venerdì 31 luglio 2015
VARIE 15/685
1. ESSERE RICCO ‘E VOCCA.
Ad litteram: essere ricco di bocca Id est: : essere un vuoto parolaio che parla a sproposito, a vanvera, e si autocelebra vantando doti fisiche e/o morali che in realtà non possiede, nè possiederà mai; essere un millantatore a cui fanno difetto i fatti, ma non le chiacchiere, essere insomma un miserabile la cui unica ricchezza è rappresentata dalla bocca.
2. ESSERE N’ ACCA ‘MMIEZO Ê LLETTERE oppure N’ ÍCCHESE DINTO A LL’AFFABBETO.
Ad litteram: essere un’acca fra le lettere oppure una ics nell’alfabeto Id est: non contare nulla, essere una nullità assoluta, valere quanto uno zero e non servire che poco o nulla al pari della muta acca che è solo una consonante di tipo diacritico o , peggio ancora, valere quanto la consonante ics che non è usata né in italiano, né in napoletano e che a stento serve per connotare un’incognita.
3. ESSERE ‘NU BBABBÀ A RRUMMA
Ad litteram: essere un babà irrorato di rum
Locuzione dalla doppia valenza, positiva o negativa. In senso positivo la frase in epigrafe è usata per fare un sentito complimento all’avvenenza di una bella donna assimilata alla soffice appetitosa preparazione dolciaria partenopea; in senso negativo la locuzione è usata per dileggio nei confronti di ragazzi ritenuti piuttosto creduloni e bietoloni, eccessivamente cedevoli sul piano caratteriale al pari del dolce menzionato che è morbido ed elastico.
4. FÀ ABBATE A QUACCHEDUNO.
Ad litteram: fare abate qualcuno; id est: gabbare, imbrogliare, ingannare chi sia sciocco e credulone.Un tempo per ricevere la nomina ad abate non occorreva si fosse in possesso di grandi doti intellettive, o di particolari meriti; spesso anzi piú si era stupidi piú si avevano probabilità d’esser nominati; la locuzione prende a suo fondamento proprio l’evenienza qui ricordata.
5. FÀ ‘A CHIERECA Ê SCIGNE.
Ad litteram: fare la tonsura alle scimmie; id est: applicarsi ad un’operazione inutile, assolutamente balorda e certamente improduttiva.
6. FÀ ‘A FATICA D’’E PRIEVETE.
Ad litteram: fare il lavoro dei preti. Id est: fare un’attività tranquilla e non impegnativa quale, ingiustamente, si riteneva fosse quella svolta dai sacerdoti al segno che, altrove si diceva che se il lavoro fosse stato una cosa buona, lo avrebbero fatto i preti.
7. FÀ ‘NA BBOTTA, DDOJE FUCETOLE.
Ad litteram: centrare con un sol colpo due beccafichi. Id est: conseguire un grosso risultato con il minimo impegno; locuzione un po’ piú cruenta, ma decisamente piú plausibile della corrispondente italiana: prender due piccioni con una fava: una sola cartuccia, specie se caricata di un congruo numero di pallini di piombo, può realmente e contemporaneamente colpire ed abbattere due beccafichi; non si comprende invece come si possano catturare due piccioni con l’utilizzo di una sola fava, atteso che quando questa abbia fatto da esca per un piccione risulterà poi inutilizzabile per un altro...
8. FÀ ‘ALLICCAPETTULE.
Ad litteram: fare il leccapettole cioè il lecchino; id est: comportarsi da servile adulatore, da servo sciocco, prosternandosi davanti al potente di turno, leccandogli metaforicamente la falda posteriore della camicia nominata eufemisticamente in luogo della parte anatomica su cui detta falda insiste.
9. FÀ ‘O SPALLETTONE oppure al femminile ‘A CCIACCESSA
Espressione intraducibile ad litteram in quanto in italiano manca un vocabolo unico che possa tradurlo, per cui bisogna dilungarsi nella spiegazione per poter venire a capo delle espressioni in epigrafe.
Ciò premesso, dirò che esiste, o meglio, esistette fino agli anni ’60 dello scorso secolo, a Napoli un vocabolo che,nel parlare comune, conglobava in sè tutto un vasto ventaglio di significati. E’ il vocabolo in epigrafe che si dura fatica a spiegare tante essendo le sfumature che esso ingloba.
In primis dirò che con esso vocabolo si indica il saccente, il supponente, il sopracciò, il millantatore, colui che anticamente era definito mastrisso ovvero colui che si ergeva a dotto e maestro, ma non aveva né la cultura, nè il carisma necessarii per essere preso in seria considerazione.
Piú chiaramente dirò, per considerare le sfumature che delineano il termine in epigrafe, che vien definito spallettone chi fa le viste d’essere onnisciente, capace di avere le soluzioni di tutti i problemi, specie di quelli altrui , problemi che lo spallettone dice di essere attrezzato per risolvere, naturalmente senza farsi mai coinvolgere in prima persona, ma solo dispensando consigli , che però non poggiano su nessuna conclamata scienza o esperienza, ma son frutto della propria saccenteria in virtú della quale non v’è campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone non sia versato;l’economia nazionale? E lo spallettone sa come farla girare al meglio. L’educazione dei figli altrui, mai dei propri !? Lo spallettone, a chiacchiere, sa come farne degli esseri commendevoli; e cosí via non v’è cosa che abbia segreti per lo spallettone che, specie quando non sia interpellato, si offre e tenta di imporre la propria presenza dispensando ad iosa consigli non richiesti che - il piú delle volte- comportano in chi li riceve un aggravio delle incombenze, del lavoro e dell’impegno, aggravio che va da sé finisce per essere motivo di risentimento e rabbia per il povero individuo fatto segno delle stupide e vacue chiacchiere dello spallettone.
E passiamo a quella che a mio avviso è una accettabile ipotesi etimologica del termine in epigrafe.
Premesso che tutti i compilatori di dizionarii della lingua napoletana, anche i piú moderni, con la sola eccezione forse dell’ avv.to Renato de Falco e del suo Alfabeto napoletano, non fanno riferimento alla lingua parlata, ma esclusivamente a quella scritta nei classici partenopei, va da sè che il termine spallettone non è registrato da nessun calepino, essendo termine troppo moderno ed in uso nel parlato, per esser già presente nei classici.
Orbene reputo che essendo il sostrato dello spallettone, la vuota chiacchiera, è al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul verbo parlettià (ciarlare)con la classica prostesi della S non eufonica, ma intensiva partenopea, l’assimilazione della R alla L successiva e l’aggiunta del suffisso accrescitivo ONE.
Per concludere potremo definire cosí lo spallettone:ridicolo millantatore, becero, vuoto, malevolo dispensatore di chiacchiere, da non confondere però con il pettegolo che è altra cosa e che in napoletano è reso con un termine diverso da spallettone e cioè con il termine: parlettiere.
Va da sè che il termine esaminato è esclusivamente maschile;
esiste però un corrispondente termine femminile con i medesimi significati del maschile ed è come riportato nella variante in epigrafe: cciaccessa correttamente scritto con la geminazione iniziale della C: cciaccessa; l’etimo mi è sconosciuto, ma reputo, stante anche per essa parola il sostrato di un vuoto parlare che possa essere un deverbale formatosi su di un iniziale ciarlare.
10. FÀ ‘AMMORE CU ‘E MONACHE.
Ad litteram: fare l’amore con le monache, id est: desiderare l’impossibile, richiedere o sperare l’irrealizzabile come sarebbe il godere dei favori di una suora.
11. FÀ LL’ARTA LEGGIA.
Ad litteram: praticare l’arte leggera; id est: esercitare il mestiere del ladruncolo, del borseggiatore; per praticare tali attività occorre aver leggerezza di mano ed accortezza di modi; eufemisticamente perciò il suddetti mestieri son definiti arte quasi che occorra essere degli artisti per poterli praticare ed in effetti non è da tutti possedere l’abilità necessaria in simili pur truffaldini mestieri: solo chi abbia lungamente fatto esercizio e si sia diligentemente applicato può poi lanciarsi nella mischia e sperare di conseguire risultati adeguati alla stregua di un vero artista.
12. FÀ LL’ARTE D’’O SOLE.
Ad litteram: fare l’arte del sole; id est: darsi alla bella vita, magari condita di disimpegnati amori, godendosela senza intralci o preoccupazioni, alla stregua del sole che una volta che sia sorto, può tranquillamente mirarsi il creato, senza problemi o altre faticose incombenze.
13. FÀ LL’OPERA D’’E PUPE
Letteralmente: fare la rappresentazione con i pupi; id est: fare il diavolo a quattro, agitarsi oltre misura per conseguire un quid qualsiasi anche non eccessivamente serio e concreto, sforzandosi di tener sotto controllo un gran numero di cose come i pupari costretti a destreggiarsi tra un inviluppo di fili e croci lignee atti alla manovra delle teste, braccia e gambe dei pupi di cui all’epigrafe. Da notare che l’espressione fa riferimento ai pupi, alti e grossi burattini di legno che vengon manovrati dal puparo, muovendoli dall’alto; cosa diversa sono le guarattelle o guattarelle, piccole marionette che vengono manovrate dal basso tenendole infilate sulla mano a mo’ di guanto. Talvolta, con riferimento alla agitazione che è propria dell’espressione in epigrafe, quando tra due interlocutori un discorso principiato in maniera calma si stia evolvendo pericolosamente può accadere che quello degli interlocutori dotato di maggior buona volontà possa invitare l’altro interlocutore a recedere dalla discussione con il dire: “Nun facimmo ll’opera ‘e pupe” (evitiamo di fare una rappresentazione con i pupi; calmiamoci!).
14. FÀ MMIRIA Ô TRE BASTONE
Ad litteram: fare invidia al tre di bastoni. Detto ironicamente di una donna che sia provvista di abbondante peluria sul labbro superiore al segno di detestar l’invidia del tre di bastoni la carta da giuoco del mazzo di carte napoletano che porta sovrapposto all’incrocio di tre grossi randelli un vistoso mascherone , provvisto di suo di consistenti baffoni a manubrio.
15. FÀ MARENNA A SSARACHIELLE
Ad litteram: far colazione con piccole aringhe affumicate; id est: accontentarsi di poco, stringer la cinghia, esser costretti a fare di necessità virtú come chi si debba contentare, per la propria colazione di piccole aringhe salate ed affumicate che oltre ad essere parva res, prospettano una successiva necessità di bere copiosamente per attutire gli effetti della congrua salatura. La locuzione è usata pure a sarcastico commento delle azioni di coloro che agiscano con parsimonia di mezzi e di applicazione al segno che i risultati che posson derivare dalle loro azioni sono miserevoli ed inconferenti. In tal caso alla locuzione in epigrafe si suole premettere un icastico: Eh, sî arrivato (che può esser tradotto a senso: “Cosa pensi d’aver fatto?) per poi far seguire la locuzione in epigrafe coniugata però con un tempo di modo finito in luogo dell’infinito qui riportato.
16. FÀ ‘A TREZZA D’’E VIERME.
Ad litteram: fare la treccia di vermi; id est: spaventarsi grandemente, esser colto da eccessiva paura. Olim a Napoli, si riteneva che , soprattutto i bambini, ma pure gli adulti, se fossero stati presi da grande spavento avrebbero potuto germinare nell’intestino una gran quantità di vermi organizzati nei visceri a mo’ di treccia; per liberare i colpiti da tale iattura si ricorreva a sostanziose somministrazioni di aglio da ingerire crudo; ragion per cui era auspicabile, specie per i bambini il non essere colti da spavento o paure.
17. FÀ SPUTAZZELLE ‘MMOCCA.
Ad litteram: fare l’acquolina in bocca La locuzione richiama, molto piú veristicamente dell’italiano, quelle situazioni in cui alla vista di cose piacevoli o appetitose aumenta a dismisura la secrezione delle ghiandole salivari fino a riempir quasi la bocca di saliva, quella che l’italiano per un malinteso senso estetico rende con la parola: acquolina. L’espressione si usa naturaliter allorché ci si trovi al cospetto di un appetitoso manicaretto la cui vista scatena la reazione di cui in epigrafe;ma è usata altresí allorché ci si trovi innanzi ad una bella donna desiderabile ed appetibile al pari di una succulenta pietanza; insomma sia il manicaretto che la bella donna posson far fare l’acquolina in bocca o – meglio ancòra – far fare sputazzèlle.
18. FÀ O ESSERE CARTA ‘E TRE (o meglio) ‘E TRESSETTE
Ad litteram: fare o essere una carta da tre (o meglio) di tressette; id est: essere o comportarsi da persona di vaglia, importante, capace di imporsi a tutti gli altri o per naturale carisma o per accertate capacità fisiche e/o morali; piú precisamente nel gergo malavitoso e per traslato nel linguaggio popolare la carta di tre o tressette è colui che con ogni mezzo, lecito o meno che sia riesce ad assurgere al posto di comando imponendo la propria volontà. La locuzione è mutuata dal giuco del tressette giuoco di carte nel quale alcune di esse per convenzione, pure essendo di valore facciale inferiore rispetto alle altre, nel corso del giuoco prevalgono sulle altre risultando vincitrici nelle singole prese; la scala gerarchica convenzionale del giuoco è cosí stabilita: tre, due, asso, re, cavallo, fante e poi dal sette fino al quattro secondo l’ordine decrescente;dal che si evince che la miglior carta, atta a catturare tutte le altre è il tre e a ciò si riferisce la locuzione in epigrafe.Talvolta però l’espressione viene usata a mo’ di dileggio nei confronti di chi non avendo né carisma, né capacità intellettuali, tenti di atteggiarsi ad individuo di vaglia o importante; a chi agisse in tal modo si suole raccomandar: nun fà ‘a carta ‘e tre ossia evita di assumere atteggiamenti da carta ditre (quella vincente al giuoco del tressette.)
