mercoledì 30 settembre 2015

VARIE 15/705

1 -NNACCHENNELLO/A & NNACCHERO I vocaboli in epigrafe sono oggi fra i napoletani piú giovani quasi sconosciuti, mentre persistono (almeno il primo) nella memoria e nell’uso di quelli piú avanti negli anni. Con tale vocabolo si indica il lezioso, lo svenevole, lo eccessivamente complimentoso, il vagheggino, il manierato cicisbeo; è chiaro che in un’epoca come la nostra che à statuito la parità dei sessi sarebbe impensabile un uomo che si comportasse verso il gentil sesso in maniera tale da esser paragonato a quei settecenteschi cavalier serventi che solevano portare lunghe capigliature spartite sulle fronte e tirate sul volto a coprire un occhio, mentre con l’altro, attraverso un occhialetto,spesso colorato, sogguardavano le dame ; tale postura faceva pensare che i suddetti cavalieri non avessero che un occhio;in francese la cosa suonava: il n’à q’un oeil che letto rapidamente diveniva il n’à che n’el da cui i napoletani trassero nnacchennello voce che i giovanotti degli anni intorno al 1960 accorciarono quasi gergalmente in nnacchero, mantenendo il significato di vagheggino, manierato cicisbeo,bellimbusto, stravagante. Difficilissimo trovare riscontri etimologici nei lessici dei maggiori linguisti partenopei: quasi tutti non registrano i due vocaboli in epigrafe o se lo fanno evitano di azzardare un’idea etimologica trincerandosi dietro un pilatesco etimo incerto o sconosciuto; fa eccezione l’amico avv. Renato de Falco che registra nnacchennello, ma non nnaccaro, e propone una strada etimologica che non è quella che ò percorso poc’ anzi e di cui dico in coda; ugualmente fa eccezione il defunto prof. Francesco D’Ascoli che ugualmente registrò nnacchennello, ma non nnaccaro, e propose però una strada etimologica che reputo impercorribile atteso che egli intese far derivare il napoletano nnacchennello da un italiano naccherino s. m. ( voce ant.) 1 dim. di nacchera 2 sonatore di nacchere 3 (tosc.) bambino vispo e grazioso. Ora a parte il fatto che aborro l’idea che il napoletano possa essere tributario dell’italiano (sia pure per un qualche singolo, sperduto vocabolo, nella fattispecie ognuno vede che se pure con un grosso sforzo mentale, semanticamente si può tentare di mettere in collegamento un bambino vispo e grazioso,con manierato, giovane bellimbusto, ben difficilmente (se si eccettuano le due sillabe iniziali) si può trovare un legame morfologico tra naccherino e nnacchennello. Di naccaro poi nessuno dei vocabolaristi partenopei parla ed io comunque li giustifico tutti trattandosi, come ò detto, di una voce quasi gergale coniata ( per dileggio nei confronti di qualche giovanotto un po’ troppo educato e gentile sino ad apparire effeminato) nella seconda metà del 1900 in àmbito giovanile, adattando per accorciamento la preesistente, nota voce nnacchennello. Faccio notare che partendo dal francese n’à q’un oeil che letto rapidamente diveniva il n’à che n’el i napoletani trassero nnacchennello con geminazioni espressive della nasale iniziale e della liquida finale e consueta paragoge di una semimuta finale (qui o) atteso che i napoletani non amano le parole che terminino per consonante (cfr. alibi tramme←tram, bisse←bis, barre←bar,gasse←gas, autobbusso←autobus etc. ); unica eccezione la negazione nun . Ricordo infine, per tornare a nnaccaro, che in napoletano esiste la voce nacca che con etimo dal greco volg. nàkion vale gambo di pianta, germoglio e anche gamba umana, anca e si potrebbe esser colti dalla tentazione di pensare, per l’etimo di nnaccaro, ad una avvenuta agglutinazione tra nacca ed un suffisso di pertinenza aro/aio, ma non vedo come si possa mettere in collegamento un gambo di pianta,un germoglio o anche una gamba umana,un’anca con il solito manierato, giovane bellimbusto; non ci resta quindi che arrenderci alle ragioni del linguaggio gergale, prender per buona l’idea che naccaro non è che un accorciamento espressivo e di comodo di nnacchennello e fare punto qui. Rammento in coda a tutto quanto détto, che taluni, tra i quali l’amico Renato de Falco, ipotizzano che la derivazione della voce in esame sia da collegare a quegli elegantoni bellimbusti un po’ effeminati che erano soliti usare il monocolo ed a loro avviso dal monocolo al non avere che un occhio solo il passo sarebbe breve. Trovo però l’idea non perseguibile per una semplicissima considerazione(e mi merraviglio che l’amico Renato non v’abbia posto mente...) e cioè che il monocolo era usato, non per eleganza, ma per necessità da tutti quelli (e tra di essi anche Raffaele Viviani che, per certo, non era un elegantone bellimbusto ed un po’ effeminato)che fossero miopi da un solo occhio e non necessitavano perciò di un occhiale a due lenti. Rimango perciò fermo nel mio punto di vista e non mi accodo all’ipotesi dell’amico Renato de Falco. 2- FÀ ZITE E MMURTICIELLE E BATTISEME BUNARIELLE. Letteralmente: fare(partecipare a)matrimoni e funerali e battesimi abbastanza buoni.cioè:profittare di ogni occasione, anche le meno opportune per tentare di lucrar provvidenze quali che siano;in particolare l’espressione in epigrafe si sostanzia nel non mancare mai, anche se non espressamente invitati, a celebrazioni che comportino elargizioni di cibarie e libagioni, come accadeva temporibus illis quando la maggior parte delle cerimonie si svolgevano in casa, ed in primis il parroco o prete del rione non mancavano mai di rendersi presenti a battesimi o matrimoni, per presenziare alla tavolata che ne seguiva. La cosa valeva anche per i funerali (murticielle) giacché, dopo la sepoltura del defunto, i vicini erano soliti offrire ai parenti del defunto ed a coloro che avessero partecipato, a qualsiasi titolo, alla cerimonia funebre un pantagruelico pasto consolatorio ( detto cunzuòlo(cibo di conforto deverbale di cunzulà= consolare da un lat. volg. consolare per il class. consolari, comp. di cum 'con' e solari 'confortare' con il consueto ns→nz) spesso comportante, in luogo della vietatissima carne (inteso cibo grasso adatto alle festività e non ai giorni di lutto) gustose portate di pesce fresco ritenuto - in quanto cibo di magro - piú consono ai momenti di dolore; il pranzo elargito si disse cunzuòlo, mentre le portate di pesce fresco che venivano ammannite si dissero cuónzolo derivato della voce a margine con dittongazione nella sillaba d’avvio e cambio d’accento;ne derivò che in prosieguo di tempo una congrua portata di pesce fresco venne detta cuónzolo ‘e pesce anche quando tale pesce fresco non servisse alla bisogna di confortare i perenti di un defunto; ma di tale offerta consolatoria ovviamente profittavano non solo i parenti del defunto, ma anche chi avesse partecipato alla cerimonia funebre zite di suo è il plurale del sostantivo femm. zita forma colleterale di un antico cita= ragazza da marito; la voce a margine è passata poi ad indicare i matrimoni e segnatamente gli sponsali e/oi pranzi di nozze dal nome dei cosí detti maccarune ‘e zite o semplicemente zite (sost. neutro) un formato di pasta lunga e doppia usata un tempo, sontuosamente condita, nei pranzi di nozze; da notare il doppio genere della voce a margine che al plurale (se inteso femminile) va scritto con la geminazione iniziale (‘e zzite= le ragazze), se inteso maschile (‘e zite=sponsali) o neutro (‘e zite= i maccheroni) va scritto in maniera scempia; murticielle = morticini e dunque estensivamente, per una sorta di sineddoche, i funerali; la voce a margine è, attraverso un suffisso ciello/cielle un diminutivo plurale di muorto che è un part. pass. dell’infinito murí che è da un lat. volg. *morire, per il class. mori; nella voce a margine è caduto il dittongo mobile uo che à lasciato la sola u come càpita sempre nelle parole derivate (vedi ad es.: piede→pedone; suono→sonare e non suonare come invece erroneamente è invalso nell’uso generale scritto ed orale etc. ); battiseme battesimi plurale del sost. masch. battisemo derivante da un lat. eccl. baptismu(m), dal gr. baptismós, propr. 'immersione'; bunarielle abbastanza buoni; aggettivo diminutivo ( vedi il suff. riello/rielle) plurale maschile di buono (che è dal lat. bonu(m)) con la semplificazione del dittongo mobile uo→u che à lasciato la sola u come càpita sempre, anche nell’italiano nelle parole derivate(vedi ad es.: piede→pedone – cielo→celeste - suono→sonare etc.con la differenza che nel napoletano a cadere è la seconda vocale del dittongo, mentre in italiano, cade la prima ). 