i carri transitanti senza merce, quindi non soggetti a balzelli.
64.Ògne capa è 'nu tribbunale
Ogni testa è un tribunale - Cioè:ognuno decide secondo il proprio metro valutativo.
65.'O pesce fète dâ capa.
Il pesce puzza dalla testa. Cioè: il cattivo esempio parte dall'alto.
66.Pare 'a varca 'e mastu tTore:a ppoppa cumbattevano e nun 'o sapevano a ppropra...
Sembra la barca di mastro Salvatore: a poppa combattevano e lo ignoravano a prua - Cioè:il massimo della disorganizzazione!...
67.Mazze e panelle, fanno 'e figlie bbelle...,panelle senza mazze, fanno 'e figlie pazze!
Botte e cibo saporito, fanno i figli belli, cibo senza percosse fanno i figli matti! - Cioè: nell'educazione dei figli occorre contemperare le maniere forti con quelle dolci.
68.Chi s'annammora d''e capille e d''e diente, s'annammora 'e niente...
Chi si lascia conquistare dai capelli e dai denti, s'innamora di niente, perché capelli e denti sono beni che sfioriscono presto..
69.Chiagnere cu 'a zizza 'mmocca...
Piangere con la tetta in bocca - Cioè: piangere ingiustificatamente
70.Guàllere e ppazze, venono 'e razza...
Ernie e pazzia sono ereditarie(non si possono eludere).
71.'E fesse so' sempe 'e primme a se fà sèntere...
I fessi son sempre i primi a parlare - cioè: gli sciocchi sono sempre i primi ad esprimere un parere...
72.Dicette Pulicenella:'A MEGLIA MMEDICINA? VINO 'E CANTINA E PPURPETTE 'E CUCINA...
Disse Pulcinella:LA MIGLIOR MEDICINA? VINO STAGIONATO E POLPETTE FATTE IN CASA...
73.STANNO CAZZA E CUCCHIARA.
STANNO SECCHIO DELLA CALCINA E CUCCHIAIA. - Cioè:vanno di pari passo, stanno sempre insieme.
74.Stammo asseccanno 'o mare cu 'a cucciulella...
Stiamo prosciugando il mare con la conchiglia - Cioè: ci siamo imbarcati in un'impresa impossibile...
75.Arrostere 'o ccaso cu 'o fummo d''a cannela.
arrostire il formaggio con il fumo di una candela - cioè:tentare di far qualcosa con mezzi inadeguati.
76.'A mala nuttata e 'a figlia femmena.
La notte travagliata e il parto di una figlia - cioè: Le disgrazie non vengono mai sole.
77.Nun tené manco 'a capa 'e zi' Vicienzo.
Non aver nemmeno la testa del sig. Vincenzo. Cioè:esser poverissimo. 'a capa 'e zi' Vicienzo è la corruzione dell'espressione latina:caput sine censu ovverossia:persona senza alcun reddito, persona che pertanto non pagava tasse.
78.Dicette munsignore a 'o cucchiere:"Va' chiano , ca vaco 'e pressa!"
Disse il monsignore al suo cocchiere:"Va' piano, ché ò premura!" Ossia:la fretta è una cattiva consigliera
79.CHI D'AUSTO NN'E' VESTUTO, 'NU MALANNO LL'E' VENUTO
CHI ALLA FINE DELL' ESTATE NON SI COPRE BENE, INCORRERA' IN QUALCHE MALATTIA...cioè:OCCORRE SEMPRE ESSER PREVIDENTI.In altro senso l’espressione significa: chi per la fine d’agosto non avrà incassato adeguati proventi vendendo i prodotti raccolti se ne dorrà in inverno.
80.Senza denare nun se cantano messe.
Senza denaro non si celebrano messe cantate. Cioé: tutto à il suo prezzo.
81.A cuoppo cupo poco pepe cape.
Nel cartoccetto conico pieno entra poco pepe. Cioè: chi è sazio non può riempirsi di piú(in tutti i sensi)
82.Giacchino mettette 'a legge e Giacchino fuie 'mpiso.
Chi è causa del suo mal, pianga se stesso: Con riferimento a Gioacchino Murat ucciso a Pizzocalabro in attuazione di una norma da lui stesso dettata
83.A aldare sgarrupato nun s'appicceno cannele.
Ad altare diruto non portar ceri accesi. - Figuratamente: Non corteggiare donne anziane.
84.Si ll'aucielle canuscessero 'o ggrano, nun ne lassassero manco n' aceno!
Se gli uccelli conoscessero il grano, non ne lascerebbero un chicco! - Cioè: se gli uomini fossero a conoscenza di tutti i benefici che la vita offre, ne approfitterebbero sempre.
85.Dicette Pulicenella: PE MMARE NUN CE STANNO TAVERNE.
Disse Pulcinella: IN MARE NON VI SONO RIPARI.
86.Scarte fruscio e piglie primera.
Cader dalla padella nella brace.
87.Va' dinto 'e chiesie granne ca truove segge e scanne...
Va' nelle chiese grandi dove troverai sedie e scranni - Cioè: Chi vuol qualcosa lo deve cercare nei negozi piú grandi che sono i piú forniti.
88.Femmene, ciucce e crape tenono tutte una capa.
Donne, asini e capre ànno tutti una testa.
89.Ll'ommo cu 'a parola e 'o vojo cu 'e ccorne.
L'uomo si conquista con la parola, il bue per le corna.
90.'Ntiempo'e tempesta, ogne pertuso è ppuorto!
In caso di necessità, qualunque buco può servire da porto!
Brak
NAPOLETANISMI E/O MERIDIONALISMI NELL’ITALIANO 2°
NAPOLETANISMI E/O MERIDIONALISMI NELL’ITALIANO
parte 2°
Proseguiamo con l’elencazione delle voci napoletane e/o meridionali pervenute nell’italiano.
Mozzarella s.f.
1 formaggio fresco di origine campana e bassolaziale, a pasta bianca e molle, in forme sferiche o di treccia, prodotto tassativamente con latte di bufala
2 (fig.) persona estremamente fiacca.
Ci troviamo a parlare di una voce nata in Campania e poi adottata nel basso Lazio ed infine trasmigrata nel lessico nazionale; per il vero la voce mozzarella dovrebbe essere d’uso esclusivo di Campania e basso Lazio in quanto è soltanto in tali regioni e non in altre che viene prodotta l’autentica,unica, vera mozzarella formaggio fresco a pasta bianca e molle, , prodotto tassativamente con latte di bufala; formaggi similari prodotti in altre regioni con latte vaccino usurpano il nome di mozzarella di cui copiano i sistemi di lavorazione ,ma non l’ingrediente di base: il latte intero di bufala, di modo che tuttalpiú possono chiamarsi fiordilatte= (formaggio fresco di pasta filata, molle e cruda, prodotto con latte di vacca) ma non mozzarella che etimologicamente è un deverbale di mozzare = troncare in un sol colpo una parte da un tutto, come avviene nel caso appunto delle mozzarelle che in pezzi di circa 3 etti cadauno vengono troncati (un tempo a mano, oggi anche con l’ausilio di mezzi meccanici),mediante torsione e strappo (mozzatura) da un filone di pasta filata , filone ricavato dalla lavorazione artigianale (con procedure un tempo addirittura segrete, trasmesse di padre in figlio) di latte intero di bufala.
‘ndrangheta s.f. voce di origine meridionale (Calabria) usata per indicare e connotare una delinquenza organizzata di tipo mafioso, che è propria di quella regione, voce che però,(prevengo l’obiezione d’un qualche lettore pignolo) quantunque normalmente in uso nel parlato e nel lessico dei media, molti vocabolarî (D.E.I. – Treccani – De Mauro) della lingua italiana sono restii a registrare e non se ne comprende il motivo, visti diffusione ed uso del vocabolo(che à valicato i confini regionali) e che etimologicamente deriva da una voce del greco di Calabria, corrispondente al gr. classico (a)ndragathía 'coraggio, valore'; l’aferesi della vocale d’attacco mi induce a preferire la scrittura ‘ndrangheta piuttosto che ndrangheta: sono un appassionato, si sa, anche dei pletorici segni diacritici!
Palo s.m s. m.
1 (edil.) elemento strutturale di legno, cemento armato o acciaio, generalmente cilindrico con un'estremità appuntita o munita di punta riportata (puntazza), che si conficca totalmente nel terreno per consolidarlo o per servire da sostegno ad altre strutture: palo di fondazione, di sostegno
2 qualsiasi asta di legno o di altro materiale rigido che si innalzi verticalmente dal terreno in cui è parzialmente conficcata: palo della luce, del telegrafo; i pali di recinzione, di sostegno del cancello | supplizio del palo, impalamento | ritto come un palo, si dice di persona che è rigidamente eretta; impettito | (estens.) struttura verticale a traliccio d'acciaio per il sostegno di importanti linee elettriche: i pali dell'alta tensione.