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VARIE 15/684
1.Coppola pe ccappiello e ccasa a sant'Aniello.
Ad litteram:Berretto per cappello, ma casa a sant'Aniello (a Caponapoli). Id est: vestirsi anche miseramente, ma prendere alloggio in una zona salubre ed ariosa, poiché la salute viene prima dell'eleganza, ed il danaro va speso per star bene in salute, non per agghindarsi.
2. Tené tutte 'e vizzie d''a rosamarina.
Ad litteram: avere tutti i vizi del rosmarino. Id est: avere tutti i difetti possibili, essere cioè cosí poco affidabile ed utile alla stregua del rosmarino, l'erba aromatica che serve a molto poco; infatti oltre che per dare un po' di aroma non serve a nulla: non è buona da ardere, perché brucia a stento, non fa fuoco, per cui non dà calore, non produce cenere che - olim - serviva per il bucato, se accesa, fa molto, fastidioso fumo...
3.Si 'o Signore nun perdona a 77, 78 e 79, llà 'ncoppa nce appenne 'e pummarole.
Ad litteram: Se il Signore non perdona ai diavoli(77), alle prostitute(78) e ai ladri(79), lassú (id est: in paradiso ) ci appenderà i pomodori. Id est: poiché il mondo è popolato esclusivamente da ladri, prostitute e cattivi soggetti (diavoli), il Signore Iddio se vorrà accogliere qualcuno in paradiso, dovrà perdonare a tutti o si ritroverò con uno spazio enormemente vuoto che per riempirlo dovrebbe coltivarci pomodori.
4.Chillo se mette 'e ddete 'nculo e ne caccia 'anielle.
Ad litteram: Quello si mette le dita nel culo e ne tira fuori anelli. Id est: la fortuna di quell'essere è cosí grande che è capace di procurarsi beni e ricchezze anche nei modi meno ortodossi o possibili.
5.Avimmo perduto 'aparatura e 'e centrelle.
Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini. Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali addobbi erano chiamati aparature; accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto mal tempo, il vento e la pioggia scompigliasse, fino a distruggere gli addobbi ed a svellere drappi e chiodini usati per sostenerli; la locuzione attualmente viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano distrutti o vanificati tuttti gli sforzi operati per raggiungere un alcunché.
6.'A femmena è ccomme â campana: si nun 'a tuculje, nun sona.
Ad litteram: la donna è come una campana: se non l'agiti non suona; id est: la donna à bisogno di esser sollecitata per tirar fuori i propri sentimenti, ma pure i propri istinti.
7. 'A tonaca nun fa 'o monaco, 'a chiereca nun fa 'o preveto, nè 'a varva fa 'o filosefo.
Ad litteram: la tonaca non fa un monaco, la tonsura non fa un prete né la barba fa il filosofo; id est: l'apparenza può ingannare: infatti non sono sufficienti piccoli segni esteriori per decretare la vera essenza o personalità di un uomo.
8. Me parono 'e ccape d''a Vecaria.
Ad litteram: mi sembrano le teste della Vicaria. Lo si suole dire di chi è smagrito per lunga fame, al segno di averne il volto affilato e scavato quasi come le teste dei giustiziati, teste che nel 1600 venivano esposte per ammonimento infilzate su lunghe lance e tenute per giorni e giorni all'esterno dei portoni del tribunale della Vicaria, massima corte del Reame di Napoli.
9. Aria netta nun ave paura 'e tronnele.
Ad litteram: aria pulita non teme i tuoni; infatti quando l'aria è tersa e priva di nuvole, i tuoni che si dovessero udire non sono annunzio di temporale. Per traslato: l'uomo che à la coscienza pulita non teme che possa ricevere danno dalle sue azioni, che - improntate al bene - non potranno portare conseguenze negative .
10.Ascí 'a vocca 'a 'e cane e ferní 'mmocca ê lupe
Ad litteram: scampare alla bocca dei cani e finire in quella dei lupi. Maniera un po' piú drammatica di rendere l'italiano: cader dalla padella nella brace: essere azzannati da un cane è cosa bruttissima, ma finire nella bocca ben piú vorace di un lupo, è cosa ben peggiore.
11. Rrobba 'e mangiatorio, nun se porta a cunfessorio.
Ad litteram: faccende inerenti il cibarsi, non vanno riferite in confessione. Id est: il peccato di gola... non è da ritenersi un gran peccato, a malgrado che la gola sia uno dei vizi capitali, il popolo napoletano, atavicamente perseguitato dalla fame, non riesce a comprendere come sia possibile ritenere peccato lo sfamarsi anche lautamente... ed in maniera eccessiva.
12.Cu ll'evera molla, ognuno s'annetta 'o culo.
Ad litteram: con l'erba tenera, ognuno si pulisce il sedere; per traslato: chi è privo di forza morale o di carattere non è tenuto in nessuna considerazione , anzi di lui ci si approfitta, delegandogli persino i compiti piú ingrati
13.T'ammeretave 'a croce ggià 'a paricchio..
Ad litteram: avresti meritato lo croce già da parecchio tempo. A Napoli, la locuzione in epigrafe è usata per prendersi gioco di coloro che, ottenuta la croce di cavaliere o di commendatore, montano in superbia e si gloriano eccessivamente per il traguardo raggiunto; ebbene a costoro, con la locuzione in epigrafe, si vuol rammentare che ben altra croce e già da gran tempo, avrebbero meritato intendendendo che li si ritiene malfattori, delinquenti, masnadieri tali da meritare il supplizio della crocefissione quella cui, temporibus illis, erano condannati tutti i ladroni...
14.Ll'avvocato à dda essere 'mbruglione.
Ad litteram: l'avvocato deve essere imbroglione. A Napoli - terra per altro di eccellentissimi principi del foro, si è convinti che un buono avvocato debba esser necessariamente un imbroglione, capace cioè di trovare argomentazioni e cavilli giuridici tali da fare assolvere anche un reo confesso o - in sede civilistica - far vincere una causa anche a chi avesse palesemente torto marcio.
15. Ll'avvocato fesso è cchillo ca va a lleggere dint' ô codice.
Ad litteram: l'avvocato sciocco è quello che compulsa il codice; id est: non è affidabile colui che davanti ad una questione invece di adoprarsi a comporla pacificamente consiglia di adire rapidamente le vie legali; ad ulteriore conferma dell'enunciato in epigrafe, altrove - nella filosofia partenopea - si suole affermare che è preferibile un cattivo accordo che una causa vinta, che - certamente - sarà stata piú dispendiosa e lungamente portata avanti rispetto all'accordo.
16. Â ggatta ca allicca 'o spito, nun ce lassà carne p'arrostere.
Ad litteram: alla gatta che lecca lo spiedo, non lasciar carne da arrostire. Id est: non aver fiducia di chi ti à dato modo di capire di che cattiva pasta è fatto, come non sarebbe opportuno lasciare della carne buona per essere arrostita, a portata di zampe di un gatto che è solito leccare gli spiedi su cui la carne viene arrostita...
17. 'A femmena bbona si - tentata - resta onesta, nun è stata buono tentata.
Ad litteram: una donna procace, se - una volta che venga tentata - resta onesta, significa che non è stata tentata a sufficienza. Lo si dice intendendo affermare che qualsiasi donna, in ispecie quelle procaci si lasciano cadere in tentazione; e se non lo fanno è perché... il tentatore non è stato all'altezza del compito...
18.Tre ccose nce vonno p''e piccerille: mazze, carizze e zizze!
Ad litteram: tre son le cose che necessitano ai bimbi: busse, carezze e tette. Id est: per bene allevare i bimbi occorrono tre cose il sano nutrimento(le tette), busse quando occorra punirli per gli errori compiuti, premi (carezze)per gratificarli quando si comportano bene.
19.'E peje juorne so' chille d''a vicchiaia.
Ad litteram: i peggiori giorni son quelli della vecchiaia; il detto riecheggia l'antico brocardo latino: senectus ipsa morbus est; per solito, in vecchiaia non si ànno piú affetti da coltivare o lavori cui attendere, per cui i giorni sono duri da portare avanti e da sopportare specie se sono corredati di malattie che in vecchiaia non mancano mai...
20.Dimmènne n'ata, ca chesta ggià 'a sapevo.
Ad litteram: raccontamene un'altra perché questa già la conoscevo; id est: se ài intenzione di truffarmi o farmi del male, adopera altro sistema, giacché questo che stai usando mi è noto e conosco il modo di difendermi e vanificare il tuo operato.
21.Denaro 'e stola, scioscia ca vola.
Ad litteram: denaro di stola, soffia che vola via. Id est: il danaro ricevuto o in eredità, o in omaggio da un parente prete, si disperde facilmente, con la stessa facilità con cui se ne è venuto in possesso.
22.Fatte capitano e magne galline.
Ad litteram: diventa capitano e mangerai galline: infatti chi sale di grado migliora il suo tenore di vita, per cui, al di là della lettera, il proverbio può intendersi:(anche se non è veramente accaduto), fa' le viste di esser salito di grado, cosí vedrai migliorato il tuo tenore di vita.
23. 'E mariuole cu 'a sciammeria 'ncuollo, so' ppeje 'e ll' ate.
Ad litteram: i ladri eleganti e ben vestiti sono peggiori degli altri. Id est: i gentiluomini che rubano sono peggiori e fanno piú paura dei poveri che rubano magari per fame o necessità
24.Dicette frate Evaristo:"Pe mmo, pigliate chisto!"
Ad litteram: disse frate Evaristo: Per adesso, prenditi questo!"Il proverbio viene usato a mo' di monito, quando si voglia rammentare a qualcuno, che si stia eccessivamente gloriando di una sua piccola vittoria, che per raggiungerla à dovuto comunque sopportare qualche infamante danno. Il frate del proverbio fu tentato dal demonio, che per indurlo al peccato assunse l'aspetto di una procace ragazza discinta; il frate si lasciò tentare e partí all'assalto delle grazie della ragazza che - nel momento culminante della tenzone amorosa riprese le sembianze del demonio e principiò a prendersi giuoco del frate, che invece portando a compimento l'operazione iniziata pronunciò la frase in epigrafe.
25.Chi ride d''o mmale 'e ll'ate, 'o ssujo sta arret' â porta.
Ad litteram: chi ride delle digrazie altrui, à le sue molto prossime; id est: chi o per cattiveria o per insipienza si fa beffe del male che à colpito altre persone, dovrebbe sapere che - presto o tardi - il male potrebbe colpire anche lui...
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VARIE 15/683
1. Ô ricco lle more 'a mugliera, ô pezzente le more 'o ciuccio.
Ad litteram: al ricco viene a mancare la moglie, al povero, l'asino... Id est:Il povero è sempre quello piú bersagliato dalla mala sorte: infatti al povero viene a mancare l'asino che era la fonte del suo sostentamento, mentre al ricco viene a mancare la moglie, colei che gli dilapidava il patrimonio; morta la moglie il ricco non à da temere rivolgimenti di fortuna, mentre il povero che à perso l'asino sarà sempre piú in miseria.
2. Pazze e ccriature, 'o Signore ll'ajuta.
Ad litteram: pazzi e bimbi, Dio li aiuta. Id est: gli irresponsabili godono di una particolare protezione da parte del Cielo. Con questo proverbio, a Napoli, si soleva disinteressarsi di matti o altri irresponsabili, affidandoli al buonvolere di Dio e alla Sua divina provvidenza e protezione .
3. Si comme tiene 'a vocca, tenisse 'o culo, farrísse ciento pirete e nun te n'addunasse.
Ad litteram: se come tieni la bocca, avessi il sedere faresti cento peti e non te n'accorgeresti; il proverbio è usato per
bollare l'eccessiva verbosità di taluni, specie di chi è logorroico e parla a vanvera, senza alcun costrutto, di chi - come si dice - apre la bocca per farle prendere aria, non per esprimere concetti sensati.
culo = culo, sedere; etimo:dal lat. culum che è dal greco koilos – kolon
pireto= peto, scorreggia; etimo: latino peditum
addunasse= accorgeresti voce verbale (cong. imperfetto 2° p. sing.) di addunà/arse= accorgersi; etimo: franc. s’addonner (darsi, dedicarsi).
4. Si 'a rena è rrossa, nun ce mettere nasse.
Ad litteram: se la sabbia(il fondale del mare) è rossa, non mettervi le nasse(perché sarebbe inutile). Id est: Se il fondale marino è rosso - magari per la presenza di corallo, non provare a pescare, ché non prenderesti nulla. Per traslato il proverbio significa che se un uomo o una donna ànno inclinazioni cattive, è inutile tentare di crear con loro un qualsiasi rapporto: non si otterrebbero buoni risultati.
