mercoledì 30 settembre 2015
VARIE 15/708
1. 'A BBELLA ZITA, 'NCHIAZZA SE MMARITA
La bella ragazza trova marito appena arriva in piazza
Il proverbio ripete un noto assunto e cioè che la bellezza è arma vincente quando però sia esposta palesamente ed a tutti.
Nella fattispecie una bella ragazza trova marito appena si mostri a tutti, giungendo nella piazza (luogo frequentato anche da uomini forse in cerca di moglie.
zita= ragazza da marito etimologicamente è voce derivata da un antico cita/citta (da ricondurre ad un med. alt. tedesco zitze),= giovane donna nubile presente nel toscano d’antan anche al maschile cito/citto = giovane uomo celibe.
‘nchiazza ( = in+ chiazza) chiazza = piazza; etimologicamente da un accusativo latino: platea(m) con consueto esito di pl→chi mentre te + voc. dà tj→zz.
2. CCAURARA VECCHIA, VROGNOLE E PPERTOSE
Ad litteram: Sulla pentola vecchia,(ci sono) ammaccature e buchi. Al di là dell’ovvio e palese significato letterale, l’antico proverbio partenopeo in epigrafe ricorda e sottolinea che la salute delle persone vecchie è sempre malferma: i vecchi soffrono sempre di qualche piccolo o grosso malanno, alla stregua di una pentola vecchia che per essere stata usata molto, porta su di sé inevitabili tracce di usura e del tempo trascorso.
Altrove però e quasi a voler rassicurare i vecchi un altro proverbio antico rammenta che ‘a caurara vecchia va sempe p’’a casa ovvero che, a malgrado degli anni e degli acciacchi le persone vecchie continuano ad essere attive e ben presenti nella vita comunitaria.
caurara = caldaia: grande recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa; etimologicamente dal tardo latino caldaria(m), deriv. di calidus 'caldo; normale l’esito del suffisso latino maschile arius nel femm. ara; tipico altresì il passaggio del lat. al al napoletano au come ad es. altus→auto/aveto= alto o anche alter→auto→ato= altro; come tipico è il passaggio osco-mediterraneo d→r;
vrognole= ammaccature, bernoccoli, protuberanze o anche, ma altrove percosse; plurale di vrognola che è etimologicamente da un latino volgare bruniòla→brùnjola ( da un acc. classico pílulam eburneam= pallina biancastra donde per aferesi e metatesi eburneam→bruneam ed un diminutivo bruniòla→vrognola (con il nj→gn ed il tipico alternarsi di b/v;
pertose plurale metafonetico femm. del sing. maschile pertuso= buco, foro etimologicamente da un classico latino pertusus, part. pass. di pertundere 'bucare, forare', comp. di per 'attraverso' e tundere 'battere'; il plurale femminilizzato è dovuto al fatto che con esso si intende indicare dei buchi piuttosti grossi atteso che in napoletano un oggetto o una cosa di nome maschile ne assume uno femminile se aumenta di dimensione (cfr. ad es.: cucchiaro (piú piccolo) e cucchiara (piú grande) carretto (piú piccolo) e carretta (piú grande) tina (piú grande) e tino( piú piccolo) tavula (piú grande) e tavulo ( piú piccolo);fanno eccezione soltanto caccavo (piú grande) e caccavella ( piú piccola) e tiano (piú grande) e tiana( piú piccolo); nella fattispecie ‘e pertuse (pl. m.le di pertuso) sono intesi piú contenuti di ‘e pertose (pl. f.le di pertuso).
sempe avverbio di tempo = sempre, senza interruzione, senza fine (indica una continuità ininterrotta nel tempo):l’etimo della voce è dal latino semper che à dato per metatesi l’italiano sempre, mentre il napoletano à comportato l’apocope della consonante finale ottenendosi sempe in luogo dell’atteso semperre come càpita quasi sempre per le voci derivate da parole terminanti con una consonante nelle quali è d’uso aggiungere una vocale evanescente paragogica finale (e/a/o) dopo il raddoppiamento della consonante etimologica: (cfr. ad. es. barre per e da bar o tramme per e da tram etc.).
3.A CCHI PAZZEA CU 'O CIUCCIO, NUN LE MANCANO CAUCE
A chi gioca con un asino, non mancheranno i calci
Id est:chi pratica ambienti o esseri cattivi o malfidi, dovrà subirne le immancabili, dure conseguenze.
pazzea o pazzeja = gioca, scherza voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito pazzïà= giocare, scherzare o pure comportarsi irrazionalmente; etimologicamente il verbo napoletano, pervenuto peraltro anche nell’italiano, risulta un denominale di pazzo/pazzia derivati più che dal latino patior= soffro, dal greco patheìa (da pronunciarsi pathîa= sofferenza di corpo o animo;
ciuccio = asino, ciuco e per traslato persona ignorante; etimologicamente la voce a margine parrebbe essere di origine espressiva, ma la cosa non mi convince e propendo più per l’ipotesi che vede in ciuccio un adattamento di tipo popolare di un originario giucco da un lat. ex-sucus= senza sugo, sciocco, sempre che ciuccio non derivi dal latino cicur= mansuefatto domestico o da cillus modellato sul greco kìllos; non manca infine chi vi vede una radice araba schiacarà=ragliare radice che molto più chiaramente à dato il siculo sciecco;
cauce = calci plurale di caucio= calcio; la voce partenopea risulta deriv. da una forma aggettivale lat. calcius ce è da ca°lx ca°lcis 'calcagno, calcio' con il consueto (lo abbiamo già visto altrove: caldaia>caurara, gelsa>ceuza, altus>auto etc.) al + consonante che dà au.
4. A CHI SE FA PUNTONE, 'O CANE LLE PISCIA 'NCUOLLO
A chi si fa cantone di strada o angolo di palazzo, il cane (abituato a mingere sui muri…) gli minge indosso.
Id est: chi si fa troppo docile e remissivo, subirà le certe conseguenze del suo succubo atteggiamento.
puntone = cantone di strada o angolo di palazzo etimologicamente accrescitivo reso maschile di punta dal lat. tardo puncta(m) 'colpo inferto con una punta', deriv. di pungere 'pungere'; l'estremità assottigliata e aguzza di qualsiasi cosa o oggetto.
piscia = minge voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito piscià = mingere etimologicamente dal greco pytìzein che diede il latino *pitissare→pitsare→pissare→pisciare;
‘ncuollo letteralmente: in collo, sul collo e dunque indosso, addosso etimologicamente da un in illativo + cuollo (collo) dal latino collu(m) con successiva dittongazione popolare nella sillaba d’avvio: o→uo.
5 ÒGNE SCUFFIA P’’A NOTTE È SSEMPE BBONA, E Ô SCURO ‘NA VAJASSA È BBELLA E BBONA QUANTO Â MADAMA.
Letteralmente: Ogni cuffia per la notte è sempre buona (utile) e nell’oscurità la fantesca è bella ed appetibile quanto una signora.
Id est: sono sempre graditi i favori offerti a letto da una donna e non v’è differenza che tenga tra una serva o una padrona; piú ampiamente: nella vita occorre sapersi accontentare e (specialmente per ciò che riguarda il sesso) non sottilizzare, cogliendo, al contrario, al volo l’occasione propizia da qualsiasi parte ci venga!
ògne = ogni, ciascuno, qualsiasi agg. indef. solo sing. ; etimologicamente dal lat. omne(m) da non confondere con ógne= unghie s.vo f.le plurale di ógna che etimologicamente è da un lat. ungula(m) con successive dissimilazioni che diedero il latino volgare *unguna→uguna e per sincope della seconda u→ugna→ógna;
scuffia= cuffia, copricapo aderente per neonati, chiuso da due nastri che si annodano sotto il mento; copricapo analogo usato anticamente dalle donne o di giorno o di notte , spesso ornato di gale e trine, o portato dagli uomini sotto il cappuccio, il berretto o l'elmo oppure( se di lana) a letto, di notte per tener calda la testa ; oggi usato solo da operaie, infermiere e cuoche per tenere a posto i capelli; etimologicamente da un tardo lat. cufia(m)(con prostesi di una s intensiva e raddoppiamento espressivo della f) probilmente di orig. germ.;
ô forma contratta di a + ‘o = allo preposizione articolata (cfr. alibi â ← a +’a= alla oppure ê ← a+ ‘e = alle oppure a gli/ ai);
scuro aggettivo e sostantivo; come aggettivo vale oscuro, buio, cupo; come sostantivo vale oscurità, buio notturno; etimologicamente derivato dal lat. obscuru(m) =oscuro con deglutinazione ( perdita del suono iniziale di una parola, perché inteso come articolo o preposizione (p. e. avello, dal lat. labellum)) dell’iniziale o intesa articolo (oscuro→’o scuro);
bbella e bbona = bella ed appetibile; bbella è il femm. di bello che è dal tardo lat. bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono' ed à il consueto significato attribuito a ciò che è dotato di bellezza o che suscita ammirazione, piacere estetico; mentre bbona (femm. di buono) nel significato a margine non vale conforme al bene; onesta, moralmente positiva, che à mitezza di cuore, mansueta, bonaria e non vale neppure abile, capace; o detto di cosa: utile, efficace, efficiente (come è per il bbona della prima parte del proverbio in epigrafe…) ma - pur mantenendo l’etimo dal lat. bonum=buono – sta per piacente, appetibile, che risveglia i sensi; da rammentare poi che in napoletano esiste un’espressione che a tutta prima parebbe maschile ed invece è neutra: bbello e bbuono che non si riferisce a persona o cosa esteticamente gradevole o moralmente positiva, ma à una valenza quasi temporale e sta per all’improvviso con riferimento ad una situazione che da positiva (bella e buona) che era si sia mutata d’improvviso in maniera negativa;
quanto =tal quale, come, alla medesima maniera dal lat. quantu(m), avv. da quantus ;
â forma contratta della prepos. articolata a +’a = a+la= alla(cfr. alibi ô ← a +’o= al/allo oppure ê ← a+ ‘e = alle oppure a gli/ ai);
;
madama = signora, titolo di riguardo che veniva rivolto in passato a una signora; oggi usato solo in tono scherzoso o ironico voce derivata al fr. madame, comp. di ma 'mia' e dame 'signora';
di vajassa (dall’arabo baassa attraverso il francese bajasse)= serva, fantesca già dissi passim precedentemente altrove.
6. 'A CHIERECA 'O PATE 'A LASSA Ê FIGLIE.
Ad litteram: La tonsura il padre la lascia (in eredità ) ai figli.
Id est: la professione, l'arte o mestiere esercitate da un genitore, solitamente passano dal padre ai figli che beneficiano anche della acquisita clientela del genitore, di talché quella professione, quell’arte o mestiere costituisce una vera e propria eredità. Di per sé la voce chierica (piccola rasatura tonda che i membri di alcuni ordini religiosi portano o meglio, portavano fino a poco tempo fa come segno del proprio stato in cima al capo) usata nel proverbio in epigrafe è la tonsura, ma qui adombra in quanto segno evidente una qualsiasi arte e/o mestiere, in ispecie quelle esercitate in piazza (barbieri, falegnami e simili) in bottega o, estensivamente, quelle professioni per le quali si conduce uno studio (medici, avvocati etc.); va da sé che la voce chiereca adombra qualsiasi altra professione, arte o mestiere esercitata non solo in proprio, ma anche alle dipendenze, specialmente quando un genitore riesce con i suoi buoni uffici ad indirizzare il proprio figliuolo sulla propria strada lavorativa (quante mezze cartucce di giornalisti imperversano nei e sui media solo perché figli di penne e/o microfoni!) Etimologicamente la voce chiereca deriva dal lat. eccl. clerica(m) (tonsionem) '(tonsura) dei chierici';
pate =padre, genitore ma estensivamente anche antenato etimologicamente dritto per dritto dal nominat. lat. pate(r);
lassa =lascia, voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito lassà= lasciare, smettere di tenere, di sostenere, di stringere, dare in eredità, dal lat. laxare 'allargare, sciogliere', deriv. di laxus 'largo, allentato';
ê figlie = ai figli (maschi o maschi e femmine); figlie è il plurale del masch. figlio; anche il femminile plurale della voce figlia è figlie,ma in unione all’articolo ‘e (le) o alla preposizione articolata ê (a+ ‘e= a+le=alle) comporta la geminazione della f iniziale dando ê ffiglie,(cosa che non avviene per il maschile ‘e/ ê figlie) per cui nella normale e tradizionale esposizione del proverbio in epigrafe si considerano ‘e figlie (i figli maschi o la totalità dei figliuoli, maschi e femmine); si fosse trovato scritto e detto ‘e ffiglie si sarebbe trattato esclusivamente delle figlie ( cioè delle femmine ); etimologicamente la voce figlio è dal lat. filiu(m), dalla stessa radice di fìmina 'femmina' e fecundus 'fecondo'.
7. 'A VARCA CAMMINA E 'A FAVA SE COCE.
Letteralmente: la barca cammina, e la fava si cuoce.
Estensivamente: gli affari progrediscono ed il sostentamento è assicurato.
La locuzione mette in relazione il cuocersi della fava (che indica, con il riferimento al cibo in cottura, la sopravvivenza,id est la continuata abbondanza di cibo) con il cammino della barca, ossia con il progredire delle attività economiche, per cui sarebbe piú opportuno tradurre: se la barca va, la fava cuoce.
Il proverbio, che fa riferimento all’attività marinaresca-commerciale, nacque, quasi certamente in paesi della zona costiera lí dove parecchi traevano i loro guadagni o dalla pesca o dai commerci marinareschi.
varca= barca ed estensivamente ogni natante più o meno grande adibito al lavoro o al diporto; sost. femm. derivato da un tardo latino barca(m) con consueta alternanza partenopea b/v.
cammina = cammina, progredisce ma qui naviga, voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito cammenà= camminare muoversi, spostarsi da un punto a un altro a piedi; per estens., passeggiare muoversi, avanzare, detto di veicoli, imbarcazioni etc. denominale di cammino che è dal lat. volg. *camminu(m), di orig. celtica;
fava = fava pianta erbacea con foglie paripennate, fiori bianchi macchiati di nero e legume a baccello contenente semi commestibili, di color verde e della forma di un grosso fagiolo appiattito (fam. Leguminose) (estens.) il seme commestibile della pianta; sost. femm. derivato dal at. faba(m);
coce= cuoce, viene a cottura voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito còcere sottoporre al calore del fuoco gli alimenti per renderli mangiabili e digeribili, o sostanze quali vetro, argilla ecc. per renderle adatte a determinati usi: bruciare, ustionare; per estens., seccare, inaridire con derivazione da un basso latino cocere per il class. coquere.
8.‘A VERITÀ È COMME A LL’UOGLIO
ASSOMMA SEMPE!
Ad litteram: La verità è come l’olio: viene sempre a galla! Affermazione popolare quasi assiomatica,tesa a ricordare che, nella vita,è inutile tentar di nasconderla, giacché per quanto si cerchi di celarla con bugie, falsità, bubbole, balle, sotterfugi, favole, fandonie, frottole, panzane, fole,volontarie o involontarie, la verità affiora sempre, appalesandosi quasi che avesse il medesimo leggero peso specifico dell’olio che versato in un bicchiere d’acqua rimane in superficie e non precipita mai.
verità= verità, ciò che è conforme al vero (dal nom. lat. veritas piuttosto che dall’acc. veritate(m) dal quale invece scaturisce l’italiano verità che in origine fu appunto latinamente veritate, il tutto deriv. di vìrus 'vero';
comme= come, alla stessa maniera di, derivato del lat.quomo abbreviazione di quomodo 'in qual modo' con tipico raddoppiamento popolare della m (vedi alibi: ommo←homo,nomme←nomen etc.) e semplificazione del dittongo mobile uo→o cosí come capita nella lingua italiana: buono→bontà, suono→sonata etc.;altre volte invece tale dittongo si semplifica in u (muorto→murticiello, buono→bunariello etc.);rammenterò la particolarità della parlata napoletana che relativamente all’avverbio a margine e ad altri avverbi e preposizioni improprie quali ‘ncoppa (sopra), sotto, ‘mmiezo (in mezzo) richiede sempre l’aggiunta della preposizione semplice a (che comporta la geminazione della consonante iniziale della parola successiva) o delle sue composte â(alla), ô (allo) ê (a gli, alle) per cui si avrà in italiano come te ed in napoletano comme a tte (notasi, come detto la geminazione della consonante t), sopra te o sopra di te ed in napoletano ‘ncoppa a tte, ancóra: in italiano sotto il tavolo ed in napoletano sott’ô tavulo etc.
‘uoglio= olio; in napoletano il sostantivo a margine è neutro (si tratta di un alimento! cfr. Damme chest’uoglio= dammi quest’olio. fosse stato masch. avremmo avuto Damme chist’uoglio); etimo dal lat.tardo *oliu(m) per il classico oleu(m) che è dal gr. élaion con tipica dittongazione popolare d’avvio o>uo e consueto passaggio di l a gl come figlio
VARIE 15/707
1. MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE oppure MANNÀ A ACCATTÀ ‘O PPEPE
Ad litteram: mandare a comprare l'urtabancone. oppure mandare a comprare il pepe.
Anticamente, quando le famiglie erano numerose, in ogni casa si aggiravano un gran numero di bambini, la cui presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato col proprio uomo. Allora, previo accordo, il bottegaio (salumiere, droghiere) della zona si assumeva il compito di intrattenere, con favolette o distribuzione di piccole leccòrnie, i bambini che le mamme gli inviavano con la frase stabilita di “accattà 'o tozzabancone” oppure”accattà ‘o ppepe” . Altri tempi ed altre disponibilità!