3- ZEFFUNNO E DINTORNI Eccoci a dire di una antica (cfr. i vocabolaristi Andreoli e P.P.Volpe) parola partenopea: zeffunno usatissima un tempo ed ancóra in uso, sia pure in una tipica espressione che poi illustrerò, nel parlato partenopeo, parola che se usata direttamente quale sost. masch. traduce le voci italiane: rovina, abisso, baratro e che invece se usata accompagnata ad un verbo, in funzione quasi modale, preceduta dalla preposizione a ( a zzeffunno ) acquista differenti significati o particolari sfumature degli originarî significati che qui di sèguito vedremo. Come ò detto, in primis la voce zeffunno (in origine usata come sinonimo di prufunno) valse le voci italiane: rovina, abisso, baratro ed etimologicamente risultò un deverbale del tardo latino *suffunnare (precipitare, subissare) per il class. sub-fundere , mentre la voce prufunno dal lat. profundu(m), comp. di pro- 'davanti' e fundus 'fondo'; propr. 'che à il fondo innanzi, più in là'(con chiusura della sillaba d’avvio ō→u e consueta assimilazione progressiva nd→nn) valse le voci italiane: orrido,precipizio e segnatamente usata al plurale (e con l’aggiunta dello specificativo ‘e casa (‘e) riavulo) l’inferno ( ‘e prufunne ‘e casa riavulo= l’inferno); di talché passata la voce prufunno/e ad indicare una cosa cosí brutta da incutere paura al solo nominarla (inferno) , si smise di usarla come sinonimo di zeffunno che sebbene avesse risvolti negativi, non raggiungeva mai quelli spaventosi relativi all’inferno! E passiamo all’uso… modale di a zzeffunno. - Mannà a zzeffunno= mandare in rovina, ridurre taluno in miseria; il verbo mannà= mandare così come l’italiano è dal lat. mandare 'affidare, ordinare', ricondotto a (in) man(um) dare 'dare in mano'; nella voce napoletana si noti la consueta assimilazione progressiva nd→nn. Come si evince dalla traduzione in italiano,nell’espressione a margine la voce zeffuno mantiene l’originario significato di rovina , ma acquista anche quello estensivo e totalizzante di miseria; all’incirca le medesime accezioni di zeffunno si ritrovano nell’espressione: -Jí a zzeffunno = andare in rovina, precipitare in miseria espressione usata a Napoli, solitamente per riferirsi a chi per i piú svariati motivi quasi sempre da addebitare a sue colpe, abbia dilapidato ingenti patrimonî quasi mai acquisiti con il lavoro e piú spesso ricevuti in eredità. Dell’ infinito del verbo jí = andare (derivato del lat. ire) ò già detto numerose volte per cui qui mi limito a sottolineare che graficamente esso va reso jí e non í o i’ (come pure erroneamente qualcuno fa…), in quanto esso infinito jí è il solo modo corretto di riprodurre in un unico comprensivo modo anche l’infinito ghí altra forma del verbo andare in napoletano, forma con rafforzamento consonantico che si ritrova ad es. nell’espressione a gghí a gghí = a tempo a tempo ed in talune voci della coniugazione dell’infinito jí come ghiammo per jammo – ghiate per jate – ghienno per jenno etc. - chiovere a zzeffunno = piovere a profusione, copiosamente in maniera esorbitante; in questo caso ( che è poi quasi l’unico nel quale oggi venga usata l’espressione a zzeffunno…) la voce zeffunno si riallaccia quasi al suo verbo d’origine *suffunnare= cadere in profondità o in abbondanza, per significare appunto che si tratta solamente di una pioggia estremamente copiosa, anche se non è errato sospettare che nell’espressione chiovere a zzeffunno non sia estranea l’idea che una pioggia tanto copiosa possa determinare problemi al manto stradale fino a procurare sprofondamenti e/o gravi dissesti del suolo. l’infinito chiovere= piovere è un derivato del tardo lat. Lat. pluvere, per il class. pluere con il tipico passaggio di pl a chi come è in chiú che è da plus o in chiazza da platea etc. In chiusura mi permetto un piccolo passo all’indietro per tornare al sostantivo di partenza e ricordare che cosí come affermò il Puoti a Napoli con la voce zeffunno si intese oltre che rovina, abisso, baratro etc. ( cfr. Galiani) anche grande quantità, enorme massa come fu nell’espressione Viato a isso, tène ‘nu zeffunno ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ) o nell’espressione: Tiene mente, so’ cadute ‘nu zeffunno ‘e prete! = (Guarda, è precipitata un’enorme massa di pietre!). Per amor di completezza dirò però che oggi la frase Viato a isso, tène ‘nu zeffunno ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ), si renderebbe con un piú moderno ed usato Viato a isso, tène ‘nu tummolo ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ), oppure con un Viato a isso, tène ‘nu cuofano ‘e denare!= (Beato lui, à una gran quantità di danaro! ) dove la voce tummolo estensivamente = gran quantità, ma letteralmente sta per tomolo : misura di capacità per gli aridi che era tipica dell'Italia meridionale; nel Napoletano equivaleva a 55,5 litri, in Sicilia a 27,5 litri l’etimo della voce tummolo è Dall'ar. thumn; propr. 'un ottavo', mentre il termine cuofano estensivamente = gran quantità, letteralmente sta per cofano: cassa munita di coperchio; forziere con etimo dal tardo lat. cophinu(m) 'cesta', dal gr. kóphinos con tipica dittongazione ŏ→uo nella sillaba tonica d’avvio ed apertura della sillaba atona fi→fa. 4- CAJOTELA, ZANDRAGLIA & VAJASSA zandraglia = donna volgare, sporca, incline alle chiassate, ai litigi ed al pettegolezzo;estensivamente poi la voce, cosí come riportato nell’antico dizionario del D’Ambra, valse anche femminaccia plebea, ciana, pettegola, baldracca in origine la voce zandraglia (etimologicamente dal francese les entrailles,)indicò le povere donne volgari e vocianti che si litigavano, alle porte delle cucine reali o del macello situato a Napoli presso un ponte posto alla foce del fiume Sebeto, ponte che in origine (1330 ca,epoca angioina) non ebbe un nome preciso e che poi fu detto ponte Licciardo o Guizzardo o Ricciardo ed infine fu semplicemente detto ponte della Maddalena intorno al 1747 allorché Carlo III ne ordinò il restauro per porre riparo ai gravi danneggiamenti sopportati dal ponte a sèguito dell’assedio (1528) delle truppe del gen. Lautrec; il nome di ponte della Maddalena con il quale è ricordata tutta la zona, gli derivò dal fatto che nei pressi di détto ponte sul Sebeto, quasi adiacente al macello summenzionato, fu eretta una piccola chiesa dedicata alla Maddalena; dicevo che quelle povere donne volgari e vocianti si litigavano le interiora e le ossa delle bestie macellate,(donde l’espressione partenopea: va’ fa ll’osse ô ponte= vai a raccattar le ossa al ponte, invito perentorio e malevolo rivolto a chi ci importuni con richieste fastidiose, affinché ci liberi della sua sgradevole presenza, spostandosi altrove!) interiora ed ossa distribuite gratuitamente;successivamente , in altra epoca (1750 ca) , con la medesima voce di zandraglie si indicarono le donne designate a ripulire dai resti umani i campi di battaglia e/o i luoghi di esecuzioni capitali (ed in tali occasioni queste donne malvissute si contendevano l’un l’altra le vesti e qualche effetto personale dei soldati o dei condannati); ora sia che si litigassero cibo, sia gli effetti personali, le zandraglie furono delle donne di infimo ordine e col tempo la voce zandraglia fu usata e nel linguaggio della città bassa è ancóra usata come ingiuriosa offesa rivolta appunto ad ogni donna d’estrazione plebea o intesa tale e dunque donna volgare, sporca, incline alle chiassate, ai litigi ed al pettegolezzo e talvolta (sulla bocca del popolo infimo, ma aduso ad un linguaggio colorito ed icastico) è usata ancóra nel vecchio senso di meretrice di sporca baldracca. cajotela/cajotula = donnicciuola pettegola adusa a andarsene in giro a raccogliere e propalare notizie,ma pure donna plebea, becera, sporca che emani cattivo odore e per ampliamento: donna lercia di facili costumi; semanticamente la seconda accezione si spiega con un supposto etimo da cajorda (che è ipotizzato dall’ebraico hajordah) = puzzola; ma piú che cajorda pare che la voce di partenza debba essere una sia pure non attestata *chiajorda con riferimento a donna abitante la Riviera di Chiaia un tempo strada adiacente il mare, molto sporca, covo di gente testarda e malfamata; tuttavia mi pare molto difficile, morfologicamente parlando, pervenire a cajotela/cajotula sia che si parta da caiorda che da chiaiorda. Ecco perché penso che sia preferibile l’ipotesi etimologica che collega le voci cajotela/cajotula al basso latino catula= cagna. In questo caso sarebbero salve sia la morfologia (da catula con consueta doppia epentesi vocalica : io→jo (epentesi tipica delle parlate meridionali), facilmente si giunge a cajotula)salvando altresí la semantica ( è infatti nell’indole della cagna priva di padrone, vagabondare latrando (cfr. spettegolando) e concedendosi ai randagi (cfr. donna di facili costumi). vajassa= serva, fantesca e per estensione semantica donna becera, ciana e poi meretrice; dall’arabo: baassa attraverso il francese bajasse da cui l’ italiano trasse bagascia= meretrice. Da rammentare che morfologicamente nel napoletano si à l’aternanza b/v o v/b ( cfr. barca→varca vocca←bocca etc.) come è normale l’epentesi d’ un suono eufonico transitorio (j) tra due vocali; la voce francese bajasse offrí bella e pronta l’epentesi occorrente nell’arabo baassa che rimane la voce di partenza. 