domenica 28 aprile 2019

14 NOTE LOCUZIONI


14 NOTE LOCUZIONI
1.CANTA CA TE FAJE CANONICO!
Letteralmente: Canta ché diventerai canonico Id est: Urla piú forte ché avrai ragione Il proverbio (di colore marcatamente sarcastico) intende sottolineare l'abitudine di tanti che in una discussione, non avendo serie argomentazioni da apportare alle proprie tesi, alzano il tono della voce ritenendo cosí di prevalere o convincere l'antagonista.Il proverbio rammenta il comportamento dei canonici della Cattedrale che son soliti cantare l'Ufficio divino con tonalità spesso elevate, per farsi udire da tutti i fedeli.
2.ARMAMMOCE E GGHIATE.
Letteralmente: armiamoci, ed  andate! Id est: Tirarsi indietro davanti al pericolo; come son soliti fari troppi comandanti, solerti nel dare ordini, ma mai disposti a muovere i passi verso il luogo della lotta; cosí soleva comportarsi il generale francese Manhès che inviato dal re Gioacchino Murat in Abruzzo a combattere i briganti inviò colà la truppa e restò a Napoli a bivaccare e non è dato sapere se raggiunse mai i suoi soldati.
3.A - CANE E CCANE NUN SE MOZZECANO
B- CUOVERE E CUOVERE NUN SE CECANO LL'UOCCHIE.
Letteralmente: A- Cani e cani non si azzannano B- Corvi e corvi non si accecano Ambedue i proverbi sottolineano lo spirito di corpo che esiste tra le bestie, per traslato i proverbi li si usa riferire anche agli uomini, intendendo  sottolineare che i cattivi soggetti e piú in generale le  persone di cattivo stampo non son soliti farsi guerra, ma - al contrario - usano far causa comune in danno dei terzi.
4.CCA 'E PPEZZE E CCA 'O SAPONE.
Letteralmente: Qui gli stracci e qua il sapone. Espressione che compendia l'avviso che non si fa credito e che al contrario a prestazione segue o deve seguire  immediata controprestazione. Essa locuzione era usata temporibus illis a Napoli dai rigattieri che davano in cambio di abiti smessi o altre cianfrusaglie, dell’artigianale sapone per bucato (sapone ‘e piazza, che s’ebbe questo nome per il fatto di esser commercializzato in origine solo da rigattieri ambulanti che erano soliti sostare in piazza con le loro mercanzie: piatti, stoviglie, sapone  che poi venivano portate a domicilio quale corrispettivo di abiti smessi, cianfrusaglie frutto dello svuotamento di solai e/o cantine e stracci rivenduti per la produzione della carta); dalla  consuetudine di cedere del sapone  quei rigattieri furon  détti appunto  sapunare, anche quando smisero di conferire sapone e si adattarono a dare poco, vile danaro in cambio degli abiti smessi,cianfrusaglie, stracci  e fondi di solai o cantine.
5.TENÉ 'A SÀRACA DINT' Â SACCA
Letteralmente: tenere la salacca in tasca. Id est: mostrarsi impaziente e frettoloso alla stregua di chi abbia in tasca una maleodorante salacca (aringa)e sia impaziente di raggiungere un luogo dove possa liberarsi della scomoda compagna.
6.T'AGGI''A FÀ N'ASTECO ARETO Ê RINE...
Letteralmente Ti devo fare un solaio nella schiena.Id est: Devo percuoterti violentemente dietro le spalle. Per comprendere appieno la portata di questa grave minaccia contenuta nella locuzione in epigrafe, occorre sapere che per asteco a Napoli(con derivazione dal greco ostrako(n)→ ost(r)ako(n)→ostako→asteco) si intende il solaio di copertura delle case, solaio che anticamente era formato con cocci di anfore o piú spesso con  abbondante lapillo vulcanico ammassati all'uopo e poi violentemente percossi con appositi martelli al fine di grandemente compattarli e renderli impermeabili alle infiltrazioni di acqua piovana, per cui minacciare di compattare a mo’ di lapillo la/le schiena/spalle di qualcuno equivale a promettergli una solenne bastonatura.
