‘A CUCINA NAPULITANA
Questa volta voglio invitare chi mi leggerà, a
seguirmi ed accompagnarmi in quell’ ampia stanza della mia casa della
fanciullezza e giovinezza, stanza dove
si preparavano e, col favore dell’ampiezza del locale, si ammannivano – su l’apparecchiato
desco – i cibi; sto parlando d’ ‘a cucina ( da un tardo latino: cocina(m),
variante di coquina(m), deriv. di coquere 'cuocere'); il primo elemento che,
entrando in cucina dal passetto pensile (dall’ aggettivo latino: prensile(m)
con sincope della erre forse intesa inutile), si incontrava e saltava agli occhi era ‘o
fuculare (dal tardo neutro latino foculare, deriv. di focus 'fuoco’ con
l’aggiunta del consueto suffisso di pertinenza areus (aro) ). Esso non era,
come generalmente altrove, la parte inferiore del camino, formata da un piano
di pietra o di mattoni, sul quale si accende il fuoco (in casa mia infatti non v’erano camini (latino: caminu(m), dal gr.
káminos 'forno, fornello'), ma era una sorta di grosso parallelepipedo di
pietra, rivestito di policrome riggiole (da un latino volgare *rubjòla con il normale trasformarsi di jo in ggi+
vocale come succede per il classico àbeo diventato tardo latino àbjo e
napoletano aggio;*rubjola = rossiccia da un latino della decadenza dal classico
ruber per indicare il tipico colore rosso mattone proprio della terracotta, materiale con cui si
costruiva l’originaria riggiola napoletana; quelle che rivestivano il focolare
erano diverse le une dalle altre in quanto non acquistate ad òc, ma risultate
avanzate ad altra primaria destinazione (per solito pavimentazione delle stanze
di casa); sulla faccia superiore d’ ‘o fuculare erano ricavati degli ampi fori
circolari in piccolissima parte chiusi da una sorta di crocicchio di ghisa
saldamente infisso ai bordi dei fori, crocicchio che serviva di appoggio alle
pentole e/o tegami usati per la cottura dei cibi;
perpendicolarmente ai fori ad una distanza di circa 40 cm. c’era il piano interno del cavo focolare, piano in mattoni refrattari, piano su cui era acceso il fuoco alimentato attraverso due congrui accessi, protetti da sportellini metallici posti sul davanti della faccia anteriore del focolare, con adeguate immissioni di pezzi di legno e pampuglie (vedi altrove) o gravone ( metatesi del lat. carbone(m) )e gravunelle (evidente diminitivo del precedente); dopo la combustione la risultante cenere non veniva dismessa, ma conservata per essere usata nei giorni di culata (che dal verbo colare/culare indicò il bucato napoletano) sistemata nel c.d. cennerale = ampio telo a trama larga che accoglieva la cenere affinché questa cedesse ai panni, al momento della colatura dell’acqua bollente, i benefici effetti sbiancanti della soda caustica presente nella cenere, telo posto alla sommità del mastello o tina contenente la biancheria da lavare;
Mi son soffermato a parlare della culata e del cennerale, atteso che nel passetto pensile attiguo alla cucina esistette (fino a che non fu demolito nel corso di un ammodernamento della casa) un lavatoio o lavatore (da un basso latino:lavatoriu(m) che era la vasca di pietra nella quale una grassoccia ed attempata donna,che - se non ricordo male - rispondeva al nome di Nannina, dai muscolosi avambracci e dai grossi polpacci segnati da gonfie vene varicose, per poche lire, lavava,servendosi di quel sapone ‘e piazza (per il quale rimando alibi), settimanalmente la biancheria di casa, prima di sistemarla dentro la tina per procedere alla sbiancatura della colata,terminata la quale, poneva la biancheria cosí lavata in un capace cufenaturo (forgiato sul greco kóphinos= conca metallica) per trasferirla ‘ncopp’ a ll’asteco (che è dal greco óstrakon) = lastrico solare, loggia, dove la biancheria lavata era posta ad asciugarsi, adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra delle tre che limitavano il lastrico solare dove vento e sole la facevano da padroni; ma torniamo in cucina: al centro della stanza troneggiava un gran tavolo rettangolare(reso, come spesso in napoletano,per la sua ampiezza, femminile e détto perciò ‘a tavula cfr. ad es. alibi ‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo )etc. );il tavolo, meglio ‘a tavula era munita di quattro possenti zampe e di un piano in candido, ma qui e là venato di grigio, marmo: ‘o marmulo (dal greco mormylos); la vasta superficie in marmo risultava quasi essenziale alla preparazione degli impasti per cavarne pasta alimentare (tagliatelle,tagliolini, lasagne, cannelloni e/o impasti dolci: pan di Spagna, pasta frolla,pasta sfoglia etc.; se non ci fosse stato il marmo, sarebbe occorso ricorrere ad un laganaturo: capace, rettangolare tagliere ligneo ( che però una volta imbrattato, risultava difficile da pulire, al contrario del marmo); il tagliere da noi aveva il nome di laganaturo; piú chiaramente dirò che per il tagliere, i napoletani usano il generico termine di laganaturo (che deriva , come il sostantivo femminile lagana = sorta di larga fettuccina di pasta fresca ed estensivamente anche la intera sfoglia di pasta fresca da cui si ricavano le lagane o laganelle se piú strette, su cui è forgiato - con il concorso di un suffisso turo (atto a, per) - dal greco làganon ma che i napoletani utilizzarono attraverso un neutro latinizzato lagana inteso femminile; per verità con il termine laganaturo a Napoli si indicò ( ed ecco il motivo per cui l’ò detto: generico) alternativamente sia il tagliere, sia il bastone cilindrico con cui si spiana la pasta per cavarne le lagane; tale bastone fu ed è quello che in toscano dovrebbe correttamente dirsi matterello (diminutivo di màttero che è da congiungersi al latino matéola= mazza, bastone), ma che qualcuno e segnatamente chi parla dalla televisione..., si ostina a dire, impropriamente, con voce romanesca mattarello. Atteso dunque che sia il tagliere che il matterello sono due strumenti utili alla produzione delle lagane, poco male che avessero il medesimo nome. Quanto al tagliere dell’avellinese dirò che lí à il nome di tumpagno ed è, contrariamente al tagliere napoletano che è rettangolare, di forma circolare, né più, né meno cioè che un fondo di botte che noi, figli di Partenope, usiamo dire appunto ‘o tumpagno (dal greco tympànion che sta giustappunto per chiusura).