5- VERRIZZO Con l’antica voce(peraltro nota ormai quasi solamente ai napoletani piú anziani, essendosi irrimediabilmente depauperato il lessico d’antan) verrizzo, che al plurale fa verrizze, nella parlata napoletana vengono indicati le bizze, i capricci stizzosi,le stravaganze, le voglie irrazionali ed estensivamente anche quelle lussuriose, libidinose; chi ne va soggetto è detto verruto/a, ma pure verrezzuso/osa. Annoto innanzi tutto che ‘e verrizze son quasi sempre riferiti nel loro significato primo di bizze, capricci,stranezze, voglie irrazionali o ai bambini o alle donne, nella presunzione che un uomo fatto, difficilmente possa lasciarsi prendere da bizze o capricci, di talché i termini verruto o verrezzuso, riferiti ad un uomo fatto, stanno o strebbero restrittivamente ad indicare un soggetto proclive alla lussuria o libidine, cosí come dal significato estensivo di verrizzo. Quanto all’etimologia del termine in epigrafe, la questione non è di poco conto; la maggior parte dei compilatori di lessici, che accolgono il termine se la sbrigano con l’annotazione pilatesca: etimo incerto. Qualche altro, lasciandosi però chiaramente trasportare dal significato estensivo della parola, propone una timida paretimologia, legando la parola verrizzo, al termine verro che è il porco non castrato, quello cioè atto alla riproduzione, nella pretesa idea che il verro sia portato, almeno nell’immaginario comune, a pratiche libidinose, ma questa piú che un’etimologia, m’appare una paretimologia e poco mi convince. A mio sommesso parere, penso che la parola in epigrafe possa tranquillamente derivare dall’unione del verbo latino velle rotacizzato in verre con il sostantivo izza agganciandosi semanticamente ad un comportamento originariamente iracondo, stizzoso e poi capriccioso, stravagante,strano; la voce izza è piú nota nella forma varia ed intensiva di bizza (ma sia izza che bizza ànno il medesimo significato e provengono dall’antico sassone hittja = ardore). Partendo da vell(e)+izza si può pervenire a vellizza e di qui a verrizzo con tipica alternanza della liquida L→R, successivo affievolimento della piena e tonica mutatasi nella evanescente e e maschilizzazione del termine passato da verrizza a verrizzo adattamento resosi necessario atteso che – pur trattandosi di un difetto (che comunque comportava una manifestazione d’ardore,non ipotizzabile di pertinenza del sesso femminile) era piú consono (in epoca di maschilismo) ritenerlo di genere maschile (suff. in o) piuttosto che femminile (suff. in a). Infine, a margine di tutto ciò che ò detto su verrizzo,voglio rammentare che esiste un altro antico vocabolo partenopeo, fortunatamente ancóra usato con cui si indica il capriccio, la bizza, la testarda impuntature, il reiterato insistere in richieste sciocche e pretestuose, quasi esclusivamente da parte dei bambini; il vocabolo è ‘nziria che estensivamente indica anche il prolungato, lamentoso pianto, apparentemente non supportato da cause facilmente riscontrabili o riconoscibili; tale lamentoso piagnucolare è, ovviamente, costume dei bambini e segnatamente degli infanti, ai quali – impossibilitati a rispondere – sarebbe vano o sciocco chieder ragione del loro pianto; spesso di tali piccoli bambini che, all’approssimarsi dell’ora del riposo notturno, comincino a piagnucolare lamentosamente se ne suole commentare l’atteggiamento con l’espressione:Lassa ‘o stà… è ‘nziria ‘e suonno… (lascialo stare, è bizza dovuta al sonno… per cui bisogna aver pazienza!). Rammento ancòra che un tempo accanto alla forma ‘nziria, vi furono anche, con medesimo significato:zírria, zirra ;per quanto riguarda l’etimologia del vocabolo ‘nziria (da cui gli aggettivi ‘nzeriuso/’nzeriosa che connotano i bambini/e che si abbandonano ai capricci ed alle bizze) scartata l’ipotesi che provenga da un in + ira: troppo distanti sono infatti l’idea di ira e di bizza, capriccio, non mi sento neppure di aderire a ciò che fu proposto dall’amico avv.to Renato De Falco nel suo Alfabeto napolitano e cioè che la parola ‘nziria potesse discender dal greco sun-eris = con dissidio stante quasi il contrasto che si viene a creare tra il bambino in preda alla ‘nziria e l’adulto che dovrebbe dar corso alle richieste, in quanto reputo l’eventuale contrasto solo un effetto della ‘nziria, non il suo sostrato; penso che sia molto piú probabile una discendenza dal latino insidia(s)→’nsidia→’nziria a sua volta da un in + sideo = sto sopra, mi fermo su, che semanticamente ben mi pare possa rappresentare l’impuntatura che è tipica di chi si abbandona alla ‘nziria. 6- VASCIO, BASSO E DINTORNI. Nella parlata napoletana esistono (vedi epigrafe) alcune voci che (e lo vedremo) pur derivando da un medesimo tardo latino ànno significati molto diversi tra di loro oltre che diversa funzione. Sto parlando innanzitutto della voce vascio che come aggettivo vale basso, poco elevato dal suolo o da un altro piano di riferimento; che si trova in posizione poco elevata (spesso correlato o contrapposto ad aveto (alto), di statura non elevata anche se in tale accezione in napoletano è piú usato curto=corto, ma vascio vale pure poco profondo, esiguo, modico ed in talune circostanze abietto, vile, umile, modesto; come sostantivo con il termine ‘o vascio si indica una modestissima abitazione monolocale , per solito insalubre, umida e senza luce posta a livello stradale abitata dal popolo minuto, quel medesimo monolocale che come vedemmo altrove fu detto anche funneco(fondaco); quanto all’etimo posso affermare (supportato in ciò dall’amico prof. Carlo Iandolo) che la derivazione è il tardo latino bassu(m) e non (come proposto dalla dr.ssa C. Marcato (in Cortelazzo/Marcato – Dizionario etimologico dei dialetti d’Italia) dal comparativo bassiu(m), atteso che sia in napoletano che in italiano la doppia ss seguita da vocale evolve da sola nel suono palatale sci (vedi ad es. examen→essamen→sciame o anche coxa→cossa→coscia) e dunque non occorre il gruppo ssiu di bassiu(m) per ottenere lo sci del napoletano scio di vascio; è sufficiente bassu(m) con il tipico passaggio di b a v come in barca→varca, bocca→vocca, borsa→vorza etc. rammentando che in napoletano, senza una precisa regola la b può diventare v o raddoppiare b→bb specialmente se intervocalica. Ciò detto rammenterò che la voce napoletana vascio , sia pure nella traduzione basso è pervenuta anche nella lingua nazionale sempre nel significato di modestissima abitazione monolocale , per solito insalubre, umida e senza luce posta a livello stradale abitata dal popolo minuto. Proseguiamo; in napoletano e sempre con derivazione dal tardo latino bassu(m) esiste l’avv. abbascio= abbasso, in giú, di sotto, in basso; morfologicamente si è pervenuti ad abbascio partendo da bassu(m) attraverso la locuzione a basso, sul modello del fr. à bas; nella locuzione la voce basso à prodotto dapprima bascio e poi il raddoppiamento dell’esplosiva labiale b intervocalica invece del passaggio di b a v; ancóra, in napoletano sempre dalla voce bassu(m) abbiamo il verbo denominale avascià/avasciare= abbassare, calare, portare, mettere qualcosa piú in basso, ridurre l'altezza, il valore o l'intensità di qualcosa; verbo nel quale è riconoscibile la prostesi di una a eufonica che qui però (misteri della parlata napoletana!) non à prodotto il raddoppiamento della b come ci si sarebbe atteso alla luce di quanto detto precedentemente, e non à influito in alcun modo sul passaggio della b a v; si è avuto dunque bassu(m)→vascio→a + vasci(o)+are=avasciare/avascià. Giunti a questo punto, torniamo a dare uno sguardo all’epigrafe per soffermarci sulla parola basso; essa nel napoletano morfologicamente ed etimologicamente(tardo latino bassu(m)) è in tutto e per tutto uguale alla voce della lingua nazionale basso che è aggettivo [compar. più basso o inferiore; superl. bassissimo o infimo] poco elevato dal suolo o da un altro piano di riferimento etc. o anche sostantivo nel significato di terraneo, povera abitazione come abbiamo visto precedentemente; tutt’altra