IL VERBO JÍ (andare) E LE SUE LOCUZIONI.
Il verbo italiano
andare ( che etimologicamente qualcuno pensa derivi dal lat. ambulare o da un
lat. volg. *ambitare, ma che molto piú esattamente sembra derivi da *aditare frequentativo
di adire è verbo che à alcune forme che ànno per tema vad- derivando dal lat.
vadere/vadicare 'andare') è reso,in napoletano, con derivazione dal lat. ire,
con l’infinito jí/ghí e son numerose le locuzioni formate con détto infinito.
Prima di esaminarne qui di sèguito qualcuna, preciso che in napoletano la
grafia corretta dell’infinito è – come ò scritto – jí oppure in talune
espressioni ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per
comodità espressiva dal suono gh; è pertanto assolutamente errato (come
purtroppo càpita con la stragrande maggioranza di sedicenti scrittori
napoletani noti o meno noti!) rendere in napoletano l’infinito di andare con la
sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno
scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome
io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare
in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come
espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi
26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo
andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponevano i loro parti… poetici
dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo
di jí oppure, ove del caso, ghí li metteva decisamente alla porta consigliando
loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo
jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1ª,2ª e 3ª pers. sg.) si
serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di)
ed à: i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1ª e 2ª pers. pl.usa il tema di ji
–re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3ª pers. pl
che è lloro vanno. E veniamo alle locuzioni: 1.Jirsene carreco ‘e meraviglie Ad
litteram: andarsene carico di meraviglia. id est: allontanarsi stupefatto, in
preda alla massima meraviglia, da un luogo dove si è assistito o dove si è
partecipato - magari involontariamente -ad avvenimenti sconvolgenti o
grandemente allibenti; per traslato si usa dire di chi si allontani da un luogo
o da una persona dopo d’aver subíto una dura reprimenda o rampogna. Carreco/a
agg.vo m.le o f.le = letteralmente carico, caricato(estens.) sovraccarico,
traboccante, (fig.) oppresso; etimologicamente la voce napoletana è connessa a
carrus (cfr. la doppia liquida rispetto alle scempia dell’italiano carico)
addizionato del suffisso di pertinenza icus/ica. 2. Jirsene muro - muro Ad
litteram: andarsene rasentando il muro; id est: allontanarsi alla chetichella,
quasi sfiorando un muro allo scopo di non farsi notare, non dando nell’occhio.
3. Jirsene oppure venirsene tinco - tinco Ad litteram: allontanarsi come un
tincone oppure avvicinarsi sollecitamente (come un tincone); id est: sparire da
un luogo rapidamente e con una buona dose di faccia tosta, quasi dando ad
intendendere che l’avvenimento cui si è partecipato e da cui ci si allontani
non ci riguardi, né chiami in causa, oppure (nel secondo caso) accostarsi ad un
luogo rapidamente e con una buona dose di faccia tosta, quasi dando ad
intendendere che l’avvenimento cui si intende partecipare sia di nostra
competenza o ci chiami in causa, quantunque nessuno ci abbia invitati o
sollecitati in quel senso; in questo secondo caso lo si usa con icastico
riferimento a tuti quegli inoportuni comportamenti di saccenti e supponenti
adusi ad intromettersi nelle altrui faccende per esprimere pareri o dispensare
importuni consigli non sollecitati. A margine rammento altre tipiche
espressioni modali che si ricollegano al verbo andare; abbiamo: venirsene
oppure jrsene ruglio ruglio (id est: venir mogio mogio, piano piano,ovvero
accostarsi lentamente, quasi contando i passi, come chi sia pieno, zeppo,
stipato di cibo e dunque sia costretto a muoversi lentamente, mogio mogio. Vale
la pena di ricordare che l’espressione ruglio ruglio, nella sua reiterazione
dell’aggettivo di grado positivo ne sostanzia il superlativo che, al solito, in
napoletano non à la forma del suffisso in issimo, ma si forma reiterando
l’aggettivo di grado positivo come avviene p. es. con chiatto chiatto o luongo
luongo o ancora curto curto che rispettivamente stanno per
grassissimo,altissimo (o lunghissimo), bassissimo e dunque ruglio ruglio sta per
pienissimo. Rammenterò appena che l’espressione venirsene ruglio ruglio non va
confusa con quella che recita: venirsene tinco tinco or ora illustrata, di
significato diametralmente opposto: venirsene sollecitamente, né va confusa con
l’espressione usata dal famosissimo Totò: venirsene tomo, tomo, cacchio
cacchio, espressione che come ebbi modo di chiarire altrove sta per: agire con
improntitudine, faccia tosta. Un’ ultima notazione; etimologicamente la parola
ruglio è un chiaro deverbale forgiato sul verbo latino: turgulare frequentativo
di turgere: inturgidire; E, a mo’ di completamento rammenterò che sia in
calabrese che in napoletano d’antan esiste il verbo ‘ntrugliare = ingrossare
forgiato ugualmente sui verbi latini di cui sopra. Ancóra l’espressione
napoletana jí cuonce cuonce è un’espressione avverbiale che vale: andare, agire
piano, piano – senza fretta – accortamente – con cautela,precisione e
circospezione – lentamente; l’espressione si sostanzia nell’iterazione del
sostantivo cuonce (plurale di cuoncio), ma nel caso in esame l’iterazione non
mira a formare un superlativo come nel napoletano avviene normalmente, ed ò già
déto, alibi sia con sostantivi, ma soprattutto con aggettivi (cfr. sicco sicco
(=magrissimo), chiatto chiatto (=grassissimo), luongo luongo (=altissimo o
lunghissimo) tinco tinco (=rapidissimo come una tinca)etc. Nel caso in esame ci
si ricollega al sostantivo cuonce (plurale di cuoncio) per richiamarne, con
l’iterazione, la cautela lenta e circospetta usata nel portare a compimento
un’opera muraria (quella che gli antichi romani dissero opus quadratum o opus
reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel
sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali di piccole piramidi di tufo o
altra pietra, e tenendone la base rivolta verso l'esterno, ed il vertice verso
l'interno, per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse
l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente.