perpendicolarmente ai fori ad una distanza di circa 40 cm. c’era il piano interno del cavo focolare, piano in mattoni refrattari, piano su cui era acceso il fuoco alimentato attraverso due congrui accessi, protetti da sportellini metallici posti sul davanti della faccia anteriore del focolare, con adeguate immissioni di pezzi di legno e pampuglie (vedi altrove) o gravone ( metatesi del lat. carbone(m) )e gravunelle (evidente diminitivo del precedente); dopo la combustione la risultante cenere non veniva dismessa, ma conservata per essere usata nei giorni di culata (che dal verbo colare/culare indicò il bucato napoletano) sistemata nel c.d. cennerale = ampio telo a trama larga che accoglieva la cenere affinché questa cedesse ai panni, al momento della colatura dell’acqua bollente, i benefici effetti sbiancanti della soda caustica presente nella cenere, telo posto alla sommità del mastello o tina contenente la biancheria da lavare;
Mi son soffermato a parlare della culata e del cennerale, atteso che nel passetto pensile attiguo alla cucina esistette (fino a che non fu demolito nel corso di un ammodernamento della casa) un lavatoio o lavatore (da un basso latino:lavatoriu(m) che era la vasca di pietra nella quale una grassoccia ed attempata donna,che - se non ricordo male - rispondeva al nome di Nannina, dai muscolosi avambracci e dai grossi polpacci segnati da gonfie vene varicose, per poche lire, lavava,servendosi di quel sapone ‘e piazza (per il quale rimando alibi), settimanalmente la biancheria di casa, prima di sistemarla dentro la tina per procedere alla sbiancatura della colata,terminata la quale, poneva la biancheria cosí lavata in un capace cufenaturo (forgiato sul greco kóphinos= conca metallica) per trasferirla ‘ncopp’ a ll’asteco (che è dal greco óstrakon) = lastrico solare, loggia, dove la biancheria lavata era posta ad asciugarsi, adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra delle tre che limitavano il lastrico solare dove vento e sole la facevano da padroni; ma torniamo in cucina: al centro della stanza troneggiava un gran tavolo rettangolare(reso, come spesso in napoletano,per la sua ampiezza, femminile e détto perciò ‘a tavula cfr. ad es. alibi ‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo )etc. );il tavolo, meglio ‘a tavula era munita di quattro possenti zampe e di un piano in candido, ma qui e là venato di grigio, marmo: ‘o marmulo (dal greco mormylos); la vasta superficie in marmo risultava quasi essenziale alla preparazione degli impasti per cavarne pasta alimentare (tagliatelle,tagliolini, lasagne, cannelloni e/o impasti dolci: pan di Spagna, pasta frolla,pasta sfoglia etc.; se non ci fosse stato il marmo, sarebbe occorso ricorrere ad un laganaturo: capace, rettangolare tagliere ligneo ( che però una volta imbrattato, risultava difficile da pulire, al contrario del marmo); il tagliere da noi aveva il nome di laganaturo; piú chiaramente dirò che per il tagliere, i napoletani usano il generico termine di laganaturo (che deriva , come il sostantivo femminile lagana = sorta di larga fettuccina di pasta fresca ed estensivamente anche la intera sfoglia di pasta fresca da cui si ricavano le lagane o laganelle se piú strette, su cui è forgiato - con il concorso di un suffisso turo (atto a, per) - dal greco làganon ma che i napoletani utilizzarono attraverso un neutro latinizzato lagana inteso femminile; per verità con il termine laganaturo a Napoli si indicò ( ed ecco il motivo per cui l’ò detto: generico) alternativamente sia il tagliere, sia il bastone cilindrico con cui si spiana la pasta per cavarne le lagane; tale bastone fu ed è quello che in toscano dovrebbe correttamente dirsi matterello (diminutivo di màttero che è da congiungersi al latino matéola= mazza, bastone), ma che qualcuno e segnatamente chi parla dalla televisione..., si ostina a dire, impropriamente, con voce romanesca mattarello. Atteso dunque che sia il tagliere che il matterello sono due strumenti utili alla produzione delle lagane, poco male che avessero il medesimo nome. Quanto al tagliere dell’avellinese dirò che lí à il nome di tumpagno ed è, contrariamente al tagliere napoletano che è rettangolare, di forma circolare, né più, né meno cioè che un fondo di botte che noi, figli di Partenope, usiamo dire appunto ‘o tumpagno (dal greco tympànion che sta giustappunto per chiusura).
Il suddetto tavolo o meglio tavula, qualche piú anziano frequentatore di
casa (nonni, vecchi zii) si ostinava a dirlo (dallo spagnolo bofeta) ‘a
buffetta, ma era poco compreso da noi ragazzi che ritenevamo, sia pure errando, che il nonno o lo zio stesse confondendo, intendendosi
riferire con quella loro buffetta non al tavolo, quanto
al buffè altro mobile, di cui qui di sèguito parlerò.
Nella cucina della mia casa d’antan, sulla parete opposta a quella su cui era ubicato ‘ ‘o fuculare (demolito assieme al lavaturo nel corso dell’ammodernamento cui ò accennato dianzi, per far posto ad una cucina a gas di città che, ad un certo punto invase appunto tutta la città, soppiantando ovunque il focolare con il suo corredo di legna, carbone e carbonelle; le prime lavatrici elettriche semiautomatiche frattanto avevan, per parte loro, giustiziato lavaturi e culate con il cennerale e non so proprio la nostra vecchia Nannina cosa dovette ingegnarsi a fare per lucrar qualche soldo…) era situata una bassa credenza (con due sportelli e due cassettini); tale mobile, come un suo simile détto contrabbuffè ( da contra =opposto + buffè: nella stanza da pranzo due mobili, sia pure di legno piú pregiato e di miglior fattura, portavano il medesimo nome di buffè e contrabbuffè ed erano posti su pareti dirimpettaie, l’uno opposto all’altro) collocato al centro della parete adiacente quella su cui insisteva il buffè ( mo vi dico…) era in un vile legno di abete ed era laccato, all’esterno, di un color azzurro scuro, mentre i ripiani interni erano di un bianco calcina ); tale credenza con voce mutuata dal francese buffet si diceva per l’appunto bbuffè; su codesto buffè era montato un alto riquadro a mo’ di quadro svedese, su cui erano avvitati numerosi grossi crocchi = uncini (dal francese croc) a vvite ai quali erano sospesi pentole, tegami ed ogni altro pentolame da cucina che qui appresso elencherò con i nomi partenopei; tali stoviglie (probabilmente da un lat. volg. testulia in quanto al principio prodotte esclusivamente in terracotta)in origine furono di luccicante rame adeguatamente stagnato sulla superficie che veniva a contatto con il cibo; poi a mano a mano le stoviglie di rame furono sostituite da quelle in alluminio, materiale che assicurava un ‘ottima conducibilità di calore, e che si puliva in maniera le mille volte piú rapida del rame che per esser pulito e poi reso lucente necessitava di gran lavoro ed il soccorso di scorze di limone e di rena ‘e vitrera cioè sabbia da vetrai ricca di silice atta al soffregamento abrasivo dei residui del cibo cucinato; vediamo dunque il pentolame(forse dal latino pendere in quanto in principio i vasi per cuocere i cibi, non erano poggiati, ma sospesi sul fuoco) in uso, olim, in un po’ tutte le cucine napoletane; avevamo: tiani/e e le piú piccole tianelle, oltre a ruoti e rutielle, caccavi e ccaccavelle ed ovviamente tielle piú o meno grandi; esaminiamo da vicino:
tiano o tiana utilità simili se non uguali che si differenziavano secondo la grandezza della pentola, per solito usata per la lessatura di taluni cibi; etimologicamente dal greco tégano(n) collaterale di tàghenon; in questo caso – contrariamente al solito, il maschile tiano indicava una pentola piú grande della femminile tiana; nella tiana si potevano preparare contenuti cibi lessi o da brasare, ma per preparare tronfie minestre vegetali fino alla ridondante menesta mmaretata(= minestra dal latino:minestra(m) maritata(denominale da un latino in + maritus)in quanto minestra vegetale unita, sposata, maritata con varî tipi di carni lesse) era giocoforza ricorrere al piú vasto e capace tiano maschile;
le tianelle diminutivo del precedente erano le piú piccole e maneggevoli pentoline, provviste di un unico lungo manico saldato al bordo della pentolina attraverso tre corti chiuvette,brevi ma larghi chiodi in lega metallica che passando attraverso appositi fori circolari posti sulle pentole e la piastrina concava finale del manico quando fossero ben ribattuti, rinsaldavano il manico al tegame ed impedivano che il manico ciurlasse, assicurando cosí una sicura presa all’operatore, piú spesso operatrice, ai fuochi;
ruoti ed i diminutivi rutielle etimologicamente da un basso latino maschile: rot(l)u(m) , sincope di un rotulum forse da un classico femminile rota(m) furono i piú o meno ampi teglioni, che non avevano manici, ma un unico grosso anello metallico saldato con i soliti chiuvetti, teglioni (da non confondere con le teglie (tielle) che adesso vedremo) che potevano essere usati indifferentemente o sui fuochi o nel forno, e ce ne fu uno: ‘o ruoto niro che – per essere stato lungamente a contatto con le fiamme - si era estremamente brunito, acquistando la qualità di non fare attaccare i cibi, risultando l’involontario, ma esatto antesignano dell’antiaderenza chimica e perciò pericolosa! Esso ruoto niro quello usato per le lunghe fritture o rosolature di puparuole(=peperoni: alterazione fono-morfologica del latino piper donde anche pipere nome con cui a Napoli sono indicati un tipo di peperoni lunghi e conici) o papaccelle(peperone basso e plurilobato: da un basso latino pipericella→piparicella→ paparicella→paparcella→ papaccella,nonché sacicce( = salsicce sost. femm. plur. di saciccia, salciccia plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne di maiale; ; etimologicamente derivante da un tardo lat. salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare; e frijarielle (= particolari, tipici, squisiti broccoli (che è da sciocchi tentar di rendere in toscano con friggiarelli: ‘e frijarielle so’ frijarielle e basta; non ne è ammessa una sia pure adattata traduzione!) da friggere a crudo,etimologicamente ‘e frijarielle sono un deverbale di frijere dal lat. frígere);
caccavi e le diminutive, piú agevoli caccavelle; ‘o caccavo che è dal basso latino caccabu(m) era il piú grosso tiano che si potesse usare in cucina, ampia e larga pentola utile alla preparazione di ingenti quantitativi di minestre o brodi e dunque poco usato; in effetti a Napoli dicendo ‘o caccavo non ci si intendeva riferire a pentola domestica, quanto piuttosto ai grossi pentoloni in uso presso taluni monasteri che quotidianamente preparavano e distribuivano minestre per i poveri che le mendicassero; rammenterò il famosissimo gran caccavo ‘e Santa Maria ‘a Nova, monastero francescano posto in una centralissima piazza napoletana, monastero che cotidie era meta di poveri petenti; va da sé che con il termine caccavella si designò dal latino caccabella, neutro plurale, ma inteso femminile, di caccabellu(m) il diminutivo del pregresso caccavo, le pentoline piú piccole e maneggevoli, sinonimo delle pregresse tianelle;
concludiamo con tielle che è il plurale di tiella , propriamente il tegame, la padella, la teglia in cui o si frigge in olio basso, sugna etc. o si preparano i fondi per non troppo elaborati sughi piuttosto veloci; quelli di piú elaborata e lunga preparazione, come il mitico rraú (= il famosissimo napoletano intingolo di carne di manzo e rosso pomodoro di cui quanto prima vorrò parlare; rraú: adattamento dal francese ragoût deverbale di ragoûter derivato da goût= gusto e dunque risvegliare il gusto! ), necessitano di un’adeguata tiana; torniamo a tiella la cui etimologia è dal latino tegella(m), diminutivo di tegula, con caduta della palatale g, suono di transizione j donde tejella →tjella e tiella; in origine quando ancora la tegella non era che una piccola tegula, altro non fu che una sorta di copertura di altri vasi in terracotta come i menzionati caccabum e caccabella anch’essi, come la tegella e la tegola in terracotta.
Riprendiamo il racconto; nelle ante chiuse da sportelli del buffè e contrabbuffè trovavano posto innanzi tutto il vasellame da tavola: ‘e bbicchiere :etimologicamente da un latino: bacarium→ bicarium da un greco bíkos= piccolo vaso per bere, ed i vitrei contenitori dei liquidi quali: fiasche plurale di fiasco che etimologicamente è da un basso latino: vasculum diminutivo di vas passando per vasc’lo→ vlasco→ flasco e fiasco, peretto ed il plurale’e perette: caraffe vitree senza manico di varia capacità (dai 2 litri al quarto di litro) in cui si versava e talvolta ancóra si versa il vino per servirlo in tavola : etimologicamente per alcuni da ricollegarsi a pera di cui ricalcherebbe vagamente la forma; la cosa poco mi convince, e non prendo per buono quella che piú che una etimologia, mi appare una frettolosa paretimologia, ed atteso che a mia memoria ‘e perette ch’io conobbi non somigliavano ad una pera, né dritta, né capovolta, risultando invece essere dei cilindrici vasi vitrei (e solamente vitrei) che per tutta la loro altezza mantenevano il medesimo passo e solo verso l’alto presentavano una contenuta strozzatura che costringeva il vaso dapprina ad un modesto restringimento del passo e poi a slargarsi in una imboccatura svasata,ecco che quanto all’etimologia, penso che piú che alla forma ci si debba riferire al materiale ed al modo d’apparire d’essi perette che essendo (come ò detto) di terso e scintillante vetro (non esistono, né esistettero perette in coccio o porcellana…) penso ch’essi trassero il loro nome dall’antico alto tedesco peràt= chiaro, splendente, trasparente cosí come i perette furono e sono;quanto alla morfologia è normale nel napoletano fornire d’una sillaba finale le parole straniere terminanti per consonante che viene espressivamente raddoppiata e corredata d’ una semimuta finale (e/o); nel ns. caso peràt→peràtto→peretto, alibi ggasse←gas, tramme←tram etc.
