1.PARÉ 'A
SPORTA D''O TARALLARO.
Sembrare la cesta del venditore dei taralli. La locuzione è usata innanzi tutto per indicare chi, per motivi di lavoro o di naturale instabilità, si sposta continuamente, come appunto il venditore di taralli che con la sua cesta, per smaltire tutta la merce fa continui lunghi giri. C'è poi un'altra valenza della locuzione. Poiché gli avventori di taralli son soliti servirsi con le proprie mani affondandole nella cesta colma di tartalli per scegliere, alla stessa maniera c'è chi consente agli altri di approfittare e servirsi delle sue cose, ma lo fa piú per indolenza che per magnanimità. |
2.LÀSSEME
STÀ CA STONGO'NQUARTATO!
Lasciami perdere perché sono irritato, scontroso, adirato. Per cui non rispondo delle mie reazioni... La locuzione prende il via dal linguaggio degli schermidori: stare inquartato, ossia in quarta posizione che è posizione di difesa, ma anche di prevedibile prossimo attacco il che presuppone uno stato di tensione massima da cui possono scaturire le piú varie reazioni. |
3 SE FRUSCIA PINTAURO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO. variante: SE FRUSCIA PANTUSCO D’’E
SFUGLIATELLE JUTE ACITO.
Ad litteram: Si vanta (a
torto) Pintauro delle (sue) sfogliatelle (che invece risultano) inacidite;
nella variante, il cognome Pintauro, ( che come chiarirò fu quello del piú
famoso pasticciere napoletano principale produttore, se non ideatore, di
sfogliatelle (fra i piú tipici e rinomati dolci partenopei) fu sostituito con
il nome di fantasia Pantusco, per non incorrere con la prima espressione in
epigrafe, nelle ire del sig. Pintauro che si vedeva messo in ridicolo e punto
sul vivo in ciò ch’egli riteneva tra le sue migliori capacità: quella di
sfornare ottime sfogliatelle che normalmente erano freschissime e gustose e
non certo inacidite, come si tentava di far credere. Locuzione popolarissima
usata a sapido, anzi sarcastico commento delle azioni di chi, supponente ed
arrogante, si glori, vantandosi a sproposito del proprio operato che – lungi
dall’esser commendevole – è in realtà di segno opposto. Nella stesura della
locuzione, di origine popolare si prese a riferimento dapprima il dolciere
Pasquale Pintauro, un antico pasticciere napoletano che, normalmente,
produceva delle ottime sfogliatelle dolce tipico inventato peraltro dalle
suore carmelitane del convento
partenopeo detto Croce di Lucca ad imitazione del dolce détto santarosa
elaborato dalle consorelle dell’omonimo monastero in Furore.Il Pintauro
titolare di un’osteria aveva una sua vecchia zia monaca nel convento della
Croce di Lucca e tale vecchia zia monaca gli forní, in articulo mortis, la ricetta della sfogliatella che l’oste
rielaborò riconvertendo la sua osteria in pasticceria facendo cosí le sue fortune commerciali fabbricando
quel dolce diventato poi famosissimo.
Successivamente, forse a causa delle rimostranze di P.Pintauro che vedeva
coinvolto il suo nome in una locuzione negativa, si mutò il nome di Pintauro
(personaggio reale ed esistente) in quello di un inventato di Pantusco che,
d’altro canto, storicamente nulla aveva a che spartire (né poteva essendo
persona inesistente) con la sfogliatella. E di quest’ultima tracciamo ora
brevemente una storia. Comincerò col dire che, come è intuibile, ogni dolce à una sua storia. A volte
faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata. La
storia della sfogliatella appartiene fortunatamente alla prima categoria.