Nota:
1)Per l’etimo del verbo accattà cfr. oltre sub 3.
2)Il sost.vo pepe = pepe, in napoletano è di genere neutro come altri alimenti: ‘o ppane, ‘o zzuccaro, ‘o ccafé etc. e come neutro preceduto dalle vocali o oppure u esige la geminazione della consonante iniziale; perciò ‘o ppepe e non ‘o pepe come ‘o ppane e non ‘o pane, ‘o zzuccaro e non ‘o zuccaro, ‘o ccafé e non ‘o cafè. Rammento che c’è un solo caso in cui ‘o zzuccaro non esige la doppia zeta ed è nel caso del diminutivo ‘o zuccariello usato però non in riferimento all’alimento, ma come aggettivazione vezzeggiativa nei confronti di un bambino piccolo accreditato d’essere quasi dolce come lo zucchero. Rammento altresí che per la voce caffè ci si può imbattere nella morfologia ‘o cafè (con la l'occlusiva velare sorda (c) scempia), ma in tal caso non ci si riferisce all’ alimento, alla polvere o alla bevanda con essa approntata, ma ci si riferisce al cafè s.vo m.le che è il locale pubblico, l’esercizio, la rivendita,lo spaccio in cui quella bevanda viene approntata e servita all’avventore
2.ACCATTARSE ‘O CCASO.
Ad litteram: portarsi via il formaggio. Per la verità nel napoletano il verbo accattà significa innanzitutto: comprare, ma nella locuzione in epigrafe bisogna intenderlo nel suo primo significato etimologico di portar via dal latino: adcaptare iterativo di capere (prendere).
La locuzione non à legame alcuno con il fatto di acquistare in salumeria o altrove del formaggio; essa si riferisce piuttosto al fatto che i topi che vengono attirati nelle trappole da un minuscolo pezzo di formaggio, messo come esca, talvolta riescono a portar via l’esca senza restar catturati; in tal caso si usa dire ca ‘o sorice s’è accattato ‘o ccaso ossia che il topo à subodorato il pericolo ed è riuscito a portar via il pezzetto di formaggio, evitando però di esser catturato. Per traslato, ogni volta che uno fiuti un pericolo incombente o una metaforica esca approntatagli, ma se ne riesce a liberare, si dice che s’è accattato ‘o ccaso.
3. FÀ ACQUA 'A PIPPA.
Letteralmente: la pipa fa acqua; id est: la miseria incombe, ci si trova in grandi ristrettezze. Icastica espressione con la quale si suole sottolineare lo stato di grande miseria in cui versa chi sia il titolare di questa pipa che fa acqua. Sgombro súbito il campo da facili equivoci: con la locuzione in epigrafe la pipa, strumento atto a contenere il tabacco per fumarlo, non à nulla da vedere; qualcuno si ostina però a vedervi un nesso e rammentando che quando a causa di un cattivo tiraggio, la pipa inumidisce il tabacco acceso impedendogli di bruciare compiutamente, asserisce che si potrebbe affermare che la pipa faccia acqua. Altri ritengono invece che la pipa in questione è quella piccola botticella spagnola nella quale si conservano i liquori, botticella che se contenesse acqua starebbe ad indicare che il proprietario della menzionata pipa sarebbe cosí povero, da non poter conservare costosi liquori, ma solo economica acqua. Mio avviso è invece che la pippa in epigrafe sia qualcosa di molto meno casto e della pipa del fumatore, e di quella del beone spagnolo e stia ad indicare, molto piú prosaicamente, il membro maschile che laddove, per sopravvenuti problemi legati all’ età o ad altri malanni, non fosse piú in grado di sparger seme si dovrebbe contentare di emettere i liquidi scarti renali, esternando cosí la sua sopravvenuta miseria se non economica, certamente funzionale.Del resto nell’icastico parlar napoletano il gesto onanistico maschile corrisponde alla moderna espressione: farse ‘na pippa! che negli anni ’50 del 1900 sostituí le piú antiche: farse ‘na sega! o anche farse ‘na pugnetta!
4. TENÉ ‘E PECUNE
Letteralmente si può rendere con: avere, mostrar di avere i piconi (sorta di punte presenti sulla pelle dei volatili; non esiste un termine corrispondente nell’italiano); ma
vale: essere ormai o finalmente cresciuto/maturato mentalmente e/o caratterialmente; lo si dice di solito degli adolescenti che si mostrino piú maturi di quel che la loro età farebbe sospettare; di per sé ‘o pecone(che per etimo è un derivato in forma di accrescitivo (cfr. il suff. one) del francese pique/piqué= punta/tessuto a rilievo) è una sorta di punta che appare sulla pelle del corpo dei volatili, punta prodromica dello spuntar delle piume/penne; l’apparire di tali punte dimostra che il volatile non è piú un giovanissimo implume, ma è cresciuto e fisicamente evoluto, pronto ad affrontar la vita; per similitudine degli adolescenti che siano già o ormai maturi e si dimostrino scafati e cioè attenti, svegli e smaliziati, si dice che abbiano ‘e pecune (pl. di pecone), quantunque realmente sulla pella degli adolescenti non si riscontrino punte simili a quelle dei volatili. A margine rammento che il termine pecune è usato anche nell’espressione tené ‘e ccarne pecune pecune che rende l’italiano rabbrividire.
5. (FARSE Fà) ‘NA SPAGNOLA
Letteralmente : Farsi fare una (sega) spagnola. La voce spagnola (che di per sé è un agg.vo qui però sostantivato
indica una sorta masturbazione intermammaria): piú esattamente occorrerebbe perciò dire sega spagnola in quanto che spagnola è soltanto un aggettivo; la sega di per sé (con derivazione deverbale dal lat. seca(re) indica quale s.vo f.le
1 utensile usato per tagliare materiali diversi, costituito da una lama di acciaio munita di denti, inserita in un telaio o in un manico: sega a mano; sega da falegname, da macellaio; sega chirurgica; sega da meccanico, seghetto per metalli | coltello a sega, con la lama dentata; serve per tagliare pane, dolci e sim.
2 macchina che à impieghi simili alla sega a mano: sega elettrica, meccanica; sega a nastro, con la lama costituita da un nastro d'acciaio dentato, chiuso ad anello e teso fra due pulegge; sega circolare, in cui la lama è un disco d'acciaio dentato; sega alternativa, simile a un grosso seghetto per metalli azionato da un motore elettrico
3 (mus.) strumento idiofono (s. m. (mus.) ogni strumento musicale in cui il corpo vibrante è costituito dal corpo stesso dello strumento p. e. la campana, il triangolo) del primo Novecento; consiste in una normale sega a mano che, stretta fra le ginocchia, viene posta in vibrazione sfregando il lato non dentato con un archetto di violino, violoncello o contrabbasso
4 (region.) segatura; mietitura: la sega del grano
5 (volg.ed è il caso che ci occupa) masturbazione maschile | non valere, non capire una sega, (fig.) niente, nulla; essere una sega, una mezza sega, (fig.) una persona che vale poco o anche persona piccola, minuta quasi frutto di un gesto onanistico però non portato a compimento per intero ; ovviamente la masturbazione maschile è semanticamente definita sega in considerazione dell’analogo movimento che si fa usando l’attrezzo per tagliare o compiendo l’atto onanistico.
6 fare sega, (centr.) nel gergo degli studenti, marinare la scuola
7 pesce sega, grosso pesce marino con un lungo prolungamento della mascella simile alla lama di una sega (fam. Pristidi).
Ad ogni buon conto preciso qui che la masturbazione maschile (sega) intermammaria prende il nome di (sega) spagnola in quanto metodo di soddisfazione sessuale maschile ideato ed attuato dalle prostitute partenopee che prestavano la loro opera nei bassi e fondaci attigui a quelli che sarebbero stati gli acquartieramenti dei soldati spagnoli (XVI sec.), ma che già nel XV sec. ospitavano (1495)i soldati francesi di Carlo VIII (Amboise, 30 giugno 1470 – † Amboise, 7 aprile 1498) che fu Re di Francia della dinastia dei Valois dal 1483 al 1498. Salí alla ribalta cominciando la lunga serie di guerre Franco-Italiane; Carlo VIII, campione di disordine, disorganizzazione, dissesto, eccesso, intemperanza, sfrenatezza,sperpero etc. entrò in Italia nel 1494 con lo scopo preciso di metter le mani sul regno napoletano e la sua avanzata caotica e disordinata scatenò un vero terremoto politico in tutta la penisola. Incontrò, nel viaggio di andata, timorosi regnanti, che gli spalancarono le porte delle città pur di non aver a che fare con l'esercito francese e marciò attraverso la penisola, raggiungendo Napoli il 22 febbraio 1495. Durante questo viaggio assediò ed espugnò il castello di Monte San Giovanni, trucidando 700 abitanti, e assediò, distruggendone i due terzi e uccidendone 800 abitanti, la città di Tuscania (Viterbo).Incoronato re di Napoli, fu oggetto di una coalizione avversa che comprendeva la Lega di Venezia, l'Austria, il Papato e il Ducato di Milano. Sconfitto nella Battaglia di Fornovo nel luglio 1495, fuggí in Francia al costo della perdita di gran parte delle sue truppe. Tentò nei pochi anni seguenti di ricostruire il suo esercito, ma venne ostacolato dai grossi debiti contratti per organizzare la spedizione precedente, senza riuscire a ottenere un sostanziale recupero. Morí due anni e mezzo dopo la sua ritirata, per un banale incidente, sbattendo la testa contro l’architrave d’ un portone; trasmise una ben misera eredità e lasciò la Francia nei debiti e nel disordine come risultato di una sconsiderata ambizione che venne definita, nella forma piú benevola, come utopica o irrealistica; la sola nota positiva, la sua sconsiderata, dispendiosa ed improduttiva spedizione fu di promuvere contatti tra gli umanisti italiani e francesi, dando cosí vigore alle arti e alle lettere francesi nel tardo Rinascimento.) ; i quartieri spagnoli, o più semplicemente i quartieri, presero questo nome (che però non indicò come s.vo m.le ciascuno dei quattro rioni in cui per lo piú si suddividevano le città ed oggi, zona circoscritta di una città, avente particolari caratteristiche storiche, topografiche o urbanistiche: quartiere residenziale; un vecchio quartiere popolare | quartieri alti, la zona più elegante della città; quartieri bassi, la zona più popolare | quartiere satellite, agglomerato urbano contiguo a una grande città, autonomo quanto a servizi ma non amministrativamente, ma indicò il (mil.) complesso di edifici o di attendamenti dove alloggia un reparto dell'esercito: quartiere d'inverno, d'estate | quartier generale, il complesso degli ufficiali, dei soldati e dei mezzi necessari al funzionamento del comando di una grande unità mobilitata; il luogo dove esso à sede | lotta senza quartiere, (fig.) senza esclusione di colpi, spietata | chiedere, dare quartiere, (fig.) chiedere, concedere una tregua, la resa) presero, dicevo, questo nome intorno alla metà del XVI secolo (1532 e ss.) per la vasta presenza delle guarnigioni militari spagnole, volute dal viceré don Pedro di Toledo, destinate alla repressione di eventuali rivolte della popolazione napoletana. All'epoca, come già precedentemente al tempo di Carlo VIII, comunque tali quartieri siti a Napoli a monte della strada di Toledo erano un luogo malfamato come tutti i luoghi dove siano di stanza i militari, un luogo malfamato dove prostituzione e criminalità la facevano da padrone, con malgrado del viceré di Napoli, Don Pedro di Toledo da cui il nome della strada (Pedro Álvarez de Toledo y Zuñiga (Salamanca, 1484 –† Firenze, 22 febbraio 1553) che marchese consorte di Villafranca e dal 1532 al 1553 viceré di Napoli per conto di Carlo V d'Asburgo , , emanò alcune apposite leggi tese a debellare il fenomeno; torniamo dunque alla cosiddetta sega spagnola che fu un ingenuo accorgimento adottato dalle meretrici allorché si diffuse nella città un pericoloso morbo: la lue o sifilide (détto comunemente: mal francese o morbo gallico) e si ritenne che tale morbo fosse stato portato e propagato ( nel 1495 circa) nella città, attraverso il contatto con le prostitute locali, dai soldati francesi al sèguito di Carlo VIII ; da notare che – per converso – i francesi dissero la lue: mal napolitain nella pretesa che fossero state le prostitute partenopee a diffonderlo fra i soldati carlisti; fósse francese o napoletano le prostitute invece di soddisfare i clienti soldati con un normale coito, si limitarono ad un contatto superficiale con quell’esercizio che fu detto (sega) spagnola in quanto le prostitute esercitavano in tuguri (bassi e fondaci) di quei quartieri poi détti spagnoli.
6 ‘A FESSA ‘E MÀMMETA, DINT’Ê FASULE!
Ad litteram: La vulva di tua madre nei fagioli!
Colorita, icastica seppur becera invettiva esclamatoria rivolta da uno spazientito individuo che si senta disturbato, seccato, annoiato o piú semplicemente importunato dall’inopportuno comportamento di qualcuno che lo stia infastidendo oltremodo con parole e/o azioni, le une e le altre mai costruttive e frutto di proterva arroganza miranti solo a porre il bastone tra le ruote dell’altrui operato o dell’altrui pensiero, nell’intento di cercar di affermare in modo aggressivo le proprie vuote idee. A tale arrogante individuo che agisca con protervia,spocchiosa presunzione ed irruenza prevaricante si tenta di mettere un freno e magari zittirlo offendendolo e chiamando in causa sua mamma accreditata con malizia d’essere una donnaccia assimilata ad una scrofa o piú esattamente ad una troia quella i cui genitali salati, seccati e variamente aromatizzati (verrinia/ventricina) veniva un tempo usata in luogo o assieme alle cotiche di maiale nell’approntare una gustosa zuppa di fagioli o minestra di pasta e fagioli.
Va da sé che per traslato ed accostamento semantico la verrinia/ventricina della scrofa nell’icastica, colorita ma becera espressione partenopea à preso il piú comune nome di fessa con cui si indica l’organo genitale della donna.Per ulteriori nomi rimando alibi.
Il s.vo f.le verrinia = genitale o mammella della scrofa e genericamente carne di scrofa, etimologicamente è da un lat. *uberigine(m)→(u)berigine(m)→veri(gi)ne(m)→verrinia con tipica alternanza partenopea b→v (cfr. barca→varca, bocca→vocca etc.) e raddoppiamento espressivo della consonante liquida vibrante (r)
7. PORTA CU TTICO E MMAGNA CU MMICO
Ad litteram: Porta (qualcosa) con te e mangia con me
L’espressione cela il perentorio invito a presentarsi, se invitati, per una qualsiasi ragione, a desinare, a presentarsi non a mani vuote, ma muniti di un dono da offrire a mo’ di ringraziamento per l’invito ricevuto. Piú ampiamente la locuzione può essere usata in qualsiasi occasione per significare che nulla può essere ottenuto gratuitamente e che invece ogni cosa va meritata a fronte di un corrispettivo.Preciso infine che la locuzione non à il significato, come impropriamente pensa qualche sprovveduto, e come ad una frettolosa lettura potrebbe intendersi, non à il significato di un invito a portar seco delle cibarie da condividere, ma – come ò détto - à il significato di un invito a portar seco uno o piú doni da offrire all’anfitrione.
Linguisticamente faccio notare che nell’espressione in esame è presente un doppio uso pleonastico, ma rafforzativo del cu (= con che è dal lat. cu(m)) già presente in posizione enclitica nei successivi ttico (= con te che ripete dritto per dritto il lat. tícu(m), comp. di tí (abl. di tu) e cum 'con') e mmico (= con me che ripete dritto per dritto il lat. mícu(m), comp. di me e cum 'con').
Rammento in chiusura che il cu = con va correttamente scritto senza alcun segno diacritico e ciò rispondendo alla regoletta del napoletano per la quale i termini apocopati di consonante/i e non di sillaba vocalica, non necessitano di segni diacritici (ad es.: cu= con da cum – pe=per da per – mo=ora da mox – po= poi da post ).
8. MARONNA MIA AVÓTTALO E SAN FRANCISCO AVÓNNALO!
Ad litteram: Madonna mia sospingilo (via), San Francesco lascialo travolgere dalle onde!
Malevola, ma icastica implorazione/richiesta rivolta verso due importanti componenti la famiglia celeste e cioè la santa Vergine e san Francesco di Paola, perché ci liberino, con il loro fattivo intervento, di un fastidioso importuno individuo, la cui presenza sia tanto seccante, noiosa, irritante, sgradevole da suggerire addirittura pensieri omicidi. Ci si rivolge alla Madonna (che alibi per solito è invocata (‘a Maronna t’accumpagna! = la Madonna ti accompagni!) perché sia di buona compagnia al viandante evitandogli i pericoli del percorso,) perché questa volta in luogo di semplicemente accompagnare, sospinga, lungo l’ipotetico percorso, il fastidioso importuno individuo e ne acceleri l’allontanamento; ci si rivolge ugualmente invocandolo a san Francesco di Paola affinché lui notoriamente protettore dei naviganti questa volta in luogo di semplicemente traghettare il fastidioso importuno individuo,trasportandolo sul suo mantello, (come secondo una leggenda occorse al santo di Paola che dovendo attraversare il braccio di mare tra le Calabrie e la Sicilia, avendo ricevuto il rifiuto di un trasbordo su di un naviglio, distese sullo specchio d’acqua il suo mantello, vi montò e raggiunse la Sicilia), in luogo di semplicemente traghettare il fastidioso importuno individuo, lungo un ipotetico percorso, questa volta lo faccia travolgere dalle onde affogandolo ed accelerandone in tal modo l’allontanamento, addirittura definitivo.