cosa la voce napoletana dell’epigrafe; in napoletano il termine basso,(termine peraltro ampiamente desueto e che si può solo trovare in poeti e scrittori dal ‘600 al tardissimo ‘800 e fino ai principi del ‘900 cfr. E. Murolo) fu usato per indicare un indumento femminile: un’ampia e lunga gonna, quella che partendo dalla vita non si limitava a coprir le ginocchia (cfr. l’etimo di gonna che piú che dal lat. tardo gunna(m) 'veste di pelliccia', di orig. gallica, pare sia da collegare al basso greco gouna= ginocchia (=veste che scende e copre le ginocchia ed a tal proposito mi pare di poter dire che non à senso chiamare gonna sia pure mini taluni risicatissimi pezzi di stoffa che coprono non le ginocchia, ma neppure le cosce!) dicevo non si limita a coprir le ginocchia, ma prosegue fino alle caviglie; tale lunga ed ampia gonna fu détta basso perché pare si indossasse non sollevandola, passandola sulla testa e facendola scivolare fino alla vita, ma inforcandola dal basso id est: dal di sotto ed ugualmente veniva tolta sfilandola dal basso : dal di sotto. Questa è l’opinione mia che mi son dovuto formar senza aiuti ( ma che à ricevuto l’approvazione dell’amico prof. C.Iandolo) atteso che non ò trovato indicazioni precise circa la voce basso=gonna.in nessuno dei numerosi calepini (anche etimologici) del napoletano, in mio possesso e che ò potuto consultare. Dal punto di vista etimologico c’è da notare la particolarità che il tardo latino bassu(m) generando il sostantivo vascio (abitazione terranea) e l’agg.vo vascio (basso, corto) à comportato il passaggio di b a v e di ss a sci, mentre per il sostantivo basso (gonna) si è mantenuta l’identica morfologia del tardo latino. 7 - S' È FFATTA NOTTE Ô PAGLIARO. Letteralmente: È calata la notte sul fienile. La locuzione viene usata a mo' di incitamento all'operosità verso colui che procrastini sine die il compimento di un lavoro per il quale - magari - à già ricevuto la propria mercede; a tal proposito rammento che, in simili occasioni, si suole commentare: chi pava primma è male servuto (chi paga in anticipo è malamente servito...); pagliaro = fienile, pagliaio, grande cumulo di paglia o fieno sorretto da un palo centrale, per lo più di forma conica ' l’etimo della voce è dal lat. paleariu(m), deriv. di palea 'paglia'. 8 - QUANTO È BBELLO E 'O PATRONE S''O VENNE! Letteralmente: Quanto è bello, eppure il padrone lo vende. Era questa, in origine la frase che, a mo' di imbonimento, pronunciava un robivecchi portando in giro, per venderla al migliore offerente, la statua di un santo presentata sotto una campana di vetro. Con tale espressione, oggi, ci si prende gioco di chi si pavoneggi, millantando una bellezza fisica che non corrisponde assolutamente alla realtà. quanto = quanto avverbio qui con valore esclamativo come con derivazione dal lat. quantu(m), avv. da quantus; bbello = bello aggettivo qual. masch. si dice di ciò che è dotato di bellezza; che suscita ammirazione, piacere estetico con etimo dal lat. volgare bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono'; patrone= padrone, proprietario, chi à la proprietà di qualcosa l’etimo è dal lat. patronu(m) 'patrono'; venne = vende voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito vénnere = vendere, cedere in vendita contro corrispettivo in danaro, l’etimo è dal lat. vendere, da vínum dare 'dare in vendita' con consueta assimilazione progressiva nd>nn. 9 - SI 'O VALLO CACAVA, COCÒ NUN MUREVA. Letteralmente: Se il gallo avesse defecato, Cocò non sarebbe morto. La locuzione commenta sarcasticamente le parole di chi si ostini a mettere in relazione di causa ed effetto due situazioni chiaramente incongruenti,(quali l’espletamento di necessità fisiologiche del gallo e la morte di un non meglio identificato Cocò, che sono accadimenti logicamente non relazionabili tra di loro) o di chi insomma continui a fare dei ragionamenti privi di conseguenzialità logica. vallo/gallo= gallo sostant. masch. uccello domestico commestibile, con piumaggio brillante, testa alta con grossa cresta carnosa e bargigli, zampe fornite di speroni, coda falciforme dai colori spesso vivaci; l’etimo è dal lat. gallu(m) con tipica alternanza partenopea g/v come alibi per volpe/golpe, vunnella/gonnella, vulio/gulio etc. cacava= cacava, defecava voce verbale (3° pers. sing. imperf. indic.) dell’infinito cacà = cacare, defecare, andar di corpo; l’etimo è dal lat. cacare; mureva = moriva, decedeva voce verbale (3° pers. sing. imperf. indic.) dell’infinito murí= morire, decedere cessare di vivere, detto di persone, animali, piante; ; l’etimo è dal lat. volgare morire per il class. mori. 10 - À PERZO 'E VUOJE E VA ASCIANNO 'E CCORNA. Letteralmente: À perduto i buoi e va in cerca delle loro corna. Lo si dice ironicamente di chi, avendo - per propria insipienza - perduto cose di valore, ne cerca piccole vestigia, adducendo sciocche rimostranze e pretestuose argomentazioni. à perzo= à perso, à perduto voce verbale (3° pers. sing.passato prossimo ind.) dell’infinito perdere= perdere, smarrire non avere più, restare privo di una persona con cui si aveva consuetudine, o di qualcosa che si possedeva, si usava, di cui si aveva facoltà l’etimo è dal lat. perdere, comp. di per 'al di là, oltre' e dare 'dare'; perzo è esattamente il part. pass. di perdere con normale variazione partenopea di rs→rz; vuoje= buoi, sost. masch. plurale metafonetico di vojo, il maschio adulto castrato dei bovini domestici; vojo etimologicamente è dall’acc. lat. bove(m) con alternanza napoletana b/v (vedi barca,varca etc.) della consonante d’avvio, sincope della v intervocalica sostituita dal suono di transizione intervocalico j; va ascianno=va cercando, va in cerca locuzione verbale formata dall’ ind. pres. (3° pers. sing.) va dell’infinito jí= andare dal latino ire piú il gerundio ascianno= cercando dell’infinito ascià/asciare= cercare con insistenza, ricercare, indagare, investigare; desiderare, agognare; tendere, , aspirare a con etimo forse da un lat. volgare *anxiare→assiare, ma piú probabilmente dal tardo lat. adflare→afflare= annusare; ccorna = corna, sost. femm. plur. del maschile sing. cuorno prominenza cornea o ossea, di varia forma ma per lo più approssimativamente cilindro-conica e incurvata, presente generalmente in numero pari sul capo di molti mammiferi ungulati; anche, ognuna delle due analoghe protuberanze sulla fronte di esseri mitologici o, nell'immaginazione popolare, del diavolo con etimo dal lat. cornu(m) con tipica dittongazione della breve o intesa tale (ŏ→uo) nella sillaba d’avvio della voce singolare, dittongazione che viene meno, per far ritorno alla sola vocale etimologica o, nel plurale reso femminile (‘e ccorne) laddove nel plurale maschile è mantenuta (‘e cuorne) ; rammenterò che in napoletano il plurale femm. ‘e ccorne è usato per indicare le protuberanze cornee reali della testa degli animali, o quelle figurate dell’uomo o della donna traditi rispettivamente dalla propria compagna, o dal proprio compagno, mentre con il plurale maschile ‘e cuorne si indicano alcuni tipici strumenti musicali a fiato o i piccoli o grossi amuleti di corallo rosso usati come portafortuna;ugualmente con valore di portafortuna vengono usati i corni dei bovini macellati, corni che vengon staccati dalla testa, messi a seccare, opportunamete vuotati e talvolta tinti di rosso tali cuorne, non piú ccorna devono rispondere – nella tradizione partenopea a precisi requisiti, dovendo necessariamente essere russo, tuosto, stuorto e vacante pena la sua inutilità come porte-bonheur. russo= rosso (da non confondere con ruosso che è grosso)di colore rosso derivato del latino volgare russu(m) per il class. ruber; tuosto= duro, sodo, tosto derivato del lat. tostu(m), part. pass. di torríre 'disseccare, tostare'con la tipica dittongazione partenopea della ŏ→uo; stuorto = storto, ritorto,non dritto, scentrato derivato del lat. tortu(m), part. pass. del lat. volg. *torquere, per il class. torquíre con prostesi di una s intensiva e tipica dittongazione partenopea della ŏ→uo; vacante= cavo, vuoto ed altrove insulso, insipiente part. pres. aggettivato del lat. volg. vacare = esser vuoto, mancante, libero di; a margine rammenterò che esiste un altro tipico cuorno quello de ‘o carnacuttaro (il girovago venditore di trippe bovine che lavate, sbiancate e lessate vengon vendute al minuto opportunamente ridotte in piccoli pezzi serviti su minuscoli fogli di carta oleata, irrorate di succo di limone e cosparse di sale contenuto in un corno bovino, seccato, vuotato, forato in punta, per consentire la fuoriuscita