5. Si 'a tavernara è bbona, 'o cunto è sempe caro.
Ad litteram: se l'ostessa è procace, il conto risulterà sempre salato. Lo si dice a mo' d'ammonimento a tutti coloro che si ostinano a frequentare donne lascive e procaci, che per il sol fatto di mostrar le loro grazie pretendono di esser remunerate in maniera eccessiva...
6. Nun te dà malincunía, nè pe malu tiempo, nè pe mala signuria.
Ad litteram: non preoccuparti nè per cattivo tempo, nè per pessimi governanti. Id est: sia il cattivo tempo, che i governanti cattivi prima o poi cambiano o spariscono per cui non te ne devi preoccupare eccessivamente fino a prenderne malinconia...
7. 'Ammuina è bbona p''a guerra...
Ad litteram: il caos, la baraonda è utile in caso di guerra; id est: per aver successo in caso di lotta occorre che ci sia del caos, della baraonda; mestando in esse cose si può giungere alla vittoria nella lotta intrapresa.
ammuina = chiasso, confusione, fastidio; etimo: deverbale del verbo spagnalo amohinar(infastidire).
8. Astipate 'o piezzo janco* pe quanno venono 'e juorne nire.
Ad litteram: conserva il pezzo bianco per quando verranno le giornate nere. Id est: cerca di comportarti come una formica;
‘o piezzo janco è letteralmente il pezzo bianco e cioè la grossa moneta d’argento (scudo) anticamente detta appunta piezzo; non dilapidare tutto quel che ài: cerca di tener da parte sia pure un solo scudo d'argento (pezzo bianco) di cui potrai servirti quando verranno le giornate di miseria e bisogno.
9. Male e bbene a ffine vène.
Ad litteram: il male o il bene ànno un loro termine. Id est: Non preoccuparti soverchiamente ma non vivere sugli allori perché sia il male sia il bene che ti incorrono,non sono eterni e come son cominciati, cosí finiranno.
10. Chi tène pane e vvino, 'e sicuro è giacubbino.
Ad litteram: chi tiene pane e vino, di certo è giacobino. Durante il periodo (23/1-13/6 1799)della Repubblica Partenopea, il popolo napoletano considerò benestanti, i sostenitori del nuovo regime politico. Attualmente il proverbio è inteso nel senso che sono ritenuti capaci di procacciarsi pane e vino, id est: prebende e sovvenzioni coloro che militano o fanno vista di militare sotto le medesime bandiere politiche degli amministratori comunali, regionali o provinciali che a questi nuovi giacobini son soliti procacciare piccoli o grossi favori, non supportati da alcuna seria e conclamata bravura, ma solo da una vera o pretesa militanza politica.
11. Dicette 'o paglietta: a ttuorto o a rraggione, 'a cca à dda ascí 'a zuppa e 'o pesone.
Ad litteram: disse l'avvocatucolo: si abbia torto o ragione, di qui devon scaturire il pasto e la pigione; id est: non importa se la causa sarà vinta o persa, è giusto assumerne il patrocinio che procurerà il danaro utile al sostentamento e al pagamento del fitto di casa. Oggi il proverbio è usato quando ci si imbarchi in un'operazione qualsiasi senza attendersene esiti positivi, purché sia ben remunerata.
pesone = pigione, fitto da pagare; etimo: latino acc. pensione(m)da pendere= pesare, pagare.
12. 'O diavulo, quanno è vviecchio, se fa monaco cappuccino.
Ad litteram: il diavolo diventato vecchio si fa monaco cappuccino. Id est: spesso chi à vissuto una vita dissoluta e peccaminosa, giunto alla vecchiaia, cerca di riconciliarsi con Dio nella speranza di salvarsi l'anima in extremis.
13. Chi tène 'o lupo pe cumpare, è mmeglio ca purtasse 'o cane sott'ô mantiello.
Ad litteram: chi à un lupo per socio, è meglio che porti il cane sotto il mantello. Id est: chi à cattive frequentazioni è meglio che si premunisca fornendosi di adeguato aiuto per le necessità che gli si presenteranno proprio per le cattive frequentazioni. Da notare come in napoletano il congiuntivo esortativo non è reso con il presente, ma con l'imperfetto...
14. Si 'o ciuccio nun vo' vevere, aje voglia d''o siscà...
Ad litteram: se l'asino non vuole bere, potrai fischiare quanto vuoi (non otterrai nulla)Id est: è inutile cercar di convincere il saccente e presuntuoso; tale ignobile testardo si redime ed accetta il nuovo solo con il proprio autoconvincimento... ; alibi si dice:’o purpo s’à dda cocere cu ll’acqua soja=il polpo deve cuocersi nella propria acqua…
15.Mo m'hê rotte cinche corde 'nfacci' â chitarra e 'a sesta poco tene.
Ad litteram: ora mi ài rotto cinque corde della chitarra e la sesta è prossima a spezzarsi. Simpatica locuzione che a Napoli viene pronunciata verso chi à cosí tanto infastidito una persona da condurlo all'estremo limite della pazienza e dunque prossimo alla reazione conseguente, come chi vedesse manomessa la propria chitarra nell'integrità delle corde di cui cinque fossero state rotte e la sesta allentata al punto tale da non poter reggere piú l'accordatura.
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1 -TENÉ 'A VOCCA SPORCA
Ad litteram:tenere la bocca sporca Detto di chi, per abitudine parli facendo uso continuato ed immotivato di volgarità e/o parole sconce ed oscene al segno da restarne figuratamente con la bocca sporcata.
2 - TENÉ 'E CHIRCHIE ALLASCATE
Ad litteram:tenere i cerchi allentati Detto di chi, vacillandogli la mente, sragioni o abbia vuoti di memoria, alla stregua di una botte che per essersi allentati i cerchi contentivi delle doghe, vacilla e perde il liquido contenuto.
3 -TENÉ 'E GGHIORDE
Ad litteram:tenere la giarda Cosí ironicamente si usa dire di chi, pigro, infingardo e scansafatiche mostri di muoversi con studiata lentezza, tardo e dolente all'opera, quasi come i cavalli che affetti dalla giarda ne abbiano le giunture e il collo delle estremità ingrossati al punto da esserne impediti nei movimenti.
4 -TENÉ 'E LAPPESE A QUADRIGLIÈ P''A CAPA
Letteralmente: Avere le matite a quadretti per la testa. Presa alla lettera la locuzione non significherebbe niente. In realtà lappese a quadrigliè è la corruzione dell'espressione latina lapis quadratum (corrotto poi in lapis quadrellatum), seu opus reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l'esterno,ed il vertice verso l'interno, di piccole piramidi di tufo o altra pietra , per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente.Questa costruzione richiedeva notevole precisione ed attenzione con conseguente applicazione mentale tale da procurare fastidio e ... mal di testa per la tensione ed il nervosismo, quelli che figuratamente sono indicati con la locuzione in epigrafe.Ricorderò che erroneamente qualche scrittore di cose napoletane chiama in causa le matite o lapis propriamente detti, ed in particolare una pubblicità d'inizio del 20° secolo che mostrava una testa su cui erano conficcate a mo' di raggiera delle matite laccate a quadrettini neri e bianchi; ma atteso che la locuzione in epigrafe è molto antecedente all'epoca ( ca. 1790) di quando furono commercializzate le matite, ne discende che l'ipotesi è da scartare.
5 - TENÉ 'E PPALLE QUADRATE
Ad litteram:tenere i testicoli quadrati. Icastico ed iperbolico modo di dire usato ad encomio di chi appaia nel proprio agire solerte, pronto ed attento, dotato di efficaci capacità operative attribuite all'inusuale quadratura dei suoi testicoli che risultano sia pure figuratamente non banalmente sferici.
6 -TENÉ 'E PECUNE
Ad litteram:tenere i pichi Espressione che con valenza positiva viene riferita a coloro che sebbene giovani di età, si mostrino moralmente cresciuti, intelligenti e capaci di operare al di là del presagibile, quasi che non siano gli imberbi adolescenti che l'anagrafe dice, ma a mo' degli uccelli prossimi a metter le piume, mostrino di avere, figuratamente, sparsi per il corpo quei pichi propedeutici negli uccelli allo spuntar delle piume.
7 -TENÉ 'E PAPPICE 'NCAPA
Ad litteram:tenere i tonchi in testa Id est: sragionare, non connettere. Locuzione usata nei confronti di coloro che con parole o atti adducano nei rapporti interpersonali, ragionamenti non consoni, assurdi, sciocchi e pretestuosi, quasi fossero generati da teste i cui cervelli fossero assaliti e lesi nelle capacità raziocinanti dai tonchi quei minuscoli insetti che talora infestano i cereali in genere e la pasta in particolare.
8 - TENÉ 'E PPIGNE 'NCAPO
Ad litteram:avere le pigne in testa. Locuzione di identica valenza della precedente, usata però quando si voglia intendere che la mancanza di raziocinio è ritenuta esser dovuta ad una ipotetica violenza subíta, come potrebbe esser quella di sentirsi cadere in testa i duri stròbili del pino.
9 -TENÉ 'E RRECCHIE 'E PULICANO
Ad litteram:tenere le orecchie di pubblicano Locuzione dalla duplice valenza usata sia per indicare sia dotato di udito finissimo , sia - piú spesso per indicare coloro che stiano sempre, con l'orecchio teso attenti ad ascoltare ciò che accade a loro intorno, vuoi per informarsi, vuoi per non lasciarsi cogliere impreparati, comportandosi alla medesima stregua degli antichi esattori pubblici: pubblicani da cui per sincope è ricavato pulicano (pubblicano→pu[bb]licano→pulicano), pronti ad ascoltar qualunque cosa venisse detta in giro sul conto di chiunque, per non lasciarsi sfuggire un eventuale contribuente.
10 - TENÉ 'E RRECCHIE PE FFINIMENTE 'E CAPA
Ad litteram:tenere le orecchie per guarnimento della testa. Divertente locuzione di portata esattamente contraria alla precedente, che viene usata nei confronti di chi sia cosí duro d'orecchio da fare ritenere i loro padiglioni auricolari buoni solo per agghindare la testa.
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1 -TENÉ 'A BBOTTA DINT' Â SCELLA
Ad litteram: avere un colpo nell'ala Locuzione usata per sarcasticamente commentare il comportamento di chi tenti disperatamente di dissimulare o tener nascosta una colpa o magagna a lui attribuibili; di costui, costretto ad arrangiarsi per non far scoprire quanto tenga noscosto, si dice che tene 'a bbotta dint' â scella (à un colpo nell'ala) si comporti cioè quasi come un uccello che, ferito ad un ala, è costretto alle piú strane posizioni e circonvoluzioni pur di continuare a volare.
2 -TENÉ 'A CAPA A PPAZZÍA
Ad litteram: tenere la testa al giuoco. Detto di chi, contrariamente a quanto ipotizzabile dati la sua congrua età ed il suo status sociale, si mostri eccessivamente incline al giuoco, prendendo tutto a scherzo, non dimostrando serietà alcuna né nel lavoro, né nei rapporti interpersonali.
3 -TENÉ 'A CAPA A TTRE ASSE
Ad litteram: tenere la testa a tre assi id est: essere nervoso e preoccupato; locuzione mutuata dal giuoco del tressette dove un giocatore in possesso di tre assi,che valgono ciascuno un punto intero, sebbene ipoteticamente possa conquistare i relativi tre punti, in realtà si preoccupa, non essendo certo che potrà raggiungere lo scopo atteso che gli assi possono venir catturati dall'avversario che sia in possesso del due o del tre del medesimo seme degli assi; il due ed il tre infatti, sebbene valgano un terzo di punto ciascuno, sono nella scala gerarchica delle prese superiori all'asso e possono catturarlo.
4 -TENÉ 'A CAPA A VVIENTO
Ad litteram: tenere la testa nel vento id est: essere una banderuola, un essere poco affidabile e/o raccomandabile.
5 - TENÉ 'A CAPA FRESCA
Ad litteram: tenere la testa fresca id est: non coltivare pensieri serii, anzi - al contrario - essere occupato solo da fandonie, quisquilie, scherzi e futilità cose tutte che, lasciando la mente sgombra di preoccupazioni, tengono la testa fresca, al contrario dei pensieri serii che, altrove, si dice fanno cocere 'o fronte (fanno scottar la fronte).
6 -TENÉ 'A CAPA 'E PROVOLA
Ad litteram: tenere la testa di provola Detto di chi abbia la testa bernoccoluta, con la tipica protuberanza della provola gustoso formaggio fresco, dalla caratteristica forma; al di là però del riferimento alla forma del latticino, la locuzione è usata anche per significare che colui che à la testa di provola non è particolarmente intelligente e manca perciò di sale cosí come la suddetta provola, che non essendo un formaggio stagionato, è piuttosto sciapito.
7 -TENÉ 'A CAPA GLURIOSA
Ad litteram: tenere la testa gloriosa Si dice cosí di chi sia incline ad improvvisazioni assurde, astruse trovate, soluzioni ardite quando non pericolose, espedienti improvvisati.
