giovedì 15 maggio 2014
‘A SCÒLA
‘A SCÒLA
Questa volta mi si perdonerà se, preso da un improvviso quanto irrefrenabile attacco di nostalgia/malinconia, faccio un tuffo nel passato e ritorno agli anni intorno al 1950, quando nelle assolate aule di una scuola napoletana, peraltro stranamente intitolata ad una poetessa padovana, tale Gaspara Stampa (1523 – 1554) scuola ubicata in un antico palazzo di via Pontenuovo a Napoli, frequentai con gran profitto ‘a scòla (da un lat.:schóla luogo dove contrariamente alla idea originaria di ozio,riposo,quiete che si annetteva alla parola, si lavorava non poco per dare (da parte del docente) e ricevere (da parte dei discenti) una adeguata istruzione elementare o primaria; furono quelli i tempi in cui nelle aule erano sistemati numerosi alti banchi di color grigio scuro quando non nero, che ancóra qualcuno seguitava a chiamare, con nome antico: trasti ( dal latino: transtum in origine il banco di seduta dei rematori delle galee romane) banchi in cui – a due a due - trovavano posto gli alunni; al margine alto ed estremo del piano di scrittura erano collocati in appositi fori circolari i due (uno per alunno) calamare/i (dal latino calamus = penna + il suffisso di pertinenza areus (aro) cioè i piccoli contenitori vitrei in cui ogni mattina veniva versato dal bidello (dal basso latino: bedèllus = addetto ai servizi), meglio da una lercia, impataccata bidella,bassa e dalle gambe storte, un sufficiente quantitativo di gnosta/ia ( da una lettura metatetica del lat.: encaustum attraverso lo spagnolo encausto→engausto→gnosta ) inchiostro rigorosamente di color nero che veniva attinto con dei pennini metallici infissi all’estremità di certe cannucce lignee (cd. penne comuni) laccate in varî colori e trasferito per scrivere, ma molto spesso per produrvi immani macchie (lat. macula → mac’la→macchia ) che invano si tentava di arginare con la c.d. carta zucagnosta = carta assorbente, sulle immacolate pagine dei quaderni detti alternativamente manesiglie (dallo spagnolo manecilla = da poter tenere in una sola mano) o pure cartulare (dal lat. chartula diminutivo di charta + il consueto suffisso di pertinenza: areus = aro; ‘o cartularo aveva detto nome come che formato dall’aggregazione di piccole carte; rammenterò che in seguito con il termine cartularo (ma palese adattamento dell’italiano cartolaio) si indicò non il quaderno, ma il rivenditore di tutti i prodotti cartacei o meno occorrenti a chi frequentasse la scuola: penne, pennini, matite dette ovviamente làppese dritto per dritto dal latino lapis con vocale paragogica finale e raddoppiamento espressivo consonantico in parola divenuta sdrucciola, ed altri aggeggi quali nettapenne sorta di doppio feltrino entro cui si stringeva il pennino allo scopo di pulirlo, quando si finiva di scrivere e poi si riponeva con penna e matita nel sacrosanto pennarulo, ligneo portapenne con chiusura a scorrimento (dal latino pennarolium), dove accanto a penna e matita trovavano posto ‘o temperalàppese dal latino temperare + lapis = piccolo strumento fornito di minuscola lama atta ad appuntir le matite, ‘o nettapenne già visto e ‘a gomma pe cassà (dal latino cassus= vano, cioè reso inutile) o scancellà che è cancellare (in origine la cancellazione consisteva nel tracciare su scritti o disegni numerose righe fino a comporre una sorta di cancello sugli scritti o disegni rendendoli non
piú fruibili e dunque inutili) con tipica prostesi partenopea di una esse intensiva.
Il tutto: quaderni, portapenne etc., a fine lezione , finivano assieme al sussidiario ed al libro di lettura nella cartera (dall’omografo, omofono cartera spagnola) id est: cartella contenitore in forma di parallelepipedo, con coperchio, incernierato su uno dei lati lunghi e con maniglia fissata al centro del coperchio, in cartone pressato o fibra, per l’asporto di tutto quanto or ora elencato.Ricordo qui che il termine pennarulo fu termine antico e con esso il re Ferdinando I di Borbone (Napoli, 12 gennaio 1751 - † Napoli, 4 gennaio 1825) usava indicare, a mo’ di dileggio, i giornalisti forse perché soliti portar con loro numerose penne.