Chiarisco: in napoletano il sostantivo cuoncio (di cui cuonce è il plurale),
con etimo quale deverbale da conciare (che è dal lat. volg. *comptiare, deriv.
di comptus 'ornato, adorno', da comere 'mettere insieme'), à molti significati:
concime, letame (per concimare), belletto, condimento (cfr. ‘o cuoncio acconcia=
il belletto, il condimento rende migliore la persona o il cibo), ma indica pure
(concio) ognuna di quelle piccole piramidi di tufo o altra pietra di cui sopra;
per cui con la locuzione avverbiale cuonce cuonce si intende richiamare la
lentezza, la cautela, la precisione maniacale e circospetta da usarsi
(procedendo un concio per volta) nel porre in essere l’ opus quadratum o opus
reticulatum; allo stesso modo con medesima studiata lentezza, cautela, e
precisione deve comportarsi nel suo agire chi sia invitato ad operare cuonce
cuonce. E passiamo all’espressione jrsene o venirsene cacchio cacchio che è
andarsene o venirsene in maniera strana; infatti cacchio, cacchio ad litteram
sta per: strano, strano (nell’espressione in esame: avvicinarsi o allontanarsi
strano, strano)Espressione usata per significare l’atteggiamento di chi,
facendo finta di nulla, mogio mogio, con indifferenza ed ostentata
tranquillità, si prepara invece ad agire proditoriamente in danno di terzi,
quasi che si accostasse al luogo dove agirà, con studiata noncuranza, o se ne
allontanasse dopo d’avere agito con proditoria e dannosa indifferenza. Da
rammentare che l’espressione a margine era usata da Totò, il principe del
sorriso, sommandola con la pleonastica espressione - tomo tomo espressione
inutile in quanto di uguale portata e/o significato, ma di minor presa; ò detto
pleonastica perché, mi pare che non ci fosse stato il bisogno di chiarire o
aumentare la portata del cacchio cacchio napoletano, espressione - al contrario
- molto piú corposa e pregnante, per il vocabolo usato, dell’algido tomo tomo,
espressione che pur napoletana è costruita con un vocabolo italiano presente
altresí nella esprespessione dell’italiano essere un bel tomo nel senso di
essere un tipo strano, bizzarro di grande improntitudine . L’espressione jrsene
o venirsene cacchio cacchio non va confusa con quella jrsene o venirsene tinco
tinco precedentemente illustrata, di significato molto diverso: venirsene
sollecitamente. 4. Jammo, ca mo s’aiza Ad litteram: andiamo, ché adesso si
alza; id est: muoviamoci ché il sipario sta per andar su; locuzione usata un
tempo dai servi di scena per avvertire gli attori di tenersi pronti, essendo
prossimo l’inizio dello spettacolo, ed usata oggi per sollecitare chiunque in
vista dell’inizio di qualcosa cui debba partecipare. 5. Jirsene ‘nzogna ‘nzogna
Ad litteram: andarsene sugna sugna locuzione che non attiene alla sfera
culinaria, ma che è usata per commentare il lento consumarsi o deperirsi di una
persona che si sciolga quasi a mo’ di sugna ‘nzogna s.vo f.le = sugna, strutto;
preciso súbito che la voce napoletana a margine che rende l’italiano sugna o
strutto è voce che va scritta ‘nzogna con un congruo apice (‘) d’aferesi (e qui
di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno d’aferesi, come
purtroppo càpita di trovare scritto. Ciò detto passiamo all’etimologia e
sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno
che nzogna, (non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano
sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno
d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns→nz, dal latino (a)xungia(m), comp.
di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del
carro'; occorre ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per
indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di
maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e
conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei
carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancóra ricca di
grasso. Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana
‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non
ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali fantasiose proposte, penso
che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile
circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo
Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale,
poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con
doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nsoinia→’nzogna. 6.
