venerdì 19 dicembre 2014
VARIE 8481
1.'A sotto p''e chiancarelle.
Letteralmente: :(Voi)Di sotto (attenti) ai panconcelli! Esclamazione usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po' piú colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le piú o meno sottili assi trasversali di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano olim da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando Sanfelice architetto e pittore (Napoli 1675 - ivi †1748), allievo di F. Solimena,che costruito nel 1738 su commissione del marchese di Poppano Nicola Moscati un palazzo [noto poi con il nome di ‘o palazzo d’’o spagnuolo, soprannome del successivo acquirente Tommaso Atienza, détto appunto lo spagnolo , per i suoi modi altezzosi e gradassi, quasi da gande di Spagna] nella zona detta della Sanità, vi appose un'epigrafe dittante: eques Ferdinandus Sanfelicius fecit(il cav. Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il Sanfelice paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali LEVÀTEVE 'A SOTTO (toglietevi di sotto! ).
Chiancarelle s.vo f.le diminutivo pl. di chiancarella =pancocello, asse di legno (dal lat. planca + il suff. diminutivo ella ed epentesi di una erre eufonica; normale il passaggio in napoletano del gruppo lat. pl a chi come ad es. plus→cchiú – plangere→chiagnere – plumbeum→chiummo).
Dal s.vo lat. planca (=asse di legno) deriva anche il nap. chianca =macelleria, rivendita al minuto di carni e ciò perché anticamentela carne veniva sezionata ed esposta al publico su di un’asse di legno.
2. A 'stu nunno sulo 'o càntero/càntaro è nicessario.
Letteralmente: la sola cosa necessaria a questo mondo è il pitale. Id est: niente e - soprattutto - nessuno sono veramente necessarii alla buona riuscita dell'esistenza; la sola cosa che conta è nutrirsi bene e digerire meglio. In effetti con la parola càntero - oggetto destinato ad accogliere gli esiti fisiologici - si vuole proprio adombrare la buona salute indicata da una buona digestione, che intanto avviene se si è avuta la possibilità di nutrirsi. Si tenga presente che le parolecàntero/càntaro non à l'esatto corrispettivo in italiano essendo il pitale(con la quale parola si è reso in italiano) destinato ad accogliere gli esiti prettamente liquidi, mentre il càntero/càntaro era destinato ad accogliere quelli solidi.
càntaro o càntero s.vo m.le =alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntàru(m) a sua volta dal greco kàntàros; rammenterò ora di non confondere le voci a margine con un’altra voce partenopea
cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
3.Sparterse 'a cammisa 'e Cristo.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Cosí a Napoli si dice di chi, esoso al massimo, si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato Cristo sul Golgota , divisero in piú parti la sola tunica di cui era ricoperto il Signore.
4.Essere aurio 'e chiazza e tribbulo 'e casa.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e lamentarsi in casa. Cosí a Napoli si suole dire - specie di uomini che in piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto simpatico, mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche immotivato.
aurio s.vo neutro a. atteggiamento cordiale, augurale, beneaugurante; voce derivata dal lat. au(gu)riu(m) 'presagio';
chiazza s.vo f.le = piazza, ampio spazio urbano contornato da edifici nel quale confluiscono piú strade; la voce napoletana è dal lat. platea(m) 'via ampia', che è dal gr. platêia, f. sost. di platy/s 'ampio, largo'; da platea(m)→platía→chiazza con normale passaggio di pl a chi (cfr. plus→cchiú –plumbeum→chiummo etc.) e raddoppiamento espressivo della z da tia→za→zza.
tribbulo s.vo neutro = tribolo, 1 (bot.) nome di diverse piante spinose | (lett.) pruno, rovo, sterpo; 2 (mil.) ciascuno degli arnesi metallici provvisti di punte che si spargevano anticamente sul terreno per ostacolare l'avanzata della cavalleria
3 (fig.) ed è il caso che i occupa tormento, preoccupazione, angustia.; voce che è dal lat. tribulu(m), dal gr. tríbolos 'spino' con raddoppiamento espressivo della esplosiva labiale;
casa s.vo f.le = casa, abitazione,edificio a uno o piú piani, suddiviso in vani e adibito ad abitazione; l'appartamento in cui una famiglia dimora; voce che è dal lat. casa(m) propriamente casa rustica: quella padronale era la domus.
5.Avenno, putenno, pavanno.
Letteralmente: avendo, potendo, pagando Strana locuzione napoletana che si compendia in una sequela di tre gerundi e che a tutta prima pare ellittica di verbo reggente, ma che sta a significare che un debito contratto, ben difficilmente verrà soddisfatto essendone la soddisfazione sottoposta a troppe condizioni ostative quali l'avere ed il potere ed un sottinteso volere, per cui piú correttamente il terzo gerundio della locuzione dovrebbe assumere la veste di verbo reggente di modo finito; ossia: pagherò quando (e se) avrò i mezzi occorrenti e quando (e se) potrò.
6.Ammèsurate 'a palla!
Letteralmente: Misúrati la palla; id est: misura preventivamente ciò che stai per fare cosí eviterai di incorrere in grossolani errori; renditi conto di e con chi stai contrattando o con chi ti stai misurando per non trovarti davanti ad esiti poco convenienti per te delle tue azioni. La locuzione originariamente - pronunciata, però, con diverso accento ossia: Ammesuràte (misurate!)era il perentorio ordine rivolto dagli artiglieri ai serventi ai pezzi affinché portassero proiettili di esatto calibro adatti alle bocche da fuoco in azione.
7. A -Appennere 'a giacchetta.
B - Appennere 'o cazone.