3 (sport) ognuno dei due sostegni della traversa che, con questa, delimitano la porta nel campo di calcio, di rugby ecc.: incrocio dei pali, intersezione tra un palo e la traversa | (estens.) tiro che colpisce un palo | palo di partenza, d'arrivo, nell'ippica, quelli che all'interno della pista indicano l'inizio e la fine del percorso | restare al palo, non partire; (fig.) perdere una buona occasione
4 (mar.) albero poppiero con vele di taglio, in un veliero con altri alberi a vele quadre: nave a palo, classico veliero a tre alberi e un palo
5 (arald.) pezza onorevole (figura araldica sullo scudo: la croce, la fascia, il capo, la banda, il palo ecc.) che occupa verticalmente il terzo di centro dello scudo
6 (gioco) ognuno dei semi dei mazzi di carte da giuoco (cuori,quadri,fiori e picche nelle carte francesi, denari, bastoni,coppe e spade nelle carte regionali: napoletane, piacentine etc.
7 (gerg.) chi vigila mentre i compagni compiono un furto.
È proprio in quest’ultima accezione che la voce di origine gergale campana ed in genere meridionale, è pervenuta nel lessico nazionale a vele spiegate (lessico dei media) nel significato, appunto, di complice che tiene bordone ai proprî pari piantandosi di guardia come… un palo.
Etimologicamente è voce derivata dal lat. *pa(g)lu(m), affine a pangere 'conficcare'. Nell’accezione sub 6 la voce partenopea palo è derivata dallo spagnolo dove i semi delle carte sono detti appunto palos (pali).
Palombaro s.m. voce di origine napoletana (quantunque(cfr. R. Andreoli e altri) attestata nei vocabolarî partenopei come palummaro←palumbariu(m) con tipica assimilazione progressiva mb→mm e chiusura in u della ō ), voce poi pervenuta nell’italiano, usata per indicare chi esegue lavori sott'acqua (pesca, ricerche, ricuperi ecc.) munito di scafandro; è voce che deriva per metafora da un lat. tardo *palōmbariu(m) 'sparviero', perché colui che esegue lavori sott’acqua, immergendosi richiama l'immagine dello sparviero che cala sulla preda.
- Paglietta s. f. o m. voce di origine partenopea sia come s.vo f.le che s.vo m.le; letteralmente, come s.vo f.le : paglietta, piccola paglia ( dal lat. palea(m)) tipico copricapo originariamente da uomo, di rigida paglia intrecciata, con cupolino alto, bordato con un’ampia fascia di seta, e tesa breve, copricapo usato specialmente nella bella stagione e poi moltissimo in teatro da attori comici (il piú famoso fu Nino Taranto(Napoli 1907- †ivi 1986) cantante ed attore insuperato interprete delle macchiette napoletane(canzoni di argomento divertente e/o comico, ricche di recitativi che ne favorivano l’interpretazione caricaturale;Taranto, su suggerimento di Gigi Pisano (Na 1889 –† ivi 1973 poeta ed attore) fecondissimo e facondissimo autore, spessissimo in coppia con il musicista GiuseppeCioffi (Na 1901 – †ivi 1976), indossò la paglietta sforbiciandone a pizzi triangolari la parte del davanti della tesa; e la paglietta cosí tagliata divenne il suo segno distintivo, imitato in sèguito da altri cantanti comici partenopei;
la paglietta fu poi ai principî del 1900 il copricapo abituale di molti giovani e non molto esperti avvocati o legulei al segno di divenirne quasi un emblema e con la voce paglietta inteso come s.vo m.le si finí per indicare un avvocato cavilloso e parolaio, ma inaffidabile in quanto non molto esperto o attento conoscitore di codici e leggi; la voce partenopea, in ambedue le accezioni, è stata recepita dal lessico nazionale.Rammento che la paglietta indossata da quei tali non molto esperti avvocati o legulei era tassativamente di colore nero e ne era quasi il loro emblema, laddove le pagliette indossate da ogni altra persona quale copricapo primaverile od estivo era di colore chiaro: ghiaccio o giallino.
panzerotto s.m. (gastr.) grosso raviolo ripieno di prosciutto, formaggio, uova e altri ingredienti, per lo piú fritto; è una specialità pugliese, voce dunque di culla meridionale, recepita però nel lessico nazionale dove talvolta è improvvidamente confuso con un altro termine partenopeo:
panzarotto specialità della cucina napoletana; voce con cui si indica una tipica frittella di forma cilindrica, frittella lunga 10, 12 cm.ricavata da un impasto di patate lesse e schiacciate, farina, rossi d’uova, sale, pepe, erbe aromatiche, farcita di pezzetti di salame e bastoncini di mozzarella o provola affumicata ,frittella intinta nella chiara d’uovo, rollata nel pan grattato e fritta in olio bollente e profondo; allor che la parola napoletana panzarotto emigrò nella lingua toscana ecco che, inopinatamente,forse per confusione con il panzerotto pugliese, perdette la seconda a (per altro etimologica e dunque sacrosanta) in favore della chiusa E ritenuta piú elegante e consona alla lingua di Alighieri Dante,e si ridusse a panzerotto voce con la quale, come ò detto, non si indicò piú la frittella di pasta di patata, ma una sorta di piú o meno grosso raviolo di semplice pasta lievitata rustica o dolce adeguatamente imbottito di ingredienti salati (ricotta, formaggi etc.) o dolci (marmellate, uvetta etc.) e la frittella di patate divenne, nell’italiano, crocchetta o crocchè, assegnandole scioccamente ed erroneamente (la frittella di patate non deve esser croccante, ma morbida e tenera!) un nome mutuato dal francese croquant = che crocca, nella fallace convinzione che una preparazione di origine popolare e rustica si ingentilisca e diventi di nobile prosapia se le si assegna un elegante nome francesizzante, come alibi già capitò con l’umile, ma gustosa frittata di sole uova, formaggio sale e pepe frittata che,diventata omelette, non migliorò…, né d’altra parte lo poteva: era già buona di suo! Etimologicamente sia il panzerotto pugliese che il panzarotto napoletano derivano quali diminutivi con riferimento al rigonfiamento sia del panzerotto che del panzarotto. dal s. panza (lat.pànticem→pan(ti)cem, donde per metaplasmo pan(ti)cia→ pan(ti)cja→panza.). Nella città bassa la voce panzarotto, con riferimento semantico alla sua forma, è usato anche per indicare per traslato salace il membro maschile.
Paranza s. f. 1 grossa barca, un tempo a vela latina, oggi a motore, usata per la pesca a strascico;
2 (estens.) rete da pesca a strascico, trainata da una o due paranze; sciabica. Trattasi di una voce tipicamente meridionale (usata nel lessico dei pescatori della Campania,Calabria, Puglia, Sicilia); quanto all’etimo forse è voce deriv. di paro 'paio', perché queste imbarcazioni procedono spesso in coppia, ma mi sembra migliore e piú interessante l’idea dell’amico prof. C.Iandolo che legge in paranza un part. pl. neutro parantia dal verbo parare, participio pass. poi inteso f.le sg. aggettivale di un sottinteso ratis,cymba= barca che procura(pesce).
pastiera s. f. torta che in un involucro di pasta frolla contiene un ripieno di ricotta zuccherata, uova intere, grano bollito e macerato nel latte,crema pasticciera, canditi ed aromi; è la insuperabile ed insuperata specialità della pasticceria napoletana. È dolce che viene tradizionalmente approntato per festeggiare il ritorno della primavera in concomitanza con la festività della Pasqua. Come ò già détto alibi e qui ripeto, questo dolce è tipico della zona napoletana e viene preparato in occasione della festività primaverile della santa Pasqua e la sua ricetta è molto antica. Da qualcuno, ma non so quanto veridicamente, si afferma che la pastiera, , accompagnò le feste pagane celebranti il ritorno della primavera, durante le quali le sacerdotesse di Cerere portavano in processione l'uovo, simbolo di vita nascente, mentre il grano o il farro, misto alla morbida crema di ricotta, potrebbero derivare dal ricordo del pane di farro delle nozze romane, dette appunto confarreatio= confarreazione, una delle forme legali del matrimonio romano, la piú solenne (tanto che un matrimonio celebrato in questa forma non poteva esser mai sciolto!) che prendeva il nome dalla focaccia di farro farcita di ricotta offerta agli sposi e a Giove.
Un'altra ipotesi circa l’origine della pastiera la fa risalire alle focacce rituali che si diffusero all'epoca di Costantino il Grande, derivate dall'offerta di latte e miele, che i catecumeni ricevevano nella sacra notte di Pasqua al termine della cerimonia battesimale.