Jettà ll’uosso ô cane Ad litteram: buttare l’osso al cane id est: fare o far le
viste di fare gratuite concessioni; locuzione che si usa a commento delle
azioni di chi sembra quasi si conceda magnanimamente, laddove invece è tenuto a
quel comportamento; altrove essa è usata a caustico commento dei comportamento
di chi ottenuto un chiaro tornaconto da un’azione altrui, mostra di non
apprezzarla quanto dovuto . 7. Jirsene a cascetta nell’espressione te ne vaje a
cascetta! Letteralmente: Andarsene a cassetta.nell’espressionete ne vai a
cassetta! La cassetta in questione è quella del cocchiere di carrozza padronale
o del vespillone : il posto piú alto, ma anche il piú scomodo e il piú faticoso
da raggiungere, delle antiche vetture da trasporto passeggeri vivi o morti che
fossero. L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la eccessiva
dispendiosità o fatica cui si va incontro, impegnandosi in un'azione ritenuta
gravosa per cui se ne sconsiglia il porvi mano; infatti l’espressione viene
usata a salace consiglio verso chi si accinga a cominciare qualcosa gravosa e
probabilmente inutile; spesso la locuzione è preceduta da un imperioso siente a
mme, lassa perdere (ascoltami, lascia perdere). 8. Jí a ffranco. Letteralmente:
andare esente/libero id est: comportarsi in modo da essere esente dal rimetterci
o danaro o altro, agire in maniera da venir fuori indenni da talune situazioni,
senza rimetterci; locuzione usata specialmente in forma di imperativo
esortativo quale è: Jammo a ffranco (andiamo esenti!/liberi (da
condizionamenti)) 9. Jí allicchetto oppure a llicchetto o anche a cciammiello
Letteralmente: andare alla perfezione; locuzione riferita a tutte quelle cose
che evolvono positivamente, quasi perfettamente con riferimento al loro stato
di tenuta richiamante quello di un valido lucchetto, oppure con riferimento al
riuscito stato di forma che richiama una ben costrutta ciambella.Da notare come
l’espressione a licchetto si sia fusa in allicchetto trasformandosi in un
avverbio modale. 10. Jí a mmare cu tutte ‘e panne Letteralmente: finire in mare
completamente vestito id est: subire un tracollo economico di grandissima
portata con tutti i danni relativi, come chi sia finito in mare completamente
vestito e corra il rischio di esser trascinato in fondo dal peso dei vestiti
imbevuti d’acqua. 11. Jí â perimma Ad litteram: marcire locuzione usata con
riferimento alle merci, in ispecie alle vettovaglie, che stanno per ammuffire o
che già siano diventate ammuffite o marce; per traslato la locuzione è usata
anche con riferimento alle persone che invecchino male, deperendo nel fisico ed
intellettualmente perdendo colpi. 12. Jí ascianno coccosa7 Ad litteram: andare
alla ricerca di qualcosa, ma farlo con intensa applicazione comportandosi quasi
come un cane che annusi per trovare la traccia cercata; il termine asciare
della locuzione deriva infatti dal latino adflare (annusare) con il tipico
mutamento partenopeo FL in SCI come per il latino flos diventato sciore in
napoletano. 13. Jí cu ‘a faccia dint’ô panecuotto variante Jí cu ‘o musso
dint’â mmerda. Ad litteram: Finire con la faccia nel pan cotto variante finire
con il muso nello sterco La locuzione in epigrafe e la sua variante è usata per
significare il comportamento di tutti coloro che per propria ingenuità o
insipienza finiscono per fare meschine figure al pari di un bimbo che si sia
imbrattato il volto mangiando pan cotto; la variante, molto piú dura ed
icastica prende a modello il comportamento del maiale che frugando nel porcile
alla ricerca di cibo, spesso affonda il muso nei suoi stessi escrementi, e
viene riferita ai presuntuosi atteggiamenti di coloro che abituati a fare i
saccenti ed i supponenti spesso vedono le loro affermazioni, se non le loro
azioni vanificate queste, contraddette quelle dalla chiara realtà e finiscono
per fare figure cosí meschine da esserne quasi insozzati come un porco dal suo
sterco. 14. Jí cu ‘o sibbemolle Ad litteram: procedere con il si bemolle; id
est: andare con estrema calma, lentamente, senza porre eccessiva forza nella
propria azione, come un musicista che non usasse, nel comporre che semitoni e
mai note piene di forza adeguata. 15. Jí cu ‘o siddivò e cu ‘o senza pressa Ad
litteram: andare con il se-dio-vuole e con il senza-fretta Locuzione di portata
simile alla precedente, ma con una piú marcata sottolineatura della lentezza
usata nell’agire; locuzione che è usata soprattutto per indicare la
neghittosità di chi si dispone ad agire, che lo fa senza quasi porvi volontà,
ma fidando esclusivamente nella spinta ed aiuto del Cielo. 16. Jí cu ‘o chiummo
e cu ‘o cumpasso. Ad litteram: andare con il piombo ed il compasso id est:
agire in ogni occasione con estrema attenzione, cautela e precisione alla
stregua del muratore che, se vuole portare a termine a regola d’arte le proprie
opere, non può esimersi dal far ricorso al filo a piombo, compasso, livelle ed
altri strumenti consimili. 17. oppure jí stocco e turnà baccalà Ad litteram: Jí
cascia e turnà bauglio Andar cassa e tornare baúle oppure andare stoccafisso e
tornar baccalà id est: non approdare a nulla, detto soprattutto con riferimento
al mancato impegno di studenti o apprendisti che non ricavano nulla dal loro
lavoro o studio che sia al punto che: a) se fossero partiti essendo delle casse
tornerebbero dal loro impegno quali baúli cioè sostanzialmente immutati nella
loro povera condizione di semplice contenitore, b) se fossero partiti essendo
degli stoccafissi ne sarebbero tornati come baccalà, pur sempre cioè misero
merluzzo: non facendo grossa differenza l’essere affumicato o l’esser salato .