del sale con cui viene riempito, e tappato alla base con un grosso turacciolo di sughero; tale cuorno viene portato pendulo sul davanti del corpo, legato in vita con un lungo spago, in modo che nel suo pendere insista su di una bene identificata zona anatomica; ciò è rammentato nell’espressione: Mo t’’o ppiglio ‘a faccia ô cuorno d’’a carnacotta! (Adesso te lo procuro, prendendolo dal corno della trippa) nella quale ‘o cuorno è usato eufemisticamente in luogo d’altro termine becero, facilmente intuibile se si tiene presente la zona su cui insiste il pendulo corno del sale… l’espressione è usata con una sorta di risentimento da chi venga richiesto di azioni o cose che sia impossibilitato a portare a compimento o a procurare, non essendo le une o le altre nelle sue capacità e/o possibilità 11 - PURE LL'ONORE SO' CCASTIGHE 'E DDIO. Letteralmente: Anche gli onori son castighi di Dio. Id est: anche agli onori si accompagnano gli òneri; nessun posto di preminenza è scevro di fastidiose incombenze. La locuzione ricorda l'antico brocardo latino: Ubi commoda, ibi et incommoda. pure= pure, anche avv. con valore aggiuntivo derivato dal lat. pure 'puramente, semplicemente' ed anche; nel lat. tardo, 'senza riserve, senza condizione; onore/i =onori sost. neutro plur. di onore = buona reputazione acquistata con l'onestà, la coerenza ai propri principi; dignità, prestigio; coscienza del valore sociale e morale di tale reputazione e quindi delle virtú che l'ànno procurata derivato dal lat.honore(m) con aferesi dell’aspirata d’avvio intesa inutile e pleonatica; castighe = castighi sost. masch. plurale di castigo = castigo, punizione, sventura etc. deverbale di castigà che è dal lat. castigare, deriv. di castus 'puro'; in origine 'rendere puro'; Ddio = Dio, nelle religioni monoteiste, l'Essere supremo concepito come la causa creante di tutta la realtà o come il semplice ordinatore del caos primordiale, a cui si attribuisce il governo del mondo; in genere, costituisce anche il principio del bene e il fondamento della morale umana; l’etimo è dal lat. dìu(m), da una radice indoeuropea che significa 'luminoso'. 12 - MADONNA MIA FA' STÀ BBUONO A NIRONE! Letteralmente: Madonna mia, mantieni in salute Nerone! È l'invocazione scherzosa rivolta dal popolo alla Madre di Dio affinché protegga la salute dell'uomo forte, di colui che all'occorrenza possa intervenire per aggiustare le faccende quotidiane. Nella locuzione c'è la chiara indicazione che il popolo preferisce l'uomo forte e deciso, piuttosto che l'imbelle democratico, oppure – con altra poco differente valenza - che esso popolo preferisce essere amministrato e/o guidato anche da un cattivo soggetto, temendo e paventando che un eventuale sostituto sia peggiore del sostituito! Madonna/Maronna = Madonna, appellativo di cortesia con cui ci si rivolgeva alle donne di elevata condizione e che si premetteva al nome proprio, oggi usato in taluni paesi del Piemonte come segno di rispetto delle nuore verso le suocere, ma ovunque esclusivamente nei confronti della Madre di Dio; etimologicamente è voce forgiata sul francese madame=mia signora attraverso una composizione di ma (forma proclitica di mia) e donna/ronna=donna; la forma Maronna è d’uso piú popolano di Madonna e comporta la tipica rotacizzazione osco-mediterranea della d→r; Nirone= Nerone 37-68 d.C.), imperatore romano (54-68), ultimo della gente Giulio-Claudia. Figlio di Gneo Domizio Enobarbo e di Agrippina Minore, cambiò il suo nome (Lucio Domizio Enobarbo) in Nerone Claudio Cesare dopo essere stato adottato dall'imperatore Claudio, che sua madre aveva sposato in seconde nozze. Nel 53 sposò la figlia di Claudio, Ottavia. Alla morte di Claudio, nel 54, i pretoriani, guidati dal prefetto del pretorio Sesto Afranio Burro (fedele ad Agrippina) lo proclamarono imperatore. Sotto la guida di Burro e del filosofo Seneca, suo tutore, Nerone si mostrò inizialmente deferente nei confronti del senato, la cui autorità era notevolmente diminuita durante i regni degli ultimi imperatori. Entrato in contrasto con la madre, che si opponeva alla sua relazione con Poppea Sabina e intendeva esercitare sempre maggiore influenza, Nerone fece uccidere Britannico, figlio di Claudio e di Messalina, considerato un possibile pretendente al trono e allontanò la madre da Roma, facendola uccidere nel 59. Con la morte di Burro e il ritiro di Seneca dalla vita pubblica, Nerone modificò radicalmente la propria politica: divenuto ostile al senato, iniziò a favorire i ceti popolari e militari e a esercitare un potere sempre più dispotico. Quando, nel luglio del 64, Roma fu distrutta da un incendio, l'imperatore ne fu ritenuto responsabile e cercò invano di incolpare dell'incendio i cristiani. In seguito, fece costruire per sé la nuova residenza imperiale (la domus aurea). Il contrasto con il senato si acuì in seguito alla riforma monetaria introdotta da Nerone (59-60), secondo cui veniva privilegiato il denarius (la moneta d'argento di cui si serviva soprattutto la plebe urbana) all'aureus (moneta dei ceti più agiati). Nel 65 Caio Calpurnio Pisone ordì una congiura ai danni di Nerone, che tuttavia la represse e fece uccidere tra gli altri Seneca e il poeta Lucano, accusati di aver preso parte alla cospirazione. Nel 66-67 Nerone si recò in Grecia, alla quale rese la libertà, rendendo più difficili i rapporti con le altre province dell'impero. Nel 68 le legioni stanziate in Gallia e in Spagna, guidate rispettivamente da Vindice e da Galba, si ribellarono all'imperatore, costringendolo a fuggire da Roma. Dichiarato nemico pubblico dal senato, Nerone si suicidò.Nerone fu molto noto anche a Napoli nel cui teatro ubicato nei pressi dell’acropoli cittadina (sita tra le attuali strade di Spaccanapoli, san Gregorio Armeno e piazza san Gaetano) si esibì numerose volte cantando sue composizioni ed accompagnando il canto con la cetra. Personaggio discusso e non ancòra compreso a fondo dagli addetti ai lavori che tuttora ne studiano la complessa personalità non riuscendo a dare un giudizio univoco finale, fu ed ancòra è nell’immaginario comune emblema del male e della crudele perfidia. 13- PE TTRE CCALLE 'E SALE, SE PERDE 'A MENESTA. Letteralmente: per pochi soldi di sale si perde la minestra. La locuzione la si usa quando si voglia commentare la sventatezza di qualcuno che per non aver voluto usare una piccola diligenza nel condurre a termine un'operazione, à prodotto danni incalcolabili, tali da nuocere alla stessa conclusione dell'operazione. Il treccalle era una piccolissima moneta divisionale ( la piú piccola era il callo contrazione di cavallo che era effigiato sul dritto della moneta) napoletana pari a stento al mezzo tornese ed aveva un limitatissimo potere d'acquisto, per cui era da stupidi rischiare di rovinare un'intera minestra per lesinare sull'impiego di tre calli per acquistare il necessario sale. sale= sale, nel linguaggio corrente, il cloruro di sodio, presente in natura come salgemma o disciolto nelle acque del mare, e usato spec. per dar sapore ai cibi o conservarli letimo è dal lat. sale(m); perde= perde voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.)dell’infinito pèrdere= non avere piú, restare privo di una persona con cui si aveva consuetudine, o di qualcosa che si possedeva, si usava, di cui si aveva facoltà; non trovare più, smarrire, mandare a male con etimo dal latino pèrdere, comp. di per 'al di là, oltre' e dare 'dare'; menèsta = minestra genericamente ogni primo piatto, caratteristico della cucina italiana, a base di pasta o riso cotti in brodo o in acqua con legumi e verdure; piú particolarmente in napoletano la voce menèsta indica una portata di verdure lessate in brodo di carne, spesso addizionate (e si à la c.d. menesta mmaretata) di carni lesse bovine e suine e talvolta di pollame; l’etimo di menèsta è l’acc. lat. minestra(m) deverbale del lat. ministrare nel sign. di 'servire a mensa', deriv. di minister 'servo, servitore'con successivi metaplasmi popolari di apertura delle i→e e sincope della liquida r come alibi maesta ← magistra etc. 14 - S'È AUNITO 'O STRUMMOLO A TIRITEPPETE E 'A FUNICELLA CORTA. Letteralmente: si è unita la trottolina scentrata e lo spago corto. Id est: ànno concorso due fattori altamente negativi per il raggiungimento di uno scopo prefisso, come nel caso in epigrafe la trottolina di legno non esattamente bilanciata e lo spago troppo corto e perciò inadatto a poterle imprimere il classico movimento rotatorio. s’è aunito = si è unito voce verbale rifless. (3° pers. sing. del pass. pross.) dell’infinito aunir(se)= unirsi, congiungersi