Per il vero la versione originale della pastiera napoletana, versione nata nell’ anonimo contado partenopeo,e successivamente poi perfezionata, con l’aggiunta dell’acqua di millefiori, nell’antico monastero femminile basiliano di San Gregorio Armeno, consistette ed in taluni paesi ancóra consiste ( sia pure con il nome di pizza doce ‘e tagliuline) in una sorta di frittata o timballo di pasta, frittata o timballo dolci fatti mescolando uova, zucchero, ricotta ed aromi con della pasta lessa (spaghetti o vermicelli o tagliolini) scondita,avanzata in quanto eccedente il fabbisogno dei commensali; dalla parola pasta addizionata del suffisso femm. di pertinenza iera deriva etimologicamente la voce a margine, voce pervenuta nell’uso dell’italiano e finita – a disdoro dei napoletani - nelle mani di molti pasticcieri, che non essendo campani, mai dovrebbero osare di approntare un dolce sacramentale quale è la pastiera, dolce che solo i napoletani o i campani sono autorizzati a preparare!Rammento in chiusura di questa voce che, come vuole un’antica leggenda,la degustazione del dolce qui preso in considerazione riuscí a restituire il sorriso ad una regina triste Maria Teresa Isabella d'Asburgo-Teschen (Vienna, 31 luglio 1816 - † Albano, 8 agosto 1867) moglie in seconde nozze del re Ferdinando II di Borbone (Palermo, 12 gennaio 1810 –† Caserta, 22 maggio 1859), il quale diede ordine al proprio ciambellano Gennaro Spadaccini (quello che gli aveva risolto il problema di far servire alla tavola reale i maccheroni lunghi,di cui il re era ghiotto, inventandosi la forchetta a quattro rebbi) di fare approntare il dolce molto piú spesso e non soltanto nelle ricorrenze pasquali.
Pittare voce verbale originaria del napoletano usata nel significato di pitturare, dare la tinta, il colore, spec. a pareti e infissi etc., dipingere: il medico salí fino al piccolo cancello... pittato in verde (GADDA).Rammento che l’italiano prima di accogliere la voce napoletana a margine ed usarla nei soli significati di pitturare, tinteggiare, imbiancare (laddove il napoletano con la voce pittare fa riferimento anche ad attività artistiche ad es.: pittare un quadro= dipingere – pittare una volta=affrescare) dicevo prima di accogliere il napoletano pittare, già aveva un omografo ed omofono pittare v. int. détto del pesce, dare successivi strappi intorno all'amo, senza abboccare. In questa accezione la voce pittare è un derivato del dialetto genevese dove vale beccare; nell’accezione del napoletano pittare deriva invece dal lat. *pictare, iterativo di pingere 'dipingere'.
Pizza s.f. 1 (gastr.) focaccia di pasta lievitata, dolce o salata: pizza rustica; pizza pasquale | per antonomasia, focaccia di forma molto schiacciata condita con olio, pomodoro e altri ingredienti; è una specialità napoletana oggi diffusa ovunque: pizza margherita, marinara, quattro stagioni. DIM. pizzetta
2 nel linguaggio cinematografico, la scatola piatta e circolare in cui si custodisce un rotolo di pellicola; per estens., la pellicola stessa con riferimento semantico al fatto che la pizza/focaccia è di forma rotonda, spesso con bordi alti;
3 (fam. fig.) persona o cosa estremamente noiosacon riferimento semantico al fatto che la pizza/focaccia tavolta se non è ben lievitata risulta greve ed indigesta tal quale una persona noisa.
Voce di incontrovertibile origine partenopea: la fama della pizza napoletana à varcato i confini non solo regionali, ma nazionali affermandosi ovunque come la miglior focaccia rustica, salata condita con olio, pomodoro e altri ingredienti. Quanto all’etimo qualcuno ne propone uno forse di origine germ., da un antico alto longob. Bizzo- pizzo 'morso, focaccia'; trovo molto piú perseguibile l’idea di chi lègge in pizza un’originaria pinza→pizza= schiacciata derivata del verbo lat. pinsere= pigiare, pestare, schiacciare.
Voci derivate, nel napoletano e poi anche nell’italiano, da pizza sono:
pizzaiolo s.m. f. -a] chi fa le pizze; gestore di una pizzeria; pizzaiola s.f. che indica ovviamente il femm.le della voce pizzaiolo, mentre nella loc. agg. e avv. alla pizzaiola, si dice di vivanda cotta in una salsa fatta con olio, sugo di pomidoro, aglio, sale, pepe ed origano: carne, pesce alla pizzaiola; cuocere (qualcosa) alla pizzaiola.
provola s. f. formaggio a pasta filata semidura, per lo piú, se non tassativamente, di latte intero di bufala, che si mangia fresco o piú spesso affumicato; è specialità dell'Italia meridionale; per esser precisi si tratta di una mozzarella di piú gran pezzatura: fino a 9 etti rispetto ai 3 della classica mozzarella, moderatamente salata e poi affumicata DIM. provolina, provoletta. Quanto all’etimo se ne propone(forse perché quel tipo di formaggio serviva all’assaggio) una derivazione da prova che è dal verbo provare (cfr. il lat. probare 'trovare buona una cosa, approvarla', deriv. di probus 'buono'; voce accrescitiva (cfr. il suff. one) di provola è la voce seguente
provolone s. m. formaggio a pasta filata dura, dolce o piccante, prodotto con latte di vacca intero; è tipico dell'Italia meridionale, segnatamente delle zone campane (provolone del monaco etc.) anche se pervenuta la voce nell’italiano è stata usata per identificare qualsiasi formaggio a pasta filata dura, dolce o piccante, prodotto con latte di vacca intero, da qualunque produttore della penisola e non piú da imprese artigianali e/o industrie casearie meridionali.
recchione o ricchione, s. m. omosessuale maschile, pederasta,gay, vocabolo che, partito dal lessico partenopeo, è approdato per merito o colpa di taluna letteratura minore ed altre forme artistiche quali: teatro cinema e televisione, nei piú completi ed aggiornati vocabolarî della lingua nazionale dove viene riportata come voce volgare, nel generico significato di omosessuale maschile.
Molto piú precisamente della lingua nazionale, però, il napoletano con i vocaboli a margine non definisce il generico omosessuale maschile, ma l’omosessuale maschile attivo quello cioè che nel rapporto sodomitico svolge la parte attiva; chi invece svolge la parte passiva è definito nel napoletano : femmenella che è quasi: femminuccia, piccola femmina ed è etimologicamente dal latino fémina(m) con raddoppiamento popolare della postonica m tipico in parole sdrucciole piú il consueto suffisso diminutivo ella.
Torniamo al recchione - ricchione precisando súbito che nel napoletano tale omosessuale maschile non va confuso (come invece accade nell’italiano)con il pederasta il quale, come dal suo etimo greco: pais-paidos=fanciullo ed erastós=amante, è chi intrattiene rapporti omosessuali con i fanciulli;per il vero la lingua napoletana non à un termine specifico per indicare il pederasta e ciò probabilmente perché la pedofilía o pederastía fu quasi sconosciuta alla latitudine partenopea, quantuque Napoli siastata città di origine e cultura greca ;dicevo: ben diverso il pederasta dal recchione – ricchione che infatti à i suoi viziosi rapporti sodomitici quasi esclusivamente con adulti di pari risma.
Ed accostiamoci adesso al problema etimologico del termine recchione – ricchione; sgombrando súbito il campo dall’idea che esso termine possa derivare dall’affezione parotidea nota comunemente con il termine orecchioni, affezione che attaccando le parotidi le fa gonfiare ed aumentare di volume.
Una prima e principale scuola di pensiero, alla quale, del resto mi sento di aderire fa risalire i termini in epigrafe al periodo viceregnale(XV-XVI sec.) sulla scia del termine spagnolo orejón con il quale i marinai spagnoli solevano indicare i nobili incaici, conosciuti nei viaggi nelle Americhe, che si facevano forare ed allungare, tenendovi attaccati grossi e pesanti monili, le orecchie; con il medesimo nome erano indicati anche dei nobili peruviani privilegiati, noti altresí per i loro costumi viziosi e lascivi; taluni di costoro usavano abbigliarsi in maniera ridondante ed eccentrica talora cospargendosi di polvere d’oro i padiglioni auricolari,donde la frase napoletana: tené ‘a póvera ‘ncopp’ ê rrecchie = avere la polvere sulle orecchie, usata ironicamente appunto per indicare gli omosessuali.
Da non dimenticare che detti usi di incaici e peruviani furono spesso mutuati da molti marinai che sbarcavano a Napoli, provenienti dalle Americhe, agghindati con grossi e pesanti orecchini(cosa che i napoletani non apprezzarono ritenendo gli orecchini monili da donna e non da uomo..) e parecchi di questi marinai furono súbito indicati con i termini in epigrafe oltre che per l’abbigliamento e le acconciature usati anche per il modo di proporsi ed incedere quasi femmineo, atteso che dai napoletani si ritenne che il loro comportamento sessualecambiato, fosse stato determinato dalla lunga permanenza in mare, per i viaggi transoceanici, permanenza che li costringeva a non aver rapporti con donne e doversi contentare di averne con altri uomini.
Successivamente i termini recchione – ricchione palesi adattamenti dello orejón spagnolo passarono ad indicare non solo i marinai, ma un po’ tutti gli omosessuali attivi, conservando il termine femmeniello/femmenelle per quelli passivi.