Nell’aula sulla cui parete di fondo e precisamente al centro di essa troneggiava su di un’ampia predella[
dal longob. pretil 'assicella'] lignea una massiccia cattedra
[dal lat. cathedra(m), dal gr. kathédra, comp. di katá 'sopra' e hédra 'sedia']dietro la quale era assiso/a, su di un’alto seggiolone di legno con seduta impagliata, l’insegnante che era provvisto/a di ben due calamai, l’uno riempito di inchiostro blu, l’altro di inchiostro rosso, calamai che erano accompagnati da piú penne, tampone per asciugare o talora ancora di un polverino (contenitore di arena che sparsa sui fogli asciugava l’eccesso di inchiostro); sulla cattedra accanto a calamai, penne registri ed altro materiale da scrittura faceva mostra di sé la temuta, flessibile riga lignea da sessanta centimetri per tre, che l’insegnante usava per la cosiddette spalmate cioè secche brucianti dolorose percosse inflitte con la riga sulle palme delle mani degli scolari meritevoli di punizioni e restii ai rimbrotti orali;talora la punizione consisteva nel tenere il corrigendo inginocchiato su di un pugno di mais o ceci secchi sparsi in terra in un angolo proprio dietro la nera tavola d’ardesia [la lavagna] collocata su di un solido cavalletto posto sul lato destro della cattedra. Per tracciare i segni sulla lavagna ci si srviva di bastoncini di friabile gesso bianco (o raramente colorato) bastoncini che necessitava venissero spezzettati perché se troppo lunghi producevano un raccapricciante stridore tale da allegare i denti. Per concellare i segni tracciati con il gesso sulla lavagna si usava il cassino/ cancellino cioè un cuscinetto di tessuto imbottito o, piú spesso un disco di cimosa arrotolata e fermata con alcuni punti di cotone, disco usato appunto per cancellare gli scritti sulla lavagna. Dai nostri bidelli il cassino/ cancellino era talora chiamato per sineddoche ‘o linzo [da un lat. tardo lentea] che in realtà identificava la striscia di cimosa che serviva a formarlo. Davanti alla cattedra ed alla lavagna erano ordinatamente sistemati in piú file i banchi dove prendevano posto numerosi/e ragazzi/e (in una mia foto dell’epoca ne ò contati addirittura cinquanta: quasi un esercito rispetto alle risibili classi d’oggidí formate da venti, vintidue alunni, risibili classi di cui tuttavia gli sfaticati docenti (maestre e maestri) d’oggi se ne dolgono; quegli alunni d’antan, tutti a qualsiasi ordine sociale appartenessero, indossavano su gli abiti un adeguato mantesino; la parola indicò in primis (con derivazione dal latino: mantu-m(ante)sinu-m→ man(tan)tesinu-m con evidente aplologia) lo zinale usato in cucina dalle donne per non imbrattarsi gli abiti durante la preparazione dei cibi, ed estensivamente il grembiule o la sorta di sopravveste, generalmente con maniche, che indossano i bambini e alcune categorie di lavoratori come divisa o per non rovinare gli abiti; ‘o mantesino degli alunni era corredato di un candido colletto al cui centro era appuntato un nastro annodato a mo’ di fiocco, nappa o per dirla alla maniera partenopea a mo’ di nocca (etimologicamente la voce a margine è secondo alcuni da un longobardo knohha, ma trovo piú perseguibile l’idea di un latino nodica, sincopata in nod’ca e poi con assimilazione dc→cc = nocca; il nastro era di diverso colore secondo le varie classi : si partiva dal nostro rosso della I° elementare, per finire, passando una varia gamma, con quello tricolore della V° che spesso i ragazzi portavano annodato al braccio sinistro piuttosto che al mezzo del colletto. La disciplina delle classi e l’insegnamento didattico era affidato ad un solo insegnante in luogo della inutile triade odierna;l’insegnante, se donna, in luogo di maesta =maestra (dal latino magistra(m))era detta sempre ‘a signurina di per sé diminutivo di signora femminile di signore che è dal latino: seniore(m), anche quando codesta signurina non fosse piú giovane o nubile, ma sposata ed avanti con gli anni; la faccenda è spiegabile tenendo presente che il termine maesta era riservato nel napoletano d’antan, sia pure nella forma ‘a sié maesta, alla bottegaia, padrona di bottega o anche ad una semplice popolana che però vestisse vistosamente, in maniera enfatica, pomposa con mantiglie quasi preziose dette scialle ‘e lusso, orecchini preziosi pendenti dai lobi, orecchini detti sciucquaglie dal latino iocalia attraverso lo spagnolo chocallos = vezzi, magari una dorata pettenessa (forgiata sul greco pektô) sorta di pettine ricurvo infisso a sostegno della crocchia di capelli inalberata al centro del capo, e fosse provvista di adeguate canacche (dall’arabo hannaqa)= collane vistose che rendono appunto ‘a sié maesta, ‘ncannaccata.Va da sé che una maestra di scuola mai e poi mai si sarebbe agghindata e presentata in classe in maniera tanto ridondante da farla appaiare ad una bottegaia o popolana!
Diverso il discorso se l’insegnante fosse uomo; a costui invece di dare, come era giusto che fosse e che si ritrova in qualche vecchia pièce teatrale partenopea l’appellativo di masto ‘e scola = maestro di scuola, che lo distinguesse da altri maste (pur sempre dal latino magister) maestri di arti e/o mestieri, li si accreditava del titolo di prufessore che è dal latino professore(m) derivato di profitiri= insegnar pubblicamente, sebbene il titolo spetti di per sé ad un insegnante laureato, ma – si sa – a Napoli basta possedere un’ auto per esser detto dottore e ‘o masto ‘e scola era pur sempre un insegnante pubblico e talvolta, forse, anche laureato.
Raffaele Bracale - Napoli
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