carrafe : piú ampie – rispetto ai perette – caraffe usate solitamente per servire in tavola l’acqua da bere e talora il vino : etimologicamente dall’arabo garafa=vaso per attingere;
giarre : vasi vitrei bassi e panciuti, provvisti di manico, vasi usati per bere birra o altre bevande fermentate, etimologicamente dall’arabo djarrah attraverso lo spagnolo jarra.
Tutti i recipienti usati nelle bettole e/o osteri, cantine etc, per servire a gli avventori il vino o altre bevande furono détti onnicomprensivamente
‘o bbrito letteralmente il vetro ma per metonimia bicchieri, caraffe,ed ogni altro contenitore usato per la mescita; la voce brito etimologicamente è una lettura metatetica con tipica alternanza partenopea v/b (cfr. bocca/vocca- varca/barca etc.) del lat.vitru(m)→vritu(m)→britu(m)→brito.
ed ancora tazze, tazzine e tazzulelle tutte dall’arabo tas, tazze dette anche chicchere con voce dallo spagnolo jicara, tutti (tazze o chicchere) piccoli o medi vasi, di porcellana o di maiolica, forniti di un unico manico laterale ed usati per bere caffè, cioccolata o altre bevande per lo piú calde; esistettero anche delle chicchere a doppia ansa o manico, ma venivano usate solo in quelle famiglie aduse a servire in dette chicchere sofisticati consommé o ristretti brodini magari arricchiti da uova fresche e dette famiglie queste chicchere non le conservavano nel buffè di cucina, ma nella cristalliera (di per sé il mobile per riporvi il vasellame di cristallo, etimologicamente forgiato sulla parola cristallo che è dal greco krystallos= ghiaccio) annessa al buffè della stanza da pranzo, cristalliera o argentiera dove facevano bella mostra di sé accanto al vasellame in pregiata porcellana bavarese ed accanto ai bicchieri in cristallo molato, qualche elegante pezzo in argento magari inglese o tedesco; nelle famiglie medio-piccolo borghese, per servire il brodo s’usavano delle fonde scodelle: etimologicamente dal catalano escudella o delle capaci ciotole ampie e profonde tazze prive di manico, etimologicamente da una latina còtyla affine ad una cyàtula femm. di un cyàtulus diminutivo di cyàtus (greco: kýatos = bicchiere) quelle stesse ciotole che venivano usate all’occorrenza per servire semplici, ma gustose zuppe ‘e latte consistenti in una congrua tazza, ciotola o scodella di latte caldo o freddo, parsimoniosamente zuccherato e macchiato con poco caffè in cui erano posti ad imbimbirsi adegatamente piccoli cubi ricavati da tronfie fette di palatone (grosso filone di pane di circa due kg. cosí chiamato in quanto da solo occupava quasi del tutto la pala usata per infornarlo, palatelle: filoncini che secondo il peso: 250 o 500 gr. occupavano la metà o la quarta parte della pala) o panielle(pagnotte di forma tondeggiante, da panis + suff. diminutivo iello di buon fragante pane napoletano o cafone: biscotti, cornetti, crostatine, merendine ed affini erano ancora in mente Dei e di là da venire…
Torniamo al vasellame; nei mobili della cucina accanto a quello menzionato trovavano ancòra posto con qualche residuale pentolame in coccio o creta cotta, pentolame che essendo troppo fragile non poteva esser tenuto all’esterno di mobili, insieme a quello di rame o alluminio, e doveva esser messo al riparo nel buffè e contrabbuffè insieme alle stoviglie in ceramica o porcellana quali piatte schiane e piatte accuppute nei quali erano ammanniti minestre, primi piatti e pietanze; esaminiamo:
piatte = plurale di piatto etimologicamente dal greco platýs= largo, ampio;
schiano = piano, livellato dal latino: planu(m) dove pl→ chj=chi come in plenu(m)/plena(m) che danno chino/chiena cchiú← plus, chiazza←platea(m) etc.;
accupputo = fondo, cavo da collegarsi etimologicamente alla voce tardo latina cuppa(m)= incavata per la classica cupa(m); vedi anche il greco kýpe = cavità.
Prima di fare punto, un rapidissimo accenno alle grosse posate usate in cucina, sia per rimestare i cibi in cottura, che per servirli nei suddetti piatti; quelle posate erano essenzialmente di due tipi: in lega metallica o completamente di legno; tra le prime rammenterò:
‘o cuppino ed il diminutivo cuppeniello = ramaioli semisferici piú o meno grossi, con lungo manico usati per rimestare e servire brodi o minestre brodose o conferire liquidi a cibi in cottura che dessero segni d’essersi troppo prosciugati, quanto alla etimologia da far risalire alle medesime voci di cui al precedente accupputo;
‘o furchettone = evidente accrescitivo (stranamente maschile) della femminile furchetta dalla medesima etimologia dal francese fouchette con epentesi della erre e suffisso accrescitivo one = arnese a due o tre rebbi usato per rimestar verdure o infilzare e prelevare dai tegami pezzi di carne o altro;
‘a votapesce = schiumarola forata di foggia piatta o concava usata per rigirare i cibi in cottura (pesci o carni) sgrondandoli in contemporanea dei grassi o liquidi di preparazione; ovvia l’etimologia che è dall’addizione del verbo vutà/votà= girare da un basso latino volvitare intensivo di volvere + il sostantivo pisce(m);
e giungiamo infine alle posate lignee che sono essenzialmente due:
‘a cucchiara ed il suo diminutivo cucchiarella che sono esattamente i piú o meno grossi cucchiai atti a rimestare i cibi in cottura ed a prelevarne volta a volta piccole quantità; l’etimologia è latina da cochleària neutro plurale inteso femminile di cochleàrium e questo a sua volta da collegarsi al greco kochliàrion forma diminutiva di kochlías = chiocciola o conchiglia in quanto strumento usato per prelevare e mangiare il frutto della chiocciola o conchiglia.