18. Jí ‘e pressa Ad litteram: andar di fretta; id est: aver premura, procedere
con assoluta rapidità, quasi sollecitato dalla necessità di non perdere tempo.
dall’iberico: de prisa di uguale significato. 19. Jí sotto e ‘ncoppa Ad
litteram: andare sottosopra; id est veder ribaltato il proprio status
socio-economico; locuzione riferita innanzitutto per significare il fallimento
di attività commerciali, ma - per traslato - anche ogni altro rivolgimento che
occorra nella vita. 20. Jí ‘e renza , gghí ‘e sguincio e gghí ‘e razzaviello Le
locuzioni in epigrafe parrebbe, a prima vista, dicano la medesima cosa
riferendosi ambedue ad un modo strano, non corretto di camminare. Non è cosí.
C’è una differenza sostanziale tra le tree locuzioni;infatti jí ‘e renza si
riferisce effettivamente ad un modo di camminare identificandolo nel procedere
in modo obliquo, quasi inclinati su di un lato; diverso il gghí/jí ‘e sguincio
che attiene ad un modo di camminare e propriamente a quel modo che comporta
un’andatura di sghimbescio, tortuosa, e mentre la prima locuzione è usata solo
in riferimento al modo di camminare, la seconda è riferita non solo ad un modo
di procedere, ma anche ad un modo comportamentale che sia scorretto, subdolo,
non lineare, in una parola: sleale; con la terza locuzione gghí ‘e razzaviello
si ritorna nell’àmbito della deambulazione e solo in quello; la locuzione
infatti (indicando precisamente il solo reale procedere a sghimbescio, in
maniera ballonzolante a mo’ di trottola per di piú scentrata) non è mai usata
in senso traslato come succede invece per gghí ‘e sguincio; non semplicissima
l’etimologia del termine razzaviello peraltro assente nella gran parte dei
calepini della parlata napoletana; il D’Ascoli che con il D’Ambra fu l’unico a
trattare il termine, non lo indicó né come s.vo. né come agg.vo, né lo definí
con chiarezza e fantasiosamente lo collegò all’agg.vo razzapelluso= ruvido a
sua volta fatto derivare (sempre piú fantasiosamente) da raspulento= ruvido,
rugoso, grinzoso; non si capisce proprio quale possa essere la strada semantica
seguíta dal D’Ascoli per collegare qualcosa di ruvido, rugoso, grinzoso con
qualcosa che proceda di sghimbescio o in maniera ballonzolante. No, non ci
siamo! A mio avviso, restio come sono a trincerarmi dietro un pilatesco etimo
incerto o sconosciuto, ipotizzo che razzaviello sia un s.vo (usato peraltro
solo nella locuzione avv.le indicata) formato attraverso l’agglutinazione del
sostantivo razza (variante locale di razzo=raggio di ruota) con un derivato
della voce verbale *avellere collaterale di *e(x)vellere= strappare nel
significato di raggio (di ruota)allentato o divelto e dunque scentrato e
ballonzolante cosa che rimetterebbe a posto la questione semantica e metterebbe
fine alle fantasie del D’Ascoli;proseguiamo: sguincio viene dal francese
guenchir (procedere di sbieco) cui è premessa una S rafforzativa; il termine
renza viene dal participio presente del verbo latino àerere= aderire; in
napoletano infatti si dice pure tirarse ‘na renza cioè prendere un’abitudine,
aderire ad un modo di fare.In coda rammento che delle tre espressioni solo
quella che recita gghí/jí ‘e sguincio (andare di sguincio) è stata accolta
nella lingua nazionale, quantunque assegnando al s.vo sguincio il significato
di linea, struttura obliqua.di talché in italiano andare di sguincio vale
procedere obliquamente e non (come esattamente è nel napoletano) procedere di
sghimbescio, tortuosamente. Ma non è da meravigliarsi: è antico vizio di chi fa
la lingua italiana, pescare nell’idioma partenopeo spesso però snaturando
significato o morfologia delle voci accolte: ‘nu poco ‘e pacienza e ppeggio pe
lloro! 21. Jí ‘mparaviso pe scagno Ad litteram:giungere o meglio conquistare il
paradiso per ventura, per puro caso id est: assicurarsi un vantaggio per mera
fortuna;, senza alcun merito conseguire rilevanti benefici o grosse utilità.