8 - TENÉ 'A CAPA SCIACQUA.
Ad litteram: tenere la testa annacquata. Si dice cosí, offensivamente , ma anche solo causticamente di chi si ritenga non abbia la testa a posto, e sia dotato di minime qualità intellettive quasi che nella testa abbia non il cervello, ma dell' acqua .
9 -TENÉ 'A CAPA PE SPARTERE 'E RRECCHIE
Ad litteram: tenere la testa per dividere le orecchie Locuzione di valenza molto simile alla precedente riservata a coloro che sono inveteratamente sciocchi, stupidi ed incapaci; di costoro si ritiene iperbolicamente e furbescamente che abbiano la testa (priva di cervello e dunque di raziocinio) solo come elemento necessario alla separazione delle orecchie.
10 -TENÉ 'A CAPA TOSTA
Ad litteram: tenere la testa dura id est: esser caparbio, cocciuto, ma anche: ben fermo nelle proprie opinioni; estensivamente, poi: esser duro di comprendonio, tardo all'apprendimento.
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giovedì 30 luglio 2015
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1 -QUANNO QUACCHE AMICO TE VENE A TTRUVÀ, QUACCHE CCAZZO LE VVENE A MMANCÀ.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te)Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa.
2 - LL'UOCCHIE SO' FFATTE PE GGUARDÀ, MA 'E MMANE PE TTUCCÀ.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare palpeggiamenti delle rotondità femminili.
3 - ZAPPA 'E FEMMENA E SURCO 'E VACCA, MALA CHELLA TERRA CA L'ANCAPPA.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
4 - 'AMICE E VINO ÀNNO 'A ESSERE VIECCHIE!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data.
5 - 'A MEGLIA VITA È CCHELLA D''E VACCARE PECCHÉ, TUTTA 'A JURNATA, MANEJANO ZIZZE E DDENARE.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato giocoso (ma non troppo) : la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
6 - 'O TURCO FATTO CRESTIANO, VO' 'MPALÀ ATUTTE CHILLE CA GHIASTEMMANO.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
7 - 'O PATATERNO ADDÓ VEDE 'A CULATA, LLÀ SPANNE 'O SOLE
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
8 - 'O GALANTOMO APPEZZENTÚTO, ADDEVENTA 'NU CHIAVECO.
Ad litteram: il galantuomo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
9 -'E FRAVECATURE, CACANO 'NU POCO PE PPARTE E NUN PULEZZANO MAJE A NNISCIUNU PIZZO.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo (che ànno imbrattato). Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizi ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porti a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
10 - 'E VRUOCCOLE SO' BBUONE DINTO Ô LIETTO.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
11 - STATTE BBUONO Ê SANTE: È ZUMPATA 'A VACCA 'NCUOLLO Ô VOJO!
Letteralmente: buonanotte ai santi!La vacca à montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni cosí tanto contrarie alla norma che è impossibile raddrizzarle.
12 - QUANNO 'O VINO È DDOCE, SE FA CCHIÚ FORTE ‘ACITO.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe cosí cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
13 - 'O DULORE È DE CHI 'O SENTE, NO 'E CHI PASSA E TÈNE MENTE.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
14 - 'O FATTO D''E QUATTE SURDE.
Letteralmente: il racconto dei quattro sordi. Il raccontino che qui di seguito si narra, adombra il dramma della incomunicabilità e la locuzione in epigrafe viene pronunciata a Napoli a sapido commento in una situazione nella quale non ci si riesca a capire alla stregua di quei quattro sordi che viaggiatori del medesimo treno, giunti ad una stazione, così dialogarono: Il primo: Scusate simmo arrivate a Napule? (Scusate, siamo giunti a Napoli?) Il secondo: Nonzignore, cca è Napule!(Nossignore, qua è Napoli!) Il terzo: I' me penzavo ca stevamo a Napule (Io credevo che stessimo a Napoli). Il quarto concluse: Maje pe cumanno, quanno stammo a Napule, m'avvisate? (Per cortesia, quando saremo a Napoli, mi terrete informato?).
15 - A 'NU CETRANGOLO SPREMMUTO, CHIÀVECE 'NU CAUCIO 'A COPPA.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire sullo sfruttato e non dargli quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
16 - CHI VA PE CCHISTI MARE, CHISTI PISCE PIGLIA.
Letteralmente: chi corre questi mari può pescare solo questo tipo di pesce. Id est: chi si sofferma a compiere un tipo di operazione difficile e/o pericolosa, non può che sopportarne le conseguenze, né può attendersi risultati diversi o migliori.
17 -AMMORE, TOSSE E ROGNA NUN SE PONNO ANNASCONNERE.
Amore, tosse e scabbia non si posson celare; le manifestazioni di queste tre situazioni sono cosí eclatanti che nessuno può nasconderle; per quanto ci si ingegni in senso opposto amore, tosse e scabbia saranno sempre palesi; la locuzione è usata sempre che si voglia alludere a situazioni non celabili.
18 -'MPÀRATE A PARLÀ, NO A FATICÀ.
Letteralmente: impara a parlare, non a lavorare. Amaro,sarcastico, ma ammiccante proverbio napoletano dal quale è facile comprendere la disistima tenuta dai napoletani per tutti coloro che non si guadagnano da vivere con un serio e duro lavoro, ma fondono la propria esistenza sul fumo dell'eloquio, ritenuto però estremamente utile al conseguimento di mezzi di sussistenza, molto piú dell'onesto e duro lavoro (FATICA). In fondo la vita è dei furbi, cioè di quelli capaci di riempirti la testa di vuote chiacchiere e di non lavorare mai vivendo ugualmente benissimo.
19 -CHI TROPPO S''O SPARAGNA, VENE 'A GATTA E SE LU MAGNA.
Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo profittatore che disperde o consuma tutto il messo da parte.
20 - 'A SOTTO P''E CHIANCARELLE.
Letteralmente: attenti ai panconcelli! Esclamazione usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po' piú colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le sottili assi trasversali di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano, olim, da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando Sanfelice [détto ‘o spagnuolo, per i suoi modi vanagloriosi propri dei nobili iberici; architetto e pittore (Napoli 1675 -† ivi 1748). Allievo di F. Solimena, poco rimane della sua attività pittorica mentre piú nota e felice è quella di architetto, svolta prevalentemente a Napoli. Dei numerosi apparati effimeri, realizzati a partire dal 1702, rimangono numerosi disegni e incisioni che mostrano invenzioni bizzarre e ingegnose (notevoli quelli per il matrimonio di Carlo di Borbone con Maria Amalia, 1738). Un gusto per effetti scenografici torna nelle architetture religiose (chiese di S. Maria della Redenzione dei Cattivi, 1706, della Nunziatella, 1735) e soprattutto in quelle civili (palazzi Serra Cassano, Sanfelice, ecc.)] che fattosi erigere un palazzo nella zona detta della Sanità, vi appose un'epigrafe dittante: “eques Ferdinandus Sanfelicius fecit”(il cav. Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il Sanfelice paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali LEVÀTEVE 'A SOTTO! (toglietevi di sotto! ).
21 - A 'STU NUNNO SULO 'O CÀNTARO È NICESSARIO.
Letteralmente: la sola cosa necessaria a questo mondo è il vaso di comodo. Id est: niente e - soprattutto - nessuno sono veramente necessarii alla buona riuascita dell'esistenza la sola cosa che conta è nutrirsi bene e digerire meglio. In effetti con la parola càntaro - oggetto destinato ad accogliere gli esiti fisiologici - si vuole proprio adombrare la buona salute indicata da una buona digestione, che intanto avviene se si è avuta la possibilità di nutrirsi. Si tenga presente che la parola càntaro non à l'esatto corrispettivo in italiano essendo il pitale(con la quale parola spesso è reso in italiano) destinato ad accogliere gli esiti prettamente liquidi, mentre il càntaro era destinato ad accogliere quelli solidi.
càntaro o càntero alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
22 SPARTERSE 'A CAMMISA 'E CRISTO.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Così a Napoli si dice di chi, esoso al massimo, si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato Cristo sul Golgota , divisero in quattro parti l'unica tunica di cui era ricoperto il Signore.
23 ESSERE AÚRIO 'E CHIAZZA E TRIBBULO 'E CASA.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e lamentarsi in casa. Cosí a Napoli si suole dire - specie di uomini che in piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto e simpatico, mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche immotivato.
Brak
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30 Quanno dduje se vònno, ciento nun ce pònno...
Quando due si vogliono, cento non possono contrastarli... Cioè: È inutile opporsi all'unione di due persone che si amano
31 Me staje abbuffanno 'e zifere 'e viento.
Mi stai riempiendo di refoli di vento. - Cioè: mi stai riempiendo la testa di fandonie
32 Passa 'a vacca...
Transita la vacca. - Cioè: è poverissimo. L'espressione dialettale è una derivazione per storpiatura d’una espressione del basso latino: passant vacua), usata nelle dogane latine per indicare i carri transitanti senza merce, quindi non soggetti al pagamento di balzelli.
33 Ògne capa è 'nu tribbunale
Ogni testa è un tribunale - Cioè:ognuno decide secondo il proprio metro valutativo.
34 'O pesce fète d''a capa.
Il pesce puzza dalla testa. Cioè: il cattivo esempio parte dall'alto.
35 Pare 'a varca 'e mastu tTore:a poppa cumbattevano e nun 'o sapevano a propra...
Sembra la barca di mastro Salvatore: a poppa combattevano e lo ignoravano a prua - Cioè:il massimo della disorganizzazione!...
36 Mazze e panelle, fanno 'e figlie bbelle...,panelle senza mazze, fanno 'e figlie pazze!
Botte e cibo saporito, fanno i figli belli, cibo senza percosse fanno i figli matti! - Cioè: nell'educazione dei figli occorre contemperare le maniere forti con quelle dolci.
37 Chi s'annammora d''e capille e d''e diente, s'annammora 'e niente...
Chi si lascia conquistare dai capelli e dai denti, s'innamora di niente, perché capelli e denti sono beni che sfioriscono presto..
38 Chiagnere cu 'a zizza 'mmocca...
Piangere con la tetta in bocca - Cioè: piangere ingiustificatamente
39Guàllere e ppazze, venono 'e razza...
Ernie e pazzia sono ereditarie(non si possono eludere).
40 'E fesse so' sempe 'e primme a se fà sèntere...
I fessi son sempre i primi a parlare - cioè: gli sciocchi sono sempre i primi ad esprimere un parere...
41 Dicette Pulicenella:'A meglia mmedicina? Vino 'e cantina e purpette 'e cucina...
Disse Pulcinella:la miglior medicina? vino vecchio e polpette fatte in casa...
42 stanno cazza e cucchiara.
stanno secchio della calcina e cucchiaia. - Cioè:vanno di pari passo, stanno sempre insieme.
Erroneamente qualcuno riferisce il modo di dire con l’espressione: Stanno tazza e cucchiaro, espressione inesatta innanzi tutto perché la posata che accompagna la tazza, a Napoli è esclusivamente riportata come diminutivo: ‘o cucchiarino ed invece la locuzione, sulle labbra dei vecchi napoletani comporta la presenza della cucchiara arnese tipico dei muratori .
43 Stammo asseccanno 'o mare cu 'a cucciulella...
Stiamo prosciugando il mare con la conchiglia - Cioè: ci siamo imbarcati in un'impresa impossibile...
44 arrostere 'o ccaso cu 'o fummo d''a cannela.
arrostire il formaggio con il fumo di una candela - cioè:tentare di far qualcosa con mezzi inadeguati.
45 'A mala nuttata e 'a figlia femmena.
La notte travagliata e il parto di una figlia - cioè: Le disgrazie non vengono mai sole.
46 Nun tené manco 'a capa 'e zi' Vicienzo.
Non aver nemmeno la testa del sig. Vincenzo. Cioè:esser poverissimo. 'a capa 'e zi' Vicienzo è la corruzione dell'espressione latina:caput sine censu ovverossia:persona senza alcun reddito, persona che pertanto non pagava tasse.
47 Dicette munsignore ô cucchiere:"Va' chiano , ca vaco 'e pressa!"
Disse il monsignore al suo cocchiere:"Va' piano, ché ò premura!" Ossia:la fretta è una cattiva consigliera
48 Chi d’austo nn’è vestuto ‘nu malanno ll’è venuto
chi alla fine dell' estate non si copre bene, incorrera' in qualche malattia...cioè:occorre sempre esser previdenti
49 Senza denare nun se cantano messe.
Senza denaro non si celebrano messe cantate. Cioé: tutto à il suo prezzo.