Rammenterò, in chiusura, che un tempo le posate lignee cucchiare e cucchiarelle prodotte artigianalmente, venivano cortesemente fornite annualmente dagli zampognari abbruzzesi o avellinesi che, chiamati in casa, vi venivano a suonare la novena di Natale ed al momento del congedo solevano ricambiare con il dono di tali lignee cucchiaie, i dolci ed i liquori o casalinghi rosolî che venivano loro dati per sovrammercato del compenso pattuito per la novena; i rosolî casalinghi erano conservati o in bottiglie conservate ad òc, una volta che fossero state vuotate degli originarî liquori industriali, ma – piú spesso in scintillanti carrafine= panciutelle ampolline vitree o –meno spesso – di cristallo, fornite di manico, torto beccuccio e vitreo tappo, ampolline un po’ piú grandi, ma – per la forma - in tutto simili a quelle usate in chiesa durante la celebrazione della S.Messa, per contenervi acqua e vino; etimologicamente anche la carrafina come la precedente carrafa di cui è diminutivo, viene dall’arabo garafa.
Nella cucina della mia casa d’antan, sulla parete opposta a quella su cui era ubicato ‘ ‘o fuculare (demolito assieme al lavaturo nel corso dell’ammodernamento cui ò accennato dianzi, per far posto ad una cucina a gas di città che, ad un certo punto invase appunto tutta la città, soppiantando ovunque il focolare con il suo corredo di legna, carbone e carbonelle; le prime lavatrici elettriche semiautomatiche frattanto avevan, per parte loro, giustiziato lavaturi e culate con il cennerale e non so proprio la nostra vecchia Nannina cosa dovette ingegnarsi a fare per lucrar qualche soldo…) era situata una bassa credenza (con due sportelli e due cassettini); tale mobile, come un suo simile détto contrabbuffè ( da contra =opposto + buffè: nella stanza da pranzo due mobili, sia pure di legno piú pregiato e di miglior fattura, portavano il medesimo nome di buffè e contrabbuffè ed erano posti su pareti dirimpettaie, l’uno opposto all’altro) collocato al centro della parete adiacente quella su cui insisteva il buffè ( mo vi dico…) era in un vile legno di abete ed era laccato, all’esterno, di un color azzurro scuro, mentre i ripiani interni erano di un bianco calcina ); tale credenza con voce mutuata dal francese buffet si diceva per l’appunto bbuffè; su codesto buffè era montato un alto riquadro a mo’ di quadro svedese, su cui erano avvitati numerosi grossi crocchi = uncini (dal francese croc) a vvite ai quali erano sospesi pentole, tegami ed ogni altro pentolame da cucina che qui appresso elencherò con i nomi partenopei; tali stoviglie (probabilmente da un lat. volg. testulia in quanto al principio prodotte esclusivamente in terracotta)in origine furono di luccicante rame adeguatamente stagnato sulla superficie che veniva a contatto con il cibo; poi a mano a mano le stoviglie di rame furono sostituite da quelle in alluminio, materiale che assicurava un ‘ottima conducibilità di calore, e che si puliva in maniera le mille volte piú rapida del rame che per esser pulito e poi reso lucente necessitava di gran lavoro ed il soccorso di scorze di limone e di rena ‘e vitrera cioè sabbia da vetrai ricca di silice atta al soffregamento abrasivo dei residui del cibo cucinato; vediamo dunque il pentolame(forse dal latino pendere in quanto in principio i vasi per cuocere i cibi, non erano poggiati, ma sospesi sul fuoco) in uso, olim, in un po’ tutte le cucine napoletane; avevamo: tiani/e e le piú piccole tianelle, oltre a ruoti e rutielle, caccavi e ccaccavelle ed ovviamente tielle piú o meno grandi; esaminiamo da vicino:
tiano o tiana utilità simili se non uguali che si differenziavano secondo la grandezza della pentola, per solito usata per la lessatura di taluni cibi; etimologicamente dal greco tégano(n) collaterale di tàghenon; in questo caso – contrariamente al solito, il maschile tiano indicava una pentola piú grande della femminile tiana; nella tiana si potevano preparare contenuti cibi lessi o da brasare, ma per preparare tronfie minestre vegetali fino alla ridondante menesta mmaretata(= minestra dal latino:minestra(m) maritata(denominale da un latino in + maritus)in quanto minestra vegetale unita, sposata, maritata con varî tipi di carni lesse) era giocoforza ricorrere al piú vasto e capace tiano maschile;
le tianelle diminutivo del precedente erano le piú piccole e maneggevoli pentoline, provviste di un unico lungo manico saldato al bordo della pentolina attraverso tre corti chiuvette,brevi ma larghi chiodi in lega metallica che passando attraverso appositi fori circolari posti sulle pentole e la piastrina concava finale del manico quando fossero ben ribattuti, rinsaldavano il manico al tegame ed impedivano che il manico ciurlasse, assicurando cosí una sicura presa all’operatore, piú spesso operatrice, ai fuochi;
ruoti ed i diminutivi rutielle etimologicamente da un basso latino maschile: rot(l)u(m) , sincope di un rotulum forse da un classico femminile rota(m) furono i piú o meno ampi teglioni, che non avevano manici, ma un unico grosso anello metallico saldato con i soliti chiuvetti, teglioni (da non confondere con le teglie (tielle) che adesso vedremo) che potevano essere usati indifferentemente o sui fuochi o nel forno, e ce ne fu uno: ‘o ruoto niro che – per essere stato lungamente a contatto con le fiamme - si era estremamente brunito, acquistando la qualità di non fare attaccare i cibi, risultando l’involontario, ma esatto antesignano dell’antiaderenza chimica e perciò pericolosa! Esso ruoto niro quello usato per le lunghe fritture o rosolature di puparuole(=peperoni: alterazione fono-morfologica del latino piper donde anche pipere nome con cui a Napoli sono indicati un tipo di peperoni lunghi e conici) o papaccelle(peperone basso e plurilobato: da un basso latino pipericella→piparicella→ paparicella→paparcella→ papaccella,nonché sacicce( = salsicce sost. femm. plur. di saciccia, salciccia plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne di maiale; ; etimologicamente derivante da un tardo lat. salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare; e frijarielle (= particolari, tipici, squisiti broccoli (che è da sciocchi tentar di rendere in toscano con friggiarelli: ‘e frijarielle so’ frijarielle e basta; non ne è ammessa una sia pure adattata traduzione!) da friggere a crudo,etimologicamente ‘e frijarielle sono un deverbale di frijere dal lat. frígere);
caccavi e le diminutive, piú agevoli caccavelle; ‘o caccavo che è dal basso latino caccabu(m) era il piú grosso tiano che si potesse usare in cucina, ampia e larga pentola utile alla preparazione di ingenti quantitativi di minestre o brodi e dunque poco usato; in effetti a Napoli dicendo ‘o caccavo non ci si intendeva riferire a pentola domestica, quanto piuttosto ai grossi pentoloni in uso presso taluni monasteri che quotidianamente preparavano e distribuivano minestre per i poveri che le mendicassero; rammenterò il famosissimo gran caccavo ‘e Santa Maria ‘a Nova, monastero francescano posto in una centralissima piazza napoletana, monastero che cotidie era meta di poveri petenti; va da sé che con il termine caccavella si designò dal latino caccabella, neutro plurale, ma inteso femminile, di caccabellu(m) il diminutivo del pregresso caccavo, le pentoline piú piccole e maneggevoli, sinonimo delle pregresse tianelle;
concludiamo con tielle che è il plurale di tiella , propriamente il tegame, la padella, la teglia in cui o si frigge in olio basso, sugna etc. o si preparano i fondi per non troppo elaborati sughi piuttosto veloci; quelli di piú elaborata e lunga preparazione, come il mitico rraú (= il famosissimo napoletano intingolo di carne di manzo e rosso pomodoro di cui quanto prima vorrò parlare; rraú: adattamento dal francese ragoût deverbale di ragoûter derivato da goût= gusto e dunque risvegliare il gusto! ), necessitano di un’adeguata tiana; torniamo a tiella la cui etimologia è dal latino tegella(m), diminutivo di tegula, con caduta della palatale g, suono di transizione j donde tejella →tjella e tiella; in origine quando ancora la tegella non era che una piccola tegula, altro non fu che una sorta di copertura di altri vasi in terracotta come i menzionati caccabum e caccabella anch’essi, come la tegella e la tegola in terracotta.
