sabato 30 dicembre 2017

VARIE 17/1350



1.VA' DINTO Ê CHIESIE GRANNE CA TRUOVE SEGGE E SCANNE...
Va' nelle chiese grandi dove troverai sedie e scranni - Cioè: Chi vuol qualcosa lo deve cercare nei negozi piú grandi che sono i piú forniti.Per ampliamento semantico: chi vuole aiuto deve rivolgersi ai piú attrezzati e o versati alla bisogna per scienza e coscienza.
2.VA' FÀ LL'OSSE Ô PONTE
Letteralmente: vai a racimolare le ossa al ponte. Id est: mandare qualcuno a quel paese. Infatti la locuzione suona pure: mannà ô ponte, con il medesimo significato. Un tempo a Napoli presso il ponte della Maddalena, già ponte Licciardo esisteva un macello, dove il popolo si recava ad acquistare le carni delle bestie macellate. I meno abbienti si accontentavano di prelevare gratis et amore Dei le ossa, per farne del brodo, per cui spingere qualcuno a fare le ossa al ponte significa augurargli grande miseria. La medesima accezione vale per la locuzione mannà a ‘o ponte; (mandare al ponte) tenendo presente che questa seconda locuzione la si usa nei confronti di uomini attempati e un po’ rovinati dagli acciacchi e dall’età ecco che essa locuzione à una valenza un po’ piú amara della prima giacché la si rivolge a chi - probabilmente - non à la capacità di ripigliarsi ed è costretto a subire gli strali dell’avversa fortuna.
3.VA FACENNO PILE PILE  'A FESSA D'’A MADRE BADESSA
Ad litteram: Va facendo pelo per pelo (id est: va spulciando minutamente) la vulva della madre badessa.Id est: indaga anche nei piú riposti fatti altrui. Becera sarcastica antica e desueta espressione usata per indicare e porre alla berlina il fastidioso e spiacevole comportamento di chi – soprattutto donna – metta naso e con manifesto piacere si impegoli, impelaghi, invischi nelle altrui faccende cercando di venire a capo minutamente di accadimenti che normalmente non sarebbero di sua competenza e perduri in tale atteggiamento seccante, noioso, irritante, sgradevole, spiacevole.L’espressione che furbescamente chiama in causa una madre badessa e la sua vulva non è da intendersi in senso reale, ma solo come icastica cioè significativa rappresentazione di un comportamento disdicevole quale è quello di chi tenti di indagare (per proprio gusto e senza essere autorizzato) minutamente fin nei piú segreti recessi del prossimo e non mette conto se questo sia un popolano o una persona di riguardo; in effetti la voce badessa è usata solo perché rimante acconciamente con fessa!
fessa s.vo f.le il piú comune dei termini usati volgarmente per indicare la vulva femminile; fessura, apertura con etimo dal lat. fissa→féssa: part. pass. femm. del verbo lat. findere=fendere, aprire ;la voce a margine, semanticamente ripete il significato di porta, apertura che è anche del corrispondente vulva(dal lat. vulva(m), variante di volva(m)=porta, accesso) dell’italiano; per tutti gli altri termini usati nel napoletano per indicar la vulva rimando alibi sotto la voce sciuscia e altre.
badessa s.vo f.le: superiora in un monastero femminile: madre badessa, ma ironicamente anche donna autoritaria, che si dia arie di superiorità; etimologicamente il termine badessa è una forma aferetica per (a)-badessa che viene dal latino abbatissa voce femminilizzata di abbas/abbate(m) che trae dal caldeo e siriaco âbâ o âbbâ= padre.
4.VA' FELICITA QUACCUN'ATO
Ad litteram: va' a render felice qualcun altro Locuzione di valenza molto simile alla precedente; questa in epigrafe è venata di maggior ironia, se non sarcasmo, atteso che se uno infastidisce qualcuno, certamente non lo rende felice ; ed in effetti qui il render felice sta ironicamente a significare: romper le scatole, tediare, pesantemente infastidire.
5.VA' 'O PIGLIA’ A AGNANO! o piú semplicemente PIGLIAL’ A AGNANO
Letteralmente: Va’ a pigliarlo in Agnano o piú semplicemente: piglialo ad Agnano Eufemistica, ma icastica, graziosa, divertente espressione ancóra usata al posto delle becere Vallo a pigliarlo in culo o piglialo in culo oppure Vallo a pigliarlo in ano/piglialo in ano ; le becere espressioni valgono ad litteram: va’ a prenderlo nel culo/prendilo nel culo(ed il cosa è facilmente intuibile) l’espressione in esame è una rabbiosa esclamazione indirizzata verso chi si voglia invitare a lasciarsi figuratamente sodomizzare, per significargli che deve accettare ciò che viene, senza opporre resistenza, soprattutto se ciò che arriva è un tiro mancino proditorio ed inatteso, tiro scoccato da qualcuno con cui non si può competere; spesso la locuzione in esame è accompagnata da un perentorio e statte zitto (e taci).La graziosità dell’espressione va riscontrata nell’adattamento eufemistico fatto delle voci in ano trasformate nell’assonante Agnano che di per sé attualmente corrisponde ad una zona di Napoli compresa nella decima municipalità ed in origine fu un vulcano estinto dei Campi Flegrei che formò una conca e dalle sorgenti di acqua termale che vi sgorgano copiose, nel XI secolo la conca si trasformò in un lago prosciugato poi con una bonifica nel 1870: dei canali a raggiera convogliano le acque in una vasca centrale dalla quale si diparte un emissario che, passando sotto il Monte Spina, sfocia a mare a Bagnoli.Interessantissima l’etimologia del nome