22. Jí pe sotto Ad litteram: finire di sotto; id est: essere accusato
ingiustamente, esser inopinatamente chiamato in causa e magari pagare il fio di
colpe non commesse. 23. Jí giurgiulianno. oppure jí ‘nzunzulianno Ad litteram:
andar bighellonando; id est: andare girozolando, ma farlo alla maniera del
giurgio* cioé dell’ebbro, ciondolando, magari a rischio di cadere, andar senza
meta e senza scopo; l’alternativa proposta in epigrafe esprime i medesimi
concetti, ma è voce piú moderna coniata partendo dal termine
zonzo.*etimologicamente giurgio risulta essere non la corruzione del
nomeGiorgio inteso, partendo dalla figura del Santo guerriero, come un
gradasso, uno spaccone dall’andatura presuntuosa ed altalenante, tal quale l’
ubriaco, ma più esattamente una derivazione del fr. gorge= gola in riferimento
all’organo deputato ad accogliere le bevute. 24. Jí ‘ncasanno ‘e vàsule Ad
litteram: andar calpestando il basolato che è la pavimentazione stradale fatta
con blocchi di pietra lavica; locuzione di valenza simile alla precedente con
una piú marcata attenzione alla maniera di sciupare il tempo usato per
percorrere improduttivamente la strada, bighellonando, ciondolando a dritta e a
mancina senza meta o scopo; la locuzione è usata quando ci si voglia riferire,
per redarguirli di non fare il proprio dovere o a svogliati studenti o ad
accidiosi operai accusati di andar calpestando il basolato, invece di
applicarsi alle loro incombenze. Rammenterò che un tempo le strade erano appena
appena sterrate e battute, poi furono pavimentate alla bell’ e meglio con i
breccioni di fiume dando vita alle c.d. imbrecciate di cui Napoli fu ricca, si
passò poi alla pavimentazione fatta con i grossi parallelepipedi di basalto,
periodicamente scalpellato, per impedire che con la consunzione i blocchi
risultassero lisci e pericolosamente scivolosi ; si pervenne infine alla
pavimentazione con cubetti di basalto o pietra lavica detti in italiano
sampietrini ed in napoletano cazzimbocchi ; detti cubetti sono affiancati l’un
l’altro su di un letto di sabbia e negli interstizi che ne risultano vien fatta
colare della pece bollente che raffreddandosi e rapprendendosi oltre a tener
uniti i cubetti assicura una impermeabilità alla pavimentazione stradale. 25. Jí
zumpanno asteche e lavatore. Letteralmente: andar saltando per terrazzi e
lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla
di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in
alto (asteche=lastrici solai,terrazzi) ed in basso (i lavatoi erano olim
ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di
acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle
case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli
acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare. 26. Jí
p’aiuto e truvà sgarrupo. Letteralmente: andare (in cerca) d’aiuto e trovare
danno; locuzione usata per sottolineare tutte quelle strane situazioni nelle
quali , in luogo dell’aiuto richiesto ed atteso si trova danno che naturalmente
non fa che peggiorare la situazione per quale s’era chiesto un aiuto. 27. Jí pe
cculo e truvà cazzo Letteralmente: andare (in cerca) di un culo (da
sodomizzare) ed imbattersi in un membro maschile (che ti sodomizzi) locuzione
di significato simile alla precedente, ma di portata piú furbesca e becera
usata per sottolineare una di quelle strane situazioni nelle quali , in luogo
del cercato, richiesto ed atteso ci si imbatta in qualcosa dell’esatto opposto
che stravolga completamente la faccenda, peggiorandola irrimediabilmente. 28.