E mi pare che ce ne sia abbastanza, anche se – per amore di completezza – segnalo qui una nuova ipotesi etimologica proposta dall’amico prof. Carlo Jandolo che ipotizza per ricchione/recchione una culla greca: orkhi-(pédes)= chi à la strozzatura dei testicoli,impotente, con aferesi iniziale, suono di transizione i fra r –cch con raddoppiamento popolare e suffisso qualitativo accrescitivo one; tuttavia lo stesso Jandolo non esclude un influsso di recchia soprattutto tenendo presente la fraseologia riportata che fa riferimento ad un orecchio impolverato.
A malgrado dei sentimenti amicali che nutro per Jandolo, non trovo serî motivi per abbandonare quella, a mio avviso, convincente via vecchia per percorrere la impervia nuova.
Sartú s. m. (gastr.) sformato di riso sontuosamente condito spesso con sugo di pomodoro, ma sempre con funghi,polpettine, mozzarella, uova ed altro; è una specialità della cucina napoletana. tale sartú ( voce derivata dal francese sour tout= al di sopra di tutto, mentre sourtout vale soprammobile, centrotavola ),fu ideato da cuochi francesi ( i famosi monzú (cosí i napoletani chiamarono, storpiando la parola monsieur quei cuochi d’oltralpe chiamati a Napoli dalla regina Maria Carolina, al tempo(1768) delle proprie nozze con Ferdinando IV Borbone-Napoli, per migliorare la cucina napoletana ritenuta troppo semplice, se non addirittura povera; per il vero il sartú non era ricetta originaria di Francia, ma inventata a Napoli con tutti i prodotti in uso nella cucina napoletana con la sola eccezione del burro che è condimento nordico.., e partito dalle cucine regali dove i monzú lo prepararono per la corte borbonica, approdò alle cucine familiari e da allora divenne un trionfo della cucina napoletana, diffondendosi peraltro prima in tutto il Sud Italia e poi nella restante penisola e con la diffusione della pietanza, il lemma a margine fu accolto nel lessico nazionale.
Scamorza s.f. talvolta ma meno comunemente scamozza
1 formaggio, simile alla mozzarella ma piú insaporito (sale e/o stagionatura), fatto con latte di vacca o misto di vacca e capra; è prodotto soprattutto nell'Abruzzo e in Campania
2 (fig. scherz.) persona che dimostra scarse capacità o che è debole fisicamente; ennesima voce di origine meridionale,accolta poi nel lessico nazionale con la diffusione del formaggio che ne porta il nome e in concomitanza con l’estendersi della produzione che da artigianale e locale è divenuta industriale e diffusa in tutta la penisola; quanto all’etimo la parola è un deverbale di scamozzare=mozzar via il capo affine al mozzare di mozzarella, in quanto la scamorza, (cosí come la mozzarella) è prodotta in pezzi di circa 3 etti cadauno, pezzi che vengono scamozzati =troncati (un tempo a mano, oggi anche con l’ausilio di mezzi meccanici),mediante torsione e strappo (mozzatura) da un filone di pasta filata , filone ricavato dalla lavorazione artigianale, con procedure trasmesse di padre in figlio, di latte intero di vacca e capra.
Scarola s.f.ed anche scariola, è voce napoletana, derivata dal lat. volg. *escariola(m), che è del lat. escarius 'che serve per mangiare', da ísca 'cibo, esca') ed usata a Napoli per indicare una varietà di indivia;la voce pervenuta nel lessico dell’italiano,à finito per indicare in alcune regioni, anche una varietà di lattuga o cicoria. Rammento che a Napoli ed in Campania esistono due speci di scarola-indivia: la riccia e la liscia; la prima è usata essenzialmente da cruda in insalata da sola o con altri ortaggi come il cavolo bianco lesso etc. condita all’agro con olio aglio trito e limone o aceto, mentre la scarola-indivia liscia viene usata da cotta dapprima lessata in acqua salata e poi saltata in padella con olio, aglio, acciughe, capperi ed olive nere di Gaeta; è con quest’ultimo tipo di scarola-indivia che a Napoli si prepara (nelle festività natalizie e di fine d’anno la gustosissima pizza di scarole cotta al forno o fritta in padella.
Scassare v. tr. 1 (agr.) lavorare, dissodare il terreno in profondità;
2 (fam.) rompere, rendere inutilizzabile: à scassato la valigia;
scassarsi v. intr. pron. (fam.) rompersi, guastarsi: l'orologio si è scassato
Il verbo scassare nell’accezione sub 2 fu dapprima nel napoletano parlato e letterario e poi pervenne nel lessico nazionale nella medesima accezione ed in quella estensiva qui indicata sub 1 ed in tali accezioni etimologicamente è verbo derivato dal lat. volg. *exquassare, comp. di ex-, con valore intens., e quassare, intens. di quatere 'scuotere, scrollare'.
Nel lessico dell’italiano prima dell’ingresso dello scassare napoletano esistevano già altri due scassare di significato ed etimo affatto diversi: a) scassare= v. tr. [der. di cassa, col prefisso s-per dis]. - togliere dalla cassa, dalle casse: scassare la merce, i libri. b) scassare = v. tr. [comp. di s-intensivo e cassare(dal lat. cassare 'annullare', deriv. di cassus 'vuoto, vano')] cassare, cancellare. Per il vero anche lo scassare (annullare) qui sub b era voce del napoletano ceduta all’italiano e taluni linguisti, con la puzza al naso, snobbavano il verbo sconsigliandone l’uso in quanto voce dialettale, come se la maggior parte delle voci dell’italiano non fosse stata dapprima nei linguaggi regionali… Ah la spocchia di taluni paludati cattedratici che fanno la lingua!
Sciabica s.f. 1 rete a strascico a maglie, formata da due lunghe ali laterali e da un sacco, per la pesca del pesce minuto;
2 imbarcazione a remi con prua molto slanciata, da cui si cala in mare tale rete; meridionalismo d’origine siciliana,poi pervenuto nell’italiano assieme ad un diminutivo(ma lo registrano solamente il D.E.I. ed il TRECCANI!) derivato sciabichello= piccola rete/rastrello a strascico usata per la raccolta delle telline e/o altri piccoli molluschi marini commestibili dei bivalvi con la conchiglia sottile e appiattita, che vivono nell’umida sabbia a riva di mare; la voce sciabica deriva etimologicamente dall'ar. shabaka 'rete'.
Scocciare v. tr. dar noia, fastidio: lo scoccia di continuo ||| scocciarsi v. intr. pron. (fam.) seccarsi, annoiarsi: mi sono scocciato di aspettarlo; napoletanismo pervenuto nel lessico nazionale dove si è andato ad accostare ad altri due scocciare di significato ed etimo affatto diversi:
a) scocciare= v. tr. rompere cose fragili, delicate: scocciare un vaso. etimologicamente verbo derivato di coccia 'guscio (dell'uovo)', col prefisso distrattivo s-; in orig. 'sgusciare', b) scocciare= v. tr. (mar.) sganciare, togliere un gancio da un anello di metallo o di un cavo; etimologicamente questo verbo è un derivato di incocciare, con sostituzione del prefisso in illativo con il prefisso distrattivo s-; lo scocciare napoletano = infastidire, annoiare, seccare etimologicamente è formato sul sostantivo coccia (nel senso di testa, capo) con il prefisso distrattivo s che si spiega semanticamente col fatto che chi scoccia, annoia etc. in pratica e sia pure metaforicamente rompe o sbrecca il capo dello scocciato.
Scoppola s.f. 1 (region.) scappellotto dato con la mano aperta sulla nuca; più in generale, colpo, botta |
2(fig.) grave perdita o danno, spec. di natura economica
3(tras.) sbalzo improvviso di un aeroplano durante il volo
voce proveniente nelle due accezioni sub 1 e 2, dal lessico partenopeo ed approdato in quello italiano dove è stata usata anche in una diversa accezione (traslata) sub 3 che però semanticamente duro fatica a spiegarmi; etimologicamente la voce napoletana scoppola è formata sul sostantivo coppa ( dal lat. cuppa nel senso di nuca, capo).
Scostumato agg. 1 che si comporta in modo contrario alle norme della morale e del costume: una persona scostumata | (estens.) vizioso, immorale: donna, vita scostumata
2 maleducato
come s. m. [f. -a] persona scostumata
il relativo avverbio è scostumatamente
Anche in questo caso ci troviamo difronte ad un accertato napoletanismo dove era attestato oltre che nell’accezione sub 2,anche nel significato di intemperate, ghiottone, villano; napoletanismo penetrato nell’italiano con un consueto modesto adattamento morfologico in scostumato di un originario scustumato (ma in tale intatta forma lo usò Giovanni Boccaccio nel suo Decamerone) che etimologicamente è dal lat. volg. *costume(n), per il class. consuetudine(m) con il prefisso distrattivo s per dis( privo di (buon)costume) ed il suffisso aggettivale ato. Altra voce napoletana, penetrata nell’italiano quale diretta derivazione della voce a margine è
Scostumatezza s.f.astratto 1 l'essere scostumato;2detto, atto da scostumato, azione, comportamento da persona scostumata; nel napoletano valse anche 3 condotta sregolata e/o dissoluta, con riferimento soprattutto al sesso.L’italiano però non raccolse quest’ultima accezione. Morfologicamente la voce fu formata aggiungendo alla voce scostumato il suff. ezza che continua il suff. latino itia→izia usato nella formazione di nome astratti.