Riprendiamo il racconto; nelle ante chiuse da sportelli del buffè e contrabbuffè trovavano posto innanzi tutto il vasellame da tavola: ‘e bbicchiere :etimologicamente da un latino: bacarium→ bicarium da un greco bíkos= piccolo vaso per bere, ed i vitrei contenitori dei liquidi quali: fiasche plurale di fiasco che etimologicamente è da un basso latino: vasculum diminutivo di vas passando per vasc’lo→ vlasco→ flasco e fiasco, peretto ed il plurale’e perette: caraffe vitree senza manico di varia capacità (dai 2 litri al quarto di litro) in cui si versava e talvolta ancóra si versa il vino per servirlo in tavola : etimologicamente per alcuni da ricollegarsi a pera di cui ricalcherebbe vagamente la forma; la cosa poco mi convince, e non prendo per buono quella che piú che una etimologia, mi appare una frettolosa paretimologia, ed atteso che a mia memoria ‘e perette ch’io conobbi non somigliavano ad una pera, né dritta, né capovolta, risultando invece essere dei cilindrici vasi vitrei (e solamente vitrei) che per tutta la loro altezza mantenevano il medesimo passo e solo verso l’alto presentavano una contenuta strozzatura che costringeva il vaso dapprina ad un modesto restringimento del passo e poi a slargarsi in una imboccatura svasata,ecco che quanto all’etimologia, penso che piú che alla forma ci si debba riferire al materiale ed al modo d’apparire d’essi perette che essendo (come ò detto) di terso e scintillante vetro (non esistono, né esistettero perette in coccio o porcellana…) penso ch’essi trassero il loro nome dall’antico alto tedesco peràt= chiaro, splendente, trasparente cosí come i perette furono e sono;quanto alla morfologia è normale nel napoletano fornire d’una sillaba finale le parole straniere terminanti per consonante che viene espressivamente raddoppiata e corredata d’ una semimuta finale (e/o); nel ns. caso peràt→peràtto→peretto, alibi ggasse←gas, tramme←tram etc.
carrafe : piú ampie – rispetto ai perette – caraffe usate solitamente per servire in tavola l’acqua da bere e talora il vino : etimologicamente dall’arabo garafa=vaso per attingere;
giarre : vasi vitrei bassi e panciuti, provvisti di manico, vasi usati per bere birra o altre bevande fermentate, etimologicamente dall’arabo djarrah attraverso lo spagnolo jarra.
Tutti i recipienti usati nelle bettole e/o osteri, cantine etc, per servire a gli avventori il vino o altre bevande furono détti onnicomprensivamente
‘o bbrito letteralmente il vetro ma per metonimia bicchieri, caraffe,ed ogni altro contenitore usato per la mescita; la voce brito etimologicamente è una lettura metatetica con tipica alternanza partenopea v/b (cfr. bocca/vocca- varca/barca etc.) del lat.vitru(m)→vritu(m)→britu(m)→brito.
ed ancora tazze, tazzine e tazzulelle tutte dall’arabo tas, tazze dette anche chicchere con voce dallo spagnolo jicara, tutti (tazze o chicchere) piccoli o medi vasi, di porcellana o di maiolica, forniti di un unico manico laterale ed usati per bere caffè, cioccolata o altre bevande per lo piú calde; esistettero anche delle chicchere a doppia ansa o manico, ma venivano usate solo in quelle famiglie aduse a servire in dette chicchere sofisticati consommé o ristretti brodini magari arricchiti da uova fresche e dette famiglie queste chicchere non le conservavano nel buffè di cucina, ma nella cristalliera (di per sé il mobile per riporvi il vasellame di cristallo, etimologicamente forgiato sulla parola cristallo che è dal greco krystallos= ghiaccio) annessa al buffè della stanza da pranzo, cristalliera o argentiera dove facevano bella mostra di sé accanto al vasellame in pregiata porcellana bavarese ed accanto ai bicchieri in cristallo molato, qualche elegante pezzo in argento magari inglese o tedesco; nelle famiglie medio-piccolo borghese, per servire il brodo s’usavano delle fonde scodelle: etimologicamente dal catalano escudella o delle capaci ciotole ampie e profonde tazze prive di manico, etimologicamente da una latina còtyla affine ad una cyàtula femm. di un cyàtulus diminutivo di cyàtus (greco: kýatos = bicchiere) quelle stesse ciotole che venivano usate all’occorrenza per servire semplici, ma gustose zuppe ‘e latte consistenti in una congrua tazza, ciotola o scodella di latte caldo o freddo, parsimoniosamente zuccherato e macchiato con poco caffè in cui erano posti ad imbimbirsi adegatamente piccoli cubi ricavati da tronfie fette di palatone (grosso filone di pane di circa due kg. cosí chiamato in quanto da solo occupava quasi del tutto la pala usata per infornarlo, palatelle: filoncini che secondo il peso: 250 o 500 gr. occupavano la metà o la quarta parte della pala) o panielle(pagnotte di forma tondeggiante, da panis + suff. diminutivo iello di buon fragante pane napoletano o cafone: biscotti, cornetti, crostatine, merendine ed affini erano ancora in mente Dei e di là da venire…
Torniamo al vasellame; nei mobili della cucina accanto a quello menzionato trovavano ancòra posto con qualche residuale pentolame in coccio o creta cotta, pentolame che essendo troppo fragile non poteva esser tenuto all’esterno di mobili, insieme a quello di rame o alluminio, e doveva esser messo al riparo nel buffè e contrabbuffè insieme alle stoviglie in ceramica o porcellana quali piatte schiane e piatte accuppute nei quali erano ammanniti minestre, primi piatti e pietanze; esaminiamo:
piatte = plurale di piatto etimologicamente dal greco platýs= largo, ampio;
schiano = piano, livellato dal latino: planu(m) dove pl→ chj=chi come in plenu(m)/plena(m) che danno chino/chiena cchiú← plus, chiazza←platea(m) etc.;
accupputo = fondo, cavo da collegarsi etimologicamente alla voce tardo latina cuppa(m)= incavata per la classica cupa(m); vedi anche il greco kýpe = cavità.