Jí pe rrazia e truvà justizzia Letteralmente: andare (in cerca) di una grazia,
di un perdono o un’assoluzione(delle proprie cattive azioni) ed imbattersi
invece nella giustizia (cioè in qualcosa o qualcuno che facendo
giustizia,faccia pagare il malfatto o ne chieda ragione). Anche questa
locuzione è di significato simile alle precedenti, ma è di portata piú seria e
raffinata ed usata per sottolineare una di quelle sgradite situazioni nelle
quali , in luogo dell’auspicato cercato, richiesto ed atteso perdono ci si
imbatta in qualcuno che nelle vesti di giusto giudice ci commini una pena
rifiutandoci la desiderata grazia. 29. Jí truvanno Cristo ‘int’ ê lupine o
meglio Jí truvanno Cristo dinto a la pina ad litteram: Andar cercando Cristo
fra i lupini o meglio Andar cercando Cristo nella pigna. Id est: mettersi alla
ricerca di una cosa difficile da trovarsi o da conseguirsi; cosa pretestuosa e
probabilmente inutile, per cui, il piú delle volte, non metterebbe conto il
mettersene alla ricerca. Come ò segnalato la prima locuzione è meno esatta
della seconda che risulta essere quella originaria, mentre la prima ne è solo
una frettolosa corruzione; ed in effetti se si analizza la seconda locuzione,
quella consigliata, si può intendere a pieno la valenza delle espressioni,
valenza che è difficile cogliere accettando la prima locuzione che fa
riferimento ad incoferenti e pretestuosi lupini; quanto piú corretta la
seconda, quella che fa riferimento alla pigna in quanto i pinoli in essa
contenuti presentano un ciuffetto di cinque peli comunemente detto: manina di
Cristo e la locuzione richiama la ricerca di detta manina, operazione lunga e
che non sempre si conclude positavamente: infatti occorre innanzitutto
procurarsi una pigna fresca, abbrustolirla al fuoco per poi spaccarla ed
estrarne i contenitori dei pinoli, da cui trar fuori i suddetti ed alla fine
andare alla ricerca della manina e cioè di Cristo; spesso capita però che i contenitori
siano vuoti di pinoli e dunque tutta la fatica fatta va sprecata e si rivela
inutile. Qualche altro scrittore di cose napoletane nel vano tentativo di fare
accogliere la prima locuzione, fa riferimento ad una non meglio annotata o
rammentata leggenda che vede stranamente la Vergine Maria non esser
misericordiosa con la pianta di lupini; nelle mie ricerche tale leggenda è
risultata pressocché sconosciuta, mentre non v’è anziano popolano che non sia a
conoscenza della manina di Cristo. 30. Jí truvanno chi ll’accide
nell’espressione: va truvanno chi ll’accide Ad litteram: andare in cerca di chi
l’uccide nell’espressione va in cerca di chi l’uccide espressione usata per
commentare le antipatiche azioni del provocatore, di chi stuzzichi il prossimo
fino a destare, anche se figuratamente, nei meno pazienti, istinti omicidi. 31.
Jí truvanno guaje cu ‘a lanternella Ad litteram: andare in cerca di guai con un
lanternino detto di chi per sua natura e non per sopraggiunte casualità, si va
cacciando di proposito nei guai, quasi andandone alla ricerca con una lanterna
per meglio trovarli. 32. Jí pe fiche e truvà cetrule Ad litteram: andare in
cerca di fichi e trovare cetrioli. Locuzione di portata simile a quelle
ricordate ai n.ri 26, 27 e 28 atteso che il cetriolo pure essendo un ortaggio
buono ed edibile, non è certo saporito e gustoso come un fico. 33. Jí ô
bbattesemo senza ‘o criaturo Ad litteram: recarsi al fonte battesimale senza
(portare) il bambino (da battezzare) locuzione usata per bollare situazioni macroscopicamenti
carenti degli elementi essenziali alla loro esistenza, riferita spercialmente a
tutti coloro che distratti per natura, o perché colpevolmente poco attenti si
accingono ad operazioni destinate a fallire perché prive del necessario
sostrato dimenticato per distrazione o non conferito per colpevole
disattenzione. 34. JÍ A PPUORTECE PE ‘NA RAPESTA. Ad litteram: recarsi a
Portici per (acquistare) una rapa. Id est: Agire sconsideratamente impegnandosi
eccessivamente, affaticandosi oltremodo per raggiungere un risultato modesto o
meschino. Cosí si dice, a dileggio, di chi si comporta in maniera poco
giudiziosa, assennata, attenta, accorta o riflessiva sprecando energie e –
nella fattispecie - si recasse al mercato ortofrutticolo all’ingrosso di Portici,
piccolo comune agricolo nei pressi di Napoli, per acquistare una sola,
insignificante rapa. 34 bis.JÍ A PPUORTO P’ ‘A RAPESTA. Ad litteram: recarsi al
porto per la rapa. L’espressione in esame è una corruzione della precedente, ma
è di significato alquanto diverso; questa in esame è una locuzione usata a
dileggio di chi si comporti in maniera imprudente, scriteriata, dissennata
mettendosi in situazioni pericolose, come quella di frequentare la malfamata e
perigliosa zona portuale, e lo faccia non per necessità o per lavoro, ma al
solo scopo di dar soddisfazione alle proprie esigenze sessuali frequentando le
prostitute stanziali del porto atte ad occuparsi della ... rapesta del loro
cliente. Infatti nella locuzione il s.vo rapesta [1 in primis rapa; 2per traslato
furbesco membro maschile; 3per traslato offensivo uomo inetto e dappoco; la
voce rapa è dal lat. rapa←rapu-m = rapa, mentre la voce napoletana rapesta è
dal neutro lat. rapistru-m attraverso il pl. rapistra poi inteso f.le e lètto
rapista→ rapesta con semplificazione di str→st come in fenesta da fenestra(m) ]
qui rapesta è usato appunto nel senso traslato/furbesco.A margine rammento
infatti che è da collegarsi alla rapa l’agg.vo arrapato che è il part. pass.