Linguisticamente nella locuzione in esame c’è da soffermarsi sulla voce verbale avónna-lo che vale:travolgilo con le onde e non è da confondere con aónna-lo che à un significato positivo e sta per rendi-lo abbondante; infatti avónna-lo è la 2ª pers. sg. dell’imperativo di avunnà (dal lat. volg. *ab-undare rafforzativo di *undare =inondare, mentre aónna-lo è la 2ª pers. sg. dell’imperativo di aunnà (dal lat. abundare→a(b)undare→aunnare = traboccare): nel verbo avunnà si è avuta la tipica alternanza b→v del napoletano (cfr.bocca/voccavarca/barca,vitru(m)→vritu(m)→britu(m)→brito etc.) e l’assimilazione progressiva nd→nn, mentre per aunnà si è avuta la sincope della b e la consueta assimilazione progressiva nd→nn ottenendo dal medesimo verbo latino di partenza due verbi affatto diversi.
9. QUANNO 'A GALLINA SCACATEA, È SSIGNO CA À FATTO LL'UOVO.
Letteralmente: quando la gallina starnazza vuol dire che à fatto l'uovo. Id est: quando ci si scusa reiteratamente, significa che si è colpevoli.È il modo napoletano di render quasi (in maniera piú icastica) il brocardo latino excusatio non petita etc.
10. QUANNO SÎ 'NCUNIA STATTE E QUANNO SÎ MARTIELLO VATTE
Letteralmente: quando sei incudine sta fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ti è favorevole.
11. MIETTELE NOMME PENNA! détto che letteralmente vale : Chiamala penna!;
La locuzione viene usata, quasi volendo consigliare e suggerire rassegnazione, allorchè si voglia far intendere a qualcuno che à irrimediabilmente perduto una cosa, un oggetto, divenuto quasi (penna) piuma d'uccello; La piuma essendo una cosa leggera fa presto a volar via, procurando un cattivo affare a chi à incautamente operato un prestito atteso che spesso sparisce un oggetto prestato a taluni che per solito non restituiscono ciò che ànno ottenuto in prestito.
miéttele nomme letteralmente mettigli nome e cioè chiamalo id est: ritienilo; miéttele= metti a lui, poni+gli voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito mettere=disporre, collocare, porre con etimo dal lat. mittere 'mandare' e successivamente 'porre, mettere'; nomme = nome; elemento linguistico che indica esseri viventi, oggetti, idee, fatti o sentimenti; denominazione, con etimo dal lat. nomen e tipico raddoppiamento espressivo della labiale m come avviene ad es. in ommo←hominem, ammore←amore(m), cammisa←camisia(m) etc.
Rammento che un tempo con la voce penna (dal lat. penna(m) 'ala' e pinna(m) 'penna, piuma', confluite in un'unica voce) a Napoli si indicò, oltre che la piuma d’un uccello, anche una vilissima moneta dal valore irrisorio, moneta che veniva spesa facilmente, senza alcuna remora o pentimento; tale moneta che valeva appena un sol carlino (nap. carrino) prese il nome di penna dal fatto che su di una faccia di tale moneta (davanti ) v’era raffigurata l’intiera scena dell’annunciazione a Maria Ss. mentre sul rovescio v’era raffigurato il particolare dell’arcangelo con un’ala (penna) dispiegata; ora sia che la penna in epigrafe indichi la piuma d’uccello, sia indichi la vilissima moneta, la sostanza dell’espressione non cambia, trattandosi di due cose: piuma o monetina che con facilità posson volar via e/o perdersi.
12. ACQUA CA NUN CAMMINA, FA PANTANO E FFÈTE.
Letteralmente: acqua che non corre, ristagna e puzza. Id est: chi fa le viste di zittire e non partecipare, è colui che trama nell'ombra e che all'improvviso si appaleserà con la sua puzza per il tuo danno!
13.'NFILA 'NU SPRUOCCOLO DINTO A 'NU PURTUSO!
Letteralmente: Infila uno stecco in un buco! La locuzione indica una perentoria esortazione a compiere l'operazione indicata che deve servire a farci rammentare l'accadimento di qualcosa di positivo, ma talmente raro da doversi tenere a mente mediante un segno ben visibile come l'immissione di un bastoncello in un buco di casa, per modo che passandovi innanzi e vedendolo ci si possa rammentare del rarissimo fatto che si è verificato. Per intenderci, l'espressione viene usata, a sapido commento allorchè, per esempio, un uomo politico mantiene una promessa, una donna è puntuale ad un appuntamento et similia.
14.ASTIPATE 'O MILO PE QUANNO TE VÈNE SETE.
Letteralmente:Conserva la mela, per quando avrai sete. Id est: Non bisogna essere impazienti; non si deve reagire subito sia pure a cattive azioni ricevute;insomma la vendetta è un piatto da servire freddo, allorché se ne avvertirà maggiormente la necessità.
15.PUOZZ'AVÉ MEZ'ORA 'E PETRIATA DINTO A 'NU VICOLO ASTRITTO E CA NUN SPONTA, FARMACIE NCHIUSE E MIEDECE GUALLARUSE!
Imprecazione malevola rivolta contro un inveterato nemico cui si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subíta in un vicolo stretto e cieco, che non offra cioè possibilità di fuga e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte ed imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti al soccorso.
16. NU'CAGNÀ MAJ À VIA VECCHIA P'À NOVA, CA SAJE CHELLO CA LASSE E NUN SAJE CHELLO CA TRUOVE.
Non cambiare mai la strada vecchia per la nuova perché conosci ciò che lasci, mna non quello che troverai.. Id est: Continua ad utilizzare i vecchi metodi già validi e sperimentati invece che quelli nuovi dubbi ed incerti.
17.SI 'A MORTE TENESSE CRIANZA, ABBIASSE A CHI STA 'NNANZE.
Letteralmente: Se la morte avesse educazione porterebbe via per primi chi è piú innanzi, ossia è piú vecchio... Ma, come altrove si dice: ‘a morte nun tène crianza... (la morte non à educazione), per cui non è possibile tenere conti sulla priorità dei decessi.
18. PURE 'E CUFFIATE VANNO 'MPARAVISO.
Anche i corbellati vanno in Paradiso. Cosí vengono consolati o si autoconsolano i dileggiati prefigurando loro o auto prefigurandosi il premio eterno per ciò che son costretti a sopportare in vita. Il cuffiato è chiaramente il corbellato cioè il portatore di corbello (in arabo: quffa/kuffa)
19. 'O PURPO SE COCE CU LL'ACQUA SOJA.
Letteralmente: il polpo si cuoce con la propria acqua, non à bisogno di aggiunta di liquidi. Id est: Con le persone di dura cervice o cocciute è inutile sprecare tempo e parole, occorre pazientare e attendere che si convincano da se medesime.
20. FÀ 'E CCOSE A CCAPA 'E 'MBRELLO.
Agire a testa (manico) di ombrello. Il manico di ombrello è usato eufemisticamente in luogo di ben altre teste. La locuzione significa che si agisce con deplorevole pressappochismo, disordinatamente, grossolanamente, alla carlona.
21. FÀ 'O FARENELLA.
Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli, (Andria, 24 gennaio 1705 – † Bologna, 16 settembre 1782), considerato il piú famoso cantante lirico castrato della storia, ma prende le mosse dall'àmbito teatrale dove le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo, non era piú tanto giovane ed allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre piú che alla costosa cipria, alla piú economica farina, diventando per i colleghi ‘o farenella.
22.'O PURPO S'À DDA COCERE CU LL'ACQUA SOJA.
Letteralmente: il polpo si deve cuocere con l'acqua propria.Id est: bisogna che si convinca da se medesimo, senza interventi esterni. La locuzione fa riferimento a tutte quelle persone che recedono da certe posizioni solo se si autoconvincono; con costoro è inutile ogni opera di convincimento, bisogna armarsi di pazienza ed attendere che si autoconvincano, come un polpo che per cuocersi non necessita di aggiunta d'acqua, ma sfrutta quella di cui è composto.
23. DÀ 'NCOPP' Ê RECCHIE.
Letteralmente: dare sulle orecchie. La locuzione consiglia il modo di comportarsi nei confronti dei boriosi, dei supponenti, dei saccenti adusi ad andare in giro tronfi e pettoruti a testa elevata quasi fossero i signori del mondo. Nei loro confronti bisogna usare una sana metaforica violenza colpendoli sulle orecchie per fargliele abbassare.
24.TANTE GALLE A CCANTÀ NUN SCHIARA MAJE JUORNO.
Letteralmente: tanti galli a cantare non spunta mai il giorno. Id est: quando si è in tanti ad esprimere un parere intorno ad un argomento, a proporre una soluzione ad un problema, non si addiviene a nulla di concreto... Dunque non è da farsi meraviglia se il parlamento italiano composto da un numero esorbitante di deputati e senatori non riesce mai a legiferare rapidamente e saggiamente: parlano in tanti...
25.SEH, SEH QUANNO CURRE E 'MPIZZE...
Letteralmente: sí, sí quando corri ed infili! La locuzione significa che si sta ponendo speranza in qualcosa che molto difficilmente si potrà avverare, per cui è da intendersi in senso ironico, volendo dire: quel che tu ti auguri avvenga, non avverrà. La locuzione fa riferimento ad un'antica gara che si svolgeva sulle piazze dei paesi meridionali. Si infiggeva nell'acciottolato della piazza del paese un'alta pertica con un anello metallico posto in punta ad essa pertica, libero di dondolare al vento. I gareggianti dovevano, correndo a cavallo, far passare nell'anello la punta di una lancia, cosa difficilissima da farsi.
26. MADONNA MIA, MANTIENE LL'ACQUA!
Letteralmente: Madanna mia reggi l'acqua. Id est: fa che la situazione non peggiori o non degeneri. L'invocazione viene usata quando ci si trovi davanti ad una situazione di contesa il cui esito si prospetti prossimo a degenerare per evidente cattiva volontà di uno o piú dei contendenti.
27. OMMO 'E CIAPPA.
Letteralmente: uomo di bottone e, per traslato, uomo importante, di vaglia. La locuzione ha origini antichissime addirittura seicentesche allorché a Napoli esistette una consorteria particolare, la cd repubblica dei togati che riuniva un po' tutta la classe dirigente della città. Le ciappe (dal latino=capula) erano i grossi bottoni d'argento cesellato che formavano l'abbottonatura della toga simbolo, appunto, di detta consorteria.
28. 'A NAVE CAMMINA E 'A FAVA SE COCE.
Letteralmente: la nave cammina, e la fava si cuoce. La locuzione mette in relazione il cuocersi della fava (che favorisce la sopravvivenza, frutto di una continuata abbondanza di cibo) con il cammino della nave ossia con il progredire delle attività economiche, per cui è piú opportuno tradurre se la nave va, la fava cuoce (e si vive bene…).
29. ESSERE 'NU CASATIELLO CU LL'UVA PASSA.
Letteralmente: essere una caratteristica torta rustica pasquale ripiena d'uva passita. Id est: essere una persona greve, fastidiosa, indigesta, noiosa quasi come la torta menzionata già greve di suo per esser ripiena di formaggio, uova, salame, resa meno digeribile dalla presenza dell'uva passita...
30. ESSERE 'NU/ ‘NA SECATURNESE.
Letteralmente: essere un/una sega tornesi.Id est: essere un avaraccio/a, super avaro/a al punto di far concorrenza a taluni antichi tonsori di monete, che al tempo che circolavano monete d'oro o d'argento, usavano limarle per poi rivender la limatura e far cosí piccoli guadagni: venne poi la carta-moneta e finí il divertimento.
31. ESSERE 'NA GALLETTA 'E CASTIELLAMMARE.
Letteralmente: essere un biscotto di Castellammare. Id est: essere poco incline ad atti di generosità, anzi tener sempre saldamente chiusi i cordoni della borsa essendo molto restio ad affrontare spese di qualsiasi genere, in ispecie quelle destinate ad opere di carità, essere insomma cosí duro nei propri parsimoniosi intendimenti da essere paragonabile ai durissimi biscotti prodotti in Castellammare, biscotti a lunga conservazione usati abitualmente come scorta dalla gente di mare che li preferiva al pane perché non ammuffivano, ma che erano cosí tenacemente duri che - si diceva - neppure l'acqua di mare riuscisse ad ammorbidire.
32. 'E CURALLE LL'À DDA FÀ 'O TURRESE.
Letteralmente: i coralli li deve lavorare il torrese. Id est: ognuno deve fare il proprio mestiere, che però deve esser fatto secondo i crismi previsti; non ci si può improvvissare competenti; nella fattispecie la lavorazione del corallo è appannaggio esclusivo dell'abitante di Torre del Greco, centro campano famoso nel mondo appunto per la produzione di oggetti lavorati in corallo.
33. MO T''O PPIGLIO 'A FACCIA 'O CUORNO D''A CARNACOTTA
Letteralmente: Adesso lo prendo per te dal corno per la carne cotta. Icastica ed eufemistica espressione con la quale suole rispondere chi, richiesto di qualche cosa, non ne sia in possesso né abbia dove reperirla o gli manchi la volontà di reperirla. Per comprendere appieno la locuzione bisogna sapere che la carnacotta è il complesso delle trippe o frattaglie bovine o suine che a Napoli vengono vendute già sbiancate e lessate, atte ad essere consumate o dai macellai nelle loro botteghe o da appositi venditori girovaghi che le servono ridotte in piccoli pezzi su minuscoli fogli di carta oleata; i piccoli pezzi di trippa vengono prima irrorati col succo di limone e poi cosparsi con del sale che viene prelevato da un corno bovino scavato ad hoc proprio per contenere il sale e bucato sulla punta per permetterne la distribuzione. Detto corno viene portato dal venditore di trippa, appeso in vita e lasciato pendente sul davanti del corpo. Proprio la vicinanza con intuibili parti anatomiche del corpo, permettono alla locuzione di avere un suo significato furbesco con cui si vuol comunicare che ci si trova nell'impossibilità reale o volontaria di aderire alle richieste.
34. PURE 'E CUFFIATE VANNO 'MPARAVISO.
Letteralmente: anche i corbellati vanno in paradiso. Massima consolatoria con cui si tenta di rabbonire i dileggiati cui si vuol fare intendere che sí è vero che ora son presi in giro, ma poi spetterà loro il premio del paradiso. Il termine cuffiato cioè corbellato è il participio passato del verbo cuffià che deriva dal sostantivo coffa = peso, carico, a sua volta dall'arabo quffa= corbello.
35. DICETTE 'O SCARRAFONE: PO’ CHIOVERE 'GNOSTIA COMME VO’ ISSO, MAJE CCHIÚ NNIRO POZZO ADDEVENTÀ...
Disse lo scarafaggio: (il cielo) può far cadere tutto l'inchiostro che vuole, io non potrò mai diventare piú nero di quel che sono. La locuzione è usata da chi vuole far capire che à già ricevuto e sopportato tutto il danno possibile dall'esterno, per cui altri sopravvenienti fastidi non gli potranno procurar maggior danno.
36. ABBACCA ADDÓ VENCE.
Letteralmente: collude con chi vince. Di per sé il verbo abbaccare(=colludere, accordarsi segretamente dal lat. ad-vadicare, frequentativo di vadere) presupporrebbe una segretezza d'azione che però ormai nella realtà non si riscontra, in quanto l'opportunista - soggetto sottinteso della locuzione in epigrafe - non si fa scrupolo di accordarsi apertis verbis con il suo stesso pregresso nemico, se costui, vincitore, gli può offrire vantaggi concreti e repentini. Lo sport di salire sul carro del vincitore e di correre in suo aiuto è stato da sempre praticato dagli italiani.
Brak
VARIE 15/706
1.COMME CUCOZZA ‘NTRONA, PASCA NUN VVENE PE MMO.
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, Pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono, avvertí che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scoprí mai il ladruncolo.
2. COMME PAGAZZIO, ACCUSSÍ PITTAZZIO
Ad litteram: Come sarò pagato, cosí dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata da F.A.S. GRUE: Francesco Antonio Saverio (1686-†1746), figlio di Carlantonio, che preferí la pittura di figure, famosissimo artista appartenente alla famiglia Grue, famiglia di ceramisti di Castelli (Teramo). Il caposcuola fu Carlantonio (1655-†1723), figlio di Francesco Antonio, che seppe dare nuovi colori alle decorazioni delle sue ceramiche con storie sacre e profane derivate da modelli dell'arte bolognese e della scuola napoletana contemporanea. Francesco Antonio Saverio fu noto per i suoi vasi di maiolica, e come détto riportò la frase in epigrafe su di un’antica albarella détta di san Brunone.
3. CAPURÀ È MUORTO ‘ALIFANTE!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance,… non vantarti piú, torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli si vuol significare che non è piú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chiunque, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi di non essere piú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino boriosi e supponenti.