7.OGNE ANNO DDIO 'O CUMANNA
Letteralmente: una volta all'anno lo comanda Iddio. La locuzione partenopea traduce quasi quella latina: semel in anno licet insanire, anche se i napoletani con il loro proverbio chiamano in causa Dio ritenuto corresponsabile delle pazzie umane come se Lui stesso le avesse permesse se non addirittura ordinante.
8.PE GULÍO 'E LARDO, METTERE 'E DDETE 'NCULO Ô PUORCO.
Letteralmente: per desiderio di lardo, porre le mani nell'ano del porco. Id est: per appagare un desiderio esser pronti a qualsiasi cosa, anche ad azioni riprovevoli e/o inconferenti  che comunque non assicurano il raggiungimento dello scopo prefisso. La parola gulío= voglia, desiderio pressante non deriva dall'italiano gola essendo il gulío non espressamente lo smodato desiderio di cibo o bevande; piú esattamente la parola gulío è da riallacciarsi al greco boulomai=volere intensamente con consueta trasformazione metaplasmatica  della B greca nella napoletana G come avviene per es. anche con il latino dove habeo è divenuto in napoletano aggio o come rabies divenuta          (ar)raggia.
9.SCIORTA E MMOLE SPONTANO 'NA VOTA SOLA.
Letteralmente:la buona fortuna ed i molari compaiono una sola volta. Id est: bisogna saper cogliere l'attimo fuggente e non lasciarsi sfuggire l'occasione propizia che - come i molari - spunta una sola volta e non si ripropone.
10.LL'ARTE 'E TATA È MMEZA 'MPARATA.
Letteralmente: l'arte/mestiere del padre è appresa per metà. Con questa locuzione a Napoli si suole rammentare che spesso i figli che seguano le piste del genitore son favoriti rispetto a coloro che ad un’arte, ad un mestiere  dovessero accostarsi senza averne appreso i rudimenti dai genitori. Partendo da quanto affermato in epigrafe spesso però capita che taluni che  abbiano   spianata la strada dell’apprendimento,   al redde rationem si  mostrano pessimi allievi, appalesando con i loro comportamenti  di non aver appreso un bel nulla dal loro genitore ed in tal caso ne deriva che la locuzione nei riguardi di tali pessimi allievi debba essere intesa in senso ironico e perciò  antifrastico.
11.OGNE GGHIUORNO È TALUORNO.
Letteralmente: ogni giorno è una fastidiosa ripetizione; id est: insistere reiteramente su di uno stesso argomento, non può che procurar fastidio; con la frase in epigrafe a Napoli si cerca di dissuadere dal continuare chi perseveri nel parlare sempre dello stesso argomento, finendo per tediare oltremodo l'interlocutore. Taluorno non deriva come improvvidamente e fantasiosamente  pensò qualcuno (D’Ascoli), traendo – per un certo periodo – in inganno anche il sottoscritto..., non deriva   da un latino: tal-urnus: ripetizione; in realtà il termine taluorno  è da collegarsi   all’antica voce latorno voce che nella lingua ufficiale è ormai desueta tanto da essere addirittura inopinatamente (manca persino nel Pianegiani!) esclusa nei correnti ed accreditati calepini della lingua italiana; tale latorno (etimologicamente deverbale di ritornare  con dissimilazione r→l) indicò un lamento reiterato, una ripetizione noiosa, un canto o una persona fastidiosa e con una tipica dittongazione  d’adattamento la voce  latorno divenne  latuorno in area calabro-lucana e poi anche pugliese, dove  indicò il tipico lamento funebre delle prefiche (dal lat. praefica(m), f. dell'agg. praeficus 'messo a capo', deriv. di praeficere 'mettere a capo', perché questa donna era preposta al gruppo delle ancelle che piangevano; in effetti la prefica fu la donna che, presso gli antichi romani, veniva pagata per piangere e lamentarsi durante i funerali; l'usanza ancóra  sopravvive in alcune aree mediterranee  europee; scherzosamente la voce prefica è usata poi  anche per indicare una  persona che si lamenti per nulla; ,il lamento funebre, nelle aree soprindicate è detto anche riépeto/liépeto   che semanticamente richiamano il latuorno/taluorno   con il suo reiterarsi.Riépeto e liépeto   sono un’unica voce con due grafie leggermente diverse cioè con  la tipica alternanza/dissimilazione  partenopea delle liquide r/l  etimologicamente risultano essere deverbali di repetà,  che  da un lat. medioevale repetare indicò appunto il pianger lamentoso durante i funerali e/o le veglie funebri. Alla luce di tutto quanto detto mi pare che, relativamente all’etimo di taluorno si possa finalmente  affermare  che in napoletano la voce  taluorno indicò dapprima il tipico lamento funebre delle prefiche e poi estensivamente persona noiosa e/o  ogni fastidio reiterato, e – quanto all’etimo- messo da parte il *tal – urnus  del D’Ascoli, si possa con ogni probabilità intendere come lettura metatetica di latuorno→taluorno
12.ATTACCARSE Ê FELÍNIE.