50 A cuoppo cupo poco pepe cape.
Nel cartoccetto conico stretto entra poco pepe. in realtà si tratta di uno scioglilingua giocato sulle assonanze delle varie parole, ma che nasconde un’osservazione disincantata della realtà e cioè che chi è stretto perché pieno, sazio non può riempirsi di piú(e ciò sia in senso positivo che negativo posto che chi sia già tanto pieno, saziato di doti positive morali e/o di cultura, difficilmente potrà migliorarsi, come per converso chi sia cosí tanto sprovvisto di moralità e/o cultura difficilmente potrà aver modo di evolversi in meglio stante le ristrettezze morali del suo io che non gli consentiranno l’aggiunta d’alcunché);
l’agg.vo m.le napoletano cupo non corrisponde all’italiano cupo che vale 1 profondo, molto incassato: pozzo cupo; valle cupa ' (region.) fondo, concavo: piatto cupo
2 (fig.) riferito a stati d'animo o sentimenti negativi, profondo, radicato: odio, rancore cupo; un cupo dolore | impenetrabile, tetro, malinconico: carattere, volto cupo | sinistramente ambiguo, misterioso: cupe minacce
ma vale in primis: stretto, angusto, limitato e solo estensivamente buio, tenebroso, e detto di suono: cupo, basso, sordo.
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1.SE FRUSCIA PINTAURO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO. variante: SE FRUSCIA PANTUSCO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO.
Ad litteram: Si vanta (a torto) Pintauro delle (sue) sfogliatelle (che invece risultano) inacidite; nella variante, il cognome Pintauro, ( che come chiarirò fu quello del piú famoso pasticciere napoletano principale produttore, se non ideatore, di sfogliatelle (fra i piú tipici e rinomati dolci partenopei) fu sostituito con il nome di fantasia Pantusco, per non incorrere con lsa prima espressione in epigrafe, nelle ire del sig. Pintauro che si vedeva messo in ridicolo e punto sul vivo in ciò ch’egli riteneva tra le sue migliori capacità: quella di sfornare ottime sfogliatelle che normalmente erano freschissime e gustose e non certo inacidite, come si tentava di far credere. Locuzione popolarissima usata a sapido, anzi sarcastico commento delle azioni di chi, supponente ed arrogante, si glori, vantandosi a sproposito del proprio operato che – lungi dall’esser commendevole – è in realtà di segno opposto. Nella stesura della locuzione, di origine popolare si prese a riferimento dapprima il dolciere Pasquale Pintauro, un antico pasticciere napoletano che, normalmente, produceva delle ottime sfogliatelle dolce tipico inventato peraltro dalle suore carmelitane del convento partenopeo detto Croce di Lucca ad imitazione del dolce détto santarosa elaborato dalle consorelle dell’omonimo monastero in Furore.Il Pintauro titolare di un’osteria aveva una sua vecchia zia monaca nel convento della Croce di Lucca e tale vecchia zia monaca gli forní, in articulo mortis, la ricetta della sfogliatella che l’oste rielaborò riconvertendo la sua osteria in pasticceria facendo cosí le sue fortune commerciali fabbricando quel dolce diventato poi famosissimo. Successivamente, forse a causa delle rimostranze di P.Pintauro che vedeva coinvolto il suo nome in una locuzione negativa, si mutò il nome di Pintauro (personaggio reale ed esistente) in quello di un inventato di Pantusco che, d’altro canto, storicamente nulla aveva a che spartire (né poteva essendo persona inesistente) con la sfogliatella. E di quest’ultima tracciamo ora brevemente una storia. Comincerò col dire che, come è intuibile, ogni dolce à una sua storia. A volte faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata. La storia della sfogliatella appartiene fortunatamente alla prima categoria. L’antenata sfogliatella, dolce tipicamente partenopeo nacque (sia pure con un nome diverso) come spesso accadde per tanti dolci napoletani in un monastero: quello di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In quel riservato luogo ci si dedicava tantissimo alla preghiera, allo studio ed al lavoro manuale; il poco tempo libero residuo, (non potendo le monache intrattener rapporti con il mondo esterno…) veniva speso in cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il loro orto e la loro vigna, sí da ridurre al minimo i contatti con l’esterno, ed aumentare, con la preghiera, quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menú servito a refettorio era ovviamente uguale per tutte; soltanto le monache piú anziane potevano godere di un vitto speciale, fatto di semplici, ma nutrienti minestrine. Avvenne cosí che un giorno di tanto tempo fa (siamo nel 1600) la suora addetta alla cucina si accorse che in un tegame era avanzata un po’ di semola cotta nel latte, preparata per una vecchia suora sdentata; buttarla sarebbe stato un sacrilegio. Fu cosí che, come ispirata dal Cielo , la suora cuciniera vi cacciò dentro un paio di uova, due o tre cucchiai di ricotta, un po’ di frutta secca tritata , dello zucchero e del liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”, disse fra sé e sé. Ma da metter dentro a che cosa? La fantasia non le mancava e risolse súbito il problema: preparò con uova e farina due sfoglie di una sorta di pasta frolla sagomandole in forma di conchiglia vi aggiunse strutto e vino bianco, e vi sistemò nel mezzo il ripieno. Poi,sigillate con un po’ d’uovo battuto le due sfoglie per soddisfare il suo gusto estetico,lavorò alquanto con le mani unte di strutto la conchiglia ripiena dandole la definitiva forma di un cappuccio di monaca, ed infornò il tutto. A cottura ultimata, guarní il dolce con un cordone di crema pasticciera e delle amarene candite. La Madre Superiora, a cui per prima fu ammannito il dolce, sulle prime lo annusò , e súbito dopo (non si è Madri superiore indarno o per caso!...) fiutò l’affare: con quell’invenzione benedetta (e soprattutto saporita) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse del convento. La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce poteva esser messo nella classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci avessero messo (in entrata), qualche moneta. Al dolce venne assegnato ovviamente , il nome della Santa a cui era dedicato il convento. Come tutti i doni di Dio, la santarosa non poteva restare confinata in un sol luogo, per la gioia di pochi. Occorse del tempo, ma poi il dolce divenne noto in tutto il napoletano; in effetti la santarosa impiegò circa centocinquant’anni per percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui vi arrivò ai primi del 1800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro, nipote di una delle monache del convento della Croce di Lucca le cui monache avevano preso a produrre il dolce détto sfogliatella ad imitazione del dolce détto santarosa ideato dalle consorelle del monastero di Furore. I napoletani d’antan potrebbero opporre che Pintauro fu un pasticciere, e non un oste. Eppure al tempo di cui stiamo parlando, P.Pintauro era effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di fronte alla strada di Santa Brigida. La bottega di P.Pintauro rimase un’osteria fino al 1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso, probabilmente come grazioso dono della sua zia monaca che gliene parlò forse in articulo mortis. Fu cosí che Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertí in un laboratorio dolciario, dove si produssero con le sfogliatelle anche altri dolci d’invenzione dello stesso Pintauro: zeppole di san Giuseppe, code d’aragoste ,babà con l’uvetta e naturalmente tutti gli altri dolci della tradizione partenopea, nati quasi tutti nei monasteri femminili napoletani e/o della provincia o copiati da altri famosi dolcieri come nel caso del diplomatico e del ministeriale . Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la modificò alquanto: mantenne la doppia sfoglia di pasta frolla arricchita, ma eliminò la crema pasticciera e l’amarena, e ne mutò leggermente la forma che non fu piú di conchiglia triangolare, ma quasi rotonda sia pure con una base diritta: era nata la sfogliatella; successivamente affiancò alla sfogliatella di pasta frolla una seconda varietà che presto diventò addirittura piú famosa della consorella,cioè la cosiddetta “riccia”,fatta di pasta sfoglia e necessaria d’una particolare lavorazione sulla quale non mi dilungo.Da allora nulla è cambiato e la sfogliatella riccia mantiene inalterata la sua forma triangolare, a conchiglia, vagamente rococò. Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli, con gran soddisfazione. Se si cerca l’eccellenza però,accanto alla bottega dei F.lli Attanasio al vico Ferrovia (che sull’insegna e la carta intestata scrive Napule tre ccose tene ‘e bbello: ‘o mare, ‘o Vesuvio e ‘e sfugliatelle bisogna cercare la bottega di Pintauro che è ancòra là a Toledo: à cambiato gestione, ma non à cambiato il nome e neppure l’insegna, e tanto meno la qualità. Che resta quella di quasi duecento anni or sono e da allora si continua imperterriti a sfornare saporitissime e godibilissime sfogliatelle ricce o frolle, nonché in onore della tradizione (spesso però solo su richiesta) delle tronfie santarose che però son solo di pasta sfoglia.
se fruscia = si vanta, si pavoneggia, si gloria voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) del riflessivo frusciarse da fruscià/frusciare che con etimo dal b.latino frustiare sta per fare in pezzi, sciupare, consumare; i significati estensivi di vantarsi, gloriarsi, pavoneggiarsi del riflessivo frusciarse sono da collegarsi con un po’ di fatica in quanto la strada da percorrere è impervia, al significato primo del riflessivo che è affaccendarsi in qlc., facendo mostra del proprio impegno. Pintauro: Come abbiamo visto si tratta dell’oste, poi pasticciere (sfogliatelle,santarose, zeppole di san Giuseppe, code di aragoste ed altri dolci) Pasquale Pintauro che ebbe dapprima osteria e poi pasticceria in un piccolo antichissimo locale sito in Napoli alla via Toledo; di tale oste/dolciere mancano precise note biografiche; la tradizione vuole che fosse il nipote d’una monaca di clausura, che – come ò détto – gli forní, in punto di morte, la ricetta della santarosa da cui l’oste ricavò la sfogliatella.
Pantusco inesistente personaggio il cui nome inventato dal popolino venne usato per sostituire l’originario Pintauro che s’era adontato sentondosi ingiustamente chiamato ironicamente in causa, con la prima locuzione in esame, come produttore di dolci non freschissimi.
sfugliatelle = sfogliatelle s.vo f.le pl. di sfugliatella piccolo, gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di semola, uova e ricotta, canditi e spezie varie; etimologicamente è un derivato di sfoglia→sfogliata→sfogliatella.
jute= andate voce verbale (part. pass. femm.plur.) dell’infinito jí= andare dal lat. ire.
acito= aceto s.vo m.le prodotto della fermentazione del vino o di altri liquidi alcolici, usato come condimento, nella conservazione di prodotti alimentari e in farmacia; (etimo dal lat. acitu(m)); l’espressione jí acito vale inacidire, andare a male ed è detto soprattutto dei cibi che, o perché confezionati con ingredienti non freschissimi o perché mal conservati o esposti ad improprî agenti atmosferici, perdono l’originario sapore e diventano acidi, rovinandosi tanto da non esser piú commestibili; in senso estensivo e traslato l’espressione può essere usata anche nei riguardi di situazioni interpersonali che, per svariati motivi, si logorano perdendo l’originaria freschezza fino a determinare la interruzione di quei rapporti logorati.
1 BIS JIRSENE A CASCETTA(TE NE VAIE A CASCETTA!)
Letteralmente: Andarsene a cassetta.(te ne vai a cassetta!). La cassetta in questione è quella del vespillone e del cocchiere di carrozze padronali: il posto piú alto, ma anche il piú scomodo e il piú faticoso da raggiungere, delle antiche vetture da trasporto passeggeri. L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la dispendiosità o la fatica cui si va incontro, impegnandosi in un'azione ritenuta gravosa per cui se ne sconsiglia il porvi mano.
2 Â CASA D' 'O FERRARO, 'O SPITO 'E LIGNAMMO...
Letteralmente: In casa del ferraio, lo spiedo è di legno. La locuzione è usata a commento sapido allorché ci si imbatta in persone dalle quali (per la loro supposta, vantata professionalità) ci si attenderebbero nelle loro azioni, risultati adeguati ben diversi da quelli che invece sono sotto gli occhi di tutti.
3 PIGLIATÉLLA BBELLA E CÓCCATE PE TTERRA.
Letteralmente:sposala bella e coricati in terra. Id est: accasati con una donna bella, ma tieniti pronto a sopportarne le peggiori conseguenze;la bellezza di una moglie comporta danno e sofferenze.
4 ABBACCÀ CU CHI VENCE.
Colludere col vincitore - Schierarsi dalla parte del vincitore. Comportamento nel quale gli Italiani sono maestri: si racconta, ad esempio, che al tempo dell'ultima guerra, all'arrivo degli americani non fu possibile trovare un fascista. Tutti quelli che per un ventennio avevano indossato la camicia nera, salirono sul carro dei vincitori e i militari anglo-americani si chiedevano, riferendosi a Mussolini: Ma come à fatto quell'uomo a resistere vent'anni se non aveva nessuno dalla sua parte?
Abbaccà= andar con [dal lat. volg. ad+vadicare→avvad(i)care→avvaccare→abbaccare]
5 QUANNO 'A CUNNIMMA È PPOCA, SE NE VA P' 'A TIELLA.
Quando il condimento è poco, si disperde nel tegame, invece di attaccarsi alle pietanze; id est: chi non à mezzi sufficienti, facilmente li disperde e non riesce ad usarli per portare a compimento un'opera cominciata.
6 A LLU FRIJERE SIENTE 'ADDORE, A LLU CAGNO,SIENTE 'O CHIANTO.
Letteralmente: al momento di friggere sentirai l'odore, al momento del cambio, piangerai. Un disonesto pescivendolo aveva ceduto ad un povero prete un pesce tutt' altro che fresco e richiesto dall'avventore intorno alla bontà della merce si vantava di avergli dato una fregatura asserendo che l'odore del pesce fresco si sarebbe manifestato al momento di cucinarlo, ma il furbo sacerdote , che aveva capito tutto e lo aveva ripagato con danaro falso, gli replicò per le rime dicendo che il truffaldino pescivendolo al momento che avesse tentato di scambiare la moneta ricevuta, avrebbe avuto la cattiva ventura di doversene dolere in quanto si sarebbe accorto della falsità del danaro.La locuzione è usata sarcasticamente nei confronti di chi pensa di aver furbescamente dato una fregatura a qualcuno e non intende di esser stato ripagato d’una medesima moneta...