Prima di fare punto, un rapidissimo accenno alle grosse posate usate in cucina, sia per rimestare i cibi in cottura, che per servirli nei suddetti piatti; quelle posate erano essenzialmente di due tipi: in lega metallica o completamente di legno; tra le prime rammenterò:
‘o cuppino ed il diminutivo cuppeniello = ramaioli semisferici piú o meno grossi, con lungo manico usati per rimestare e servire brodi o minestre brodose o conferire liquidi a cibi in cottura che dessero segni d’essersi troppo prosciugati, quanto alla etimologia da far risalire alle medesime voci di cui al precedente accupputo;
‘o furchettone = evidente accrescitivo (stranamente maschile) della femminile furchetta dalla medesima etimologia dal francese fouchette con epentesi della erre e suffisso accrescitivo one = arnese a due o tre rebbi usato per rimestar verdure o infilzare e prelevare dai tegami pezzi di carne o altro;
‘a votapesce = schiumarola forata di foggia piatta o concava usata per rigirare i cibi in cottura (pesci o carni) sgrondandoli in contemporanea dei grassi o liquidi di preparazione; ovvia l’etimologia che è dall’addizione del verbo vutà/votà= girare da un basso latino volvitare intensivo di volvere + il sostantivo pisce(m);
e giungiamo infine alle posate lignee che sono essenzialmente due:
‘a cucchiara ed il suo diminutivo cucchiarella che sono esattamente i piú o meno grossi cucchiai atti a rimestare i cibi in cottura ed a prelevarne volta a volta piccole quantità; l’etimologia è latina da cochleària neutro plurale inteso femminile di cochleàrium e questo a sua volta da collegarsi al greco kochliàrion forma diminutiva di kochlías = chiocciola o conchiglia in quanto strumento usato per prelevare e mangiare il frutto della chiocciola o conchiglia.
Rammenterò, in chiusura, che un tempo le posate lignee cucchiare e cucchiarelle prodotte artigianalmente, venivano cortesemente fornite annualmente dagli zampognari abbruzzesi o avellinesi che, chiamati in casa, vi venivano a suonare la novena di Natale ed al momento del congedo solevano ricambiare con il dono di tali lignee cucchiaie, i dolci ed i liquori o casalinghi rosolî che venivano loro dati per sovrammercato del compenso pattuito per la novena; i rosolî casalinghi erano conservati o in bottiglie conservate ad òc, una volta che fossero state vuotate degli originarî liquori industriali, ma – piú spesso in scintillanti carrafine= panciutelle ampolline vitree o –meno spesso – di cristallo, fornite di manico, torto beccuccio e vitreo tappo, ampolline un po’ piú grandi, ma – per la forma - in tutto simili a quelle usate in chiesa durante la celebrazione della S.Messa, per contenervi acqua e vino; etimologicamente anche la carrafina come la precedente carrafa di cui è diminutivo, viene dall’arabo garafa.
‘a cucina – aggiunta 1
Ò dimenticato
di parlarvi di alcuni oggetti/utensili usati in cucina e conservati, accanto a
quelli menzionati, nel bbuffè o nel contrabbuffè; provvedo ora
col dirvene:
cepugno intraducibile ad litteram che fu un antico vaso oleario in
terracotta della capacità di piú litri,
che derivò il suo nome dal fatto di esser di forma simile ad una grossa cipolla (dal
lat. cepa o coepa) con collo stretto in tutto simile a quello della
cipolla che panciutella nel corpo si
restringe verso l’alto a mo’ di collo. In detto cepugno veniva conservato
l’olio che una volta era acquistato spesso direttamente presso produttori di
fiducia e senza lesinare sulle quantità;
in prosieguo di tempo il cepugno fu
sostituito con lo
ziro ( dall’arabo zihr= orcio) anch’esso vaso oleario di gran capacità che poteva essere di
terracotta come il cepugno ma piú spesso di banda stagnata. Avvicinandosi ai
nostri dí anche nelle case piú facoltose son venuti meno e il cepugno e lo
ziro sostituiti con micragnose bottiglie(butteglie)
tra le quali appunto la unta e
bisunta butteglia ‘e ll’uoglio da cui si preleva o meglio prelevava il prezioso condimento per il tramite di un
minuscolo mesuriello ‘e ll’uoglio = misurino dalla contenuta capienza di
circa 1,5 decilitri :almeno cosí ricordo;
etimologie: butteglia
= bottiglia : dal latino bu(t)ticula
diminutivo di buttis= vaso, botte ma attraverso un francese bouteille, piú che uno spagnolo botilla
uoglio: =
olio: da un latino oleu(m) cfr. greco: élaion; il classico oleu(m) diede il volgare òliu(m) con li→gli
donde oglio → uoglio;
mesuriello=
misurino graduato in alluminio, diminutivo del francese mésure che è dal latino mensura dal part. pass. mensus del verbo metíri= misurare;
buccacce = congrui contenitori vitrei piú
larghi che alti dall’ampia bocca, turata da adeguati tappi ‘e suvero =
sughero dal latino: subere(m) cfr. il greco: sýpàr= pelle rugosa; in detti bbuccacce (il cui nome penso derivi
dal fatto che fossero vasi, come detto, dall’ampia bocca e non, come qualcuno
ritiene, dal latino baucale(m) che aveva
dato il napoletano bucale in origine boccale per bere e poi sorta di portafiore ) erano
opportunamente riposte paste secche dai minuscoli formati, (quali stelletelle,
anellette, acene ‘e pepe, semmenze ‘e mellone, sturtine (una sorta di vermicello perforato, troncato
all’origine in pezzetti da 3 cm. piegati a mo’ d’archetto) ,rosamarina
cosí chiamata in quanto formato di pasta avente la medesima forma degli aghi
delle pianta di rosmarino etc.), nonché altri alimenti quali: ‘o
zzuccaro= zucchero dall’arabo sukkar, ‘a farina dall’omonimo latino
farina =farina che è da far = farro, grano janca = bianca dall’ ant.