Scugnizzo s.m. Ecco un’altra parola, che guaglione,guappo, partita dal lessico partenopeo, è bellamente approdata in quello nazionale nel suo significato di monello, ragazzo astuto ed intelligente e per estens., ragazzo vivace ed irrequieto.
È pur vero – come detto – che la parola è ormai termine italiano e pertanto da riferirsi a qualsiasi monello dello stivale, ma nel comune intendere e per solito con la parola scugnizzo ci si intende riferire ai monelli napoletani; sarebbe impensabile uno scugnizzo milanese, triestino etc. alla medesima stregua di ciò che avvenne con lo sciuscià (il monello che allo sbarco degli alleati durante l’ultima guerra, si guadagnava da vivere pulendo le scarpe dei militari e/o civili) che – a malgrado operasse in tutte le città - fu ritenuto essenzialmente napoletano…
Torniamo allo scugnizzo ed all’etimologia della parola; essa è tranquillamente un deverbale di scugnà dal latino:excuneare; il verbo scugnà significa: battere il grano sull’aia, percuotere, bastonare,smallare (le noci), scheggiare con percosse (i denti); ma nell’accezione che qui ci interessa: sbreccare, spaccare; per comprender tale accezione occorre riferirsi ad un tipico giuoco: quello dello strummolo a cui accenno brevemente qui di sèguito: trattasi di una trottolina di legno a forma di cono o strobilo con il vertice costituito da una punta metallica infissa nel legno e con numerose scalanature incise su tutta la superficie in modo concentrico e parallelo rispetto al vertice, in dette scanalature viene avvolta strettamente una cordicella che à lo scopo di imprimere un moto rotatorio allo strummolo, una volta che detta corda sia stata velocemente srotolata e portata via dallo strummolo mediante uno strappo secco per modo che la trottolina lanciata in terra prenda a girare vorticosamente su se stessa facendo perno sulla punta metallica: piú abile è il giocatore e di miglior fattura è lo strummolo, tanto maggiore sarà la velocità della roteazione e la sua durata . Se invece lo strummolo è di scadente fabbricazione , il piú delle volte risulterà scentrato e non bilanciato rispetto alla punta, per cui il suo prillare risulterà di breve o nulla durata: in tali casi si suole dire che lo strummolo è ballarino o tiriteppe= la trottolina è ballerina o tiriteppe, volendo indicare con tale ultima voce onomatopeica appunto la non idoneità del giocattolino. Allorch poi alla scentratezza dello strummolo si unisca una cordicella non sufficientemente lunga, tale cioè da non permettere di imprimere forza al moto rotatorio dello strummolo si usa dire: s’è aunito ‘a funicella corta e ‘o strummolo tiriteppe = si son congiunte una cordicella corta ed una trottolina scentrata e tale espressione è usata quando si voglia fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come nel caso ad esempio nel caso di una persona incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente fornito, per giunta, di ferri del mestiere inadeguati, o magari – per concludere - quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno parimenti svogliato. Torniamo al gioco: di solito la gara si svolge tra due o piú antagonisti che si sfidano; a noi interessa accennare, in particolare, al momento in cui uno dei giocatori risultato perdente nella gara di far vorticare la sua trottolina lignea (strummolo) può vederla sbreccare o addirittura spaccare dal vincitore che – con accorto colpo – può far scempio della trottolina dell’avversario perdente scugnandola cioè a dire sbreccandola.
Ecco dunque che i monelli napoletani adusi a manovrare lo strummolo e spesso a sbreccare quello dell’avversario son detti scugnizzi e cioè quelli capaci di scugnare ed abili a farlo.
Sfizio s.m. capriccio, voglia, gusto, grillo, ghiribizzo, uzzolo,ticchio; altra voce napoletana, ma presente pure, sempre nei medesimi significati, in altre regioni di quel che fu il reame di Napoli o delle Due Sicilie (1734 – 1860), come nel calabrese: sfizziu e nell’abruzzese sfizie; pertanto certamente voce meridionale;
il termine sfizzio (correttamente scritto in napoletano con due zeta)partendo dal napoletano, è approdato nel lessico nazionale seppure scritto con la z scempia: sfizio, ma mantenendo il medesimo significato di: capriccio, voglia etc.: togliersi uno sfizio; levarsi lo sfizio di fare qualcosa | per sfizio, per puro capriccio, per divertimento portandosi dietro molte voci derivate, come:il sostantivo sfiziosità (cosa sfiziosa; in partic., ricercatezza alimentare), l’aggettivo sfizioso (che soddisfa una voglia, un capriccio; che piace, attrae, perché originale)
nonché l’avverbio:sfiziosamente e (per sfizio). Di non facile lettura l’etimologia di sfizzio; la maggioranza dei dizionari in uso, a cominciare dal D.E.I., si trincera dietro il solito pilatesco: etimo incerto o addirittura oscuro; qualcuno, un po’ forse fantasiosamente, propende per una culla latina ed ipotizza un (sati)s -facio di cui lo sfizzio conserverebbe il sostrato di soddisfazione per raggiunger la quale occorre fare abbastanza. Qualche altro, ancor piú fantasiosamente, (e mi dispiace che tra costoro ci sia anche l’amico prof. C. Jandolo) pensa ad un latino ex+ vitium nella pretesa che lo sfizzio configuri una sorta di stravizio.
Non manca infine chi propende - e forse non a torto, piú correttamente - per un’etimologia greca da un fuxis(evasione) con tipica prostesi della S intensiva partenopea, atteso che lo sfizio è qualcosa che eccedendo il normale si connota come un’evasione dalla quotidianeità.
Sfarzo s.m. lusso vistoso, appariscente, , ostentazione di ricchezza, di fasto ostentazione, sfoggio di lusso, di ricchezza, spec. nell’arredo e nell’abbigliamento: un salone addobbato con grande sfarzo. Voce napoletana penetrata nell’italiano sin dalla fine del 1600 ( Magalotti Roma 1637 -† Firenze 1712) e già registrata dal N. Tommaseo nel suo Dizionario dei sinonimi della lingua italiana; quanto all’etimo il napoletano/italiano sfarzo 'vanto infondato', è un derivato di sfarzare 'simulare, ostentare', che trae dallo sp. disfrazar 'fingere, mascherare'.
Sfogliatella s. f.