7 VOCA FORA CA 'O MARE È MARETTA...
Rema verso il largo ché il mare è agitato...Consiglio pressante, quasi ingiunzione ad allontanarsi, rivolto a chi chieda insistentemente qualcosa che non gli spetti.In effetti i marinai sanno che quando il mare è molto agitato è conveniente remare verso il largo piuttosto che bordeggiare a ridosso della riva contro cui ci si potrebbe infrangere
8- METTERE LL'UOGLIO 'A COPP' Ô PERETTO.
Letteralmente: aggiungere olio al contenitore del vino. Id est:colmare la misura. La locuzione viene usata sia per indicare che è impossibile procedere oltre in una situazione, perché la misura è colma, sia per dolersi di chi, richiesto d'aiuto, à invece completato un'azione distruttrice o contraria al richiedente. Un tempo sulle damigiane colme di vino veniva versato un piccolo strato d'olio a mo' di suggello e poi si procedeva alla tappatura, avvolgendo una tela di sacco intorno alla imboccatura del contenitore vitreo.
9 QUANNO JESCE 'A STRAZZIONA, OGNE FFESSO È PRUFESSORE...
Quando è avvenuta l'estrazione dei numeri del lotto, ogni sciocco diventa professore. la locuzione viene usata per sottolineare lo stupido comportamento di chi,incapace di fare qualsiasi previsione o di dare documentati consigli, s'ergono a profeti e professori, solo quando, verificatosi l'evento de quo, si vestono della pelle dell' orso...volendo lasciar intendere che avevano previsto l'esatto accadimento o le certe conseguenze...di un comportamento.
10 'A MONECA 'E CHIANURA:MUSCIO NUN 'O VULEVA MA TUOSTO LE FACEVA PAURA...
La suora di Pianura:tenero non lo voleva, ma duro le incuoteva paura (si sottointende :il pane.) La locuzione viene usata nei confronti degli incontentabili o degli eterni indecisi...
11 HÊ VIPPETO VINO A UNA RECCHIA.
Ài bevuto vino a una orecchia - cioè vino scadente che fa reclinare la testa da un lato. Pare che il vino buono sia quello che faccia reclinare la testa in avanti. Lo si dice per sottolineare i pessimi risultati di chi abbia agito incongruamente, come dopo di aver bevuto del vino scadente.
12 PURTA'E FIERRE A SSANT' ALOJA.
Recare i ferri a Sant'Eligio. Alla chiesa di sant'Eligio i vetturini da nolo solevano portare, per ringraziamento, i ferri dismessi dei cavalli ormai fuori servizio.Per traslato l'espressione si usa con riferimento furbesco agli uomini che per raggiunti limiti di età, non possono piú permettersi divagazioni sessuali...
13 'O PATATERNO 'NZERRA 'NA PORTA E ARAPE 'NU PURTONE.
Il Signore Iddio se chiude una porta, apre un potoncino - Cioè: ti dà sempre una via di scampo
14 NUN TENÉ PILE 'NFACCIA E SFOTTERE 'O BARBIERE
Non aver peli in volto e infastidire il barbiere - Cioè: esser presuntuosi al punto che, mancando degli elementi essenziali per far alcunchè, ci si erga ad ipercritico e spaccone.
15 È GGHIUTO 'O CASO 'A SOTTO E 'E MACCARUNE 'A COPPA.
È finito il cacio sotto e i maccheroni al di sopra. Cioè: si è rivoltato il mondo: il formaggio deve guarnire dal di sopra il piatto di pasta, non far da strame ai maccheroni!
16 À FATTO MARENNA A SSARACHIELLE.
À fatto merenda con piccole aringhe affumicate - Cioè: si è dovuto accontentare di ben poca cosa.
17'O CANE MOZZECA Ô STRACCIATO.
Il cane assale chi veste dimesso - Cioè: il destino si accanisce contro il diseredato.
18 TRE SONGO 'E PUTIENTE:'O PAPA, 'O RRE E CCHI NUN TÈNE NIENTE...
Tre sono i potenti della terra:il papa, il re e chi non possiede nulla: Il papa è il capo indiscusso della comunità ecclesiale e quando parla ex cathedra è addirittura infallibile;il re è il capo indiscusso della comunità nazionale che gli presta onore ed ubbidienza; chi manca di tutto non à timore né d’esser richiesto d’alcunché, né d’essere defraudato di ciò che non à!
19 Ė GGHIUTA ‘A FESSA 'MMANO Ê CRIATURE, 'A CARTA 'E MUSICA 'MMANO Ê BARBIERE, 'A LANTERNA 'MMANO Ê CECATE...
La vulva è finita nelle mani dei bambini, lo spartito musicale in mano ai barbieri, la lanterna nelle mani dei ciechi. - l'espressione viene usata con senso di disappunto, quando qualcosa di importante finisce in mani inesperte o inadeguate che pertanto non possono apprezzare ed usare al meglio, come accadrebbe nel caso del sesso finito nelle mani dei fanciulli o ancora come l'incolto barbiere alle prese con uno spartito musicale o un cieco cui fosse affidata una lanterna che di per sè dovrebbe rischiarare l'oscurità.
20 S' A' DDA JÍ ADD' 'O PATUTO, NO ADD' 'O MIEDECO.
Bisogna recarsi a chiedere consiglio da chi à patito una malattia, non dal medico - Cioè:la pratica val piú della grammatica.
21 AÚRIO SENZA CANISTO, FA' VEDÉ CA NUN L'HÊ VISTO.
Augurio senza dono, mostra di non averlo ricevuto - Cioè: alle parole occorre sempre accompagnare i fatti.
22 Ô PIRCHIO PARE CA 'O CULO LL'ARROBBA 'A PETTULA...
All'avaro sembra che il sedere gli rubi la pettola della camicia - Cioè: chi è avaro vive sempre nel timore d'esser derubato.
23 CHI FATICA 'NA SARÀCA, CHI NUN FATICA, 'NA SARÀCA E MMEZA.
Chi lavora guadagna una salacca, chi non lavora, una salacca mezza - Cioè: spesso nella vita si è premiati oltre i propri meriti.
24 'A MAMMA D''E FESSE È SEMPE PRENA.
LA mamma degli sciocchi è sempre incinta - Cioè: il mondo brulica di stupidi.
25 DICETTE 'O PAPPICE VICINO Â NOCE: DAMME 'O TIEMPO CA TE SPERTOSO!
L'insetto punteruolo disse alla noce: Dammi tempo e ti perforerò - Cioè: chi la dura la vince!
26 A GHIENNERE E NNEPUTE, CHELLO CA FAJE È TUTTO PERDUTO.
A generi e nipoti quel che fai, è tutto perso - Cioè:stante la generale diffusissima irriconoscenza umana, va perduto anche il bene fatto ai parenti prossimi
27 Ô FIGLIO MUTO, 'A MAMMA 'O 'NTENNE.
Il figlio muto è compreso dalla madre - Lo si dice di due persone che abbiano un'intesa perfetta.
28 SAN LUCA NCE S'È SPASSATO...
San Luca ci si è divertito...- Lo si dice di una donna cosí bella che sembra dipinta dal pennello di San Luca, che la tradizione vuole pittore. Ma anche in senso antifrastico quando ci si imbatte in una donna decisamente brutta.
29 QUANNO SIENTE 'O LLATINO D' 'E FESSE, STA VENENNO 'A FINE D' 'O MUNNO...
Quando senti i fessi parlare in latino, s'approssima la fine del mondo. Cioè: quando gli sciocchi prendono il comando a parole e con i fatti, si preparono tempi grami.
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VARIE 15/677
1.JÍ TRUVANNO CRISTO ‘INT’ Ê LUPINE o meglio JÍ TRUVANNO CRISTO DINTO A LA PINA
ad litteram: Andar cercando Cristo fra i lupini o meglio Andar cercando Cristo nella pigna. Id est: mettersi alla ricerca di una cosa difficile da trovarsi o da conseguirsi; cosa pretestuosa e probabilmente inutile, per cui, il piú delle volte, non metterebbe conto il mettersene alla ricerca.
Come ò segnalato la prima locuzione è meno esatta della seconda che risulta essere quella originaria, mentre la prima ne è solo una frettolosa corruzione; ed in effetti se si analizza la seconda locuzione (quella consigliata), si può intendere a pieno la valenza delle espressioni, valenza che è difficile cogliere accettando la prima locuzione che fa riferimento ad incoferenti e pretestuosi lupini; quanto piú corretta la seconda, quella che fa riferimento alla pigna in quanto i pinoli in essa contenuti presentano un ciuffetto di cinque peli comunemente détto: manina di Cristo e la locuzione richiama appunto la ricerca di détta manina, operazione lunga e che non sempre si conclude positavamente: infatti occorre innanzitutto procurarsi una pigna fresca, abbrustolirla al fuoco per poi spaccarla ed estrarne i contenitori dei pinoli, da cui trar fuori i suddetti ed alla fine andare alla ricerca della manina e cioè per metinomia,di Cristo; spesso càpita però che i contenitori siano vuoti di pinoli e dunque tutta la fatica fatta vada sprecata e si riveli inutile. Qualche altro scrittore di cose napoletane nel vano tentativo di fare accogliere la prima locuzione, fa riferimento ad una non meglio annotata o rammentata leggenda che vede stranamente la Vergine Maria non esser misericordiosa con la pianta di lupini; nelle mie ricerche tale leggenda è risultata pressocché sconosciuta, mentre non v’è anziano popolano che non sia a conoscenza della manina di Cristo.
2.JÍ TRUVANNO CHI LL’ACCIDE nell’espressione: VA TRUVANNO CHI LL’ACCIDE
Ad litteram: andare in cerca di chi l’uccida nell’espressione va in cerca di chi l’uccida
espressione usata per commentare le antipatiche azioni del provocatore, di chi stuzzichi il prossimo fino a destare, anche se figuratamente, nei meno pazienti, istinti omicidi.
3.JÍ TRUVANNO GUAJE CU ‘A LANTERNELLA
Ad litteram: andare in cerca di guai con un lanternino detto di chi per suo puro masochismo e non per sopraggiunte casualità, si vada cacciando di proposito nei guai, quasi andandone alla ricerca con una lanterna per meglio trovarli.
4.JÍ PE FFICHE E TRUVÀ CETRÓLE
Ad litteram: andare in cerca di fichi e trovare cetrioli. Locuzione di portata simile a quella ricordata alibi: (jí p’ajuto e truvà sgarrupo) cioè andare in cerca di qualcosa di buono ed imbattersi nel contrario atteso che il cetriolo pure essendo un ortaggio buono ed edibile, non è certo saporito e gustoso come un fico.Di analogo significato e portata è la locuzione molto becera, ma molto icastica: (jí pe ‘nu culo truvà ‘nu cazzo) con la quale si adombra l’incresciosa situazione di chi vada in cerca di una persona da sodomizzare e si imbatta in una che lo sodomizzi.
5. JÍ Ô BBATTESEMO SENZA ‘O CRIATURO
Ad litteram: recarsi al fonte battesimale senza il bambino (da battezzare) locuzione usata per bollare situazioni macroscopicamenti carenti degli elementi essenziali alla loro esistenza, riferita spercialmente a tutti coloro che distratti per natura, o perché colpevolmente poco attenti si accingono ad operazioni destinate a fallire perché prive del necessario sostrato dimenticato per distrazione o non conferito per disattenzione.
6.JÍ A PPUORTECE PE ‘NA RAPESTA.
Ad litteram: recarsi a Portici per (acquistare) una rapa. Id est: Agire sconsideratamente impegnandosi eccessivamente, affaticandosi oltremodo per raggiungere un risultato modesto o meschino. Cosí si dice, a dileggio, di chi si comporta in maniera poco giudiziosa, assennata, attenta, accorta o riflessiva sprecando energie e – nella fattispecie - si recasse al mercato ortofrutticolo all’ingrosso di Portici, piccolo comune agricolo nei pressi di Napoli, per acquistare una sola, insignificante rapa.