4. CÀNTERO SPETENATO - CESSO A VVIENTO.
Ad litteram: Pitale spatinato - cesso a vento. Coppia di icastiche contumelie che a mo’ di offesa vengon rivolte a tutti coloro che sono ritenuti esserI spregevoli al punto di venir paragonati alternativamente o ad un vecchio vaso di comodo vaso che per il lungo uso abbia perduto la sua lucente patina d’origine, o - peggio ancóra, paragonati a quei vespasiani che un tempo troneggiavano lungo le strade per dar modo, a chi ne avesse impellente bisogno, di liberarsi dei propri pesi fisiologici. Nell’un caso e nell’altro chi venga fatto segno anche d’una sola delle contumelie riportate in epigrafe, significa che è ritenuto un lercio contenitore degli esiti , soprattutto solidi, corporali. Per completezza preciso qui che il càntero dell’epigrafe non era specificatamente il piccolo pitale, (termine con cui è stato tradotto, non avendo l’italiano una parola piú adatta) che oggi conosciamo, ma era un alto e grosso vaso cilindrico di terracotta ricoperta nell’interno e all’esterno di una lucente patina, vaso dall’ampia e comoda bocca, provvisto lateralmente di due solidi manici necessarii per la prensione; sulla larga bocca ci si poteva tranquillamente sedere per liberarsi dei propri esiti. Esso vaso detto anche, sia pure riprendendo un'antichissima formulazione già riportata nei classici napoletani, all’indomani del 1860, icasticamente si’ peppe con chiaro riferimento al gen. Garibaldi, troneggiava in tutte le case ,ma anche nelle camere da letto dei sovrani settecenteschi, alcuni dei quali erano soliti ricevere cortigiani e/o ambasciatori e plenipotenziari, quasi per metterli in soggezione, mentre essi monarchi procedevano all’operazione fisiologica mattutina. Il cesso a viento, sebbene provenga dal tempo degli antichi romani,è invenzione ottocentesca; concepito alla maniera del cesso alla turca non aveva porte, ma solo minuscoli divisorii di ghisa che servivano a tener lontani sguardi indiscreti Mancando le porte o altri intralci ed essendo a vento cioè del tutto aperti - ne era consentita una rapida pulizia con pompe idrauliche .
càntero = grosso vaso da notte, pitale da non confondere con ‘o rinale che è appunto l’orinale, vaso molto più piccolo del càntero o càntaro alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
5. COPPOLA Ê DENOCCHIE!
Ad litteram: coppola alle ginocchia È questo il modo piú cogente per suggerire il saluto piú deferente possibile, consistente nel cavarsi di testa il berretto e portarlo con ampio gesto ossequioso all’altezza delle ginocchia, da rivolgere ad un’autorità o un uomo o donna da rispettare.
Preciso qui che taluno erroneamente non lègge l’ ê della locuzione come contrazione di a + ‘e cioè alle, bensí la lègge - errando- come congiunzione E e stravolge il significato della locuzione facendola diventare in luogo del corretto coppola alle ginocchia, lo scorretto coppola e ginocchia, quasi che il saluto dovesse consistere in un cavarsi il berretto e piegare le ginocchia, cosa invero assurda, essendo il napoletano aduso ad inginocchiarsi solo innanzi ad oggetti di culto.
6. CURNUTO E MAZZIATO
Letteralmente: becco e percosso È il modo partenopeo di rendere l’italiano: il danno e la beffa prendendo a termine di paragone il povero ovino assurto a modello ed emblema del marito tradito, ma qui simbolo di chi, avuto un torto debba subire anche il dileggio. Altrove in maniera molto piú icastica e cruda, piú estesamente si suole affermare ‘a sciorta d’’o piecoro: nascette curnuto e murette scannato id est: (è veramente amara) la sorte del becco che nacque cornuto e morí sgozzato; la medesima sorte cioè del marito tradito che oltre a sopportar il peso delle corna, spesso deve subire l’onta delle percosse.
curnuto/a agg.vo m.le o meno spesso f.le; talvolta è usato anche come sostantivo (volg.) persona cornuta
1 provvisto di corna: animale cornuto ' argomento cornuto, (fig.) il dilemma in quanto consiste di due proposizioni contrapposte, dette corni
2 (lett.) che à forma di corno o di corna.
3 (volg.) si dice di persona tradita dal proprio coniuge;
quanto all’etimo è dal lat. cornutu(m), deriv. di cornu 'corno'
mazziato/a agg.vo m.le o talvolta f.le : percosso, colpito, bastonato; viene maggiormente usato l’agg.vo maschile in quanto il femminile è usato come sostantivo per indicare una variata ed estesa serie di percosse; quanto all’etimo è un derivato de l lat. mattea = bastonr, randello;
sciorta s.vo f.le = sorte, destino anche, specialmente nell’esclamazioni buona fortuna o cattiva fortuna (cfr. ‘í che sciorta! = guarda che fortuna!(buona o cattiva a seconda del contesto) etimologicamente dal lat. sorte(m) con il solito passaggio della esse seguita da vocale a sci come in semum→scemo, simia→scigna, ex-aqueo→sciacquo;
piecoro s.vo m.le = becco, montone, maschio della pecora
etimologicamente da un lat. volg. *pĕcoru(m)→piecoro;
nascette = nacque; voce verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito nascere dal lat. volg. *nascere, per il lat. class. nasci;
murette = morí; voce verbale (3° pers. sg. pass. rem. dell’infinito murí dal lat. volg. *morire, per il lat. class. mori
scannato = sgozzato, ucciso mediante recisione della gola;
voce verbale: part. pass. aggettivato dell’infinito scannà denominale di canna= gola (dal greco kànna) con protesi di una esse detrattiva.
Concludendo si può dire che l’espressione curnuto e mazziato fu adoperata per addolcire quasi la più cruda curnuto e scannato.
7. COMME ‘A VIDE ACCUSSÍ ‘A SCRIVE
Ad litteram: come la vedi cosí l’annoti. Id est:(Della persona o cosa di cui stiamo trattando non v’è altro da annotare oltre il modo con cui si presenta).Originariamente la locuzione si riferiva alla promessa sposa di cui al momento di scrivere i capitoli del contratto di matrimonio, non si poteva annotare alcuna dote pecuniaria, ma solo l’avvenente illibatezza di cui era palesemente fornita; in seguito la locuzione passò a significare che di qualsiasi cosa si trattasse non bisognava andare oltre ciò che apparisse ad un primo esame.
8. CHI ‘NFRUCE, NUN LUCE
Ad litteram: Chi accumula stipando(beni e/o danaro)non rifulge . Id est: L’avaro, a malgrado possieda molte ricchezze messe via raccogliendone in quantità, non risulta risplendente, smagliante, lucente, rilucente davanti al prossimo in quanto non riesce a godere appieno dei beni accumulati atteso che non ne usa o mette in mostra nel timore che l’esposizione induca i malintenzionati a sottrarglieli.
‘nfruce = accumula, stipa voce verbale 3ª p. sg. ind. pr. dell’infinito ‘nfrúcere =ammassare, stivare, assembrare [lettura metatetica ed aferizzata con ritrazione d’accento(tipica del lat. parlato e volgare) e cambio di coniugazione del lat. infulcíre→(i)nflúcire→’nflúcere→’nfrúcere].
luce = riluce,risplende voce verbale 3ª p. sg. ind. pr. dell’infinito lúcere che è dal lat. lucère con ritrazione d’accento(tipica del lat. parlato e volgare)
9. PISCIÀ ACQUA SANTA P''O VELLICULO.
Letteralmente: orinare acqua santa dall'ombelico. La locuzione, usata sarcasticamente nei confronti di coloro che godano immeritata fama di santità significa, appunto, che coloro cui è diretta sono da ritenersi tutt'altro che santi o miracolosi, come invece lo sarebbero quelli che riuscissero a mingere da un orifizio inesistente, addirittura dell'acqua santa.
10. Ê TIEMPE 'E PAPPAGONE
Letteralmente: Ai tempi di PAPPAGONE Id est: in un tempo lontanissimo. Cosí vengono commentate cose di cui si parli che risultano risalenti a tempi lontanissimi, quasi mitici. Il PAPPAGONE della locuzione non è la famosa maschera creata dal compianto attore napoletano Peppino De Filippo; ma è la corruzione del cognome PAPPACODA antichissima e nobile famiglia partenopea che à lasciato meravigliosi retaggi architettonici risalenti al 1400, in varie strade napoletane.
11. ARRETÍRATE, PIRETO!
Letteralmente: Ritirati, peto! Imperiosa ed ingiuriosa invettiva rivolta verso chi, per essere andato fuori dei limiti consentiti, si cerchi di ridimensionare esortandolo, anzi imponendogli di rientrare nei ranghi, anche se non si capisce come un peto, partito dalla sua sede vi possa rientrare a comando...
12. A 'NU PARMO DÔ CULO MIO, FOTTE CHI PO’.
Letteralmente: ad un palmo dal mio sedere, si diverta chi puó. Id est: fate pure i vostri comodi, purchè li facciate lontano dal mio spazio vitale, non mi coinvolgiate e soprattutto non mi arrechiate danno!
13. DICETTE 'O MIEDECO 'E NOLA: CHESTA È 'A RICETTA E CA DDIO T''A MANNA BBONA...
Letteralmente: Disse il medico di Nola: Questa è la ricetta e che Dio te la mandi buona. La locuzione viene usata quando si voglia sottolineare che, dinnanzi ad un problema, si sia fatto tutto quanto sia nelle proprie possibilità personali e che occorra ormai confidare solo in Dio dal quale si attendono gli sperati risultati positivi.
14. FÀ 'NU QUATTO 'E MAGGIO.
Letteralmente: fare un quattro di maggio. Id est: sloggiare, cambiar casa, trasferirsi altrove. Da intendersi anche in senso figurato di allontanarsi, o recedere dalle proprie posizioni. Nel lontanissimo 1611 il vicerè Pedro de Castro, conte di Lemos, nell'intento di porre un po' di ordine nel caos dei quasi quotidiani traslochi che si operavano nella città di Napoli, fissò appunto al 4 di maggio la data fissa soltanto nella quale si potevano operare i cambiamenti di casa. Il giorno 4, da allora divenne la data nella quale gli inquilini erano soliti conferire mensilmente gli affitti ai proprietarii di immobili concessi in fitto.
15. S'À DDA ÒGNERE L'ASSO.
Letteralmente: occorre ungere l'asse. Id est: se si vuole che la faccenda si metta in moto e prosegua, bisogna, anche obtorto collo, sottostare alla ineludibile necessità di ungere l'ingranaggio: inveterata necessità che viene di lontano quando i birocciai solevano spalmare con grasso animale gli assi che sostenevano gli elementi rotanti dei loro calessi, affinché piú facilmente si potesse procedere con meno sforzo delle bestie deputate allo scopo. Il traslato in termini di "mazzette" da distribuire è ovvio e non necessita d'altri chiarimenti.
16. PARÉ 'NU PIRETO ANNASPRATO.
Letteralmente: sembrare un peto inzuccherato. Lo si dice salacemente di chi si dia troppe arie, atteggiandosi a superuomo, pur non essendo in possesso di nessuna dote fisica o morale atta all'uopo. Simili individui vengono ipso facto paragonati ad un peto che, non si sa come, sia inzuccherato, ma che per quanto coperto di glassa dolce resta sempre un maleodorante, vacuo flatus ventris.
17. L'ACCÍOMO Ê BBANCHE NUOVE.
Letteralmente: l' Ecce homo ai Banchi nuovi. Cosí oggi i napoletani sogliono indicare quei giovani, che - per essere alla moda - non si radono, mantenendo ispidi ed incolti quei pochi peli che dovrebbero costituire l'onor del mento, e per apparire in linea con i dettami della moda si mostrano smagriti e pallidi. La locuzione rammenta una scultura lignea sita in un'edicola posta ai Banchi Nuovi - quartiere napoletano sviluppatosi a ridosso della Posta Vecchia e Santa Chiara - scultura rappresentante il CRISTO reduce dai tribunali di Anna e Caifa, ed appare il Cristo, dopo le percosse e gli sputi subiti dai saldati romani, sofferente, smagrito, con la barba ispida, lo sguardo allucinato, proprio come i giovani cui la locuzione si attaglia.
18. CHI TÈNE CUMMEDITÀ E NUN SE NE SERVE, NUN TROVA 'O PREVETE CA LL'ASSOLVE.
Letteralmente: Chi à comodità e non se ne serve, non trova un prete che l'assolva. Id est: chi à avuto, per sorte o meriti, delle comodità deve servirsene, in caso contrario commetterebbe non solo una sciocchezza autolesiva, ma pure un peccato cosí grave per la cui assoluzione non sarebbe bastevole un semplice prete, ma bisognerebbe far ricorso al penitenziere maggiore.
19. QUANNO NUN SITE SCARPARE, PECCHÉ RUMPITE 'O CACCHIO Ê SEMMENZELLE?
Letteralmente: poiché non siete ciabattino, perché infastidite le semenze? La locuzione barocca, anzi rococò viene usata quando si voglia distogliere qualcuno dall'interessarsi di faccende che non gli competono non essendo supportate, né dal suo mestiere, né dalle sue capacità intellettive o morali. Le semenze sono i piccolissimi chiodini con cui i ciabattini sogliono sistemare la tomaia sulla forma di legno per procedere alla fattura di una scarpa.
20. 'A RIGGINA AVETTE BISOGNO D''A VICINA.
Letteralmente: la regina dovette ricorrere alla vicina. Iperbolica locuzione con la quale si sottolinea che nessuno è bastevole a se stesso: persino la regina ebbe bisogno della propria vicina, figurarsi tutti gli altri esseri umani: siamo una società dove nessun uomo è un'isola.
21. SENZA ‘E FESSE NUN CAMPANO 'E DERITTE.
Letteralmente: senza gli sciocchi non vivono i furbi; id est: in tanto prosperano i furbi in quanto vi sono gli sciocchi che consentano loro di prosperare.
22. 'O PURPO S'À DDA COCERE CU LL'ACQUA SOJA.
Letteralmente: il polpo si deve cuocere con l'acqua propria.Id est: bisogna che si convinca da se medesimo, senza interventi esterni. La locuzione fa riferimento a tutte quelle persone che recedono da certe posizioni solo se si autoconvincono; con costoro è inutile ogni opera di convincimento, bisogna armarsi di pazienza ed attendere che si autoconvincano, come un polpo che per cuocersi non necessita di aggiunta d'acqua, ma sfrutta quella di cui è composto.
23. DÀ 'NCOPP' Ê RECCHIE.
Letteralmente: dare sulle orecchie. La locuzione consiglia il modo di comportarsi nei confronti dei boriosi, dei supponenti, dei saccenti adusi ad andare in giro tronfi e pettoruti a testa elevata quasi fossero i signori del mondo. Nei loro confronti bisogna usare una sana violenza colpendoli, sia pure metaforicamente, sulle orecchie per fargliele abbassare.
24. N' AGGIO SCAURATO STRUNZE, MA TU ME JESCE CU 'E PIEDE 'A FORA...
Letteralmente: ne ò bolliti di stronzi, ma tu (sei cosí grosso)che non entri per intero nella ipotetica pentola destinata all'uso della bollitura. Iperbolica e barocca locuzione-offesa usata nei confronti di chi si dimostri per pensiero e/o azione, cosí esageratamente pezzo di merda da eccedere i limiti della ipotetica pentola in cui dovrebbe esser bollito.
25. TANTE GALLE A CCANTÀ NUN SCHIARA MAJE JUORNO.
Letteralmente: tanti galli a cantare non spunta mai il giorno. Id est: quando si è in tanti ad esprimere un parere intorno ad un argomento, a proporre una soluzione ad un problema, non si addiviene a nulla di concreto... Perché dunque farsi meraviglia se il parlamento italiano composto da un numero esorbitante di deputati e senatori non riesce mai a legiferare rapidamente e saggiamente? Parlano in tanti... come si vuole che giungano ad una conclusione pratica
26. SÍ, SÍ QUANNO CURRE E 'MPIZZE...
Letteralmente: sí quando corri ed infili! La locuzione significa che si sta ponendo speranza in qualcosa che molto difficilmente si potrà avverare, per cui è da intendersi in senso ironico, volendo dire: quel che tu ti auguri avvenga, non potrà avvenire, nè avverrà. La locuzione fa riferimento ad un'antica gara che si svolgeva sulle piazze dei paesi meridionali. Si infiggeva nell'acciottolato della piazza del paese un'alta pertica con un anello metallico posto in punta ad essa pertica, libero di dondolare al vento. I gareggianti dovevano, correndo a cavallo, far passare nell'anello la punta di una lancia, cosa difficilissima da farsi.
27. MADONNA MIA, MANTIENE LL'ACQUA!
Letteralmente: Madonna mia reggi l'acqua. Id est: fa’ che la situazione non peggiori o non degeneri. L'invocazione viene usata quando ci si trovi davanti ad una situazione di contesa il cui esito si prospetti prossimo a degenerare per evidente cattiva volontà di uno o piú dei contendenti.
28.'O TURCO FATTO CRESTIANO, VO' 'MPALÀ A TTUTTE CHILLE CA GHIASTEMMANO.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
29. 'O PATATERNO ADDÓ VEDE 'A CULATA, LLA SPANNE 'O SOLE
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, là invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorrono.
'a culata è appunto il bucato (che è dal ted. bukon) ed è detto culata (deverbale di colare) per indicare il momento della colatura ossia del versamento dell'acqua bollente sui panni già lavati,ma necessarii di sbiancatura, sistemanti in un grosso capace contenitore; l'acqua bollente veniva fatta colare sui panni attraverso un telo sul quale , temporibus illis, era sistemata della cenere (ricca di per sé di soda, agente sbiancante(in sostituzione di chimici detergenti)), e dei pezzi di arbusti profumati(per conferire al bucato un buon odore di pulito)…; il telo proprio per il fatto di accogliere la cenere fu détto cennerale
30.'O GALANTOMMO APPEZZENTÚTO, ADDEVÈNTA 'NU CHIAVECO.
Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
Chiaveco s.vo ed a.vo m.le = sporco, lercio e per estensione cattivo soggetto, essere spregevole; è un adattamento al maschile del s.vo f.le chiaveca/chiavica= fogna, porcheria,sozzura che è dal tardo lat. clàvica per il classico cloaca normale il passaggio cl→chj→ chi come ad es. clarum→chiaro.
Brak
VARIE 15/705
1 -NNACCHENNELLO/A & NNACCHERO
I vocaboli in epigrafe sono oggi fra i napoletani piú giovani quasi sconosciuti, mentre persistono (almeno il primo) nella memoria e nell’uso di quelli piú avanti negli anni. Con tale vocabolo si indica il lezioso, lo svenevole, lo eccessivamente complimentoso, il vagheggino, il manierato cicisbeo; è chiaro che in un’epoca come la nostra che à statuito la parità dei sessi sarebbe impensabile un uomo che si comportasse verso il gentil sesso in maniera tale da esser paragonato a quei settecenteschi cavalier serventi che solevano portare lunghe capigliature spartite sulle fronte e tirate sul volto a coprire un occhio, mentre con l’altro, attraverso un occhialetto,spesso colorato, sogguardavano le dame ; tale postura faceva pensare che i suddetti cavalieri non avessero che un occhio;in francese la cosa suonava: il n’à q’un oeil che letto rapidamente diveniva il n’à che n’el da cui i napoletani trassero nnacchennello voce che i giovanotti degli anni intorno al 1960 accorciarono quasi gergalmente in nnacchero, mantenendo il significato di vagheggino, manierato cicisbeo,bellimbusto, stravagante.
Difficilissimo trovare riscontri etimologici nei lessici dei maggiori linguisti partenopei: quasi tutti non registrano i due vocaboli in epigrafe o se lo fanno evitano di azzardare un’idea etimologica trincerandosi dietro un pilatesco etimo incerto o sconosciuto; fa eccezione l’amico avv. Renato de Falco che registra nnacchennello, ma non nnaccaro, e propone una strada etimologica che non è quella che ò percorso poc’ anzi e di cui dico in coda; ugualmente fa eccezione il defunto prof. Francesco D’Ascoli che ugualmente registrò nnacchennello, ma non nnaccaro, e propose però una strada etimologica che reputo impercorribile atteso che egli intese far derivare il napoletano nnacchennello da un italiano naccherino s. m. ( voce ant.) 1 dim. di nacchera
2 sonatore di nacchere
3 (tosc.) bambino vispo e grazioso.
Ora a parte il fatto che aborro l’idea che il napoletano possa essere tributario dell’italiano (sia pure per un qualche singolo, sperduto vocabolo, nella fattispecie ognuno vede che se pure con un grosso sforzo mentale, semanticamente si può tentare di mettere in collegamento un bambino vispo e grazioso,con manierato, giovane bellimbusto, ben difficilmente (se si eccettuano le due sillabe iniziali) si può trovare un legame morfologico tra naccherino e nnacchennello.
Di naccaro poi nessuno dei vocabolaristi partenopei parla ed io comunque li giustifico tutti trattandosi, come ò detto, di una voce quasi gergale coniata ( per dileggio nei confronti di qualche giovanotto un po’ troppo educato e gentile sino ad apparire effeminato) nella seconda metà del 1900 in àmbito giovanile, adattando per accorciamento la preesistente, nota voce nnacchennello.
Faccio notare che partendo dal francese n’à q’un oeil che letto rapidamente diveniva il n’à che n’el i napoletani trassero nnacchennello con geminazioni espressive della nasale iniziale e della liquida finale e consueta paragoge di una semimuta finale (qui o) atteso che i napoletani non amano le parole che terminino per consonante (cfr. alibi tramme←tram, bisse←bis, barre←bar,gasse←gas, autobbusso←autobus etc. ); unica eccezione la negazione nun .
Ricordo infine, per tornare a nnaccaro, che in napoletano esiste la voce nacca che con etimo dal greco volg. nàkion vale gambo di pianta, germoglio e anche gamba umana, anca e si potrebbe esser colti dalla tentazione di pensare, per l’etimo di nnaccaro, ad una avvenuta agglutinazione tra nacca ed un suffisso di pertinenza aro/aio, ma non vedo come si possa mettere in collegamento un gambo di pianta,un germoglio o anche una gamba umana,un’anca con il solito manierato, giovane bellimbusto; non ci resta quindi che arrenderci alle ragioni del linguaggio gergale, prender per buona l’idea che naccaro non è che un accorciamento espressivo e di comodo di nnacchennello e fare punto qui. Rammento in coda a tutto quanto détto, che taluni, tra i quali l’amico Renato de Falco, ipotizzano che la derivazione della voce in esame sia da collegare a quegli elegantoni bellimbusti un po’ effeminati che erano soliti usare il monocolo ed a loro avviso dal monocolo al non avere che un occhio solo il passo sarebbe breve. Trovo però l’idea non perseguibile per una semplicissima considerazione(e mi merraviglio che l’amico Renato non v’abbia posto mente...) e cioè che il monocolo era usato, non per eleganza, ma per necessità da tutti quelli (e tra di essi anche Raffaele Viviani che, per certo, non era un elegantone bellimbusto ed un po’ effeminato)che fossero miopi da un solo occhio e non necessitavano perciò di un occhiale a due lenti. Rimango perciò fermo nel mio punto di vista e non mi accodo all’ipotesi dell’amico Renato de Falco.
2- FÀ ZITE E MMURTICIELLE E BATTISEME BUNARIELLE.
Letteralmente: fare(partecipare a)matrimoni e funerali e battesimi abbastanza buoni.cioè:profittare di ogni occasione, anche le meno opportune per tentare di lucrar provvidenze quali che siano;in particolare l’espressione in epigrafe si sostanzia nel
non mancare mai, anche se non espressamente invitati, a celebrazioni che comportino elargizioni di cibarie e libagioni, come accadeva temporibus illis quando la maggior parte delle cerimonie si svolgevano in casa, ed in primis il parroco o prete del rione non mancavano mai di rendersi presenti a battesimi o matrimoni, per presenziare alla tavolata che ne seguiva. La cosa valeva anche per i funerali (murticielle) giacché, dopo la sepoltura del defunto, i vicini erano soliti offrire ai parenti del defunto ed a coloro che avessero partecipato, a qualsiasi titolo, alla cerimonia funebre un pantagruelico pasto consolatorio ( detto cunzuòlo(cibo di conforto deverbale di cunzulà= consolare da un lat. volg. consolare per il class. consolari, comp. di cum 'con' e solari 'confortare' con il consueto ns→nz) spesso comportante, in luogo della vietatissima carne (inteso cibo grasso adatto alle festività e non ai giorni di lutto) gustose portate di pesce fresco ritenuto - in quanto cibo di magro - piú consono ai momenti di dolore; il pranzo elargito si disse cunzuòlo, mentre le portate di pesce fresco che venivano ammannite si dissero cuónzolo derivato della voce a margine con dittongazione nella sillaba d’avvio e cambio d’accento;ne derivò che in prosieguo di tempo una congrua portata di pesce fresco venne detta cuónzolo ‘e pesce anche quando tale pesce fresco non servisse alla bisogna di confortare i perenti di un defunto; ma di tale offerta consolatoria ovviamente profittavano non solo i parenti del defunto, ma anche chi avesse partecipato alla cerimonia funebre
zite di suo è il plurale del sostantivo femm. zita forma colleterale di un antico cita= ragazza da marito; la voce a margine è passata poi ad indicare i matrimoni e segnatamente gli sponsali e/oi pranzi di nozze dal nome dei cosí detti maccarune ‘e zite o semplicemente zite (sost. neutro) un formato di pasta lunga e doppia usata un tempo, sontuosamente condita, nei pranzi di nozze; da notare il doppio genere della voce a margine che al plurale (se inteso femminile) va scritto con la geminazione iniziale (‘e zzite= le ragazze), se inteso maschile (‘e zite=sponsali) o neutro (‘e zite= i maccheroni) va scritto in maniera scempia;
murticielle = morticini e dunque estensivamente, per una sorta di sineddoche, i funerali; la voce a margine è, attraverso un suffisso ciello/cielle un diminutivo plurale di muorto che è un part. pass. dell’infinito murí che è da un lat. volg. *morire, per il class. mori; nella voce a margine è caduto il dittongo mobile uo che à lasciato la sola u come càpita sempre nelle parole derivate (vedi ad es.: piede→pedone; suono→sonare e non suonare come invece erroneamente è invalso nell’uso generale scritto ed orale etc. );
battiseme battesimi plurale del sost. masch. battisemo derivante da un lat. eccl. baptismu(m), dal gr. baptismós, propr. 'immersione';
bunarielle abbastanza buoni; aggettivo diminutivo ( vedi il suff. riello/rielle) plurale maschile di buono (che è dal lat. bonu(m)) con la semplificazione del dittongo mobile uo→u che à lasciato la sola u come càpita sempre, anche nell’italiano nelle parole derivate(vedi ad es.: piede→pedone – cielo→celeste - suono→sonare etc.con la differenza che nel napoletano a cadere è la seconda vocale del dittongo, mentre in italiano, cade la prima ).
3- ZEFFUNNO E DINTORNI
Eccoci a dire di una antica (cfr. i vocabolaristi Andreoli e P.P.Volpe) parola partenopea: zeffunno usatissima un tempo ed ancóra in uso, sia pure in una tipica espressione che poi illustrerò, nel parlato partenopeo, parola che se usata direttamente quale sost. masch. traduce le voci italiane: rovina, abisso, baratro e che invece se usata accompagnata ad un verbo, in funzione quasi modale, preceduta dalla preposizione a ( a zzeffunno ) acquista differenti significati o particolari sfumature degli originarî significati che qui di sèguito vedremo.
Come ò detto, in primis la voce zeffunno (in origine usata come sinonimo di prufunno) valse le voci italiane: rovina, abisso, baratro ed etimologicamente risultò un deverbale del tardo latino *suffunnare (precipitare, subissare) per il class. sub-fundere , mentre la voce prufunno dal lat. profundu(m), comp. di pro- 'davanti' e fundus 'fondo'; propr. 'che à il fondo innanzi, più in là'(con chiusura della sillaba d’avvio ō→u e consueta assimilazione progressiva nd→nn) valse le voci italiane: orrido,precipizio e segnatamente usata al plurale (e con l’aggiunta dello specificativo ‘e casa (‘e) riavulo) l’inferno ( ‘e prufunne ‘e casa riavulo= l’inferno); di talché passata la voce prufunno/e ad indicare una cosa cosí brutta da incutere paura al solo nominarla (inferno) , si smise di usarla come sinonimo di zeffunno che sebbene avesse risvolti negativi, non raggiungeva mai quelli spaventosi relativi all’inferno!
E passiamo all’uso… modale di a zzeffunno.
- Mannà a zzeffunno= mandare in rovina, ridurre taluno in miseria; il verbo mannà= mandare così come l’italiano è dal lat. mandare 'affidare, ordinare', ricondotto a (in) man(um) dare 'dare in mano'; nella voce napoletana si noti la consueta assimilazione progressiva nd→nn. Come si evince dalla traduzione in italiano,nell’espressione a margine la voce zeffuno mantiene l’originario significato di rovina , ma acquista anche quello estensivo e totalizzante di miseria; all’incirca le medesime accezioni di zeffunno si ritrovano nell’espressione:
-Jí a zzeffunno = andare in rovina, precipitare in miseria
espressione usata a Napoli, solitamente per riferirsi a chi per i piú svariati motivi quasi sempre da addebitare a sue colpe, abbia dilapidato ingenti patrimonî quasi mai acquisiti con il lavoro e piú spesso ricevuti in eredità.
Dell’ infinito del verbo jí = andare (derivato del lat. ire) ò già detto numerose volte per cui qui mi limito a sottolineare che graficamente esso va reso jí e non í o i’ (come pure erroneamente qualcuno fa…), in quanto esso infinito jí è il solo modo corretto di riprodurre in un unico comprensivo modo anche l’infinito ghí altra forma del verbo andare in napoletano, forma con rafforzamento consonantico che si ritrova ad es. nell’espressione a gghí a gghí = a tempo a tempo ed in talune voci della coniugazione dell’infinito jí come ghiammo per jammo – ghiate per jate – ghienno per jenno etc.
- chiovere a zzeffunno = piovere a profusione, copiosamente in maniera esorbitante; in questo caso ( che è poi quasi l’unico nel quale oggi venga usata l’espressione a zzeffunno…) la voce zeffunno si riallaccia quasi al suo verbo d’origine *suffunnare= cadere in profondità o in abbondanza, per significare appunto che si tratta solamente di una pioggia estremamente copiosa, anche se non è errato sospettare che nell’espressione chiovere a zzeffunno non sia estranea l’idea che una pioggia tanto copiosa possa determinare problemi al manto stradale fino a procurare sprofondamenti e/o gravi dissesti del suolo.
l’infinito chiovere= piovere è un derivato del tardo lat. Lat. pluvere, per il class. pluere con il tipico passaggio di pl a chi come è in chiú che è da plus o in chiazza da platea etc.
In chiusura mi permetto un piccolo passo all’indietro per tornare al sostantivo di partenza e ricordare che cosí come affermò il Puoti a Napoli con la voce zeffunno si intese oltre che rovina, abisso, baratro etc. ( cfr. Galiani) anche grande quantità, enorme massa come fu nell’espressione Viato a isso, tène ‘nu zeffunno ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ) o nell’espressione: Tiene mente, so’ cadute ‘nu zeffunno ‘e prete! = (Guarda, è precipitata un’enorme massa di pietre!).
Per amor di completezza dirò però che oggi la frase Viato a isso, tène ‘nu zeffunno ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ), si renderebbe con un piú moderno ed usato Viato a isso, tène ‘nu tummolo ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ), oppure con un Viato a isso, tène ‘nu cuofano ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ) dove la voce tummolo estensivamente = gran quantità, ma letteralmente sta per tomolo : misura di capacità per gli aridi che era tipica dell'Italia meridionale; nel Napoletano equivaleva a 55,5 litri, in Sicilia a 27,5 litri l’etimo della voce tummolo è Dall'ar. thumn; propr. 'un ottavo', mentre il termine cuofano estensivamente = gran quantità, letteralmente sta per cofano: cassa munita di coperchio; forziere con etimo dal tardo lat. cophinu(m) 'cesta', dal gr. kóphinos con tipica dittongazione ŏ→uo nella sillaba tonica d’avvio ed apertura della sillaba atona fi→fa.
4- CAJOTELA, ZANDRAGLIA
& VAJASSA
zandraglia = donna volgare, sporca, incline alle chiassate, ai litigi ed al pettegolezzo;estensivamente poi la voce, cosí come riportato nell’antico dizionario del D’Ambra, valse anche femminaccia plebea, ciana, pettegola, baldracca in origine la voce zandraglia (etimologicamente dal francese les entrailles,)indicò le povere donne volgari e vocianti che si litigavano, alle porte delle cucine reali o del macello situato a Napoli presso un ponte posto alla foce del fiume Sebeto, ponte che in origine (1330 ca,epoca angioina) non ebbe un nome preciso e che poi fu detto ponte Licciardo o Guizzardo o Ricciardo ed infine fu semplicemente detto ponte della Maddalena intorno al 1747 allorché Carlo III ne ordinò il restauro per porre riparo ai gravi danneggiamenti sopportati dal ponte a sèguito dell’assedio (1528) delle truppe del gen. Lautrec; il nome di ponte della Maddalena con il quale è ricordata tutta la zona, gli derivò dal fatto che nei pressi di détto ponte sul Sebeto, quasi adiacente al macello summenzionato, fu eretta una piccola chiesa dedicata alla Maddalena; dicevo che quelle povere donne volgari e vocianti si litigavano le interiora e le ossa delle bestie macellate,(donde l’espressione partenopea: va’ fa ll’osse ô ponte= vai a raccattar le ossa al ponte, invito perentorio e malevolo rivolto a chi ci importuni con richieste fastidiose, affinché ci liberi della sua sgradevole presenza, spostandosi altrove!) interiora ed ossa distribuite gratuitamente;successivamente , in altra epoca (1750 ca) , con la medesima voce di zandraglie si indicarono le donne designate a ripulire dai resti umani i campi di battaglia e/o i luoghi di esecuzioni capitali (ed in tali occasioni queste donne malvissute si contendevano l’un l’altra le vesti e qualche effetto personale dei soldati o dei condannati); ora sia che si litigassero cibo, sia gli effetti personali, le zandraglie furono delle donne di infimo ordine e col tempo la voce zandraglia fu usata e nel linguaggio della città bassa è ancóra usata come ingiuriosa offesa rivolta appunto ad ogni donna d’estrazione plebea o intesa tale e dunque donna volgare, sporca, incline alle chiassate, ai litigi ed al pettegolezzo e talvolta (sulla bocca del popolo infimo, ma aduso ad un linguaggio colorito ed icastico) è usata ancóra nel vecchio senso di meretrice di sporca baldracca.
cajotela/cajotula = donnicciuola pettegola adusa a andarsene in giro a raccogliere e propalare notizie,ma pure donna plebea, becera, sporca che emani cattivo odore e per ampliamento: donna lercia di facili costumi; semanticamente la seconda accezione si spiega con un supposto etimo da cajorda (che è ipotizzato dall’ebraico hajordah) = puzzola; ma piú che cajorda pare che la voce di partenza debba essere una sia pure non attestata *chiajorda con riferimento a donna abitante la Riviera di Chiaia un tempo strada adiacente il mare, molto sporca, covo di gente testarda e malfamata; tuttavia mi pare molto difficile, morfologicamente parlando, pervenire a cajotela/cajotula sia che si parta da caiorda che da chiaiorda. Ecco perché penso che sia preferibile l’ipotesi etimologica che collega le voci cajotela/cajotula al basso latino catula= cagna. In questo caso sarebbero salve sia la morfologia (da catula con consueta doppia epentesi vocalica : io→jo (epentesi tipica delle parlate meridionali), facilmente si giunge a cajotula)salvando altresí la semantica ( è infatti nell’indole della cagna priva di padrone, vagabondare latrando (cfr. spettegolando) e concedendosi ai randagi (cfr. donna di facili costumi).
vajassa= serva, fantesca e per estensione semantica donna becera, ciana e poi meretrice; dall’arabo: baassa attraverso il francese bajasse da cui l’ italiano trasse bagascia= meretrice. Da rammentare che morfologicamente nel napoletano si à l’aternanza b/v o v/b ( cfr. barca→varca vocca←bocca etc.) come è normale l’epentesi d’ un suono eufonico transitorio (j) tra due vocali; la voce francese bajasse offrí bella e pronta l’epentesi occorrente nell’arabo baassa che rimane la voce di partenza.