tipico piccolo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di semolino, ricotta,uova, canditi e spezie varie. Cominciamo col dire che ogni dolce à una sua storia. A volte faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata. La storia della sfogliatella appartiene fortunatamente alla prima categoria. La sfogliatella, dolce tipicamente partenopeo nacque (sia pure con un nome diverso) come spesso accadde per tanti dolci napoletani in un monastero: quello di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In quel riservato luogo ci si dedicava tantissimo alla preghiera, allo studio ed al lavoro manuale; il poco tempo libero residuo, (non potendo le monache intrattener rapporti con il mondo esterno…) veniva speso in cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il loro orto e la loro vigna, sí da ridurre al minimo i contatti con l’esterno, ed aumentare, con la preghiera, quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menu servito a refettorio era ovviamente uguale per tutte; soltanto le monache piú anziane potevano godere di un vitto speciale, fatto di semplici, ma nutrienti minestrine. Avvenne cosí che un giorno di tanto tempo fa (siamo nel 1600) la suora addetta alla cucina si accorse che in un tegame era avanzata un po’ di semola cotta nel latte, preparata per una vecchia suora sdentata; buttarla sarebbe stato un sacrilegio. Fu cosí che, come ispirata dal Cielo , la suora cuciniera vi cacciò dentro un uovo, un paio di cucchiai di ricotta, un po’ di frutta secca tritata , dello zucchero e del liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”, disse fra sé e sé. Ma da metter dentro a che cosa? La fantasia non le mancava e risolse súbito il problema: preparò con uova e farina due sfoglie di pasta vi aggiunse strutto e vino bianco, e vi sistemò nel mezzo il ripieno. Poi, per soddisfare il suo gusto estetico, sollevò un po’ la sfoglia superiore, le diede la forma di un cappuccio di monaco, ed infornò il tutto. A cottura ultimata, guarní il dolce con un cordone di crema pasticciera e delle amarene candite. La Madre Superiora, a cui per prima fu ammannito il dolce, sulle prime lo annusò , e súbito dopo (non si è Madri superiore indarno o per caso!...) fiutò l’affare; con quell’invenzione benedetta (e soprattutto saporita) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse del convento. La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce poteva esser messo nella classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci avessero messo (in entrata), qualche moneta. Al dolce venne assegnato ovviamente , il nome della Santa a cui era dedicato il convento: santa Rosa Come tutti i doni di Dio, la santarosa non poteva restare confinata in un sol luogo, per la gioia di pochi. Occorse del tempo, ma poi il dolce divenne noto in tutto il napoletano; in effetti la santarosa impiegò circa centocinquant’anni per percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui vi arrivò ai primi del 1800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro, nipote di una delle monache del convento amalfitano. I napoletani d’antan potrebbero opporre che Pintauro fu un pasticciere, e non un oste. Eppure al tempo di cui stiamo parlando, P.Pintauro era effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di fronte alla strada di Santa Brigida. La bottega di P.Pintauro rimase un’osteria fino al 1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso, probabilmente come grazioso dono della sua zia monaca che gliene parlò in articulo mortis, della ricetta originale della santarosa. Fu cosí che Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertí in un laboratorio dolciario, dove si produssero con le sfogliatelle anche altri dolci pare d’invenzione dello stesso Pintauro: zeppole di san Giuseppe, code d’aragoste ,babà con l’uvetta e naturalmente tutti gli altri dolci della tradizione partenopea, nati quasi tutti nei monasteri femminili napoletani e/o della provincia o copiati da quelli prodotti da altri famosi dolcieri come nel caso del diplomatico e del ministeriale . Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la modificò,semplificandola ed eliminando il cordone di crema pasticciera e l’amarena, e sopprimendo la protuberanza superiore a cappuccio di monaco. Era nata la sfogliatella. La sua varietà piú famosa, la cosiddetta “riccia”, mantiene da allora la sua forma triangolare, a conchiglia, vagamente rococò. Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli, con gran soddisfazione. Se si cerca l’eccellenza però, (e non è pubblicità!...)accanto alla bottega dei F.lli Attanasio al vico Ferrovia (che sull’insegna e la carta intestata scrive Napule tre ccose tene ‘e bbello: ‘o mare, ‘o Vesuvio e ‘e sfugliatelle bisogna cercare la bottega di Pintauro che è ancóra là a Toledo: à cambiato gestione, ma non à cambiato il nome e neppure l’insegna, e tanto meno la qualità. Che resta quella di quasi duecento anni or sono. Quanto all’etimo sfogliatella è un diminutivo (cfr. il suff. ella) di sfogliata derivato di sfoglia: strato di pasta all'uovo stesa e assottigliata col matterello: fare la sfoglia | pasta sfoglia:pasta dolce o salata, a base di burro o strutto e farina, che cuocendo si divide in strati leggeri.
Sfruculiare verbo tr. del napoletano, pervenuto poi nell’italiano,stranamentesenza alcun adattamento (di solito i napoletanismi (cfr. antea scustumato→scostumato)mutano le chiuse u nelle piú aperte o ) nel significato di infastidire, punzecchiare, stuzzicare. Illustro qui di seguito la piú famosa locuzione partenopea con il verbo a margine:
Sfruculià 'a mazzarella 'e san Giuseppe
Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante, quasi sbreccandone dei pezzetti.
La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un attento e severo servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto, durante il suo soggiorno veneziano da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi, come appartenuto al santo padre putativo di Gesù. Il settecentesco celeberrimo tenore il 1° agosto del 1713 rientrò a Napoli da Venezia - dove aveva trionfato a “La Fenice” - convinto di recare con sé l’autentico bastone (la mazzarella) al quale San Giuseppe si era sostenuto nell’accompagnare la Madonna alla Grotta di Betlemme e che (stando almeno a quanto fa intendere Annibale Ruccello) si favoleggiava fosse efficace strumento per scacciare il Maligno dal corpo degli indemoniati. Espose dunque nel salotto del suo palazzo il bastone e vi pose a guardia un suo servitore veneto con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecule) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià. Come si intende il verbo a margine è dunque un denominale che partendo dal s. frecula (pezzettino) è approdato a sfruculià/sfreculià passando attraverso una ex→s (intensiva)+ il lat. volg. *friculiare=sfregare dolcemente, ma insistentemente per il class. fricare.
Smammare v. intr. [aus. avere] verbo attestato nell’italiano come voce regionale e pertanto se ne sconsiglia (ma non se ne comprende il motivo) l’uso; i significati: togliersi di mezzo, andarsene, sloggiare, filare via, abbandonare una posizione: vattene, smamma!; fiutato il pericolo, à subito smammato. Originariamente il verbo fu nel napoletano dove venne dapprima usato nel senso di svezzare e poi in tutte le altre accezioni ricordate e forní quale derivato l’agg.vo e s.vo m.le o f.le smammatore/tora= propalatore/trice di fandonie, sciocchezze, bugiardo/a matricolato/a; etimologicamente il verbo risulta un deriv. di mamma nel sign. di 'mammella( mamma deriva giustappunto dal lat. mamma(m) 'mammella, poppa' ), attraverso la prostesi di una s (per dis o ex) distrattiva per indicare appunto lo svezzare cioè il distaccare il neonato dai capezzoli materni ed avviarlo ad altro tipo di alimentazione; semanticamente sia lo svezzare che gli altri significati esaminati, contengono in sé l’idea dell’allontanamento, del distacco; e dunque il passaggio da svezzare ad andarsene, sloggiare, abbandonare una posizione, si può comodamente spiegare col fatto che come il neonato svezzato ed avviato ad altro tipo di alimentazione, difficilmente torna ad attaccarsi alle poppe materne, cosí chi decide di andarsene, sloggiare,filare via, abbandonare una posizione, difficilmente ritornerà sui suoi passi; ugualmente semanticamente si spiegano i significati di propalatore/trice di fandonie, sciocchezze, bugiardo/a matricolato/a come di chi avendo generato una/delle fandonia/e decida di svezzarla/le, mandandola/le in giro;
Smargiasso s.m.Anche questa volta, con la voce a margine ci troviamo difronte ad un’altra parola, che partita dal lessico partenopeo, è bellamente approdata in quello nazionale dove è in uso nel suo significato di gradasso, spaccone,millantatore, insomma soggetto chi si vanta a sproposito, sbruffone che si attribuisce meriti di imprese grandiose o qualità eccezionali che in realtà non possiede.
I medesimi significati di gradasso, spaccone,millantatore, individuo chi si vanta a sproposito, sbruffone si riferiscono allo smargiasso dei vocabolarî del napoletano dove accanto alla voce smargiasso, per indicare il gradasso, lo spaccone etc. si usano, sia detto per incidens, volta a volta le voci: favone, grannezzuso, rodamunno,sbardellone, sbafante, , spacca-e-mmette-ô-sole,squarcione mentre come già dissi alibi, il millantatore parolaio e saccente è indicato con il termine spallettone.
Prima di esaminare le singole voci riportate, torniamo all’assunto e cioè che la voce smargiasso sia voce originariamente partenopea, poi trasmigrata nell’italiano. E dirò che, a mio avviso, l’origine napoletana di smargiasso è dimostrata da due fatti:
1) morfologicamente la parola è formata da un tema smargi con l’aggiunta di un suffisso dispregiativo asso; tale suffisso,con base nel lat. aceus (cfr. Rohlf “Grammatica Storica della Lingua Italiana e dei Suoi Dialetti”) è prettamente meridionale- napoletano; in italiano lo si ritrova nella forma accio o azzo; ragion per cui se la voce smargiasso fosse stata originaria dell’ italiano avremmo avuto probabilmente smargiaccio o smargiazzo non smargiasso quale che sia - e lo vediamo súbito - l’origine del tema su cui si è costruita la parola in epigrafe;
2) etimologicamente la voce smargiasso, scartata un’ipotesi che congettura una derivazione (a mio avviso molto tortuosa e fantasiosa) dallo sp. majo 'spaccone', con protesi di una esse intensiva, epentesi di una erre (eufonica?)- e con suff. peggiorativo, penso debba derivare o dall’aggettivo greco màrgos=protervo, arrogante oppure dal verbo smaragízein = risuonare, rimbombare. È pur vero che sia nel caso dell’aggettivo che in quello del verbo manca l’intermedio del latino, ma ciò è tutta acqua al mulino del mio assunto che cioè la parola smargiasso sia d’origine partenopea; infatti se fosse esistito l’intermedio del latino culla e madre della lingua italiana e di tutti gli altri linguaggi regionali..., la parola sarebbe potuta nascere in un punto qualsiasi dello stivale, ma generata direttamente dal greco (che, classico e/o bizantino, fu lingua parlata nella Magna Grecia dove spesso si uní alle parlate locali) mi conferma nell’ipotesi che la parola smargiasso sia d’origine napoletana.