L’antenata sfogliatella, dolce tipicamente partenopeo nacque (sia pure con un
nome diverso) come spesso accadde per tanti dolci napoletani in un monastero:
quello di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei
Marini. In quel riservato luogo ci si dedicava tantissimo alla preghiera,
allo studio ed al lavoro manuale; il poco tempo libero residuo, (non potendo
le monache intrattener rapporti con il mondo esterno…) veniva speso in
cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il
loro orto e la loro vigna, sí da ridurre al minimo i contatti con l’esterno,
ed aumentare, con la preghiera, quelli con l’Eterno. Anche il pane le
religiose se lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il
menú servito a refettorio era ovviamente uguale per tutte; soltanto le
monache piú anziane potevano godere di un vitto speciale, fatto di semplici,
ma nutrienti minestrine. Avvenne cosí che un giorno di tanto tempo fa (siamo
nel 1600) la suora addetta alla cucina si accorse che in un tegame era
avanzata un po’ di semola cotta nel latte, preparata per una vecchia suora
sdentata; buttarla sarebbe stato un sacrilegio. Fu cosí che, come ispirata
dal Cielo , la suora cuciniera vi
cacciò dentro un paio di uova, due o
tre cucchiai di ricotta, un po’ di
frutta secca tritata , dello zucchero e del liquore al limone. “Potrebbe
essere un ripieno”, disse fra sé e sé. Ma da metter dentro a che cosa? La
fantasia non le mancava e risolse súbito il problema: preparò con uova e
farina due sfoglie di una sorta di pasta frolla sagomandole in forma di
conchiglia vi aggiunse strutto e vino bianco, e vi sistemò nel mezzo il ripieno.
Poi,sigillate con un po’ d’uovo battuto le due sfoglie per soddisfare il suo
gusto estetico,lavorò alquanto con le mani unte di strutto la conchiglia
ripiena dandole la definitiva forma
di un cappuccio di monaca, ed infornò il tutto. A cottura ultimata, guarní il
dolce con un cordone di crema pasticciera e delle amarene candite. La Madre
Superiora, a cui per prima fu ammannito il dolce, sulle prime lo annusò , e
súbito dopo (non si è Madri superiore indarno o per caso!...) fiutò l’affare: con quell’invenzione benedetta (e
soprattutto saporita) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che
alle casse del convento. La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce
poteva esser messo nella classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i
villici ci avessero messo (in entrata), qualche moneta. Al dolce venne
assegnato ovviamente , il nome della Santa a cui era dedicato il convento.
Come tutti i doni di Dio, la santarosa non poteva restare confinata in un sol
luogo, per la gioia di pochi. Occorse del tempo, ma poi il dolce divenne noto
in tutto il napoletano; in effetti la santarosa impiegò circa
centocinquant’anni per percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli.
Qui vi arrivò ai primi del 1800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro, nipote
di una delle monache del convento della Croce di Lucca le cui monache avevano
preso a produrre il dolce détto sfogliatella ad imitazione del dolce détto
santarosa ideato dalle consorelle del monastero di Furore. I napoletani d’antan potrebbero opporre che Pintauro fu un
pasticciere, e non un oste. Eppure al tempo di cui stiamo parlando,
P.Pintauro era effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di
fronte alla strada di Santa Brigida. La bottega di P.Pintauro rimase
un’osteria fino al 1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso,
probabilmente come grazioso dono della sua zia monaca che gliene parlò
forse in articulo mortis. Fu cosí che
Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertí in un
laboratorio dolciario, dove si produssero con le sfogliatelle anche altri
dolci d’invenzione dello stesso
Pintauro: zeppole di san Giuseppe, code d’aragoste ,babà con l’uvetta e
naturalmente tutti gli altri dolci
della tradizione partenopea, nati quasi tutti nei monasteri femminili
napoletani e/o della provincia o copiati da altri famosi dolcieri come nel
caso del diplomatico e del ministeriale . Pintauro non si limitò a diffondere
la santarosa: la modificò alquanto: mantenne la doppia sfoglia di pasta
frolla arricchita, ma eliminò la crema pasticciera e l’amarena, e ne mutò
leggermente la forma che non fu piú di conchiglia triangolare, ma quasi
rotonda sia pure con una base diritta: era nata la sfogliatella;
successivamente affiancò alla sfogliatella di pasta frolla una seconda varietà che presto diventò
addirittura piú famosa della
consorella,cioè la cosiddetta
“riccia”,fatta di pasta sfoglia e necessaria d’una particolare lavorazione
sulla quale non mi dilungo.Da allora nulla è cambiato e la sfogliatella
riccia mantiene inalterata la sua forma triangolare, a conchiglia,
vagamente rococò. Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la
pasticcerie di Napoli, con gran soddisfazione. Se si cerca l’eccellenza
però,accanto alla bottega dei F.lli Attanasio al vico Ferrovia (che sull’insegna
e la carta intestata scrive Napule tre ccose tene ‘e bbello: ‘o mare, ‘o
Vesuvio e ‘e sfugliatelle bisogna
cercare la bottega di Pintauro che è ancòra là a Toledo: à cambiato gestione,
ma non à cambiato il nome e neppure l’insegna, e tanto meno la qualità. Che
resta quella di quasi duecento anni or sono e da allora si continua
imperterriti a sfornare saporitissime e godibilissime sfogliatelle ricce o
frolle, nonché in onore della tradizione (spesso però solo su richiesta)
delle tronfie santarose che però son solo di pasta sfoglia.