6 bis.JÍ A PPUORTO P’ ‘A RAPESTA. Ad litteram: recarsi al porto per la rapa. L’espressione in esame è una corruzione della precedente, ma è di significato alquanto diverso; questa in esame è una locuzione usata a dileggio di chi si comporti in maniera imprudente, scriteriata, dissennata mettendosi in situazioni pericolose, come quella di frequentare la malfamata e perigliosa zona portuale, e lo faccia non per necessità o per lavoro, ma al solo scopo di dar soddisfazione alle proprie esigenze sessuali frequentando le prostitute stanziali del porto atte ad occuparsi della ... rapesta del loro cliente. Infatti nella locuzione il s.vo rapesta [1 in primis rapa; 2 per traslato furbesco membro maschile; 3per traslato offensivo uomo inetto e dappoco; la voce rapa è dal lat. rapa←rapu-m = rapa, mentre la voce napoletana rapesta è dal neutro lat. rapistru-m attraverso il pl. rapistra poi inteso f.le e lètto rapista→ rapesta con semplificazione di str→st come in fenesta da fenestra(m) ] qui rapesta è usato appunto nel senso traslato/furbesco.A margine rammento infatti che è da collegarsi alla rapa l’agg.vo arrapato che è il part. pass. usato anche come agg.vo dell’infinito arrapà (arrapare), v.bo tr.vo di origine meridionale,pervenuto anche nel lessico italiano sia pure come voce volgare. è un denominale del lat. rapa, propr. neutro pl. di rapum 'rapa', poi considerato come f.le sg.in senso maliziosamente allusivo alla durezza dell’ortaggio] = eccitare sessualmente; piú spesso usato come intr. o intr. pron. (arrapà, arraparse, fà arrapà), eccitarsi sessualmente; quantunque sia piú comunemente usata al maschile (arrapato= eccitato ) nulla vieta che la voce sia coniugata anche al f.le (arrapata= eccitata) quantunque l’eccitazione maschile meglio si presti in pratica ad esser rappresentata dalla turgidità della rapa!
7.JÍ DINT’ A LL’OSSA.
Ad litteram: andare nelle ossa detto di tutto ciò che risulti ampiamente giovevole, utile e proficuo che faccia quasi assaporarne i benefici fin dentro le ossa; la locuzione però non attiene esclusivamente al piano fisico , potendosi usare anche o spesso con riferimenti morali.
8. JÍ ‘NFREVA
Ad litteram: andare in febbre id est: adontarsi, lasciarsi cogliere da moti di rabbia innanzi a situazioni ritenute cosí ingiuste o prevaricanti da destare agitazione, foriera di febbre.
9.JÍ METTENNO ‘A FUNE ‘E NOTTE
Ad litteram: Andar mettendo la fune di notte. Locuzione che si usava pronunciare risentitamente, in forma negativa ( nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte) (non vado tendendo la fune di notte)oppure sotto forma di domande retoriche:ma che ghiesse mettenno fune ‘e notte?(forse che vado tendendo funi di notte?),oppure ma che te cride ca vaco mettenno fune ‘e notte? (pensi forse ch’io vada tendendo funi di notte?) per protestare la propria onestà, davanti ad eccessive richieste di carattere economico; a mo’ d’esempio quando un figlio chiede troppo al proprio genitore, costui nel negargli il richiesto usa a mo’ di spiegazione la locuzione in epigrafe, volendo significare: essendo una persona onesta e non un masnadiero abituato a rapinare i viandanti tendendo una fune traverso la strada, per farli inciampare e crollare al suolo, non ò i mezzi economici che occorrerebbero per aderire alle tue esose richieste; perciò règolati e mòderale !
10.JÍ TRUVANNO OVA ‘E LUPO E PIETTENE ‘E QUINNECE.
Ad litteram: andare in cerca di uova di lupo e pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose ma vane come sarebbe l’andare alla ricerca di uova di lupo che è un animale viviparo o cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i pettini da cardatura non ne contavano mai piú di tredici.
11.JÍ TRUVANNO SCESCÉ
Espressione intraducibile ad litteram con la quale si identifica chi, in ogni occasioni cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo dichiarato di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare), ma non ci sono certezze circa il suo primo utilizzo nel senso indicato. Si può però tranquillamente ipotizzare che durante la dominazione murattiana, se non durante quella angioina, un milite francese si fermasse a chiedere una informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usasse una frase analoga contenente l’infinito: chercher”
Il popolano che con ogni probabilità non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).
12.LL’URDEMU LAMPIONE ‘E FOREROTTA.
ad litteram:l’ ultimo lampione di Fuorigrotta id est: essere l’ultimo, inutile, insignificante individuo di un cossesso quale esso sia. La locuzione si riferisce al fatto che un tempo a Napoli i lampioni dell’illuminazione stradale erano numerati ed accesi a sera progressivamente secondo la loro numerazione cardinale. l’ultimo di essi lampioni contrassegnato con il num. 6666 era ubicato nella periferica zona occidentale della città nel quartiere detto di Fuorigrotta ed era l’ultimo ad essere acceso , quando già le prime luci del giorno ne sminuivano l’utilità;alla luce di quanto detto si comprende che è solo un divertente, ma incoferente esercizio mentale considerare che con la quadruplice sequenza del num. 6 che nella smorfia indica tra l’altro lo sciocco, il lampione contrassegnato 6666 possa indicare un gran babbeo.
13.LL’OMMO ‘NCOPP’Â SALÈRA
Ad litteram: l’uomo sulla saliera. Cosí con l’espressione in epigrafe a Napoli si è soliti prendersi giuoco di uomini che siano piccoli e non fisicamente prestanti, assimilati a quella statuina posta come impugnatura alla sommità dei coperchi delle saliere di terracotta, statuina che riproduceva le sembianze di un tal Tom Pouce nanetto inglese che intorno al 1860 si esibí a Napoli in uno spettacolo di circo equestre.
14.LLOCO TE VOGLIO, ZUOPPO, A ‘STA SAGLIUTA
Ad litteram: Lí ti voglio (vedere), zoppo, innanzi a questa salita (vediamo cosa saprai fare...). Locuzione che ricorda quasi il dantesco: Qui si parrà la tua nobilitate e che viene usata nei confronti di tutti i saccenti, supponenti millantatori che certamente crolleranno innanzi alle prime autentiche difficoltà, quando non saranno sufficienti per raggiungere un risultato le parole di cui i millantatori sono ricchi e vacui dispensatori, ma occorreranno invece i fatti che i soliti millantatori sono incapaci di produrre.
15.LEVAMMO ‘ACCASIONE
Ad litteram: Togliamo l’occasione id est: facciamo in modo da non lasciare ad altri il destro di inopportuni interventi, rinunciamo magari a qualche piccolo vantaggio pur di non favorire la maldestra commistione di terzi, in faccende che non dovrebbero riguardarli.
16. LEVAMMO ‘A TAVERNA ‘A NANTE A CCARNEVALE.
Ad litteram: Togliamo la taverna di davanti a Carnevale. Icastica locuzione di valenza simile alla precedente, ma con un piú marcato riferimento ad eventuali ipotetici eccessi alimentari che si potrebbero produrre se non si procedesse ad eliminare eventuali occasioni scatenanti detti eccessi. Un tempo la locuzione in epigrafe era usata ad esempio in tutte le case dove, preparata una buona torta, si correva il rischio che i bambini ne mangiassero continuatamente fino, forse ad incorrere in fastidiose indigestioni; in tali occasioni un adulto, provvedendo a metter la torta fuori della portata dei ragazzi , si esprimeva con la locuzione in epigrafe, usata in occasioni analoghe quando occorresse sottrarre qualcosa ad un utilizzo sfrenato ed incontrollato.
17. LEVÀTE ‘O BBRITO.
Ad litteram: Togliete il vetro id est: Raccogliete, mettete via, lavate e riponete i bicchieri usati in quanto la giornata è finita e la mescita chiude.Secco comando che gli osti solevano dare ai garzoni nell’approssimarsi dell’ora di chiusura dell’osteria, affinché raccogliessero e lavassero i bicchieri usati dagli avventori, che - a quel comando dato dall’oste ai garzoni - capivano che dovevano abbandonare il locale; per traslato oggi la locuzione è usata ogni qualvolta si voglia fare intendere che si approssima la fine d’una qualunque operazione intrapresa e quindi occorre affrettarsi.
18.LEVÀ ‘A FRASCA ‘A MIEZO
Ad litteram: togliere la frasca di mezzo; id est: cessare definitivamente un’ attività, togliersi di mezzo, sbaraccare; la locuzione richiama ciò che facevano gli antichi osti - con mescita specialmente in strade di campagna - i quali al momento della cessazione anche solo stagionale della propria attività solevano staccare dall’architrave della porta dell’osteria il telaio ligneo ricoperto di frasche che vi avevano apposto all’inizio della stagione per segnalare che in quella osteria era giunto il vino nuovo. A Napoli vi fu una strada un tempo periferica che proprio per la presenza di numerose osterie che inalberavano le frasche (segno che in quelle mescite si vedeva o serviva accanto al vino stagionato, anche vino nuovo) fu detta ‘a ‘Nfrascata; attualmente la strada è intitolata al poeta pittore Salvator Rosa ((Napoli, 21 o 22 luglio 1615 – † Roma, 15 dicembre 1673)
19. LILLO, LÉLLA Ô PERE ‘E SANT’ ANNA.
Ad litteram: Lillo, Lélla al piede di sant’Anna.id est: prostrati ai piedi di Sant’Anna. Cosí con l’espressione in epigrafe vengono indicate tutte le coppie di coniugi anziani in ispecie quelli che si recano insieme a quotidiane funzioni religiose o anche quelle coppie di anziani che non ricevono mai visite di parenti od amici e si devono contentare della reciproca compagnia; la locuzione rammenta una coppia di attempati coniugi realmente esistiti e dimoranti in quella strada detta ‘a ‘nfrascata, coniugi che non si volevano rassegnare alla mancanza di figli e solevano recarsi in una cappella privata della zona a prostarsi davanti all’effige di sant’Anna per impetrare la grazia di un erede, ma restarono ugualmente soli.
L’espressione in epigrafe nacque in origine come Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna con riferimento ad un’abitudine invalsa nel popolino di recarsi a venerare una presunta reliquia di Sant’ANNA (un piede!) conservato nella cappella della propria abitazione napoletana dal conte Giovan Battista di Tocco di Montemiletto[esponente d’una nobile famiglia feudale, insignita dell'ordine del Toson d'oro cheprese nome appunto dalla signoria di Tocco (da Casauria) da essa posseduta. Fiorì a Napoli, a Venezia, a Benevento, ecc. Si estinse nel ramo primogenito dei principi di Montemiletto (1613), e continuò nel ramo dei T. già despoti dei Romeni da quando Leonardo di T. fu inviato (1357) a conquistare la Romania, l'Epiro, l'Acaia da Filippo principe di Taranto, e ritornati nel 1517 in Italia sfuggendo all'occupazione di Maometto II abitazione ubicata appunto alla confluenza piú alta della strada detta ‘a ‘nfrascata; tale nobiluomo fu discendente del capostipite Guglielmo di Tocco che s’ebbe il titolo di conte di Montemiletto (Av) al tempo degli Angioini sotto Carlo III Durazzo. L’incredibile reliquia (oggetto della venerazione di creduli fedeli) era esposta dal conte in occasione della ricorrenza di sant’Anna (26 luglio) sull’altarino della propria cappella privata,ma nell’occasione della festa aperta ai visitatori; la reliquia era conservata in una preziosa teca di cristallo tempestata di gemme preziose, ma (a mio avviso) probabilmente si trattava – come è lecito supporre! - solo di un reperto artistico ligneo e/o di cartapesta che in quell’epoca (fine ‘500 principio ‘600) di smaccata credulità popolare era stata accreditata come una autentica reliquia; questo piede di sant’Anna faceva il paio con altra presunta reliquia (il bastone di san Giuseppe) protagonista d’un’altra espressione che suona
20. SFRUCULIÀ 'A MAZZARELLA 'E SAN GIUSEPPE
Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante.
La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto da alcuni lestofanti al credulone cantante lirico Nicola Grimaldi (Napoli 1673 - † ivi 1732). Debuttò all'età di dodici anni e divenne in seguito uno dei piú celebri cantanti evirati, prima con voce di soprano, poi con voce di contralto.), come appartenuto al santo padre putativo di Gesù. Il settecentesco celeberrimo cantante il 1° agosto del 1713 rientrò a Napoli da Venezia - dove aveva trionfato a “La Fenice” - convinto di recare con sé l’autentico bastone (la mazzarella) al quale San Giuseppe si era sostenuto nell’accompagnare la Madonna alla Grotta di Betlemme e che (stando almeno a quanto fa intendere Annibale Ruccello) si favoleggiava fosse efficace strumento per scacciare il Maligno dal corpo degli indemoniati. Espose dunque, in una nicchia ricavata nel salotto del suo palazzo (palazzo Cuomo) alla Riviera di Chiaia, il bastone e vi pose a guardia un suo servitore veneto con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecule) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià. Come si intende il verbo a margine è dunque un denominale che partendo dal s.vo latino frecula (pezzettino) addizionata in posizione protetica di una esse (distrattiva) è approdato a sfruculià/sfreculià passando attraverso una s (intensiva)+ il lat. volg. *friculiare=sfregare dolcemente, ma insistentemente fino a sbreccare in tutto o in parte l’oggetto dello sfregamento; chiaro ed intuitivo il traslato semantico da sfregare/sbreccare e l’infastidire.
Normalmente, a mo' di ammonimento, la locuzione è usata come imperativo preceduta da un corposo NON.
Torniamo alla locuzione di partenza per la quale si può ipotizzare che - correttamente! - l’originario Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna (Lillo, Lélla e il piede di sant’ Anna) sia stato trasformato in Lillo, Lélla ô pere ‘e sant’ Anna. (Lillo, Lélla al piede di sant’ Anna id est: Lillo, Lélla(prostrati) ai piedi di sant’Anna) quando ci si rese conto che il piede oggetto di venerazione non era una reliquia del corpo di sant’Anna, ma solo un pregevole (?) manufatto.