Ciò chiarito passiamo (esulando per un poco dal tema che mi sono prefisso: NAPOLETANISMI E/O MERIDIONALISMI NELL’ITALIANO) ad esaminare brevemente sia le parole dell’italiano, che quelle del napoletano rese dalla voce che ci occupa.
gradasso: vanaglorioso, chi si vanta di fare cose eccezionali, senza averne la capacità derivato (piuttosto che dal lat. gradus, come poco convincentemente propose qualcuno) per degradazione semantica dal nome proprio di Gradasso, vanaglorioso personaggio dell'«Orlando Innamorato» del Boiardo ((Scandiano, 1441 –† Reggio Emilia, 19 dicembre 1494) e dell'«Orlando Furioso» dell'Ariosto (Reggio Emilia, 8 settembre 1474 –† Ferrara, 6 luglio 1533);
spaccone di significato simile al precedente; per l’etimo si tratta di un evidente accrescitivo (cfr. suff. one) deverbale di spaccare: spezzare, dividere in piú parti; a sua volta spaccare è dal longob. *spahhan 'fendere';
millantatore il termine indica chi in genere si vanti o vanti qualità o meriti che non à ed etimologicamente è un deverbale di millantare id est: accrescere millanta volte e quindi aggrandire esageratamente, vantarsi, vanagloriarsi;
sbruffone che è chi si attribuisce meriti di imprese grandiose o qualità eccezionali che in realtà non possiede o chi racconti di imprese esagerate (peraltro false) menandone vanto; etimologicamente sbruffone è un deverbale di sbruffare voce onomatopeica che indica in primis l’emettere dalla bocca e/o dal naso spruzzi di liquidi fisiologici, come può accadere a chi per vantarsi di imprese grandiose o qualità eccezionali che in realtà non possiede, apra continuamente ed esageratamente la bocca provocando quegli spruzzi;
favone è propriamente il gran millantatore, vanesio chiacchierone oltre che saccente e supponente; etimologicamente penso che, piú che al latino fabulo/onis da un fabulari = raccontar sciocchezze, la parola possa collegarsi al latino favonius che indicò un vento, come al vento si posson appaiare le vuote parole emesse dal vanaglorioso, saccente favone;
grannezzuso che in primis è altezzoso,altero, e per estensione vanaglorioso, millantatore etc. l’etimo è dall’agg.vo granne ( lat. grande(m)→granne)attraverso il sost.vo grannezza;
rodamunno, chi si vanta con arroganza di imprese straordinarie o veramente affronta imprese rischiose, ma solo per ostentare la propria forza e bravura; spaccone, smargiasso; per quanto riguarda l’etimo la parola a margine è una sistemazione regionale, per degradazione semantica di un nome proprio e ciè di Rodomonte, personaggio dell'«Orlando Furioso» di L. Ariosto, dotato di straordinaria forza e audacia;
sbafante, letteralmente vanitoso, vanaglorioso, aduso alla spacconeria; l’etimo della parola è da ricercarsi in una serie onomatopeica ba... fa... da collegarsi all’espirazione ed all’apertura di bocca di chi ecceda nel parlare per vantarsi; alla serie ba,fa è premessa una esse durativa ed aggiunto un suffisso ante che lascia sospettare un participio presente d’uno *sbafare=vantarsi e per amplimento semantico sfiatare, sfogare;
sbardellone : esattamente il grande (si noti il suffisso accrescitivo one) ridondante vanesio ciarlatore, aduso ad eccedere i limiti, quasi ad esorbitare dal suo alveo di competenze, in tutto in linea con il suo etimo che è un deverbale d’un bardellare = porre la bardella (dal fr. bardelle =piccola sella) diventato sbardellare con la solita protesi della esse che qui non è intensiva, ma distrattiva, per significare proprio il debordamento delle ciarle dello sbardellone a margine;
spacca-e-mmette-ô-sole, letteralmente vale spacca-e-pone-al-sole che indicherebbe di per sé l’azione di quei contadini che raccolti i pomidoro li spaccano (aprono in due ) e li pongono al sole perché si secchino; per traslato giocoso indica il comportamento dello spaccone (cfr. antea);
squarcione letteralmente vale la voce precedente (spaccone) di cui mantiene il suffisso accrescitivo one mentre cambia la radice: lí spacca da spaccare, qui squarcia da squarcià di significato simile a spaccare e con etimo dal lat. volg. *ex-quarciare variante di *ex-quartiare= dividere in quattro;
- spallettone: eccoci a che fare con l’altro termine che con il pregresso favone è usato in napoletano per indicare il gran millantatore, il saccente, il supponente, il sopracciò,il gradasso fastidioso, colui che anticamente fu definito mastrisso termine ironico corruzione del latino magister ovvero colui che si ergeva a dotto e maestro, ma non ne aveva né la cultura, nè il carisma necessarii; piú chiaramente dirò, per considerare le sfumature che delineano il termine a margine , che vien definito spallettone chi fa le viste d’essere onnisciente, capace di avere le soluzioni di tutti i problemi, specialmente di quelli altrui , problemi che lo spallettone dice di essere attrezzato per risolvere, naturalmente senza farsi mai coinvolgere in prima persona, ma solo dispensando consigli ad iosa , che però non poggiano su nessuna conclamata scienza o esperienza, ma son frutto della propria saccenteria in forza della quale non v’è campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone non sia versato;l’economia nazionale? E lo spallettone sa come farla girare al meglio. L’educazione dei figli altrui,mai dei propri!?, E lo spallettone, a chiacchiere, sa come farne degli esseri commendevoli e, cosí via, non v’è cosa che abbia segreti per lo spallettone che,specie quando non sia interpellato,si propone tentando di imporre la propria presenza e dispensando ad iosa consigli non richiesti che – il piú delle volte- comporterebbero, se messi in pratica, in chi li riceve, un aggravio (senza peraltro certezze di buoni risultati…) delle incombenze, del lavoro e dell’impegno, aggravio che va da sé finisce per essere motivo di risentimento e rabbia per il povero individuo fatto segno delle stupide e vacue chiacchiere dello spallettone.
Per ciò che riguarda l’etimologia non vi sono certezze essendo il vocabolo completamente sconosciuto ai compilatori di vocabolarî del napoletano, adusi (al solito!) a pescare le parole negli scritti degli autori classici e, spesso, a tenere in non cale il vivo, corrente idioma popolare; non posso allora che proporre un’ipotesi, non supportata è vero da riscontri storico-letterarî, ma che mi pare sia estremamente perseguibile; eccovela: penso che, essendo il sostrato dello spallettone, la vuota chiacchiera, è semanticamente al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul verbo parlettià (ciarlare)con la classica prostesi della esse intensiva partenopea, l’assimilazione regressiva della erre alla elle successiva e l’aggiunta del suffisso accrescitivo one.
E qui circa il termine smargiasso penso di poter far punto, rimandando, per altre voci che avessi omesso, a ciò che alibi scrissi sotto il titolo Chiacchierone.
Sommozzatore s. m. 1 esperto nuotatore subacqueo
2 appartenente a corpi speciali dell'esercito, della marina, dei vigili del fuoco ecc. addestrato a eseguire lavori subacquei immergendosi con autorespiratore o in apnea.
3 rammento che durante la seconda guerra mondiale, ebbe il nome di sommozzatore chi faceva parte del personale volontario addestrato all’uso di mezzi d’assalto subacquei
Voce napoletana penetrata con il solito piccolo adattamento morfologico(u→o) nell’italiano; etimologicamente si tratta di un deverbale di summuzzare/sommozzare ='tuffarsi', dal lat. volg. *subputeare 'sommergere, immergere', comp. di sub 'sotto' e un deriv. di puteus 'pozzo'; tale etimologia si fa preferire a quella pur morfologicamente ineccepibile del prof. C. Iandolo che ipotizza un lat. volg. *submersare→summersare→summezzare→summuzzare→sommozzare=immergere, in quanto i primi sommozzatori eseguivano lavori di manutenzione proprio calandosi nei pozzi. È strano tuttavia che l’italiano abbia accolto la voce a margine, ma non il verbo sommozzare da cui essa deriva.
