mercoledì 1 marzo 2017
VARIE 17/261
1.T''A FAJE FRITTA CU 'A MENTA
Ad litteram: te la fai fritta con la menta Cosí ironicamente si suole dire di tutte le cose ritenute inutili e di cui, conseguenzialmente non si sa cosa farsene.Semanticamente l’espressione si spiega col fatto che la frittura addizionata di menta è riservata a taluni ortaggi ( zucca e zucchine) di per sé senza molto sapore, quasi inutili.
2.T'AGGI' 'A FÀ ABBALLÀ 'NCOPP’Ô CERASIELLO
Letteralmente: Devo farti ballare su di una (pianta di) peperoncino.
Id est: devo costringerti all’impossibile, e ciò perché la pianta del peperoncino è bassa,di poca o nulla consistenza e flessibile al segno di non consentire che qualcuno vi possa montarvi sopra e ballarci sostenuto dai rami della pianta di montarvici su per potervi ballare. L’espressione antica, ma ancóra in uso à all’incirca la medesima valenza della precedente utilizzata come è sulla bocca di genitrici di figlioli irrequieti, figlioli esuberantemente capricciosi o monelli, disobbedienti, chiassosi etc. a mo’ di iperbolica minaccia repressiva, minaccia consistente nella costrizione a suon di percosse, a fare qualcosa di palesemente impossibile.
L’espressione viene usata, sempre a mo’ di iperbolica, ma divertita minaccia pure nei confronti di chiunque, anche adulto, si mostri restio a fare il proprio dovere.
T'aggi' 'a cfr. antea
fà = fare
Comincerò con il precisare che nel napoletano l’infinito dell’italiano fare è fà/ffà infinito che io, contrariamente a tutti gli altri cultori dell’idioma napoletano (che usano la grafia apocopata fa’), preferisco rendere con la à accentata (fà/ffà ) per alcuni ben precisi motivi: 1)uniformità di scrittura degli infiniti che in napoletano (nelle forme troncate) siano essi monosillabi o plurisillabi son tutti accentati sull’ultima sillaba (cfr. ad es.da(re)→dà – magna(re)→magnà – cammena(re)→cammenà –cade(re)→cadé - murire→murí etc.), 2) la grafia apocopata fa’ si presta, a mio avviso,fuor del contesto ad esser confusa con la 2° p.sg. dell’imperativo: fa’= fai, come si presterebbe alla medesima confusione l’infinito apocopato da’ di dare che potrebbe essere inteso, prescindendo dal contesto, come2° p.sg. dell’imperativo: da’= dai, A proposito di infiniti rammento che durante le mie numerose letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni autori che, ritenendo di fare cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in Luogo dell' accento tonico e non si rendono conto che solo l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,e può (solo!) indicarne graficamente l'esatta pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi in altri maldestri autori ed addirittura compilatori di dizionari, che per tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti . In effetti nella parlata napoletana è un errore di ortografia accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico apostrofo per indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba:
l'accento, inglobando in sé la doppia funzione, è piú che sufficiente; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia tagliare un termine mantenendone però il primitivo accento tonico.
Per esempio il verbo èssere può essere apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancóra ad es. il verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o metriche essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si dovrebbe leggere càde’ e non cadé!
Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: vede e non vedé.)È pur vero che, in napoletano, alcuni infiniti di verbi che, apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero esser scritti con il segno dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in quanto che nei monosillabi l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non può cadere su altre (che non esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il verbo stare l’ apocopato: sta’ in Luogo di stà e per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’ invece di fà, ma personalmente reputo piú comodo come ò détto per mantenere una sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di altri verbi mono o plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare stà e fà in Luogo dei pur corretti sta’ e fa’ che valgono stare e fare, tenendo conto altresí che almeno nel caso di fa’ esso potrebbe essere inteso, ripeto, come voce dell’imperativo (fai→fa’), piuttosto che dell’infinito fare, cosa che invece non può capitare con il verbo stare il cui imperativo nel napoletano non è sta’, ma statte.
abballà =ballare,per estensione semantica dimenarsi, per traslato vacillare ;
etimologicamente dal tardo lat. ad +ballare→abballare ;
'ncopp ô = sul/sullo vedi antea sub 14.
cerasiello s.vo neutro (pianta e frutto del) peperoncino piccante dalla tipica forma sferica simile a quella di una ciliegia (in nap. cerasa); etimologicamente voce dal tardo lat. cerasia, neutro pl. di cerasium 'ciliegia' con suffisso diminutivo maschile iello.