Agnano: Secondo Benedetto di Falco, il nome della località sarebbe derivato, a metà del '500, dal termine Anguignano, per la moltitudine di serpi che si annidavano tra le felci che contornavano il lago (dal latino anguis, "serpente"). In effetti nell'opera di Pietro da Eboli (Eboli1170? –† ivi 1220 ca) chierico che fu cronista, poeta e miniaturista, vicino alla corte sveva), la miniatura che illustra la sorgente termale di Agnano, chiamata Balneum Sudatorium, mostra il lago pieno di rane e di serpenti. Una tale etimologia, però, non à basi linguisticamente probanti. Tralasciando numerose altre ipotesi, parimenti poco credibili, formulate tra il '600 e l'800, risale al 1931 il primo lavoro in cui l'etimologia del toponimo Agnano viene trattata in maniera scientifica. L'autore, Raimondo Annecchino, dopo un'attenta disamina delle fonti, fa risalire il toponimo Agnano ad un ipotetico praedium Annianum, cioè ad un fondo di proprietà di esponenti della gens Annia, attestata a Pozzuoli in epoca romana. Cita, infatti, vari documenti medioevali in cui compare il toponimo Anianum o Annianum. La teoria è stata di recente criticata da Gaetano Barbarulo in un saggio in cui evidenzia come il toponimo originario fosse Angulanum (Luogo a forma di angolo) e traesse origine dalle caratteristiche geomorfologiche del Luogo. Da Angulanum (attestato già in una fonte del VI secolo), attraverso le forme intermedie Anglanum e Agnanum, si sarebbe giunti alla moderna forma Agnano. Tutte queste ipotesi etimologiche sono riportati par pari in un famoso saggio di toponomastica di Gino Doria (Napoli1888-†ivi1975) singolare figura di storico, personalità eclettica, dai molteplici interessi culturali (letteratura, musica, arte, bibliografia, giornalismo, storia patria etc.).Nota linguistica Nella corretta scrizione napoletana dell’espressione in esame l’infinito pigliare è scritto in maniera apocopata piglia’ con il segno diacritico (‘) che indica l’avvenuta apocope della sillaba finale re, ma lascia invariato come è giusto che sia l’accento tonico della parola per cui il piglia’ di va’ ‘o piglia’etc. va lètto piglia ; si volesse spostare l’accento tonico della parola come nella frase corrispondente vallo a ppiglià etc. dove il pronome lo è enclitico di va si dovrebbe usare per indicare l’avvenuta apocope non l’apostrofo, ma l’accento ed ottenere piglià. In effetti bisogna tener presente che il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia operare un taglio ad un termine mantenendone però il primitivo accento tonico ; per esempio il verbo èssere può essere apocopato (soprattutto in poesia, per particolari esigenze metriche e/o espressive) in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancora ad es. il verbo tégnere, può, per particolari esigenze espressive o metriche, essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si deve leggere càde e non cadé! Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono giustamente resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: vede e non vedé. A margine e completamento di tutto quanto fin qui detto rammento che – checché ne dicano taluni pedestri vocabolaristi i quali (poggiandosi sul fatto che la voce apocope in greco indica appunto il troncamento) confondono l’apocope con il troncamento; quest’ultimo è infatti la caduta di un suono in fine di parola: es. fior per fiore o anche pur per pure, qual per quale, tal per tale etc.; l’apocope ( cfr. nel napoletano si’ che sta per si(gnore) è pur essa la caduta di uno o piú suoni in fine di parola, ma tale caduta è, nella stragrande maggioranza dei casi, caduta di una o piú sillabi finali ad es. nell’italiano: san per santo e (almeno per ciò che riguarda il napoletano (nell’italiano tale esigenza non è contemplata salvo che per talune parole come fra’ che è da fra(te), po’che è da po(co)) l’apocope (caduta di suoni rappresentati da una o piú sillabe finali, non di una sola consonante; infatti come si ricava dalla medesima parola la consonante non è titolare d’un suono proprio che le viene offerto da una vocale d’accompagnamento... ) dev’essere indicata con un segno diacritico (‘) quando la caduta della sillaba non esiga addirittura l’accento come ad es.in tutti gli infiniti dei verbi dove la caduta della sillaba finale (re) lascia una parola terminante per vocale che va accentata tonicamente (cfr. parlà che è da parla(re) – capÍ che è da capi(re) e cosí via; in questo caso mettere il segno dell’apocope (‘) porterebbe ad avere parla’ – capi’ che non consentirebbero l’esatta pronuncia di parlà o capí, ma andrebbero pronunciati parla e capi; l’accento in Luogo dell’apocope mette le cose a posto e pertanto è inutile e pleonastico scrivere (come pure inopinatamente (cfr. A.Altamura) m’è occorso di trovare scritto parlà’ e capí’ abbondando in pletorici segni diacriti quali i due apostrofi accanto a vocali già accentate. In napoletano i monosillabi apocopati di una o piú consonanti (che come visto non è/son rappresentativa/e da sola/e di un suono) non necessitano di alcun segno diacritico (ad. es. mo =ora, adesso (che è da mox), cu= con (da cum),pe=per (da per)po= poi (da post) etc.).
BRAK

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