se fruscia = si vanta, si pavoneggia, si
gloria voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) del riflessivo frusciarse
da fruscià/frusciare che con etimo dal b.latino frustiare sta per fare in
pezzi, sciupare, consumare; i significati estensivi di vantarsi, gloriarsi,
pavoneggiarsi del riflessivo frusciarse sono da collegarsi con un po’ di
fatica in quanto la strada da percorrere è impervia, al significato primo del
riflessivo che è affaccendarsi in qlc., facendo mostra del proprio impegno.
Pintauro: Come abbiamo visto si tratta dell’oste, poi pasticciere
(sfogliatelle,santarose, zeppole di san Giuseppe, code di aragoste ed altri
dolci) Pasquale Pintauro che ebbe dapprima osteria e poi pasticceria in un
piccolo antichissimo locale sito in Napoli alla via Toledo; di tale
oste/dolciere mancano precise note biografiche; la tradizione vuole che fosse
il nipote d’una monaca di clausura, che – come ò détto – gli forní, in punto di morte, la ricetta
della santarosa da cui l’oste ricavò la sfogliatella.
Pantusco inesistente
personaggio il cui nome inventato dal popolino venne usato per sostituire
l’originario Pintauro che s’era adontato sentondosi ingiustamente chiamato
ironicamente in causa, con la prima locuzione in esame, come produttore di
dolci non freschissimi.
sfugliatelle = sfogliatelle
s.vo f.le pl. di sfugliatella piccolo, gustosissimo dolce napoletano fatto di
pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su
sé stessa e farcita con crema di semola, uova e ricotta, canditi e spezie
varie; etimologicamente è un derivato di sfoglia→sfogliata→sfogliatella.
jute= andate voce verbale (part. pass.
femm.plur.) dell’infinito jí= andare dal lat. ire.
acito= aceto s.vo m.le prodotto della fermentazione del vino o di
altri liquidi alcolici, usato come condimento, nella conservazione di
prodotti alimentari e in farmacia; (etimo dal lat. acitu(m)); l’espressione
jí acito vale inacidire, andare a male ed è detto soprattutto dei cibi che, o
perché confezionati con ingredienti non freschissimi o perché mal conservati
o esposti ad improprî agenti atmosferici, perdono l’originario sapore e
diventano acidi, rovinandosi tanto da non esser piú commestibili; in senso
estensivo e traslato l’espressione può essere usata anche nei riguardi di
situazioni interpersonali che, per svariati motivi, si logorano perdendo
l’originaria freschezza fino a determinare la interruzione di quei rapporti
logorati.
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4.CARCERE,
MALATIA E NECISSITÀ, SE SCANAGLIA 'O CORE 'E LL'AMICE.
Carcere, malattia e necessità fanno conoscere la vera indole, il vero animo, degli amici. |
5.MURÍ CU
'E GUARNEMIENTE 'NCUOLLO.
Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i carretti e non i camioncini tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla fatica, con ancora i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere.... Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore che faccia per intero il suo dovere... |
6.NISCIUNO
TE DICE: LÀVATE 'A FACCIA CA PARE CCHIÚ BBELLO 'E ME.
Nessuno ti dice: Lavati il volto cosí sarai piú bello di me. Ossia:non aspettarti consigli atti a migliorarti, in ispecie da quelli con cui devi confrontarti. |
7.QUANN'
UNO S'À DDA 'MBRIANCÀ, È MMEGLIO CA 'O FFA CU 'O VINO BBUONO.
Quando uno decide d'ubriacarsi è meglio che lo faccia con vino buono. Id est: Se c'è da perdere la testa è piú opportuno farlo per chi o per qualcosa per cui valga la pena.Con uguale intendimento s’usò dire: si proprio avimm’’a fa ‘nu peccato, facímmolo murtale!
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