3.T'AGGI' 'A FÀ CACÀ OPPURE PISCIÀ DINT' A 'N 'AGLIARO
Letteramente: Ti devo far defecare oppure mingere nel bricco dell’olio. Id est Ti devo costringere all’impossibile (vessandoti o facendoti violenza). Questa iperbolica icastica espressione desueta, un tempo fu in uso nel linguaggio del popolo basso soprattutto sulla bocca di mamme a mo’ di minaccia per ridurli all’obbedienza verso i proprî figlioli irrequieti, figlioli esuberantemente capricciosi o monelli, disobbedienti, chiassosi etc. figliuoli che per ridurre alla ragione occorreva minacciare di cosí tante e violente percosse tali da levigare ed affinare il fondoschiena ed altre parti del corpo al segno che il figliolo destinatario della minaccia in epigrafe non avesse piú necessità, per le sue funzioni defecatorie,o alternativamente per la minzione di servirsi di unalto e vasto càntaro, ma gli bastasse, iperbolicamente, il bricco dell’olio (agliaro) contenuto vaso di rame stagnato in forma di tronco di cono, con un’unica ansa arcuata, con base circolare oppure ovale ampia, collo stretto e bocca appena appena svasata atta a far defLuire l’olio; va da sé che nella realtà, nessuno (per quanto fisicamente minuto o ... levigato dalle percosse) potrebbe usare un bricco dell’olio per espletare le proprie funzioni fisiologiche, ma si sa e non fa meraviglia che l’iperbole la fa da padrona nell’eloquio popolare partenopeo ed i ragazzi minacciati cosí come in epigrafe, prendendo per vere le parole usate, spesso recedevano dal loro comportamento irrequieto.
cacà/cacare = defecare dritto per dritto dal lat. cacare
pisciare = míngere, orinare; quanto all’etimo dal t. lat. pi(ti)ssare→pisciare;
càntaro = alto vaso cilindrico di comodo, pitale derivato dal lat. cantharu(m) che è dal greco kantharos; da non confondere con la voce
cantàro voce derivata dall’arabo qintar= quintale
agliàro s.m. = contenuto vaso di rame stagnato in forma di tronco di cono, con un’unica ansa arcuata, con base circolare o ovale ampia, collo stretto e bocca (con coperchietto incernierato) appena appena svasata atta a far defluire l’olio; ne esiste anche un tipo con coperchio ad incastro e cannello erogatore; tale tipo però non è d’uso domestico, ma viene usato per solito dai pizzaiuoli che devono stare attenti a non eccedere nel consumo d’olio ed il cannello a beccuccio si presta meglio della bocca svasata a contenere l’erogazione dell’olio; l’etimo della voce a margine è dal lat. oleariu(m)→*uogliaro→ogliaro→agliaro.
4.TAGLIÀ 'A RECCHIA A MMARCO
Ad litteram: tagliare l'orecchio a Marco. Si dice che sia adatto a tagliare l'orecchio a Marco quel coltello che avendo perduto il filo del taglio non è piú adatto alla bisogna; per estensione la locuzione è usata ironicamente in riferimento ad ogni oggetto che abbia perduto la sua capacità iniziale di esatta, determinata destinazione.
Il Marco dell'epigrafe in realtà è corruzione del nome Malco servo del sommo sacerdote cui san Pietro, nell'orto degli ulivi, intervenendo in difesa di Cristo, recise un orecchio, che però il Signore immediatamente risanò; tradizione vuole che da quel momento il coltello usato da san Pietro non fu piú in grado di tagliare alcunché.
5.TAGLIÀ 'E PANNE 'NCUOLLO
Ad litteram: recidere i panni addosso id est: sparlare di qualcuno, e farlo protervamente e lungamente quasi metaforicamente mettendolo a nudo con il taglio degli abiti da colui indossati.
BRAK
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