usato anche come agg.vo dell’infinito arrapà (arrapare), v.bo tr.vo di origine
meridionale,pervenuto anche nel lessico italiano sia pure come voce volgare. è
un denominale del lat. rapa, propr. neutro pl. di rapum 'rapa', poi considerato
come f.le sg.in senso maliziosamente allusivo alla durezza dell’ortaggio] =
eccitare sessualmente; piú spesso usato come intr. o intr. pron. (arrapà,
arraparse, fà arrapà), eccitarsi sessualmente; quantunque sia piú comunemente
usata al maschile (arrapato= eccitato ) nulla vieta che la voce sia coniugata
anche al f.le (arrapata= eccitata) quantunque l’eccitazione maschile meglio si
presti in pratica ad esser rappresentata dalla turgidità della rapa! 35. Jí
dinto a ll’ossa. Ad litteram: andare nelle ossa detto di tutto ciò che risulti
ampiamente giovevole, utile e proficuo che faccia quasi assaporarne i benefici
fin nelle ossa; la locuzione però non attiene esclusivamente al piano fisico ,
potendosi usare anche e forse soprattutto con riferimento morale. 36. Jí
‘nfreva Ad litteram: andare in febbre id est: adontarsi, lasciarsi cogliere da
moti di rabbia innanzi a situazioni ritenute cosí ingiuste o prevaricanti da
destare un’agitazione tale da esser foriera di febbre. 37. Jí mettenno ‘a fune
‘e notte Ad litteram: Andar mettendo la fune di notte. Locuzione che si usa pronunciare
risentitamente, in forma negativa ( nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte) (non
vado tendendo la fune di notte)oppure sotto forma di domanda retorica:ma che
ghiesse mettenno fune ‘e notte?(forse che vado tendendo funi di notte?)per
protestare la propria onestà, davanti ad eccessive richieste di carattere
economico; a mo’ d’esempio quando un figlio chiede troppo al proprio genitore,
costui nel negargli il richiesto usa a mo’ di spiegazione la locuzione in
epigrafe, volendo significare: essendo una persona onesta e non un masnadiero
abituato a rapinare i viandanti tendendo una fune traverso la strada, per farli
inciampare e crollare al suolo, non ò i mezzi economici che occorrerebbero per
aderire alle tue richieste; perciò règolati e mòderale ! 38. Jí truvanno ova ‘e
lupo e piettene ‘e quinnece. Ad litteram: andare in cerca di uova di lupo e
pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose
ma vane come sarebbe l’andare alla ricerca di uova di lupo che è un animale
viviparo o cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i
pettini da cardatura non ne contavano mai piú di tredici. 39. Jí truvanno
scescé Espressione intraducibile ad litteram con la quale si identifica chi, in
ogni occasioni cerchi cavilli, pretesti, adducendo scuse per non operare come
dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi; talvolta chi si
comporta come nella locuzione in epigrafe lo fa allo scopo dichiarato di
litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola
scescé è un chiara corruzione del francese chercher (cercare) Probabilmente,
durante la dominazione murattiana un milite francese si fermò a chiedere una
informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche (io cerco) oppure usò
una frase contenente l’infinito: chercher” Il popolano che non conosceva la
lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescè
e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava
alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeva truvanno scescé (andava
alla ricerca di un non meglio identificato scescé). 40.jirsene ‘e capa. Ad
litteram: andarsene di testa. Id est:esaltarsi,montarsi la testa. Espressione
usata per connotare l’atteggiamento scioccamente spocchioso di chi si esalti,
si insuperbisca anche per un semplice piccolo elogio ricevuto, imbaldanzendosi
oltre ogni limite o il consueto. 41.jirsene ‘mpilo ‘mpilo. Ad litteram:
andarsene di pelo in pelo Id est: deperire, consumarsi a poco a poco.
Espressione usata in riferimento a chi per malnutrizione, inedia si
indebolisca, esaurendosi, consumandosi, deperendosi al segno che,
iperbolicamente, se ne possano contare i singoli peli. 42.jirsene a
ccalascione. Ad litteram: andarsene a calascione Id est:sciupare irrimediabilmente
cose od azioni, tenendo un comportamento non consono, inadeguato, inadatto.