Tarallo s.m. s. Tarallo s.m. s. biscotto a forma di ciambella tipico dell'Italia meridionale, dolce se condito con zucchero e semi d'anice, rustico se condito con sugna e pepe o altro. DIM. taralletto, tarallino, taralluccio. Trattasi chiaramente di un meridionalismo, attese le regioni (tutte meridionali: Campania, Abruzzo, Calabria e Puglia) dove vengono prodotti tali tipici biscotti. Voce penetrata nel lessico dell’italiano vista la gran diffusione peninsulare ( per esportazione dalle regioni produttrici) del prodotto che va sotto il nome di tarallo. Quanto all’etimo della voce a margine non vi sono certezze e si vaga nel campo delle ipotesi; tutti i calepini a mia disposizione, a cominciare dal D.E.I. nicchiano o si rifugiano dietro il solito pilatesco etimo incerto;non so dire chi l’abbia formulata ma esiste un’ipotesi che riferirebbe la voce tarallo al greco toros (= toroide); personalmente ipotizzo il latino torus (= toro: modanatura inferiore della colonna,cordone); semanticamente in ambedue i casi ci si troverebbe nel giusto atteso che sia la forma del toroide che quella del toro di colonna, richiamano quella del tarallo, ma morfologicamente è alquanto complicato, tuttavia posto che in linguistica non sono importanti gli adattamenti vocalici (o→a) è un po’ piú complesso spiegare da dove salti fuori quel suffisso allo a meno che (ed è questa la mia ipotesi!), a meno che questo allo non sia un adattamento locale di un originario suffisso diminutivo ello←ellus prorio dei sostantivi con tema in r; oppure un adattamento metaplasmatico ed espressivo di un originario suffisso diminutivo olo←olus;accettando una delle due ipotesi si potrebbe ritenere il tar-allo un piccolo(per il suff.ello→allo oppure olo→alo→allo) cordone (torus); dopo lungo almanaccare, mi son fatto convinto di questa idea, quantunque neppure la grammatica del RHOLFS faccia menzione di questi adattamenti di suffisso... In ogni caso, se si accettasse, per l’etimo di tarallo la mia idea di tor-(us) + il suff. ello→allo oppure olo→alo→allo forse si potrebbe , indegnamente, dare scacco persino al D.E.I. che al proposito di tarallo elencò una sequenza di ipotesi giudicandole tutte però improponibili o non perseguibili..., con la sola eccezione, forse!, di una voce macedone: dràmis = focaccia, voce che però il curatore della lettera T (Giovanni Alessio) ipotizzò debba leggersi in modo paleograficamente corretto dràllis. Stimo, e quanto! G. Alessio, ma – nella fattispecie – penso che si fosse esibito in un doppio salto mortale (senza rete), pericoloso esercizio in cui, mancandomi forza e coraggio(lèggi: preparazione) non mi sento di seguirlo! Ed in ogni caso il passaggio morfologico da dràllis a tarallo d’acchito non si còglie!
Tortano s.m. = 1 ciambella rustica farcita di molti ingredienti: sugna, formaggi, salumi, uova sode etc.2) nell’accezione specificativa tortano di pane = ciambella in forma di corona circolare di comune pane lievitato in pezzatura di circa un kg.
Nell’accezione sub 1 è una preparazione tipicamente napoletana in uso tradizionalmente nel tempo pasquale, ricordando con la sua caratteristica forma a corona circolare, la corona di spine imposta a Cristo durante la sua passione; poiché però gli ingredienti di questa ricetta sono reperibili durante tutto l’anno e non solo nel tempo primaverile (tempo pasquale) nulla vieta che la si prepari in altre occasioni, come le festività natalizie: È sempre un asciolvere fantastico! Rammento che il primo sostanziale ingrediente del tòrtano napoletano è la sugna o strutto, componente che non può assolutamente essere sostituito con altri grassi (olio o burro); un napoletano che lo facesse ( come purtroppo ò visto fare da taluna inesperta massaia piú attenta ai falsi tabú del colesterolo e della linea, che ai dettami della sana tradizionale cucina partenopea...) incorrerebbe nella scomunica latae sententiae e meriterebbe di essere scacciato con abominio dalla comunità napoletana ! Ò compreso tra i napoletanismi/meridionalismi pervenuti nell’italiano anche la voce a margine, quantunque assente nei pricipali vocabolarî in uso (ma non manca nel D.E.I., che lo registra come napoletano tòrtano accanto all’abruzzese tòrtele ed al calabrese tòrtanu/a ), oltre per il riscontro or ora menzionato, anche per avere udito la parola sulla bocca di amici provenienti da ed originarî di regioni al di là dell’acqua santa (Garigliano); nell’italiano la voce a margine indica pure (tortano di pane) una particolare (ciambella a corona circolare) forma di pane comune del peso di ca un kg.; quanto all’etimo, la voce a margine è derivata dal lat.tort(ilis)tórto, ritórto addizionato del suff.di pertinenza atono ano←aneus.
Tortiera s.f. recipiente, spec. metallico e col bordo basso, per cuocere in forno le torte: t. per crostate, a cerniera, da savarin, di ceramica, da microonde piú in generale:
teglia tonda, per cuocere al forno torte o altre preparazioni dolci o salate. Si tratta di un meridionalismo variamente attestato ( nap. turtiéra, sic. turtèra, cal.tortèra, turtèra, tarantino turtièra) pervenuto nell’italiano già a far tempo dal XVII sec. Quanto all’etimo c’è da scegliere: la voce a margine appare derivata o dallo spagn. tortera=forma per pasticci o dal francese tourtiere (XVI sec.); personalmente opto, stante la conservazione del dittongo tonico ié, per la culla francese.
Vongola s.f. (zool.) mollusco lamellibranco che vive sui fondi sabbiosi o fangosi dei litorali dei mari temperati, con conchiglia ovale bivalve (quella della vongola normale è di colore grigio chiaro ed è finemente striata in bianco, quella della vongola cosiddetta verace(fornita di un doppio sifone)è di colore quasi nero, striata finemente in grigio chiaro; molte specie sono pescate per la prelibatezza delle loro carni): zuppa di vongole; spaghetti alle (con le) vongole; Si tratta di un chiarissimo meridionalismo variamente attestato (nap.vongola/vonghela, barese: gonghela, foggiano e tarantino vonghela) pervenuto nell’italiano già a far tempo dal XVII sec.anche come góngola,cóngola Quanto all’etimo c’è poco da scegliere: la voce a margine è certamente di culla tardo-latina conchula diminutivo di concha=conchiglia. A margine di tutto ciò ricordo qui che nel napoletano con la voce vongola/vonghela si intende non solo il mollusco di cui abbiamo detto, ma si indica altresí una sciocchezza, uno strafalcione, una bestialità; infatti con l’espressione partenopea Dicere vongole, che à una variante in Dicere scarole, sivuol significare: dire, profferire sciocchezze, parlare commettendo strafalcioni logici e/o grammaticali; oggi piú semplicemente s'usa dire: Dicere fesserie (dire stupidate) ma tutte le espressioni ànno tutte la medesima origine atteso che sia il richiamo ittico (vongole) sia quello ortofrutticolo (scarole: altra voce, come ò riportato antea napoletana trasmigrata nel toscano con derivazione dal latino scaríola da escarius= commestibile) si riallacciano all'organo sessuale femminile(fessa)(da cui la napoletana fessaria= sciocchezza, stupidata, donde la toscana fesseria di significato analogo)organo che un tempo fu chiamato alternativamente vongola o scarola ed evito di spiegarne il motivo, facilmente intuibile. In chiusura di questa voce faccio notare la solita incomprensibile mutazione che opera il toscano trasformando una A etimologica (da fessa: fessaria) per adottare una piú chiusa E (fessaria vien trasformata in fesseria) nella sciocca convinzione che la vocale chiusa E sia piú consona dell'aperta A alla elegante (?) lingua di Alighieri Dante.
Zeppola s.f. frittella dolce di pasta choux o bignè; (gastron.) Ciambelletta dolce tipica della cucina napoletana cotta in padella o nel forno, guarnita di crema e confettura di amarene, tradizionale per la festa di san Giuseppe. 2. (gastron.) Spec. al plur., nome di ciambelle e pasticcini di composizione diversa .Anche in questo caso ci troviamo in presenza di un accertato meridionalismo: la voce (registrata dal D.E.I. e numerosi altri vocabolarî dell’italiano), è infatti variamente attestata in area abruzzese,napoletana, calabrese e siciliana; si tratta perciò d’un antico meridionalismo pervenuto nell’italiano (1536); quanto all’etimo,non mi convince ciò che ritenne il prof. C. Battisti, curatore della lettera Z del D.E.I., il quale Battisti propose per zeppola una derivazione da zéppa =bietta, cuneo, (ma non mi pare proprio che la ciambelletta/zeppola abbia la forma di un cuneo…) o una derivazione da zèppa= piena, gonfia (ma la ciambelletta/zeppola, non è né piena, né molto gonfia, ma solo guarnita all’esterno di crema e confettura; preferisco per l’intanto seguire l’idea dell’amico prof.C. Jandolo che propone il lat. sirpula (serpentello) atteso che la forma della zeppola è giustappunto quella d’un serpentello attorcigliato su se stesso, quantuque a pag.1564 del Du Cange trovo registrata la voce tardo-latina zippula nel significato di focaccina schiacciata a mo’ di lenticola. A margine e completamento di tutto ciò rammento che nel napoletano accanto alla voce zeppola usata per indicare il dolce di pasta choux o bigné esiste anche una sorta di diminutivo: zeppulella usato per indicare una sorta di frittella salata di semplice pasta lievitata, fritta in olio bollente e profondo. Non mi riesco proprio a spiegare il motivo del nome zeppolella (piccola zeppola) assegnato alla frittellina salata, atteso che la forma della zeppola come detto è quella d’una ciambelletta o d’un serpentello aottorcigliato su se stesso, mentre la zeppulella, che a mio avviso è piú corretto chiamare semplicemente pastacrisciuta, à forma irregolarmente sferica.
Ed a questo punto mi pare di poter mettere un punto fermo, non sovvenendomi d’altri napoletanismi e/o meridionalismi pervenuti nell’italiano. Satis est.
Raffaele Bracale