21. LEVARSE ‘A MIEZ’Ê BBOTTE
Ad litteram: togliersi di mezzo ai, sottrarsi al pericolo dei fuochi artificiali. Id est: Defilarsi, sottrarsi ai rischi e/o pericoli e farlo vilmente magari in danno altrui. Da notare che con la voce bbotte nell’espressione in esame si intendono i fuochi d’artificio e non si intendono le percosse,(come improvvidamente ritiene qualcuno dei sedicenti addetti ai lavori del napoletano, ma colpevolmente a digiuno dell’autentica parlata napoletana nella quale ‘e bbotte non sono le percosse,ma i fuochi artificiali; è nell’italiano, non nel napoletano!, che le botte son sinonimo di percosse, e l’espressione in esame è napoletana non italiana e quindi chi opera la confusione tra le botte italiane e ‘e bbotte napoletane (che al sg. bòtta vale colpo,scoppio di fuoco artificiale o di arma da fuoco e per ampiamento semantico anche schianto, dolore improvviso, colpo apoplettico, ma non percossa!) è un asino calzato e vestito e non si può arrogare il diritto di sedere tra gli addetti ai lavori del napoletano!
22. SI SCAMPA ‘A CHESTI BBOTTE MASTU FRANCISCO NUN GHIESCE CCHIÚ ‘E NOTTE
Ad litteram: Se esce (uscirà) indenne da questi colpi, mastro Francesco non esce (uscirà) piú di notte. Occorre far tesoro dell’esperienza e ripromettersi di non incorrere nei medesimi errori. Un tal non meglio identificato mastro Francesco aveva preso la pessima abitudine di recarsi a defecare nottetempo lungo il muro di cinta della casa d’ un suo vicino, fabbricante di fuochi artificiali; costui una notte per dissuaderlo lo accolse con una salva di fragorosi e pericolosi colpi di fuoco d’artificio ed il mastro Francesco si ripropose di tenere altro comportamente per non incappare in altre disavventure.
Brak
VARIE 15/676
1.'A sotto p''e chiancarelle.
Letteralmente: attenti ai panconcelli! Esclamazione usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po' piú colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le piú o meno sottili assi trasversali di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano olim da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando Sanfelice [détto lo spagnolo per i suoi modi alteri e superbi tipici dei nobili spagnoli] che eretto nel 1738 un palazzo, noto appunto con il nome di Palazzo d’ ‘o Spagnolo nella zona détta della Sanità, vi appose un'epigrafe dittante: eques Ferdinandus Sanfelicius fecit(il cav. Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il Sanfelice, paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali LEVÀTEVE 'A SOTTO (toglietevi di sotto! ).
Chiancarelle s.vo f.le diminutivo pl. di chiancarella =pancocello, asse di legno (dal lat. planca + il suff. diminutivo ella ed epentesi di una erre eufonica; normale il passaggio in napoletano del gruppo lat. pl a chi come ad es. plus→cchiú – plangere→chiagnere – plumbeum→chiummo).
2. A 'stu munno sulo 'o càntero/càntaro è nicessario.
Letteralmente: la sola cosa necessaria a questo mondo è il pitale. Id est: niente e - soprattutto - nessuno sono veramente necessarii alla buona riuscita dell'esistenza; la sola cosa che conta è nutrirsi bene e digerire meglio. In effetti con la parola càntero - oggetto destinato ad accogliere gli esiti fisiologici - si vuole proprio adombrare la buona salute indicata da una buona digestione, che intanto avviene se si è avuta la possibilità di nutrirsi. Si tenga presente che le parole càntero/càntaro non à l'esatto corrispettivo in italiano essendo il pitale(con la quale parola si è reso in italiano) destinato ad accogliere gli esiti prettamente liquidi, mentre il càntero/càntaro era destinato ad accogliere quelli solidi.
càntaro o càntero s.vo m.le =alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntàru(m) a sua volta dal greco kàntàros; rammenterò ora di non confondere le voci a margine con un’altra voce partenopea
cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
3.Sparterse 'a cammisa 'e Cristo.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Cosí a Napoli si dice di chi, esoso al massimo, si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato Cristo sul Golgota , divisero in piú parti la sola tunica di cui era ricoperto il Signore.
4.Essere aurio 'e chiazza e tribbulo 'e casa.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e lamentarsi in casa. Cosí a Napoli si suole dire - specie di uomini che in piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto simpatico, mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche immotivato.
aurio s.vo neutro a. atteggiamento cordiale, augurale, beneaugurante; voce derivata dal lat. au(gu)riu(m) 'presagio';
chiazza s.vo f.le = piazza, ampio spazio urbano contornato da edifici nel quale confluiscono piú strade; la voce napoletana è dal lat. platea(m) 'via ampia', che è dal gr. platêia, f. sost. di platy/s 'ampio, largo'; da platea(m)→platía→chiazza con normale passaggio di pl a chi (cfr. plus→cchiú –plumbeum→chiummo etc.) e raddoppiamento espressivo della z da tia→za→zza.
tribbulo s.vo neutro = tribolo, 1 (bot.) nome di diverse piante spinose | (lett.) pruno, rovo, sterpo; 2 (mil.) ciascuno degli arnesi metallici provvisti di punte che si spargevano anticamente sul terreno per ostacolare l'avanzata della cavalleria
3 (fig.ed è il caso che ci occupa) tormento, preoccupazione, angustia.; voce che è dal lat. tribulu(m), dal gr. tríbolos 'spino' con raddoppiamento espressivo della esplosiva labiale;
casa s.vo f.le = casa, abitazione,edificio a uno o piú piani, suddiviso in vani e adibito ad abitazione; l'appartamento in cui una famiglia dimora; voce che è dal lat. casa(m) propriamente casa rustica: quella padronale era la domus.
5.Avenno, putenno, pavanno.
Letteralmente: avendo, potendo, pagando Strana locuzione napoletana che si compendia in una sequela di tre gerundi e che a tutta prima pare ellittica di verbo reggente, ma che sta a significare che un debito contratto, ben difficilmente verrà soddisfatto essendone la soddisfazione sottoposta a troppe condizioni ostative quali l'avere ed il potere ed un sottinteso volere, per cui piú correttamente il terzo gerundio della locuzione dovrebbe assumere la veste di verbo reggente di modo finito; ossia: pagherò quando (e se) avrò i mezzi occorrenti e quando (e se) potrò.
6.Ammèsurate 'a palla!
Letteralmente: Misúrati la palla; id est: misura preventivamente ciò che stai per fare cosí eviterai di incorrere in grossolani errori; renditi conto di che e con chi stai contrattando o con chi ti stai misurando per non trovarti davanti ad esiti poco convenienti per te delle tue azioni. La locuzione originariamente - pronunciata, però, con diverso accento ossia: Ammesuràte (misurate!)era il perentorio ordine rivolto dagli artiglieri ai serventi ai pezzi affinché portassero proiettili di esatto calibro adatti alle bocche da fuoco in azione.
7. A -Appennere 'a giacchetta.
B - Appennere 'o cazone.
A- Appendere la giacca B- Appendere il pantalone. Si tratta in fondo di due indumenti - per solito indossati dall'uomo, ma quanto diverso tra loro il significato sottinteso dalle due locuzioni. Quello sub A - fa riferimento alla giacca e sta a significare che si è smesso di lavorare e ci si è pensionati, rammentando che - normalmente - specie per lavori manuali l'uomo è solito liberarsi della giacca e lavorare in maniche di camicia; per cui disfarsi del tutto della giacca significa che non si è intenzionati a rimettersi al lavoro. Diverso e di significato piú grave la locuzione sub B;essa adombra il significato di decedere, lasciando una vedova, tenendo presente che della giacca ci si libera per lavoro, mentre del calzone lo si fa per coricarsi anche definitivamente.
8. bbona 'e Ddio!
Letteralmente: Con il benvolere di Dio. Id est: ci assista Dio. È l'augurio che ci si autorivolge nel principiar qualsiasi cosa affinché la si possa portare a compimento senza noie o pericoli. Traduce ad litteram l'augurio “A la buena de Dios” che i naviganti spagnoli solevano rivolgersi scambievolmente al levar delle àncore.
9. Scuntà a ffierre 'e puteca.
Letteralmente: scontar con utensili di bottega. Id est: saldare un debito conferendo non il dovuto danaro, ma una prestazione di lavoro confacente al proprio mestiere, con l'uso dei ferri da lavoro usati nella propria bottega.
10.Paré 'o carro 'e Battaglino.
Letteralmente: sembrare il carro di Battaglino. Id est: essere simile ad un famoso carro che veniva usato a Napoli per una processione votiva della sera del sabato santo, processione promossa dalla Cappella della SS. Concezione a Montecalvario. Detta Cappella era stata fondata nel 1616 dal nobile Pompeo Battaglino; sul carro che dal nobile prese il nome, era portata in processione l'immagine della Madonna accompagnata da un gran numero di musici e cantori.In ricordo di detto carro, ogni mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori si dice che sembra il carro di Battaglino.
11. Fattélla cu chi è mmeglio 'e te e fance 'e spese.
Letteralmente: Frequenta chi è miglior di te e sopportane le spese. Il proverbio compendia la massima comportamentale secondo la quale le amicizie vanno scelte nell'ambito di persone che siano migliori di se stessi, soprattutto dal punto di vista morale... e bisogna coltivare questo tipo di amicizia anche se esso tipo comporta il doverci rimettere economicamente parlando.
12.I' faccio pertose e ttu gaveglie.
Letteralmente: io faccio buchi e tu cavicchi; id est: io faccio buchi e tu sistematicamente li turi, ossia mi remi contro. La locuzione è usata anche profferendone la sola prima parte, lasciando sottointenderne la seconda quando si voglia redarguire qualcuno che si adoperi a distruggere o vanificare l'operato di un altro e lo faccia non per ottenerne vantaggio, ma per il solo gusto di porre il bastone tra le ruote altrui.
pertose = buchi; s.vo f.le pl. metafonetico del maschile pertuso (dal t. lat. *pertusu(m)); di pertuso esiste anche il normale pl. masch. pertusi/e ma viene usato per indicare i fori presenti sui capi di abbigliamento ( vestiti e/o scarpe) o segnatamente le narici: ‘e pertuse d’’o naso; invece con il pl. f.le pertose si indica qualsivoglia altro tipo di buco e segnatamente quelli piú grandi secondo il criterio napoletano per il quale un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile et versa vice ; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella
;
gaveglie= cavicchi, stecchi (di legno) s.vo f.le pl. di gaveglia (dal t. lat. *cavícla per il class. clavicula).
13. 'A musica giappunese.
La musica giapponese. Cosí i napoletani - abituati a ben altre armoniche melodie - sogliono definire quelle accozzaglie di suoni e rumori in cui vengon coivolti strumenti musicali, ma che con la musica ànno ben poco da spartire. Quando ancora esisteva la magnifica festa di Piedigrotta, spesso a Napoli per la strada si potevano incontrare gruppetti di ragazzi che producevano una dissonante musica ( che fu détta: musica giapponese) servendosi di particolari strumenti musicali quali: scetavajasse, triccabballacche, zerrizzerre e putipú.Con la medesima locuzione ci si riferisce, con evidente sarcasmo, altresí ad una dissonante musica che faccia addirittura a meno di strumenti musicali e venga prodotta artificiosamente con rumori della bocca che scimmiottino gli strumenti.
14.Te faccio sentí Muntevergine cu tutt''e castagne spezzate.
Letteralmente: Ti faccio sentire Montevergine con accompagnamento delle castagne frante. Espressione minacciosa con la quale si promette una violenta reazione ad azioni ritenute lesive; è costruita sul ricordo della gita fuori porta fatta il lunedí dell' angelo allorché interi quartieri solevano recarsi al santuario di Montevergine su carrozze trainate da cavalli bardati a festa. Il ritorno verso la città avveniva in una sarabanda di suoni e di canti corali portati allo strepito anche per i fumi dei vini consumati in gran copia; il vino era consumato per accompagnare il consumo di castagne secche ed infornate che erano vendute confezionate come grani di collane di spago che ogni cavallo si portava al collo come abbellimento.
15.Fà scennere 'na cosa dê ccóglie 'Abramo.
Letteralmente: far discendere una cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida locuzione partenopea che a Napoli si usa a sapido commento delle azioni di chi si fa eccessivamente pregare prima di concedere al petente un quid sia esso un'opera o una cosa lasciando intendere che il quid richiesto sia di difficile ottenimento stante la augusta provenienza.
Canta ca te faje canonico!
Letteralmente: Canta ché diventerai canonico Id est: Urla piú forte ché avrai ragione Il proverbio intende sottolineare l'abitudine di tanti che in una discussione, non avendo serie argomentazioni da apportare alle proprie tesi, alzano il tono della voce ritenendo cosí di prevalere o convincere l'antagonista.Il proverbio rammenta i canonici della Cattedrale che son soliti cantare l'Ufficio divino con tonalità spesso elevate, per farsi udire da tutti i fedeli.