‘A ZÒZA
Con il vocabolo in epigrafe il
napoletano indica varie cose:  il
sudiciume in genere,un brodo sciapito o preparato senza il rituale mazzetto di erbe aromatiche, ma pure il
fango o la fanghiglia, i rimasugli o pure gli intrugli edibili che, pur presentati
come autentiche leccornie,non incontrando il favore del gusto delle persone cui
siano ammanniti, vengon da costoro rifiutati e  definiti zòza  ed infine  qualsiasi roba che sia ributtante, nauseante,
una generica robaccia, una porcheria od anche una minestra eccessivamente brodosa
e cattiva, una brodaglia insomma o ancora una pozione medicamentosa,dal
disgustoso sapore tale che proprio non la si riesca a deglutire(e mi tornano in
mente i maleolenti olio di ricino e olio di fegato di merluzzo della  fanciullezza o talune preparazioni galeniche,
dal nausebondo sapore, approntate contro tossi e febbri da volenterosi semplicisti
: farmacisti/ erboristi cosí chiamati in quanto venditori di preparati per i
quali venivano usate erbe medicinali dette appunto simplex) ed estensivamente ogni cosa che sia stata fatta male, in
maniera raffazzonata  di talché il
risultato risulti essere scadente, riprovevole 
e non confacente; fino a giungere all’offensivo: sî ‘na zòza totalizzante
offesa rivolta all’indirizzo di chi si voglia concisamente , ma duramente
indicare come persona fisicamente sporca, laida, ma soprattutto moralmente
disgustosa e ributtante.
Tutte le medesime cose,con
l’eccezione della totalizzante offesa, in toscano sono indicate con il termine zózza
che nel suo significato primo  stette
ad indicare una miscela di liquori
scadenti e successivamente tutto il surriportato e che  etimologicamente risulta essere un’alterazione
popolare della parola suzzacchera (forgiata sul
greco:oxy-sakcharòn=zucchero acido) con eliminazione della parte  finale: cchera ritenuta, ma  erroneamente, terminazione diminutiva.
Detto ciò, seguitiamo col dire,
quanto all’etimologia della parola in epigrafe, che bisogna lasciar perdere
innanzitutto  la  tentazione 
che zòza sia semplicemente un adeguamento dialettale (mediante
l’eliminazione di una  Z e cambio di accento della o tonica, chiusa nel toscano e aperta
in napoletano) della zózza toscana; alla medesima
stregua, a mio avviso non bisogna lasciarsi suggestionare dalla base latina suc  da cui sucus=
succo, unto >sucidus > per
metatesi sudicius  per il tramite di una forma sostantivata
neutra, poi sentita femminile sucia =cose
sporche, sudice.
In realtà la parola napoletana è
molto piú recente rispetto al basso latino sucia
o alla voce toscana  zózza, e risale alla seconda metà del ‘700, quando vi fu a Napoli
una sorta d’invasione dei cuochi francesi – che súbito, i napoletani,
corrompendo il termine monsieur
dissero munzú -  chiamati nel
Reame, in occasione delle proprie nozze(1768)
dalla regina Maria Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo  moglie di Ferdinando I Borbone, sorella di
Maria Antonietta regina di Francia, quella che il giorno prima che fosse
ghigliottinata, per lo spavento incanutí d’un colpo. L’intento di Maria
Carolina fu quello di voler elevare, mediante il supporto dei raffinati cuochi
francesi, la troppo semplice cucina partenopea; il risultato però non fu quello
sperato: i munzú  d’oltralpe  e le loro raffinate preparazioni culinarie
mal si sposarono (con la sola eccezione del sartú
(dal francese surtout ) tronfio e
saporito timballo di riso, che entrò a vele spiegate nella cucina napoletana)
con i gusti dei partenopei; essi – è noto – amano ed amavano preparazioni
semplici e veloci ed i sughi a base di pomodoro, per cui non compresero, né
apprezzarono le sauces francesi a base di burro, latte, farina e talvolta uova
e rifiutarono la salsa gallica storpiandone il nome che da sauce (lèggi: sós(e))
divenne zòza con tutte le estensioni summenzionate. 
Ciònonpertanto il titolo di monzú (corruzione della voce
francese monsieur= signore)  attecchí fino a diventare la denominazione che
spettava in genere  solo ai grandi
cuochi, ma il popolino gratificò con il titolo di monzú anche i titolari di bettole e taverne aperte nelle
popolari zone della città bassa; tra costoro forse il piú noto fu quel tale monzú
Arena  che, in concorrenza con il
titolare della taverna del Cerriglio (cfr. alibi), aprí bottega negli anni di
fine  1600‘nterr’ârena (cioè nella zona antistante la spiaggia del Carmine) donde
il nome di Arena  con cui fu conosciuto 
Il titolo di monzú divenne quasi   un
titolo onorifico, tanto ambíto che - cosí come riportato da  Salvatore di Giacomo - un celebre cuoco lo
preferí ad una lauta ricompensa che Ferdinando II di Borbone pure gli aveva
offerto, per i servigi resi nelle cucine di palazzo.
Raffaele Bracale
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