Espressione che viene riferita per dileggio a chi perda il suo tempo in inutili
occupazioni [come quella di strimpellare uno strumento musicale, nella
fattispecie un colascione] invece di attendere in maniera . idonea, opportuna,
adeguata, appropriata, atta, confacente, conforme, apposita, giusta, ad hoc al
da farsi per raggiungere uno scopo o dar corso ad azioni giuste e produttive.
colascione/calascione s.vo m.le strumento musicale in tutto simile ad un liuto
a 10 corde di uso popolare nei secc. XVI e XVII, soprattutto nell'Italia
meridionale. Etimologicamente nel napoletano dallo spagnolo colachón che è dal
greco: dal gr. kaláthion 'piccolo paniere'(per la forma della cassa armonica
dello strumento); strumento un po’ differente dal primitivo colascione che
aveva solo due o tre corde; questo a dieci corde, détto anche tiorba fu suonato
con l’ausilio di una grossa penna tonda di cuoio detta taccone e s’ebbe perciò
la tiorba a taccone , strumento musicale d’accompagnamento,di cui dico, quasi
antesignano del basso. 43.jí a mmitto. Ad litteram: andare a minzione Id est:
rovinare qualcosa o l’intrapreso per precipitazione,per disattenzione o per
eccessiva foga. Espressione d’antan e desueta che corrisponde all’incirca al
moderno andare in tilt cioè andare in confusione con indesiderati risultati
dannosi, nocivi, rovinosi.L’espressine della lingua nazionale è mutuata
dall’espressione inglese tilt = inclinare con riferimento al gioco del flipper
che come è noto è un gioco di abilità a moneta di origini statunitensi, molto
diffuso a partire dagli anni cinquanta, soprattutto in bar, sale da giuoco ed
altri locali pubblici, détto anche biliardino elettrico o elettroautomatico. Il
nome originale inglese della macchina è pinball; il termine flipper, usato in
Italia, Francia ed altri paesi europei, deriva dalle piccole pinne (flippers),
oggi più comunemente note come alette, che corredano il piano di gioco e che
sono azionate e comandate da pulsanti esterni e con le quali il giocatore può
colpire una biglia d'acciaio[che rotola abbastanza velocemente su di un piano
inclinato e che – se non sospinta dalle piccole pinne – può finire in buca,
mettendo fine al gioco ed al divertimento] mirando a bersagli posti su un piano
inclinato coperto da un vetro trasparente. Ogni singolo bersaglio o
combinazione di bersagli colpiti apporta un punteggio o agevolazioni (bonus) al
gioco, che addizionati da un numeratore concorrono a stabilire una sorta di classifica
fra piú giocatori che si succedessero al bigliardino. Allorché il giocatore,
nell’intento di indirizzare ai bersagli voluti la biglia d’acciaio scuote o
inclina oltre il consentito il biliardino elettrico la macchina si blocca,
impedendo al giocatore di continuare a governar la pallina e sullo scherma
appare appunto la scritta TILT per avvisare il giocatore che non può proseguire
il gioco avendo inclinato oltre il lecito il flipper. Dal gioco il termine Tilt
è passata a connotare con l’espressione “andare in tilt” tutte quelle
situazioni della vita reale allorché si rovini qualcosa o l’intrapreso per
colpevole confusione,precipitazione,per disattenzione o per eccessiva foga.
Quanto piú icastica l’espressione napoletana che pone in rapporto il fallimento
dell’azione intrapresa o la rovina di un non meglio idetificato quid, non con
una generica confusione, ma con la volontaria precipitazione di chi avverta
l’impellente necessità di mingere e si precipiti a farlo incurante di quanto
aveva in corso d’opera; il napoletano mitto altro non è infatti che un
participio passato sostantivato marcato sul latino minctu-m→mi(n)ttu-m→mitto
participio perfetto passivo maschile dell’infinito mingere= orinare. 44.
jirsene a ll’aria ‘e Cardone o piú correttamente jirsene ô llario ‘e ccardoneAd
litteram: andarsene a l’aria di Cardone o piú correttamente come fu in origine
andarsene al largo dei cardoni. L’espressione vale: morire, decedere. Come ò
anticipato in effetti l’esatta espressione fu “Se nn’è gghiuto ô llario ‘e
ccardone”[se ne è andato al largo dei cardoni] espressione che poi il popolino
corruppe in“Se nn’è gghiuto a ll’aria ‘e Cardone”[ se ne è andato all’ aria di
Cardone]; ovviamente la corruzione non rese giustizia all’originario
significato dell’ espressione che tradotta ad litteram valeva: se ne ne è
andato al largo delle cardoni e cioè è morto e sepolto; essa espressione faceva
riferimento al fatto che il cimitero delle 366 fòsse, il piú antico e popolato
camposanto napoletano, era sorto su di un terreno agricolo in origine coltivato
a carciofi e cardi (in napoletano le onnicomprensive ‘e ccardone),donde ‘o
llario ‘e ccardone; come è chiaro la voce Cardone non indicava una località
dall’aria salubre...,nè il nome di un possidente terriero, ma semplicemente i
gustosi carciofi e cardi. llario s.vo m.le = 1)spazio, area, superficie,
distesa, estensione 2)terreno (agricolo) esteso; voce dal lat. volg. larju(m)
per il class. largu(m). ccardone s.vo m.le = voce di àmbito contadino usata per
indicare onnicomprensivamente i cardi ed i carciofi; voce marcata (ma
addizionata del suffisso accrescitivo one) sul lat. tardo cardu(m), per il
class. carduus. E qui penso che si possa far punto.
Raffaele Bracale
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