A- Appendere la giacca B- Appendere il pantalone. Si tratta in fondo di due indumenti - per solito indossati dall'uomo, ma quanto diverso tra loro il significato sottinteso dalle due locuzioni. Quello sub A - fa riferimento alla giacca e sta a significare che si è smesso di lavorare e ci si è pensionati, rammentando che - normalmente - specie per lavori manuali l'uomo è solito liberarsi della giacca e lavorare in maniche di camicia; per cui disfarsi del tutto della giacca significa che non si è intenzionati a rimettersi al lavoro. Diverso e di significato piú grave la locuzione sub B;essa adombra il significato di decedere, lasciando una vedova, tenendo presente che della giacca ci si libera per lavore, mentre del calzone lo si fa per coricarsi anche definitivamente.
8. bbona 'e Ddio!
Letteralmente: Con il benvolere di Dio. Id est: ci assista Dio. È l'augurio che ci si autorivolge nel principiar qualsiasi cosa affinché la si possa portare a compimento senza noie o pericoli. Traduce ad litteram l'augurio “A la buena de Dios” che i naviganti spagnoli solevano rivolgersi scambievolmente al levar delle àncore.
9. Scuntà a ffierre 'e puteca.
Letteralmente: scontar con utensili di bottega. Id est: saldare un debito conferendo non il dovuto danaro, ma una prestazione di lavoro confacente al proprio mestiere, con l'uso dei ferri da lavoro usati nella propria bottega.
10.Paré 'o carro 'e Battaglino.
Letteralmente: sembrare il carro di Battaglino. Id est: essere simile ad un famoso carro che veniva usato a Napoli per una processione votiva della sera del sabato santo, processione promossa dalla Cappella della SS. Concezione a Montecalvario. Detta Cappella era stata fondata nel 1616 dal nobile Pompeo Battaglino; sul carro che dal nobile prese il nome, era portata in processione l'immagine della Madonna accompagnata da un gran numero di musicio e cantori.In ricordo di detto carro, ogni mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori si dice che sembra il carro di Battaglino.
11. Fattélla cu chi è mmeglio 'e te e fance 'e spese.
Letteralmente: Frequenta chi è miglior di te e sopportane le spese. Il proverbio compendia la massima comportamentale secondo la quale le amicizie vanno scelte nell'ambito di persone che siano migliori di se stessi, soprattutto dal punto di vista morale... e bisogna coltivare questo tipo di amicizia anche se esso tipo comporta il doverci rimettere economicamente parlando.
12.I' faccio pertose e tu gaveglie.
Letteralmente: io faccio buchi e tu cavicchi; id est: io faccio buchi e tu sistematicamente li turi, ossia mi remi contro. La locuzione è usata anche profferendone la sola prima parte, lasciando sottointenderne la seconda quando si voglia redarguire qualcuno che si adoperi a distruggere o vanificare l'operato di un altro e lo faccia non per ottenerne vantaggio, ma per il solo gusto di porre il bastone tra le ruote altrui.
pertose = buchi; s.vo f.le pl. metafonetico del maschile pertuso (dal t. lat. *petrusu(m)); di pertuso esiste anche il normale pl. masch. pertusi/e ma viene usato per indicare i fori presenti sui capi di abbigliamento ( vestiti e/o scarpe) o segnatamente le narici: ‘e pertuse d’’o naso; invece con il pl. f.le pertose si indica qualsivoglia altro tipo di buco;
gaveglie= cavicchi, stecchi (di legno) s.vo f.le pl. di gaveglia (dal t. lat. *cavicla per il class. clavicula).
13. 'A musica giappunese.
La musica giapponese. Cosí i napoletani - abituati a ben altre armoniche melodie - sogliono definire quelle accozzaglie di suoni e rumori in cui vengon coivolti strumenti musicali, ma che con la musica ànno ben poco da spartire. Quando ancora esisteva la magnifica festa di Piedigrotta, spesso a Napoli per la strada si potevano incontrare gruppetti di ragazzi che producevano una dissonante musica ( che fu détta: musica giapponese) servendosi di particolari strumenti musicali quali: scetavajasse, triccabballacche, zerrizzerre e putipú.
14.Te faccio sentí Muntevergine cu tutt''e castagne spezzate.
Letteralmente: Ti faccio sentire Montevergine con accompagnamento delle castagne frante. Espressione minacciosa con la quale si promette una violenta reazione ad azioni ritenute lesive; è costruita sul ricordo della gita fuori porta fatta il lunedí dell' angelo allorché interi quartieri solevano recarsi al santuario di Montevergine su carrozze trainate da cavalli bardati a festa. Il ritorno verso la città avveniva in una sarabanda di suoni e di canti corali portati allo strepito anche per i fumi dei vini consumati in gran copia; il vino era consumato per accompagnare il consumo di castagne secche ed infornate che erano vendute confezionate come grani di collane di spago che ogni cavallo si portava al collo come abbellimento.
15.Fà scennere 'na cosa dê ccoglie 'Abramo.
Letteralmente: far discendere una cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida locuzione partenopea che a Napoli si usa a sapido commento delle azioni di chi si fa eccessivamente pregare prima di concedere al petente un quid sia esso un'opera o una cosa lasciando intendere che il quid richiesto sia di difficile ottenimento stante la augusta provenienza.
16.Canta ca te faje canonico!
Letteralmente: Canta ché diventerai canonico Id est: Urla piú forte ché avrai ragione Il proverbio intende sottolineare l'abitudine di tanti che in una discussione, non avendo serie argomentazioni da apportare alle proprie tesi, alzano il tono della voce ritenendo cosí di prevalere o convincere l'antagonista.Il proverbio rammenta i canonici della Cattedrale che son soliti cantare l'Ufficio divino con tonalità spesso elevate, per farsi udire da tutti i fedeli.
Brak
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