Letteralmente: appigliarsi alle ragnatele. Icastica locuzione usata a Napoli per identificare l'azione di chi in una discussione - non avendo solidi argomenti su cui poggiare il proprio ragionamento e perciò e le proprie pretese - si attacchi a pretesti o ragionamenti poco solidi, se non inconsistenti, simili -appunto - a delle evanescenti ragnatele.
Felinie = s.vo f.le pl. del sg. felinia = fuliggine, ragnatela dal lat. med. felinea per il class.fuligo. _  13.“TENIMMO’E MMANE A PPOSTO!” DICETTE ‘A COZZECA ‘NFACCI’ Ô PURPO. Letteralmente: Disse la cozza al polpo: Teniamo le mani al loro posto! Id est: Non prendiamoci liberalità e non profittiamo della situazione. Piú in generale:  Non si può accedere alle “grazie” o ai “beni” degli altri, senza una precisa autorizzazione. L’espressione in esame ovviamente non va presa in senso letterale, ma traslato; infatti  la cozza ed il polpo sono usati in modo figurato in quanto la prima è uno dei modi piú icastici di indicare la vulva della donna, mentre il polpo dai molti tentacoli (nell’espressione mani ) raffigura l’uomo che tenta di palpeggiarla;
Tenimmo  = teniamo, manteniamo letteralmente, di per sé anche abbiamo: in napoletano il verbo tené/tènere di cui tenimmo  è voce qui dell’imperativo ( 1ª pers. pl.) altrove anche voce( 1ª pers. pl.) dell’ind. pres.  , può avere varie accezioni: avere,tenere, mantenere,  possedere, ed anche  condurre in fitto o anche altro significato estensivo ; etimologicamente il verbo tené/tènere che è l’italiano tenére è dal basso latino teníre =trarre a sé, corradicale di tendere = tendere;
 cozzeca,= cozza, mitilo bivalve  che aperto, come altrove la  vongola  ricorda quasi la forma dell’organo femminile; in piú la cozza, per essere di colore nero e provvista di bisso,   ben si presta a rappresentare il fronzuto organo femminile  di una donna giovane; l’etimo di cozzeca  è, quasi certamente, da una forma ampliata di un lat. volg. *cocja→*cocjala→cozzala→cozzaca→cozzeca;




14.ROMPERE 'O NCIARMO.
Letteralmente: spezzare l'incantesimo. A Napoli la frase è usata davanti a situazioni che per potersi mutare hanno bisogno di decisione e pronta azione in quanto dette situazioni si ritengono quasi permeate di magia che con i normali mezzi è impossibile vincere per cui bisogna agire quasi armata manu per venire a capo della faccenda.  La voce nciarmo  che come il verbo nciarmà di cui pare esser deverbale  non è etimologicamente dal latino in (illativo)+ carmen, ma dal francese n (eufonica,che non esige segni diacritici) + charme = magía, incantesimo a sua volta come il verbo charmer derivati dal basso latino carminare (in latino carmen  è la formula magica).  
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