5- VERRIZZO
Con l’antica voce(peraltro nota ormai quasi solamente ai napoletani piú anziani, essendosi irrimediabilmente depauperato il lessico d’antan) verrizzo, che al plurale fa verrizze, nella parlata napoletana vengono indicati le bizze, i capricci stizzosi,le stravaganze, le voglie irrazionali ed estensivamente anche quelle lussuriose, libidinose; chi ne va soggetto è detto verruto/a, ma pure verrezzuso/osa.
Annoto innanzi tutto che ‘e verrizze son quasi sempre riferiti nel loro significato primo di bizze, capricci,stranezze, voglie irrazionali o ai bambini o alle donne, nella presunzione che un uomo fatto, difficilmente possa lasciarsi prendere da bizze o capricci, di talché i termini verruto o verrezzuso, riferiti ad un uomo fatto, stanno o strebbero restrittivamente ad indicare un soggetto proclive alla lussuria o libidine, cosí come dal significato estensivo di verrizzo.
Quanto all’etimologia del termine in epigrafe, la questione non è di poco conto; la maggior parte dei compilatori di lessici, che accolgono il termine se la sbrigano con l’annotazione pilatesca: etimo incerto.
Qualche altro, lasciandosi però chiaramente trasportare dal significato estensivo della parola, propone una timida paretimologia, legando la parola verrizzo, al termine verro che è il porco non castrato, quello cioè atto alla riproduzione, nella pretesa idea che il verro sia portato, almeno nell’immaginario comune, a pratiche libidinose, ma questa piú che un’etimologia, m’appare una paretimologia e poco mi convince.
A mio sommesso parere, penso che la parola in epigrafe possa tranquillamente derivare dall’unione del verbo latino velle rotacizzato in verre con il sostantivo izza agganciandosi semanticamente ad un comportamento originariamente iracondo, stizzoso e poi capriccioso, stravagante,strano; la voce izza è piú nota nella forma varia ed intensiva di bizza (ma sia izza che bizza ànno il medesimo significato e provengono dall’antico sassone hittja = ardore).
Partendo da vell(e)+izza si può pervenire a vellizza e di qui a verrizzo con tipica alternanza della liquida L→R, successivo affievolimento della piena e tonica mutatasi nella evanescente e e maschilizzazione del termine passato da verrizza a verrizzo adattamento resosi necessario atteso che – pur trattandosi di un difetto (che comunque comportava una manifestazione d’ardore,non ipotizzabile di pertinenza del sesso femminile) era piú consono (in epoca di maschilismo) ritenerlo di genere maschile (suff. in o) piuttosto che femminile (suff. in a).
Infine, a margine di tutto ciò che ò detto su verrizzo,voglio rammentare che esiste un altro antico vocabolo partenopeo, fortunatamente ancóra usato con cui si indica il capriccio, la bizza, la testarda impuntature, il reiterato insistere in richieste sciocche e pretestuose, quasi esclusivamente da parte dei bambini; il vocabolo è ‘nziria che estensivamente indica anche il prolungato, lamentoso pianto, apparentemente non supportato da cause facilmente riscontrabili o riconoscibili; tale lamentoso piagnucolare è, ovviamente, costume dei bambini e segnatamente degli infanti, ai quali – impossibilitati a rispondere – sarebbe vano o sciocco chieder ragione del loro pianto; spesso di tali piccoli bambini che, all’approssimarsi dell’ora del riposo notturno, comincino a piagnucolare lamentosamente se ne suole commentare l’atteggiamento con l’espressione:Lassa ‘o stà… è ‘nziria ‘e suonno… (lascialo stare, è bizza dovuta al sonno… per cui bisogna aver pazienza!).
Rammento ancòra che un tempo accanto alla forma ‘nziria, vi furono anche, con medesimo significato:zírria, zirra ;per quanto riguarda l’etimologia del vocabolo ‘nziria (da cui gli aggettivi ‘nzeriuso/’nzeriosa che connotano i bambini/e che si abbandonano ai capricci ed alle bizze) scartata l’ipotesi che provenga da un in + ira: troppo distanti sono infatti l’idea di ira e di bizza, capriccio, non mi sento neppure di aderire a ciò che fu proposto dall’amico avv.to Renato De Falco nel suo Alfabeto napolitano e cioè che la parola ‘nziria potesse discender dal greco sun-eris = con dissidio stante quasi il contrasto che si viene a creare tra il bambino in preda alla ‘nziria e l’adulto che dovrebbe dar corso alle richieste, in quanto reputo l’eventuale contrasto solo un effetto della ‘nziria, non il suo sostrato; penso che sia molto piú probabile una discendenza dal latino insidia(s)→’nsidia→’nziria a sua volta da un in + sideo = sto sopra, mi fermo su, che semanticamente ben mi pare possa rappresentare l’impuntatura che è tipica di chi si abbandona alla ‘nziria.
6- VASCIO, BASSO E DINTORNI.
Nella parlata napoletana esistono (vedi epigrafe) alcune voci che (e lo vedremo) pur derivando da un medesimo tardo latino ànno significati molto diversi tra di loro oltre che diversa funzione.
Sto parlando innanzitutto della voce vascio che come aggettivo vale basso, poco elevato dal suolo o da un altro piano di riferimento; che si trova in posizione poco elevata (spesso correlato o contrapposto ad aveto (alto), di statura non elevata anche se in tale accezione in napoletano è piú usato curto=corto, ma vascio vale pure poco profondo, esiguo, modico ed in talune circostanze abietto, vile, umile, modesto;
come sostantivo con il termine ‘o vascio si indica una modestissima abitazione monolocale , per solito insalubre, umida e senza luce posta a livello stradale abitata dal popolo minuto, quel medesimo monolocale che come vedemmo altrove fu detto anche funneco(fondaco); quanto all’etimo posso affermare (supportato in ciò dall’amico prof. Carlo Iandolo) che la derivazione è il tardo latino bassu(m) e non (come proposto dalla dr.ssa C. Marcato (in Cortelazzo/Marcato – Dizionario etimologico dei dialetti d’Italia) dal comparativo bassiu(m), atteso che sia in napoletano che in italiano la doppia ss seguita da vocale evolve da sola nel suono palatale sci (vedi ad es. examen→essamen→sciame o anche coxa→cossa→coscia) e dunque non occorre il gruppo ssiu di bassiu(m) per ottenere lo sci del napoletano scio di vascio; è sufficiente bassu(m) con il tipico passaggio di b a v come in barca→varca, bocca→vocca, borsa→vorza etc. rammentando che in napoletano, senza una precisa regola la b può diventare v o raddoppiare b→bb specialmente se intervocalica.
Ciò detto rammenterò che la voce napoletana vascio , sia pure nella traduzione basso è pervenuta anche nella lingua nazionale sempre nel significato di modestissima abitazione monolocale , per solito insalubre, umida e senza luce posta a livello stradale abitata dal popolo minuto.
Proseguiamo; in napoletano e sempre con derivazione dal tardo latino bassu(m) esiste l’avv. abbascio= abbasso, in giú, di sotto, in basso; morfologicamente si è pervenuti ad abbascio partendo da bassu(m) attraverso la locuzione a basso, sul modello del fr. à bas; nella locuzione la voce basso à prodotto dapprima bascio e poi il raddoppiamento dell’esplosiva labiale b intervocalica invece del passaggio di b a v; ancóra, in napoletano sempre dalla voce bassu(m) abbiamo il verbo denominale avascià/avasciare= abbassare, calare, portare, mettere qualcosa piú in basso, ridurre l'altezza, il valore o l'intensità di qualcosa; verbo nel quale è riconoscibile la prostesi di una a eufonica che qui però (misteri della parlata napoletana!) non à prodotto il raddoppiamento della b come ci si sarebbe atteso alla luce di quanto detto precedentemente, e non à influito in alcun modo sul passaggio della b a v; si è avuto dunque bassu(m)→vascio→a + vasci(o)+are=avasciare/avascià.
Giunti a questo punto, torniamo a dare uno sguardo all’epigrafe per soffermarci sulla parola basso; essa nel napoletano morfologicamente ed etimologicamente(tardo latino bassu(m)) è in tutto e per tutto uguale alla voce della lingua nazionale basso che è aggettivo [compar. più basso o inferiore; superl. bassissimo o infimo]
poco elevato dal suolo o da un altro piano di riferimento etc. o anche sostantivo nel significato di terraneo, povera abitazione come abbiamo visto precedentemente;
tutt’altra cosa la voce napoletana dell’epigrafe;
in napoletano il termine basso,(termine peraltro ampiamente desueto e che si può solo trovare in poeti e scrittori dal ‘600 al tardissimo ‘800 e fino ai principi del ‘900 cfr. E. Murolo) fu usato per indicare un indumento femminile: un’ampia e lunga gonna, quella che partendo dalla vita non si limitava a coprir le ginocchia (cfr. l’etimo di gonna che piú che dal lat. tardo gunna(m) 'veste di pelliccia', di orig. gallica, pare sia da collegare al basso greco gouna= ginocchia (=veste che scende e copre le ginocchia ed a tal proposito mi pare di poter dire che non à senso chiamare gonna sia pure mini taluni risicatissimi pezzi di stoffa che coprono non le ginocchia, ma neppure le cosce!) dicevo non si limita a coprir le ginocchia, ma prosegue fino alle caviglie; tale lunga ed ampia gonna fu détta basso perché pare si indossasse non sollevandola, passandola sulla testa e facendola scivolare fino alla vita, ma inforcandola dal basso id est: dal di sotto ed ugualmente veniva tolta sfilandola dal basso : dal di sotto.
Questa è l’opinione mia che mi son dovuto formar senza aiuti ( ma che à ricevuto l’approvazione dell’amico prof. C.Iandolo) atteso che non ò trovato indicazioni precise circa la voce basso=gonna.in nessuno dei numerosi calepini (anche etimologici) del napoletano, in mio possesso e che ò potuto consultare.
Dal punto di vista etimologico c’è da notare la particolarità che il tardo latino bassu(m) generando il sostantivo vascio (abitazione terranea) e l’agg.vo vascio (basso, corto) à comportato il passaggio di b a v e di ss a sci, mentre per il sostantivo basso (gonna) si è mantenuta l’identica morfologia del tardo latino.
7 - S' È FFATTA NOTTE Ô PAGLIARO.
Letteralmente: È calata la notte sul fienile. La locuzione viene usata a mo' di incitamento all'operosità verso colui che procrastini sine die il compimento di un lavoro per il quale - magari - à già ricevuto la propria mercede; a tal proposito rammento che, in simili occasioni, si suole commentare: chi pava primma è male servuto (chi paga in anticipo è malamente servito...);
pagliaro = fienile, pagliaio, grande cumulo di paglia o fieno sorretto da un palo centrale, per lo più di forma conica ' l’etimo della voce è dal lat. paleariu(m), deriv. di palea 'paglia'.
8 - QUANTO È BBELLO E 'O PATRONE S''O VENNE!
Letteralmente: Quanto è bello, eppure il padrone lo vende. Era questa, in origine la frase che, a mo' di imbonimento, pronunciava un robivecchi portando in giro, per venderla al migliore offerente, la statua di un santo presentata sotto una campana di vetro. Con tale espressione, oggi, ci si prende gioco di chi si pavoneggi, millantando una bellezza fisica che non corrisponde assolutamente alla realtà.
quanto = quanto avverbio qui con valore esclamativo come con derivazione dal lat. quantu(m), avv. da quantus;
bbello = bello aggettivo qual. masch. si dice di ciò che è dotato di bellezza; che suscita ammirazione, piacere estetico con etimo dal lat. volgare bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono';
patrone= padrone, proprietario, chi à la proprietà di qualcosa l’etimo è dal lat. patronu(m) 'patrono';
venne = vende voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito vénnere = vendere, cedere in vendita contro corrispettivo in danaro, l’etimo è dal lat. vendere, da vínum dare 'dare in vendita' con consueta assimilazione progressiva nd>nn.
9 - SI 'O VALLO CACAVA, COCÒ NUN MUREVA.
Letteralmente: Se il gallo avesse defecato, Cocò non sarebbe morto. La locuzione commenta sarcasticamente le parole di chi si ostini a mettere in relazione di causa ed effetto due situazioni chiaramente incongruenti,(quali l’espletamento di necessità fisiologiche del gallo e la morte di un non meglio identificato Cocò, che sono accadimenti logicamente non relazionabili tra di loro) o di chi insomma continui a fare dei ragionamenti privi di conseguenzialità logica.
vallo/gallo= gallo sostant. masch. uccello domestico commestibile, con piumaggio brillante, testa alta con grossa cresta carnosa e bargigli, zampe fornite di speroni, coda falciforme dai colori spesso vivaci; l’etimo è dal lat. gallu(m) con tipica alternanza partenopea g/v come alibi per volpe/golpe, vunnella/gonnella, vulio/gulio etc.
cacava= cacava, defecava voce verbale (3° pers. sing. imperf. indic.) dell’infinito cacà = cacare, defecare, andar di corpo; l’etimo è dal lat. cacare;
mureva = moriva, decedeva voce verbale (3° pers. sing. imperf. indic.) dell’infinito murí= morire, decedere cessare di vivere, detto di persone, animali, piante; ; l’etimo è dal lat. volgare morire per il class. mori.
10 - À PERZO 'E VUOJE E VA ASCIANNO 'E CCORNA.
Letteralmente: À perduto i buoi e va in cerca delle loro corna. Lo si dice ironicamente di chi, avendo - per propria insipienza - perduto cose di valore, ne cerca piccole vestigia, adducendo sciocche rimostranze e pretestuose argomentazioni.
à perzo= à perso, à perduto voce verbale (3° pers. sing.passato prossimo ind.) dell’infinito perdere= perdere, smarrire non avere più, restare privo di una persona con cui si aveva consuetudine, o di qualcosa che si possedeva, si usava, di cui si aveva facoltà l’etimo è dal lat. perdere, comp. di per 'al di là, oltre' e dare 'dare'; perzo è esattamente il part. pass. di perdere con normale variazione partenopea di rs→rz;
vuoje= buoi, sost. masch. plurale metafonetico di vojo, il maschio adulto castrato dei bovini domestici; vojo etimologicamente è dall’acc. lat. bove(m) con alternanza napoletana b/v (vedi barca,varca etc.) della consonante d’avvio, sincope della v intervocalica sostituita dal suono di transizione intervocalico j;
va ascianno=va cercando, va in cerca locuzione verbale
formata dall’ ind. pres. (3° pers. sing.) va dell’infinito jí= andare dal latino ire piú il gerundio ascianno= cercando dell’infinito ascià/asciare= cercare con insistenza, ricercare, indagare, investigare; desiderare, agognare; tendere, , aspirare a con etimo forse da un lat. volgare *anxiare→assiare, ma piú probabilmente dal tardo lat. adflare→afflare= annusare;
ccorna = corna, sost. femm. plur. del maschile sing. cuorno
prominenza cornea o ossea, di varia forma ma per lo più approssimativamente cilindro-conica e incurvata, presente generalmente in numero pari sul capo di molti mammiferi ungulati; anche, ognuna delle due analoghe protuberanze sulla fronte di esseri mitologici o, nell'immaginazione popolare, del diavolo con etimo dal lat. cornu(m) con tipica dittongazione della breve o intesa tale (ŏ→uo) nella sillaba d’avvio della voce singolare, dittongazione che viene meno, per far ritorno alla sola vocale etimologica o, nel plurale reso femminile (‘e ccorne) laddove nel plurale maschile è mantenuta (‘e cuorne) ; rammenterò che in napoletano il plurale femm. ‘e ccorne è usato per indicare le protuberanze cornee reali della testa degli animali, o quelle figurate dell’uomo o della donna traditi rispettivamente dalla propria compagna, o dal proprio compagno, mentre con il plurale maschile ‘e cuorne si indicano alcuni tipici strumenti musicali a fiato o i piccoli o grossi amuleti di corallo rosso usati come portafortuna;ugualmente con valore di portafortuna vengono usati i corni dei bovini macellati, corni che vengon staccati dalla testa, messi a seccare, opportunamete vuotati e talvolta tinti di rosso tali cuorne, non piú ccorna devono rispondere – nella tradizione partenopea a precisi requisiti, dovendo necessariamente essere russo, tuosto, stuorto e vacante pena la sua inutilità come porte-bonheur.
russo= rosso (da non confondere con ruosso che è grosso)di colore rosso derivato del latino volgare russu(m) per il class. ruber;
tuosto= duro, sodo, tosto derivato del lat. tostu(m), part. pass. di torríre 'disseccare, tostare'con la tipica dittongazione partenopea della ŏ→uo;
stuorto = storto, ritorto,non dritto, scentrato derivato del lat. tortu(m), part. pass. del lat. volg. *torquere, per il class. torquíre con prostesi di una s intensiva e tipica dittongazione partenopea della ŏ→uo;
vacante= cavo, vuoto ed altrove insulso, insipiente part. pres. aggettivato del lat. volg. vacare = esser vuoto, mancante, libero di; a margine rammenterò che esiste un altro tipico cuorno quello de ‘o carnacuttaro (il girovago venditore di trippe bovine che lavate, sbiancate e lessate vengon vendute al minuto opportunamente ridotte in piccoli pezzi serviti su minuscoli fogli di carta oleata, irrorate di succo di limone e cosparse di sale contenuto in un corno bovino, seccato, vuotato, forato in punta, per consentire la fuoriuscita del sale con cui viene riempito, e tappato alla base con un grosso turacciolo di sughero; tale cuorno viene portato pendulo sul davanti del corpo, legato in vita con un lungo spago, in modo che nel suo pendere insista su di una bene identificata zona anatomica; ciò è rammentato nell’espressione: Mo t’’o ppiglio ‘a faccia ô cuorno d’’a carnacotta! (Adesso te lo procuro, prendendolo dal corno della trippa) nella quale ‘o cuorno è usato eufemisticamente in luogo d’altro termine becero, facilmente intuibile se si tiene presente la zona su cui insiste il pendulo corno del sale… l’espressione è usata con una sorta di risentimento da chi venga richiesto di azioni o cose che sia impossibilitato a portare a compimento o a procurare, non essendo le une o le altre nelle sue capacità e/o possibilità
11 - PURE LL'ONORE SO' CCASTIGHE 'E DDIO.