con etimo dal basso lat. ad +unire, deriv. di u¯nus 'uno': ad unu(m) ire; strummolo = conica trottolina lignea azionata attraverso lo srotolamento con movimento secco e rapido di una cordicella arrotolata strettamente seguendo le scanalature parallele tracciate lungo la parete della trottolina che à una punta metallica infissa al vertice del cono; è un giuoco un tempo largamente diffuso, con varî nomi tra tutti i ragazzi della penisola; ed a Napoli fu detto strummolo con derivazione dal greco strombos che diede il latino strumbus→strummus→strummolo; tiriteppe e talvolta tiriteppole intraducibile in quanto voce onomatopeica usata per indicare che la trottolina di fabbricazione non bilanciata e che abbia la punta scentrata , una volta le sia stato impresso il moto rotatorio, non prilla a dovere, ma ballonzola malamente, producendo un tipico rumore scorretto, toccando terra non con la punta, ma con le pareti laterali, fino a che – perduta la forza rotatoria – non crolli in terra e si fermi troppo presto dimostrando che la trottolina è ‘nu strummolo scacato (trottola senza forza e/o capacità) destinato a soccombere in ogni contesa ludica fino a subire l’estremo affronto d’essere scugnato (sbreccato se non spaccato da un colpo inferto con la punta acuminata dello strummolo vincitore…) scugnato= sbreccato,spaccato part. pass. masch. dell’infinito scugnà= sbreccare, spaccare, percuotere, ma altrove anche dissodare, trebbiare, battere il grano con etimo dal lat. volg. *excuneare derivato di cuneus; funicella= cordicella sost. femm. diminutivo (vedi suff. cella) di fune= corda, insieme di più fili di canapa, d'acciaio o di altro materiale ritorti e intrecciati fra di loro; fune, cavo con etimo dal lat. fune(m); corta= corta, di poca lunghezza o di lunghezza inferiore al normale; agg. femm. (il maschile è curto) con etimo dal lat. curtu(m) /curta(m)'accorciato/a, troncato/a'; anche l’italiano antico ebbe curto in luogo di corto. 15 - LL'AUCIELLE S'APPARONO 'NCIELO E 'E CHIÀVECHE 'NTERRA. Letteralmente: gli uccelli si accoppiano in cielo e gli uomini spregevoli in terra. È la trasposizione in chiave rappresentativa del latino: similis cum similibus, con l'aggravante della spregevolezza degli individui che fanno comunione sulla terra. Il termine: chiàveche è un aggettivo sostantivato, formato volgendo al maschile plurale il termine originario femm. sing. : chiàveca che è la cloaca, la fogna, da un acc. tardo lat. clavica(m) normale il passaggio di cl>chi come ad es. in clavus=chiuovo, chiodo- clarum=chiaro etc.; tenendo ciò presente si può capire quale valenza morale abbiano, per i napoletani, gli uomini detti chiàveche quasi via di trasporto di escrementi; linguisticamente rammenterò che il plurale femm. di chiàveca si distingue da quello maschile perché, pur essendo anch’esso come il maschile chiàveche, se preceduto da vocale a,o,e oppure dall’art. ‘e (le) va scritto con la geminazione iniziale ‘e cchiàveche mentre il maschile ‘e(i) chiàveche non comporta la geminazione; aucielle= uccelli sost. masch. plurale di auciello=uccello derivato di un tardo latino aucellus doppio diminutivo di avis attraverso avicula>avicellus>aucellus con la v letta u, e successiva sincope della prima i e dittongazione popolare (e>ie) della vocale implicata (seguita da due consonanti) ‘nterra = in terra, sulla terra; ‘nterra= in(illativo)+terra (dal lat. terra(m). 16 - 'E CIUCCE S'APPICCECANO E 'E VARRILE SE SCASSANO. Letteralmente: Gli asini litigano e i barili si rompono. Id est: i comandanti litigano e le conseguenze le sopportano i soldati. Così va il mondo: la peggio l'ànno sempre i piú deboli, anche quando non sono direttamente responsabili d'alcunché. La cultura popolare napoletana ha tradotto icasticamente il verso oraziano: quidquid delirant reges, plectuntur Achivi (Qualsiasi delirio dei re, lo piangano gli Achei...). ciucce = asini, ciuchi sost. masch. plurale di ciuccio= asino, ciuco e figuratamente persona ignorante, ragazzo che non riesce negli studi; qui maliziosamente riferito ai capi, ai comandanti; per la voce ciuccio etimologicamente qualcuno sbrigativamente parla di un lemma espressivo, ma preferisco aderire all’idea di chi, forse piú acconciamente , pensa occorre riferirsi al lat. cillus sulla scia del greco kíllos= asino; il probabile tragitto seguìto è: cillus→ciccus→ciucco→ciuccio ,ma reputo che sia piú probabile per ciuccio una derivazione dalla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare. appicecano= litigano voce verbale (3°pers. plur. ind. pres.) dell’infinito appiccecà= litigare, contrastarsi, venire alle mani intensivo di appiccià con etimo dal basso lat. adpiceare denominale di ad+piceus (riguardante la pece): chi litiga e viene alle mani si appiccica quasi all’avversario; varrile= barili sost. masch. plur. di varrilo = recipiente simile a una piccola botte, fatto di doghe di legno tenute assieme da cerchi di ferro, impiegato per la conservazione di liquidi o altri prodotti | essere ‘nu varrilo, (fig.) essere molto grasso. con etimo dal basso latino barillus, ma attraverso il port., spagn, prov. barril con la tipica alternanza partenopea b/v come bocca/vocca, barca/varca etc. il basso latino barillus si forgiò su di una radice bhar=portare la medesima dello spagnolo barrica e franc. barrique= botte ed ancòra dello spagnolo barral= fiasco; se scassano= si rompono, si infrangono voce verb. rifl. (3° pers. plur. ind. pres.) dell’infinito scassare/arse/ scassà= romper(si), infrangere con etimo da un tardo latino s (intensiva)+ quassare frequentativo di quatere; ricorderò che in napoletano esiste una seconda voce scassà con etimo e significato diverso; questa seconda voce verbale sta per raschiare, cancellare e deriva da un tardo latino s (intensiva)+ cassare denominale di cassus=vano, vuoto. 17-FÀ SCENNERE 'NA COSA DÊ CCOGLIE 'ABRAMO. Letteralmente: far discendere una cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida locuzione partenopea che a Napoli si usa a sapido commento delle azioni di chi si faccia eccessivamente pregare prima di concedere al petente un quid ( sia esso un'opera o una cosa) lasciando intendere che il quid richiesto sia di difficile o faticoso ottenimento accreditandone quasi la augusta provenienza. fà scennere = far discendere voci verbali degli infiniti fà di fare forma sincopata del latino fa(ce)re l’infinito troncato fa è scritto fà preferito all’apocopato fa’ per evitare una possibile confusione con il fa’= fai 2° pers. sing. dell’imperativo dello stesso fare/fa; scénnere= scendere discendere, portar giú derivato dal latino (de)scendere, comp. di dí- 'de-' e scandere 'salire'; nella voce napoletana si è verificata la consueta assimilazione progressiva nd→nn; cosa= cosa, termine generico usato per indicare qualsiasi entità, concreta o astratta, che sia oggetto dell'attenzione di chi parla o di chi scrive e che riceve... sost. femm. derivato dal basso lat. causa(m)=cagione che produsse *cosa(m) ed il verbo *cosare usato in luogo di causare; dê = dalle preposizione art.qui f.le, alibi anche m.le formata come da mia proposta originaria dall’agglutinazione funzionale di da→d + alle che in napoletano è resa con ê [crasi della preposizione a + l’art. pl. m.le e f.le ‘e]; coglie= testicoli sostantivo femm. plur. del sing. coglia che dal neutro latino coleum (pl. colea inteso poi femm.) indicò (cosí come i greci koleòs e koleòn donde il latino coleum,) una borsa, un fodero e segnatamente quella dei testicoli, che finirono per assumere il nome della borsa che li conteneva 18 -FÀ TRE FFICHE NOVE RÒTELE Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli. Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare il comportamento o - meglio - il vaniloquio di chi esagera e si ammanta di meriti che non possiede, né può possedere. Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle due sicilie corrispondente in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario, 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, ancora oggi è in uso a Malta, che prima di divenire colonia inglese apparteneva al Regno delle Due Sicilie. Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba rate/ ratl,trasformazione a sua volta della parola greca litra, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la litra divenne poi in epoca romana libra (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano. tre agg. num. card. invar. numero naturale corrispondente a due unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 3, in quella romana da III: l’etimo è dal latino tre(s); fiche sost. femm. plurale di fica che è il frutto del fico, frutto che invece in italiano è maschile: fico, come la pianta da cui deriva; l’etimo di fica (che in napoletano vale (alla medesima stregua della voce nordica figa) anche vulva, vagina con riferimento alla boccuccia, fenditura rosseggiante presente sulla base del frutto) è dal maschile latino ficus reso femminile; ficus è da collegarsi al greco phýo= produco a sua volta dall’ebraico phag il tutto a cagione della fecondità della pianta; il significato osceno è già presente nel greco sûkon che indica sia il frutto che la vulva; nove agg. num. card. numero naturale corrispondente a otto unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 9, in quella romana da IX con etimo dal latino nove(m); ròtele sost. masch. plurale metafonetico di ruotolo= rotolo di cui ò già detto. 19 - FÀ FETECCHIA: I l termine in epigrafe ha un variegato ventaglio di significati nella lingua napoletana, ma tutti riconducibili al primario significato di vescia, scorreggia non rumorosa, scoppio silenzioso simile a quello del fungo che, giunto a maturazione , esplode silenziosamente emettendo le spore; col termine fetecchia , restando nell’ambito della silenziosità,viene indicato altresí lo scoppio non riuscito di un fuoco d’artificio, e piú in generale un qualsiasi fallimento o fiasco di un’operazione non giunta a buon fine. Per ciò che attiene l’etimologia, tutti concordemente la fanno risalire al latino foetere nel suo significato di puzzare – tenendo prersente il primario significato di fetecchia, ma anche negli altri significati c’è una sorta di non olezzo che pervade la parola.e la riconduce al foetere latino: la voce esatta latina deverbale di foetere, che à dato fetecchia è un acc. lat. volgare feticula(m) per il class. foeticula(m). 20 – FETTIARE O FITTIARE I verbi in epigrafe(per l’esattezza, però si tratta di un solo verbo, scritto con due grafie leggermente diverse) sono caduti completamente in disuso tanto da non esser riportati da alcun dizionario, ma fino agli anni ’60 dello scorso secolo ebbero un loro uso continuato soprattutto fra i giovani napoletani. Essi verbi servirono ad identificare un’azione ben precisa: quella di sogguardare insistentemente una persona o anche solo un quid, in maniera però concupiscente fino a determinare fastidio nella persona guardata; in particolare i giovanotti che si fossero messi sulle piste di un’avvenente ragazza insistentemente se la fettiavano fino a che la ragazza infastidita, o non cedeva alle non dichiarate, ma chiaramente sottintese, avances o non chiamasse a propria difesa un fratello, un cugino, un fidato amico che convinceva con le buone o le tristi il disturbatore esortato a fettiare altrove.Il verbo veniva usato anche nei riguardi di cose desiderate, ma – per mancanza di soldi – mai conquistate,; a mo’ d’es. dirò che in quegli anni se fettiavano un abito, un paio di scarpe, una cravatta, o anche l’intera vetrina di una pasticceria o trattoria. Finita l’epoca della ritrosia delle donne, avendo raggiunta un po’ tutti una certa disponibilità economica e diventate, le ragazze, prede di facile caccia, è venuta meno la necessità di fettiare e con l’azione son caduti in disuso e nel dimenticatoio i verbi che la rappresentavano. E passiamo all’etimologia; tenendo presente che in napoletano conserva anche il vocabolo fettíglie con il significato di noie, molestie e consimili, penso che sia per il sostantivo che per i due verbi in epigrafe si possa risalire al latino figere (colpire di lontano).giacché, specie per i due verbi la molestia si traduce solo nell’insistente sogguardare di lontano, non seguito da altre piú prossime azioni, un infastidire di lontano. 21- CHELLO CA NUN SE FA NUN SE SAPE O NUN S’APPURA Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama o pure le vivaci chiacchiere della gente diffondono le notizie e le propagano , per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo e solo il non fatto (sempre che non ci si trovi in presenza di malevole calunnie) non viene propalato e non si viene a sapere, né (appurato) cioè verificato; chello = quello, ciò che pron. dimostrativo neutro che indica cosa lontana da chi parla e da chi ascolta, o cosa non presente della quale si sta parlando; l’etimo è dal lat. volg. *(ec)cu(m) illu(d), propr. 'ecco quello; il maschile di detto pronome è chillo dal lat. volg. *(ec)cu(m) illu(m),mentre il femm. chella è dal lat. volg. *(ec)cu(m) illa(m), sape = sa voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito sapere/sapé = sapere,venire a conoscenza, apprendere con etimo dal lat. volg. *sapíre, per il class. sapere 'aver sapore', poi 'essere saggio', appura=, viene a conoscenza, si sincera voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito appurà=sapere,venire a conoscenza,sincerarsi, ricercare la verità di una cosa, controllarne l'esattezza; mettere in chiaro (e nel linguaggio tecnico: quadrare i conti) l’etimo è dallo spagnolo apurar= depurare→verificare. 22-'O PESCE GRUOSSO, MAGNA Ô PICCERILLO. Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella se combattuta apertamente da un piccolo contro un grande. pesce = pesce, animale vertebrato acquatico di varia grandezza, per lo più fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne per nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo, usato nel proverbio a figurare l’individuo potente(gruosso) opposto al soggetto debole o di scarsa valenza economica- sociale (piccerillo) l’etimo è dal lat. pisce(m); gruosso= grosso, che/chi à dimensioni notevoli (per volume, capacità, spessore, corporatura, estensione ecc.): ed estensivamente ricco, facoltoso, potente, importante agg. qual. masch. con etimo dal lat. tardo grossu(m) con normale dittongazione uo←o di sillaba intesa breve nel masch. e nel neutro (che peraltro, preceduto dall’art. ‘o prevede la geminazione della gutturale d’avvio: ‘o ggruosso=ciò che è grosso;) nel femm. grossa la dittongazione non avviene ; magna = mangia voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito magnà= mangiare, divorare anche in senso traslato, con etimo da una lettura metatetica del franc. manger da un lat. manducare; a margine faccio notare come il successivo complemento oggetto del verbo a margine non sia introdotto dal semplice articolo determinativo ‘o (il) come càpita nella lingua italiana, ma è introdotto dalla prep. articolata ô = a+ ‘o(allo) in quanto la parlata napoletana, sulla scorta di un antico latino volgare parlato esige per i complementi oggetti (persone o esseri animati, ma non cose; es. aggiu visto a pàteto ( ò visto tuo padre), aggiu chiammato ô cane(ò chiamato il cane, ma aggiu pigliato ‘o bicchiere(ò preso il bicchiere) una a segnacaso che unita all’articolo di pertinenza del complemento oggetto determina una preposizione articolata ô = a+ ‘o(al, allo),â(= a + ‘a= alla ) ê (a +’e = a gli – alle); piccerillo = piccolino, piccino, minuto, spec. per età, statura, dimensioni e per estensione debole, di scarsa valenza socio-economica; l’etimo della voce napoletana a margine è da un lemma fonosimbolico pikk (il medesimo che à dato piccino) con ampliamento della base attraverso un suffisso rillo ( o riéllo femm. rella – altrove reniéllo –femm. renèlla) che indica pochezza, parvità: es.: cusariéllo – cusarèlla (cosino,cosetta) panariello/panareniéllo (panierino) – picceréniello, piccerenèlla(piccino/a); 23 - 'O PUORCO SE 'NGRASSA PE NE FÁ SACICCE. Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che , dalla disincantata osservazione della realtà, si deduce che nessuno fa del bene disinteressatamente; anzi chiunque faccia del bene ad un altro, in realtà mira certamente al proprio tornaconto che da tale azione apparentemente benefica gliene deriverà o potrà derivare prima o poi , come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci mangiare ingrassando al fine di togliergli la fame facendogli cosí del bene; infatti in realtà e fuor di vane illusioni, il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce (che sono emblematiche di tutti gli insaccati ed affini che dalla macellazione del maiale si posson ricavare) puorco sost. masch. = maiale, porco , animale da ingrasso carne di maiale: salsicce di porco , figuratamente persona che fa o dice cose oscene; con funzione di agg. in imprecazioni o bestemmie, o anche come rafforzativo di tono pop. o volg,con etimo dal lat. porcu(m) con tipica dittongazione popolare nel masch. uo←o dittongazione che manca nel femm.: si à infatti puorco masch. ma porca femm. ‘ngrassa =ingrassa voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ‘ngrassà= ingrassare, impinguire, allevare all’ingrasso con etimo denominale da un lat.tardo in (illativo) + grassu(m), da crassus 'grasso', per incrocio con grossus 'grosso'; sacicce = salsicce sost. femm. plur. di saciccia, salciccia plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne di maiale; ; etimologicamente derivante da un tardo lat. salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare; 24 –TE PIENZE CA VACO METTENNO 'A FUNA 'E NOTTE? Letteralmente: Pensi forse che io vada tendendo la fune di notte? Domanda retorica rivolta sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, per significar loro che si è impossibilitati ad aderire alle loro esose richieste in quanto persone oneste non aduse ad andar tendendo funi di notte; la medesima espressione interrogativa la si usa anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati – tende a significar loro che chi parla non si può certamente equiparare a quei masnadieri d’antan che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri. Va da sé che solo quei masnadieri potevano essere in possesso di tanto denaro, latronescamente fruito, con il quale far fronte alle esose richieste di bottegai, salariati e/o figlioli incontentabili. te pienze = pensi tu? voce verbale (2° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito penzà= pensare, opinare, supporre etc.con etimo dal tardo lat. pensare, intensivo di pendere 'pesare'; propr. 'pesare con precisione', poi 'ponderare, esaminare'normale in napoletano il passaggio di ns→nz; vaco mettenno vado mettendo, mi occupo di mettere, porre locuzione verbale formata da vaco=vado (1° pers. sing. ind. presente) dell’infinito jí= andare con etimo dal latino ire; le forme(i’ vaco, tu vaje, isso va) che ànno come tema vac= vad sono derivate dal lat volgare vadere 'andare'come quelle italiane(vado,vai,va); mettenno= mettendo voce verbale (gerundio) dell’infinito mettere= mettere, porre, situare etc. con etimo dallat. mittere'mandare' e 'porre, mettere'; funa= fune, corda, cavo sost. femm. dal lat. volg. *funa(m) per il class. fune(m); ‘e notte= di notte loc. avv. temporale dove ‘e= di sta per durante e notte è il sostantivo femminile indicante la parte del giorno solare, dal tramonto all'alba, in cui il sole rimane sotto l'orizzonte; l’etimo è dal lat. nocte(m) con assimilazione regressiva ct→tt. 25 - PUOZZE PASSÀ P''A LOGGIA. Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È un malevolo augurio che vale : Possa tu morire. Infatti per la zona della Loggia di Genova, , temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro antico e diretti al Camposanto, per cui augurare a qualcuno di passar per la Loggia di Genova (e non certo al sèguito d’un corteo funebre) equivaleva ad augurargli di decedere diventando il protagonista di quel transito per la Loggia di Genova; puozze= possa tu voce verbale (2ª pers. sg. congiunt. pres. con valore ottativo) dell’infinito puté= potere derivato dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -entis; passà= passare, transitare voce verbale infinito passare/passà con etimo dal lat. volg. *passare, deriv. di passus 'passo'; loggia = loggia di per sé edificio o parte di edificio aperti su uno o più lati, con copertura sorretta da pilastri o colonne, ma anche, nel medioevo, tale edificio o piú edifici attigui come luogo di riunione di persone che esercitavano la stessa arte(loggia dei lanaioli) o appartenenti alla medesima consorteria (loggia massonica) o – ed è il nostro caso – appartenenti ad una stessa città di provenienza, nel nostro caso Genova, che in un determinato territorio della città,(loggia) per solito concesso in fitto, tenevano i loro traffici e commerci autoamministrandosi;attualmente la Loggia di Genova, ubicata un tempo a Napoli tra il c.d. Rettifilo e quello che poi sarebbe diventato il Borgo degli Orefici, non esiste piú ed il suo nome resiste solo oltre che nel detto in epigrafe, sulla tabella viaria di una stradina aperta dove un tempo vi fu la Loggia ‘e Genova; loggia sost. femm. talvolta a Napoli, impropriamente sinonimo di terrazzo (la loggia napoletana come elemento architettonico in realtà è sempre scoperta,ubicata alla sommità del fabbricato, quasi mai con calpestio piastrellato ed è circondata su tre lati da un parapetto in muratura, mentre il terrazzo con impiantito calpestabile e piastrellato può essere anche coperto, sporgere da qualsiasi piano d’un fabbricato ed à una ringhiera in ferro non un parapetto in muratura) loggia etimologicamente è dal fr. loge, che è dal lat. tardo laubia(m), e questo dal francone *laubja 'pergola, chiosco'; Genova è la città marinara capoluogo della regione Liguria; un tempo fu una della quattro Repubbliche marinare d’Italia (Venezia, Pisa,Amalfi, Genova) ed ebbe notevoli rapporti d’affari con Napoli, dove un congruo numero di mercanti si stabilirono automministrandosi ed aprendo botteghe per i loro traffici e commerci, bettole e locande per avventori genovesi e/o napoletani, in un ben delimitato territorio (la Loggia di Genova) concesso (1503 circa) in fitto dal vicereame napoletano; 26 - CORE CUNTENTO Â LOGGIA. Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo partenopeo suole apostrofare ogni persona che faccia le viste d’esser perennemente spensierata e senza problemi propensa com’è , anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che, come ò detto, era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, territorio dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi; il medesimo appellativo se lo meritò uno scrittore nolano tale Michele Somma che pubblicò agli inizi del 1800 una raccolta amena e faceta di cento racconti; lo scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli Orefici, nei pressi appunto della Loggia de’ Genovesi dove stazionava la colonia degli abitanti di Genova, residenti in Napoli, e dove fu ideata da certi cuochi che vi aprivano osteria la cosiddetta genovese gustosissima salsa a base di cipolle e carne di manzo,salsa che doveva sostituire (nell’inteso degli ideatori) il ragú, salsa a base di carne di manzo e pomodoro (ortaggio che da taluno non venne súbito accettato come commestibile, ma solo come pianta ornamentale; la genovese non riuscí comunque a soppiantare il ragú e si dovette contentare d’affiancarlo, diventandola seconda salsa tradizionale della cucina partenopea; la cosa strana è che sebbene la genovese sia stata ideata da cuochi genovesi non amanti del pomodoro (ritenuto a torto poco commestibile in quanto velenoso!) a Genova la salsa è completamente sconosciuta e non è riuscita neppure ad affiancare il famosissimo pesto alla genovese. Ora qui di sèguito, a beneficio di chi volesse, segnalo la tradizionale ricetta della napoletana genovese. Dosi per 6 persone 2 Kg di cipolle dorate 1 Kg di Spezzato di manzo adulto (preferibilmente ricavato dalla pancia o dalla corazza) o in alternativa 1 kg. di fette di locena (soggolo) di manzo o maiale da cui ricavare involti (brasciole) imbottiti di uva passita, pinoli,cubetti di pecorino,uovo battuto, prezzemolo tritato, sale, pepe nero e legati con spago da cucina una carota una costa di sedano due bicchieri vino bianco secco un bicchiere e mezzo di olio extravergine di oliva Un pomodoro pelato (facoltativo) sale fino e pepe nero macinato q.s. 600 gr. di rigatoni 1 etto di pecorino possibilmente laticauda grattugiato Procedimento Affettate a velo le cipolle, (piangerete per un po’, ma pazienza; dopo ne sarete contenti! ), mettétele in una pentola con la carne, l’olio, la carota e il sedano tagliati a cubetti, eventualmente il pomodoro spezzettato; coprite, e fate cuocere per un’oretta a fuoco vivace – le cipolle dovranno diventare trasparenti e dovrà evaporare tutto il liquido; solo quando la cipolle saranno abbastanza asciutte versate il primo bicchiere di vino bianco, questa volta a fuoco bassissimo, e fate cuocere per circa altri 40 minuti. Versare l’altro bicchiere di vino, il sale e il pepe, e ripetere l’operazione precedente, tenendo il sugo a fuoco vivace per altri 50 minuti: (complessivamente il sugo dovrà stare al fuoco per un’ora e mezza!) facendo ben attenzione a non far attaccare il sugo alla pentola! se il sugo dovesse asciugarsi troppo, basterà aggiungere piccole ramaiolate di acqua bollente, correggendo eventualmente di sale. Con questo sugo condite i rigatoni lessati al dente e mandateli in tavola spolverizzati di formaggio grattugiato e di abbondante pepe nero. La carne la servirete come pietanza accompagnata da un’insalata verde o patate fritte. Raffaele Bracale

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