Letteralmente: Anche gli onori son castighi di Dio. Id est: anche agli onori si accompagnano gli òneri; nessun posto di preminenza è scevro di fastidiose incombenze. La locuzione ricorda l'antico brocardo latino: Ubi commoda, ibi et incommoda.
pure= pure, anche avv. con valore aggiuntivo derivato dal lat. pure 'puramente, semplicemente' ed anche; nel lat. tardo, 'senza riserve, senza condizione;
onore/i =onori sost. neutro plur. di onore = buona reputazione acquistata con l'onestà, la coerenza ai propri principi; dignità, prestigio; coscienza del valore sociale e morale di tale reputazione e quindi delle virtú che l'ànno procurata derivato dal lat.honore(m) con aferesi dell’aspirata d’avvio intesa inutile e pleonatica;
castighe = castighi sost. masch. plurale di castigo = castigo, punizione, sventura etc. deverbale di castigà che è dal lat. castigare, deriv. di castus 'puro'; in origine 'rendere puro';
Ddio = Dio, nelle religioni monoteiste, l'Essere supremo concepito come la causa creante di tutta la realtà o come il semplice ordinatore del caos primordiale, a cui si attribuisce il governo del mondo; in genere, costituisce anche il principio del bene e il fondamento della morale umana; l’etimo è dal lat. dìu(m), da una radice indoeuropea che significa 'luminoso'.
12 - MADONNA MIA FA' STÀ BBUONO A NIRONE!
Letteralmente: Madonna mia, mantieni in salute Nerone! È l'invocazione scherzosa rivolta dal popolo alla Madre di Dio affinché protegga la salute dell'uomo forte, di colui che all'occorrenza possa intervenire per aggiustare le faccende quotidiane. Nella locuzione c'è la chiara indicazione che il popolo preferisce l'uomo forte e deciso, piuttosto che l'imbelle democratico, oppure – con altra poco differente valenza - che esso popolo preferisce essere amministrato e/o guidato anche da un cattivo soggetto, temendo e paventando che un eventuale sostituto sia peggiore del sostituito!
Madonna/Maronna = Madonna, appellativo di cortesia con cui ci si rivolgeva alle donne di elevata condizione e che si premetteva al nome proprio, oggi usato in taluni paesi del Piemonte come segno di rispetto delle nuore verso le suocere, ma ovunque esclusivamente nei confronti della Madre di Dio; etimologicamente è voce forgiata sul francese madame=mia signora attraverso una composizione di ma (forma proclitica di mia) e donna/ronna=donna; la forma Maronna è d’uso piú popolano di Madonna e comporta la tipica rotacizzazione osco-mediterranea della d→r;
Nirone= Nerone 37-68 d.C.), imperatore romano (54-68), ultimo della gente Giulio-Claudia. Figlio di Gneo Domizio Enobarbo e di Agrippina Minore, cambiò il suo nome (Lucio Domizio Enobarbo) in Nerone Claudio Cesare dopo essere stato adottato dall'imperatore Claudio, che sua madre aveva sposato in seconde nozze. Nel 53 sposò la figlia di Claudio, Ottavia. Alla morte di Claudio, nel 54, i pretoriani, guidati dal prefetto del pretorio Sesto Afranio Burro (fedele ad Agrippina) lo proclamarono imperatore. Sotto la guida di Burro e del filosofo Seneca, suo tutore, Nerone si mostrò inizialmente deferente nei confronti del senato, la cui autorità era notevolmente diminuita durante i regni degli ultimi imperatori.
Entrato in contrasto con la madre, che si opponeva alla sua relazione con Poppea Sabina e intendeva esercitare sempre maggiore influenza, Nerone fece uccidere Britannico, figlio di Claudio e di Messalina, considerato un possibile pretendente al trono e allontanò la madre da Roma, facendola uccidere nel 59. Con la morte di Burro e il ritiro di Seneca dalla vita pubblica, Nerone modificò radicalmente la propria politica: divenuto ostile al senato, iniziò a favorire i ceti popolari e militari e a esercitare un potere sempre più dispotico. Quando, nel luglio del 64, Roma fu distrutta da un incendio, l'imperatore ne fu ritenuto responsabile e cercò invano di incolpare dell'incendio i cristiani. In seguito, fece costruire per sé la nuova residenza imperiale (la domus aurea).
Il contrasto con il senato si acuì in seguito alla riforma monetaria introdotta da Nerone (59-60), secondo cui veniva privilegiato il denarius (la moneta d'argento di cui si serviva soprattutto la plebe urbana) all'aureus (moneta dei ceti più agiati). Nel 65 Caio Calpurnio Pisone ordì una congiura ai danni di Nerone, che tuttavia la represse e fece uccidere tra gli altri Seneca e il poeta Lucano, accusati di aver preso parte alla cospirazione. Nel 66-67 Nerone si recò in Grecia, alla quale rese la libertà, rendendo più difficili i rapporti con le altre province dell'impero. Nel 68 le legioni stanziate in Gallia e in Spagna, guidate rispettivamente da Vindice e da Galba, si ribellarono all'imperatore, costringendolo a fuggire da Roma. Dichiarato nemico pubblico dal senato, Nerone si suicidò.Nerone fu molto noto anche a Napoli nel cui teatro ubicato nei pressi dell’acropoli cittadina (sita tra le attuali strade di Spaccanapoli, san Gregorio Armeno e piazza san Gaetano) si esibì numerose volte cantando sue composizioni ed accompagnando il canto con la cetra. Personaggio discusso e non ancòra compreso a fondo dagli addetti ai lavori che tuttora ne studiano la complessa personalità non riuscendo a dare un giudizio univoco finale, fu ed ancòra è nell’immaginario comune emblema del male e della crudele perfidia.
13- PE TTRE CCALLE 'E SALE, SE PERDE 'A MENESTA.
Letteralmente: per pochi soldi di sale si perde la minestra. La locuzione la si usa quando si voglia commentare la sventatezza di qualcuno che per non aver voluto usare una piccola diligenza nel condurre a termine un'operazione, à prodotto danni incalcolabili, tali da nuocere alla stessa conclusione dell'operazione. Il treccalle era una piccolissima moneta divisionale ( la piú piccola era il callo contrazione di cavallo che era effigiato sul dritto della moneta) napoletana pari a stento al mezzo tornese ed aveva un limitatissimo potere d'acquisto, per cui era da stupidi rischiare di rovinare un'intera minestra per lesinare sull'impiego di tre calli per acquistare il necessario sale.
sale= sale, nel linguaggio corrente, il cloruro di sodio, presente in natura come salgemma o disciolto nelle acque del mare, e usato spec. per dar sapore ai cibi o conservarli letimo è dal lat. sale(m);
perde= perde voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.)dell’infinito pèrdere= non avere piú, restare privo di una persona con cui si aveva consuetudine, o di qualcosa che si possedeva, si usava, di cui si aveva facoltà; non trovare più, smarrire, mandare a male con etimo dal latino pèrdere, comp. di per 'al di là, oltre' e dare 'dare';
menèsta = minestra genericamente ogni primo piatto, caratteristico della cucina italiana, a base di pasta o riso cotti in brodo o in acqua con legumi e verdure; piú particolarmente in napoletano la voce menèsta indica una portata di verdure lessate in brodo di carne, spesso addizionate (e si à la c.d. menesta mmaretata) di carni lesse bovine e suine e talvolta di pollame; l’etimo di menèsta è l’acc. lat. minestra(m) deverbale del lat. ministrare nel sign. di 'servire a mensa', deriv. di minister 'servo, servitore'con successivi metaplasmi popolari di apertura delle i→e e sincope della liquida r come alibi maesta ← magistra etc.
14 - S'È AUNITO 'O STRUMMOLO A TIRITEPPETE E 'A FUNICELLA CORTA.
Letteralmente: si è unita la trottolina scentrata e lo spago corto. Id est: ànno concorso due fattori altamente negativi per il raggiungimento di uno scopo prefisso, come nel caso in epigrafe la trottolina di legno non esattamente bilanciata e lo spago troppo corto e perciò inadatto a poterle imprimere il classico movimento rotatorio.
s’è aunito = si è unito voce verbale rifless. (3° pers. sing. del pass. pross.) dell’infinito aunir(se)= unirsi, congiungersi con etimo dal basso lat. ad +unire, deriv. di u¯nus 'uno': ad unu(m) ire;
strummolo = conica trottolina lignea azionata attraverso lo srotolamento con movimento secco e rapido di una cordicella arrotolata strettamente seguendo le scanalature parallele tracciate lungo la parete della trottolina che à una punta metallica infissa al vertice del cono; è un giuoco un tempo largamente diffuso, con varî nomi tra tutti i ragazzi della penisola; ed a Napoli fu detto strummolo con derivazione dal greco strombos che diede il latino strumbus→strummus→strummolo;
tiriteppe e talvolta tiriteppole intraducibile in quanto voce onomatopeica usata per indicare che la trottolina di fabbricazione non bilanciata e che abbia la punta scentrata , una volta le sia stato impresso il moto rotatorio, non prilla a dovere, ma ballonzola malamente, producendo un tipico rumore scorretto, toccando terra non con la punta, ma con le pareti laterali, fino a che – perduta la forza rotatoria – non crolli in terra e si fermi troppo presto dimostrando che la trottolina è ‘nu strummolo scacato (trottola senza forza e/o capacità) destinato a soccombere in ogni contesa ludica fino a subire l’estremo affronto d’essere scugnato (sbreccato se non spaccato da un colpo inferto con la punta acuminata dello strummolo vincitore…)
scugnato= sbreccato,spaccato part. pass. masch. dell’infinito scugnà= sbreccare, spaccare, percuotere, ma altrove anche dissodare, trebbiare, battere il grano con etimo dal lat. volg. *excuneare derivato di cuneus;
funicella= cordicella sost. femm. diminutivo (vedi suff. cella) di fune= corda, insieme di più fili di canapa, d'acciaio o di altro materiale ritorti e intrecciati fra di loro; fune, cavo con etimo dal lat. fune(m);
corta= corta, di poca lunghezza o di lunghezza inferiore al normale; agg. femm. (il maschile è curto) con etimo dal lat. curtu(m) /curta(m)'accorciato/a, troncato/a'; anche l’italiano antico ebbe curto in luogo di corto.
15 - LL'AUCIELLE S'APPARONO 'NCIELO E 'E CHIÀVECHE 'NTERRA.
Letteralmente: gli uccelli si accoppiano in cielo e gli uomini spregevoli in terra. È la trasposizione in chiave rappresentativa del latino: similis cum similibus, con l'aggravante della spregevolezza degli individui che fanno comunione sulla terra. Il termine: chiàveche è un aggettivo sostantivato, formato volgendo al maschile plurale il termine originario femm. sing. : chiàveca che è la cloaca, la fogna, da un acc. tardo lat. clavica(m) normale il passaggio di cl>chi come ad es. in clavus=chiuovo, chiodo- clarum=chiaro etc.; tenendo ciò presente si può capire quale valenza morale abbiano, per i napoletani, gli uomini detti chiàveche quasi via di trasporto di escrementi; linguisticamente rammenterò che il plurale femm. di chiàveca si distingue da quello maschile perché, pur essendo anch’esso come il maschile chiàveche, se preceduto da vocale a,o,e oppure dall’art. ‘e (le) va scritto con la geminazione iniziale ‘e cchiàveche mentre il maschile ‘e(i) chiàveche non comporta la geminazione;
aucielle= uccelli sost. masch. plurale di auciello=uccello derivato di un tardo latino aucellus doppio diminutivo di avis attraverso avicula>avicellus>aucellus con la v letta u, e successiva sincope della prima i e dittongazione popolare (e>ie) della vocale implicata (seguita da due consonanti)
‘nterra = in terra, sulla terra; ‘nterra= in(illativo)+terra (dal lat. terra(m).
16 - 'E CIUCCE S'APPICCECANO E 'E VARRILE SE SCASSANO.
Letteralmente: Gli asini litigano e i barili si rompono. Id est: i comandanti litigano e le conseguenze le sopportano i soldati. Così va il mondo: la peggio l'ànno sempre i piú deboli, anche quando non sono direttamente responsabili d'alcunché. La cultura popolare napoletana ha tradotto icasticamente il verso oraziano: quidquid delirant reges, plectuntur Achivi (Qualsiasi delirio dei re, lo piangano gli Achei...).
ciucce = asini, ciuchi sost. masch. plurale di ciuccio= asino, ciuco e figuratamente persona ignorante, ragazzo che non riesce negli studi; qui maliziosamente riferito ai capi, ai comandanti; per la voce ciuccio etimologicamente qualcuno sbrigativamente parla di un lemma espressivo, ma preferisco aderire all’idea di chi, forse piú acconciamente , pensa occorre riferirsi al lat. cillus sulla scia del greco kíllos= asino; il probabile tragitto seguìto è: cillus→ciccus→ciucco→ciuccio ,ma reputo che sia piú probabile per ciuccio una derivazione dalla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare.
appicecano= litigano voce verbale (3°pers. plur. ind. pres.) dell’infinito appiccecà= litigare, contrastarsi, venire alle mani intensivo di appiccià con etimo dal basso lat. adpiceare denominale di ad+piceus (riguardante la pece): chi litiga e viene alle mani si appiccica quasi all’avversario;
varrile= barili sost. masch. plur. di varrilo = recipiente simile a una piccola botte, fatto di doghe di legno tenute assieme da cerchi di ferro, impiegato per la conservazione di liquidi o altri prodotti | essere ‘nu varrilo, (fig.) essere molto grasso. con etimo dal basso latino barillus, ma attraverso il port., spagn, prov. barril con la tipica alternanza partenopea b/v come bocca/vocca, barca/varca etc. il basso latino barillus si forgiò su di una radice bhar=portare la medesima dello spagnolo barrica e franc. barrique= botte ed ancòra dello spagnolo barral= fiasco;
se scassano= si rompono, si infrangono voce verb. rifl. (3° pers. plur. ind. pres.) dell’infinito scassare/arse/ scassà= romper(si), infrangere con etimo da un tardo latino s (intensiva)+ quassare frequentativo di quatere; ricorderò che in napoletano esiste una seconda voce scassà con etimo e significato diverso; questa seconda voce verbale sta per raschiare, cancellare e deriva da un tardo latino s (intensiva)+ cassare denominale di cassus=vano, vuoto.
17-FÀ SCENNERE 'NA COSA DÊ CCOGLIE 'ABRAMO.
Letteralmente: far discendere una cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida locuzione partenopea che a Napoli si usa a sapido commento delle azioni di chi si faccia eccessivamente pregare prima di concedere al petente un quid ( sia esso un'opera o una cosa) lasciando intendere che il quid richiesto sia di difficile o faticoso ottenimento accreditandone quasi la augusta provenienza.
fà scennere = far discendere voci verbali degli infiniti fà di fare forma sincopata del latino fa(ce)re l’infinito troncato fa è scritto fà preferito all’apocopato fa’ per evitare una possibile confusione con il fa’= fai 2° pers. sing. dell’imperativo dello stesso fare/fa; scénnere= scendere discendere, portar giú derivato dal latino (de)scendere, comp. di dí- 'de-' e scandere 'salire'; nella voce napoletana si è verificata la consueta assimilazione progressiva nd→nn;
cosa= cosa, termine generico usato per indicare qualsiasi entità, concreta o astratta, che sia oggetto dell'attenzione di chi parla o di chi scrive e che riceve... sost. femm. derivato dal basso lat. causa(m)=cagione che produsse *cosa(m) ed il verbo *cosare usato in luogo di causare;
dê = dalle preposizione art.qui f.le, alibi anche m.le formata come da mia proposta originaria dall’agglutinazione funzionale di da→d + alle che in napoletano è resa con ê [crasi della preposizione a + l’art. pl. m.le e f.le ‘e];
coglie= testicoli sostantivo femm. plur. del sing. coglia che dal neutro latino coleum (pl. colea inteso poi femm.) indicò (cosí come i greci koleòs e koleòn donde il latino coleum,) una borsa, un fodero e segnatamente quella dei testicoli, che finirono per assumere il nome della borsa che li conteneva
18 -FÀ TRE FFICHE NOVE RÒTELE
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli.
Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare il comportamento o - meglio - il vaniloquio di chi esagera e si ammanta di meriti che non possiede, né può possedere.
Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle due sicilie corrispondente in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario, 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, ancora oggi è in uso a Malta, che prima di divenire colonia inglese apparteneva al Regno delle Due Sicilie.
Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba rate/ ratl,trasformazione a sua volta della parola greca litra, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la litra divenne poi in epoca romana libra (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
tre agg. num. card. invar. numero naturale corrispondente a due unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 3, in quella romana da III: l’etimo è dal latino tre(s);
fiche sost. femm. plurale di fica che è il frutto del fico, frutto che invece in italiano è maschile: fico, come la pianta da cui deriva; l’etimo di fica (che in napoletano vale (alla medesima stregua della voce nordica figa) anche vulva, vagina con riferimento alla boccuccia, fenditura rosseggiante presente sulla base del frutto) è dal maschile latino ficus reso femminile; ficus è da collegarsi al greco phýo= produco a sua volta dall’ebraico phag il tutto a cagione della fecondità della pianta; il significato osceno è già presente nel greco sûkon che indica sia il frutto che la vulva;
nove agg. num. card. numero naturale corrispondente a otto unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 9, in quella romana da IX con etimo dal latino nove(m);
ròtele sost. masch. plurale metafonetico di ruotolo= rotolo di cui ò già detto.
19 - FÀ FETECCHIA:
I l termine in epigrafe ha un variegato ventaglio di significati nella lingua napoletana, ma tutti riconducibili al primario significato di vescia, scorreggia non rumorosa, scoppio silenzioso simile a quello del fungo che, giunto a maturazione , esplode silenziosamente emettendo le spore; col termine fetecchia , restando nell’ambito della silenziosità,viene indicato altresí lo scoppio non riuscito di un fuoco d’artificio, e piú in generale un qualsiasi fallimento o fiasco di un’operazione non giunta a buon fine.
Per ciò che attiene l’etimologia, tutti concordemente la fanno risalire al latino foetere nel suo significato di puzzare – tenendo prersente il primario significato di fetecchia, ma anche negli altri significati c’è una sorta di non olezzo che pervade la parola.e la riconduce al foetere latino: la voce esatta latina deverbale di foetere, che à dato fetecchia è un acc. lat. volgare feticula(m) per il class. foeticula(m).
20 – FETTIARE O FITTIARE
I verbi in epigrafe(per l’esattezza, però si tratta di un solo verbo, scritto con due grafie leggermente diverse) sono caduti completamente in disuso tanto da non esser riportati da alcun dizionario, ma fino agli anni ’60 dello scorso secolo ebbero un loro uso continuato soprattutto fra i giovani napoletani.
Essi verbi servirono ad identificare un’azione ben precisa: quella di sogguardare insistentemente una persona o anche solo un quid, in maniera però concupiscente fino a determinare fastidio nella persona guardata; in particolare i giovanotti che si fossero messi sulle piste di un’avvenente ragazza insistentemente se la fettiavano
fino a che la ragazza infastidita, o non cedeva alle non dichiarate, ma chiaramente sottintese, avances o non chiamasse a propria difesa un fratello, un cugino, un fidato amico che convinceva con le buone o le tristi il disturbatore esortato a fettiare altrove.Il verbo veniva usato anche nei riguardi di cose desiderate, ma – per mancanza di soldi – mai conquistate,; a mo’ d’es. dirò che in quegli anni se fettiavano un abito, un paio di scarpe, una cravatta, o anche l’intera vetrina di una pasticceria o trattoria.
Finita l’epoca della ritrosia delle donne, avendo raggiunta un po’ tutti una certa disponibilità economica e diventate, le ragazze, prede di facile caccia, è venuta meno la necessità di fettiare e con l’azione son caduti in disuso e nel dimenticatoio i verbi che la rappresentavano.
E passiamo all’etimologia; tenendo presente che in napoletano conserva anche il vocabolo fettíglie con il significato di noie, molestie e consimili, penso che sia per il sostantivo che per i due verbi in epigrafe si possa risalire al latino figere (colpire di lontano).giacché, specie per i due verbi la molestia si traduce solo nell’insistente sogguardare di lontano, non seguito da altre piú prossime azioni, un infastidire di lontano.
21- CHELLO CA NUN SE FA NUN SE SAPE O NUN S’APPURA
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama o pure le vivaci chiacchiere della gente diffondono le notizie e le propagano , per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo e solo il non fatto (sempre che non ci si trovi in presenza di malevole calunnie) non viene propalato e non si viene a sapere, né (appurato) cioè verificato;
chello = quello, ciò che pron. dimostrativo neutro che indica cosa lontana da chi parla e da chi ascolta, o cosa non presente della quale si sta parlando; l’etimo è dal lat. volg. *(ec)cu(m) illu(d), propr. 'ecco quello; il maschile di detto pronome è chillo dal lat. volg. *(ec)cu(m) illu(m),mentre il femm. chella è dal lat. volg. *(ec)cu(m) illa(m),
sape = sa voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito sapere/sapé = sapere,venire a conoscenza, apprendere con etimo dal lat. volg. *sapíre, per il class. sapere 'aver sapore', poi 'essere saggio',
appura=, viene a conoscenza, si sincera voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito appurà=sapere,venire a conoscenza,sincerarsi, ricercare la verità di una cosa, controllarne l'esattezza; mettere in chiaro (e nel linguaggio tecnico: quadrare i conti) l’etimo è dallo spagnolo apurar= depurare→verificare.
22-'O PESCE GRUOSSO, MAGNA Ô PICCERILLO.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella se combattuta apertamente da un piccolo contro un grande.
pesce = pesce, animale vertebrato acquatico di varia grandezza, per lo più fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne per nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo, usato nel proverbio a figurare l’individuo potente(gruosso) opposto al soggetto debole o di scarsa valenza economica- sociale (piccerillo) l’etimo è dal lat. pisce(m);
gruosso= grosso, che/chi à dimensioni notevoli (per volume, capacità, spessore, corporatura, estensione ecc.): ed estensivamente ricco, facoltoso, potente, importante agg. qual. masch. con etimo dal lat. tardo grossu(m) con normale dittongazione uo←o di sillaba intesa breve nel masch. e nel neutro (che peraltro, preceduto dall’art. ‘o prevede la geminazione della gutturale d’avvio: ‘o ggruosso=ciò che è grosso;) nel femm. grossa la dittongazione non avviene ;
magna = mangia voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito magnà= mangiare, divorare anche in senso traslato, con etimo da una lettura metatetica del franc. manger da un lat. manducare;
a margine faccio notare come il successivo complemento oggetto del verbo a margine non sia introdotto dal semplice articolo determinativo ‘o (il) come càpita nella lingua italiana, ma è introdotto dalla prep. articolata ô = a+ ‘o(allo) in quanto la parlata napoletana, sulla scorta di un antico latino volgare parlato esige per i complementi oggetti (persone o esseri animati, ma non cose; es. aggiu visto a pàteto ( ò visto tuo padre), aggiu chiammato ô cane(ò chiamato il cane, ma aggiu pigliato ‘o bicchiere(ò preso il bicchiere) una a segnacaso che unita all’articolo di pertinenza del complemento oggetto determina una preposizione articolata ô = a+ ‘o(al, allo),â(= a + ‘a= alla ) ê (a +’e = a gli – alle);
piccerillo = piccolino, piccino, minuto, spec. per età, statura, dimensioni e per estensione debole, di scarsa valenza socio-economica; l’etimo della voce napoletana a margine è da un lemma fonosimbolico pikk (il medesimo che à dato piccino) con ampliamento della base attraverso un suffisso rillo ( o riéllo femm. rella – altrove reniéllo –femm. renèlla) che indica pochezza, parvità: es.: cusariéllo – cusarèlla (cosino,cosetta) panariello/panareniéllo (panierino) – picceréniello, piccerenèlla(piccino/a);
23 - 'O PUORCO SE 'NGRASSA PE NE FÁ SACICCE.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che , dalla disincantata osservazione della realtà, si deduce che nessuno fa del bene disinteressatamente; anzi chiunque faccia del bene ad un altro, in realtà mira certamente al proprio tornaconto che da tale azione apparentemente benefica gliene deriverà o potrà derivare prima o poi , come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci mangiare ingrassando al fine di togliergli la fame facendogli cosí del bene; infatti in realtà e fuor di vane illusioni, il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce (che sono emblematiche di tutti gli insaccati ed affini che dalla macellazione del maiale si posson ricavare)
puorco sost. masch. = maiale, porco , animale da ingrasso carne di maiale: salsicce di porco , figuratamente persona che fa o dice cose oscene; con funzione di agg. in imprecazioni o bestemmie, o anche come rafforzativo di tono pop. o volg,con etimo dal lat. porcu(m) con tipica dittongazione popolare nel masch. uo←o dittongazione che manca nel femm.: si à infatti puorco masch. ma porca femm.
‘ngrassa =ingrassa voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ‘ngrassà= ingrassare, impinguire, allevare all’ingrasso con etimo denominale da un lat.tardo in (illativo) + grassu(m), da crassus 'grasso', per incrocio con grossus 'grosso';
sacicce = salsicce sost. femm. plur. di saciccia, salciccia plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne di maiale; ; etimologicamente derivante da un tardo lat. salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare;
24 –TE PIENZE CA VACO METTENNO 'A FUNA 'E NOTTE?
Letteralmente: Pensi forse che io vada tendendo la fune di notte? Domanda retorica rivolta sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, per significar loro che si è impossibilitati ad aderire alle loro esose richieste in quanto persone oneste non aduse ad andar tendendo funi di notte; la medesima espressione interrogativa la si usa anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati – tende a significar loro che chi parla non si può certamente equiparare a quei masnadieri d’antan che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri. Va da sé che solo quei masnadieri potevano essere in possesso di tanto denaro, latronescamente fruito, con il quale far fronte alle esose richieste di bottegai, salariati e/o figlioli incontentabili.
te pienze = pensi tu? voce verbale (2° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito penzà= pensare, opinare, supporre etc.con etimo dal tardo lat. pensare, intensivo di pendere 'pesare'; propr. 'pesare con precisione', poi 'ponderare, esaminare'normale in napoletano il passaggio di ns→nz;
vaco mettenno vado mettendo, mi occupo di mettere, porre locuzione verbale formata da vaco=vado (1° pers. sing. ind. presente) dell’infinito jí= andare con etimo dal latino ire; le forme(i’ vaco, tu vaje, isso va) che ànno come tema vac= vad sono derivate dal lat volgare vadere 'andare'come quelle italiane(vado,vai,va); mettenno= mettendo voce verbale (gerundio) dell’infinito mettere= mettere, porre, situare etc.
con etimo dallat. mittere'mandare' e 'porre, mettere';
funa= fune, corda, cavo sost. femm. dal lat. volg. *funa(m) per il class. fune(m);
‘e notte= di notte loc. avv. temporale dove ‘e= di sta per durante e notte è il sostantivo femminile indicante la parte del giorno solare, dal tramonto all'alba, in cui il sole rimane sotto l'orizzonte; l’etimo è dal lat. nocte(m) con assimilazione regressiva ct→tt.
25 - PUOZZE PASSÀ P''A LOGGIA.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È un malevolo augurio che vale : Possa tu morire. Infatti per la zona della Loggia di Genova, , temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro antico e diretti al Camposanto, per cui augurare a qualcuno di passar per la Loggia di Genova (e non certo al sèguito d’un corteo funebre) equivaleva ad augurargli di decedere diventando il protagonista di quel transito per la Loggia di Genova;
puozze= possa tu voce verbale (2ª pers. sg. congiunt. pres. con valore ottativo) dell’infinito puté= potere derivato dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -entis;
passà= passare, transitare voce verbale infinito passare/passà con etimo dal lat. volg. *passare, deriv. di passus 'passo';
loggia = loggia di per sé edificio o parte di edificio aperti su uno o più lati, con copertura sorretta da pilastri o colonne, ma anche, nel medioevo, tale edificio o piú edifici attigui come luogo di riunione di persone che esercitavano la stessa arte(loggia dei lanaioli) o appartenenti alla medesima consorteria (loggia massonica) o – ed è il nostro caso – appartenenti ad una stessa città di provenienza, nel nostro caso Genova, che in un determinato territorio della città,(loggia) per solito concesso in fitto, tenevano i loro traffici e commerci autoamministrandosi;attualmente la Loggia di Genova, ubicata un tempo a Napoli tra il c.d. Rettifilo e quello che poi sarebbe diventato il Borgo degli Orefici, non esiste piú ed il suo nome resiste solo oltre che nel detto in epigrafe, sulla tabella viaria di una stradina aperta dove un tempo vi fu la Loggia ‘e Genova;
loggia sost. femm. talvolta a Napoli, impropriamente sinonimo di terrazzo (la loggia napoletana come elemento architettonico in realtà è sempre scoperta,ubicata alla sommità del fabbricato, quasi mai con calpestio piastrellato ed è circondata su tre lati da un parapetto in muratura, mentre il terrazzo con impiantito calpestabile e piastrellato può essere anche coperto, sporgere da qualsiasi piano d’un fabbricato ed à una ringhiera in ferro non un parapetto in muratura) loggia etimologicamente è dal fr. loge, che è dal lat. tardo laubia(m), e questo dal francone *laubja 'pergola, chiosco';
Genova è la città marinara capoluogo della regione Liguria; un tempo fu una della quattro Repubbliche marinare d’Italia (Venezia, Pisa,Amalfi, Genova) ed ebbe notevoli rapporti d’affari con Napoli, dove un congruo numero di mercanti si stabilirono automministrandosi ed aprendo botteghe per i loro traffici e commerci, bettole e locande per avventori genovesi e/o napoletani, in un ben delimitato territorio (la Loggia di Genova) concesso (1503 circa) in fitto dal vicereame napoletano;
26 - CORE CUNTENTO Â LOGGIA.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo partenopeo suole apostrofare ogni persona che faccia le viste d’esser perennemente spensierata e senza problemi propensa com’è , anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che, come ò detto, era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, territorio dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi; il medesimo appellativo se lo meritò uno scrittore nolano tale Michele Somma che pubblicò agli inizi del 1800 una raccolta amena e faceta di cento racconti; lo scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli Orefici, nei pressi appunto della Loggia de’ Genovesi dove stazionava la colonia degli abitanti di Genova, residenti in Napoli, e dove fu ideata da certi cuochi che vi aprivano osteria la cosiddetta genovese gustosissima salsa a base di cipolle e carne di manzo,salsa che doveva sostituire (nell’inteso degli ideatori) il ragú, salsa a base di carne di manzo e pomodoro (ortaggio che da taluno non venne súbito accettato come commestibile, ma solo come pianta ornamentale; la genovese non riuscí comunque a soppiantare il ragú e si dovette contentare d’affiancarlo, diventandola seconda salsa tradizionale della cucina partenopea; la cosa strana è che sebbene la genovese sia stata ideata da cuochi genovesi non amanti del pomodoro (ritenuto a torto poco commestibile in quanto velenoso!) a Genova la salsa è completamente sconosciuta e non è riuscita neppure ad affiancare il famosissimo pesto alla genovese. Ora qui di sèguito, a beneficio di chi volesse, segnalo la tradizionale ricetta della napoletana genovese.
Dosi per 6 persone
2 Kg di cipolle dorate
1 Kg di Spezzato di manzo adulto (preferibilmente ricavato dalla pancia o dalla corazza)
o in alternativa 1 kg. di fette
di locena (soggolo) di manzo o maiale da cui ricavare involti (brasciole) imbottiti di uva passita, pinoli,cubetti di pecorino,uovo battuto, prezzemolo tritato, sale, pepe nero e legati con spago da cucina
una carota
una costa di sedano
due bicchieri vino bianco secco
un bicchiere e mezzo di olio extravergine di oliva
Un pomodoro pelato (facoltativo)
sale fino e pepe nero macinato q.s.
600 gr. di rigatoni
1 etto di pecorino possibilmente laticauda grattugiato
Procedimento
Affettate a velo le cipolle, (piangerete per un po’, ma pazienza; dopo ne sarete contenti! ), mettétele in una pentola con la carne, l’olio, la carota e il sedano tagliati a cubetti, eventualmente il pomodoro spezzettato; coprite, e fate cuocere per un’oretta a fuoco vivace – le cipolle dovranno diventare trasparenti e dovrà evaporare tutto il liquido; solo quando la cipolle saranno abbastanza asciutte versate il primo bicchiere di vino bianco, questa volta a fuoco bassissimo, e fate cuocere per circa altri 40 minuti.
Versare l’altro bicchiere di vino, il sale e il pepe, e ripetere l’operazione precedente, tenendo il sugo a fuoco vivace per altri 50 minuti: (complessivamente il sugo dovrà stare al fuoco per un’ora e mezza!) facendo ben attenzione a non far attaccare il sugo alla pentola! se il sugo dovesse asciugarsi troppo, basterà aggiungere piccole ramaiolate di acqua bollente, correggendo eventualmente di sale.
Con questo sugo condite i rigatoni lessati al dente e mandateli in tavola spolverizzati di formaggio grattugiato e di abbondante pepe nero.
La carne la servirete come pietanza accompagnata da un’insalata verde o patate fritte.
Raffaele Bracale