ted. blanch; detta farina bianca era detta anche ‘o sciore dal latino flos con consuento cambio fl→sci usando il
medesimo termine che rende in napoletano il fiore (sciore) atteso che la farina
bianca rapprenta appunto il fior fiore della macinazione dei cereali, ‘a
farenella gialla = farina gialla di granturco (quella usata al nord per
preparare polente) usata nella preparazione dei migliacci carnascialeschi
che ebbero questo nome poi che in origine furono preparati usando una farina di
miglio brillato (miglio in latino fu: mílium
donde l’aggettivo miliaceus da
cui migliaccio, in bbuccacce piú contenuti era conservato ‘o ccafè =
il caffè, rigorosamente in chicchi che venivano , secondo l’occorrenza, frantumati e ridotti in polvere con un
apposito utensile detto maceniello = maneggevole macinino meccanico, etimologicamente deverbale del
latino machinare che è da machina = macína;
talora il caffè era acquistato senza che fosse tostato, ma ancòra verde
e la tostatura necessaria prima di procedere alla macinazione, occorreva farla in cucina con l’apposito abbrustulaturo cilindrico utensile di ferro nero
provvisto di manovella, di un vano in cui si immetteva il caffè da
abbrustolire, protetto da uno sportellino con nottolino di chiusura, alloggiamento
inferiore per porvi le braci di combusta
carbonella; l’utensile derivava il suo nome da un basso latino: ambustulare
frequentativo di amburere = bruciare ai lati; ancòra in altri piú minuscoli bbuccaccielle
(diminutivo dei pregressi bbuccacce) trovavano posto le spezie
secche o in polvere, quali il pepe nero in grani che veniva ridotto in polvere con un altro
deputato piccolo maceniello ovviamente diverso da quello usato per il caffè, ‘a
cannella, la noce moscata, ‘e fenucchielle = semi di finocchio, ‘e chiuvetielle
‘e carofano (dal greco karyòphillon che
dette prima carofalo e poi per dissimilazione l-r→ r-n carofano )=
chiodini di garofano che venivano buoni per qualche noioso mal di denti,
arecheta (= origano ) forse dal latino:
origanon incrociato con nepeta, gli aghi di rosamarina (=rosmarino)
dal latino: ros (rugiada)+ marina(marina) cosí detto per i fiori cerulei della
pianta; ricorderò infine conservata in un suo bbuccacciello a chiusura ermetica ‘a póvera ‘e cacavo (
dallo spagnolo cacao con epentesi eufonica della v) = polvere di
cacao che veniva usato poche volte
all’anno per preparare calde, saporite
tazze di cioccolata in occasioni dei genetliaci dei componenti la famiglia; in
un ultimo capace bbuccaccio era conservato il sale che veniva
acquistato rigorosamente grosso, venduto
non in tabaccheria, ma in talune remote drogherie e prelevato dal
droghiere, da bianchi sacchetti,
marchiati col simbolo del monopolio di stato, con una sassuolina, prima di
pesarlo in una dondolante stadera (lat.
statíra(m), dal gr. statêra, acc. di statér -êros 'statere', denominazione di
un peso e di una moneta) e consegnarlo all’acquirente, rinchiuso in un cuoppo (= cartoccetto conico di
carta doppia per lo piú di color grigio chiaro) etimologicamente dalla già vista cuppa(m)← cupa(m) latina; il
sale grosso cosí acquistato veniva usato al naturale per salare l’acqua in cui si lessava la pasta; per tutte le
altre preparazioni (salvo talvolta per condire pesce e/o verdure (ed allora era
addizionato di un congruo numero di erbette secche e/o spezie)) occorreva
raffinarlo, renderlo cioè fino; tale operazione poteva avvenire in due
maniere: una artigianale ed una piú
crismatica; quella artigianale consisteva in: prelevare dal
bbuccaccio di pertinenza il quantitativo
di sale grosso che si intendeva raffinare, ammonticchiarlo sul tavolo di marmo
ben netto, riempire di acqua una bottiglia di vetro doppio, tapparla benissimo,
asciugarla accuratamente e con questa sorta di agevole randello, frangere il sale
grosso, passando e ripassandovi sopra a
lungo finché non lo si fosse raffinato a
sufficienza, il sale fino cosí ottenuto veniva
raccolto con un cucchiaio e sistemato in un’ampia salera (dal
latino sal attraverso l’aggettivo salaria ) di coccio, provvista, per
tentare di combattere la naturale igroscopicità del minerale, di un cupierchio
(dal latino coperculum) da non confondere con ‘o cummuoglio che è la copertura non dei piccoli utensili,
ma di piú ampie entità quali ad es. una scatola
per le scarpe o altro, o anche la lignea copertura di macchine
domestiche, come quella per cucire; cummuoglio (deverbale da un basso
latino: cum+volvjare→cumvoljare→cummoljare→cummuljare→cummiglià fino a dare il nostro cummuoglio; torniamo
alla salèra (che come altri utensili di cucina fu inizialmente in
terracotta) ed al suo coperchio su cui a mo’ di pomello o maniglia si ergeva
una caricaturale statuina riproducente un ridanciano omino: ll’ommo ‘ncopp’â
salèra un omuncolo cioè simile ad un tal Tom
Pouce, viaggiatore inglese, o secondo altra tesi: nanetto inglese che si
esibiva in spettacoli circensi, venuto a
Napoli sul finire del 1860, molto piccolo e ridicolo; fosse un viaggiatore o un
pagliaccio, fu preso a modello dagli
artigiani napoletani che lo raffigurarono per molti anni a tutto tondo sulle
stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione paré ll’ommo ‘ncopp’â salèra venne riferita
da allora, con tono di scherno, verso
tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente
e/o moralmente, laddove sono invece
l'esatto opposto. La maniera piú crismatica di raffinare in casa il sale
grosso era quella che prevedeva l’uso d’ ‘o murtale (= mortaio dal
latino mortariu(m) con dissimilazione r –l ampio vaso concavo di legno o
ferro o ghisa, ma piú spesso di marmo, dalle spesse pareti in cui si frantumano
erbe o spezie e qui il sale grosso da raffinare, usando quel che in toscano è detto
pestello ed in napoletano pesaturo
con evidente sincope di una t di un originario pestaturo deverbale
di pestare ( tardo latino pistare iterativo di pínsere con aggiunta del
suffisso di scopo turo o alibi tore ).
Voglio rammentare – tra gli
utensili conservati nel bbuffè o contrabbuffè – per ultimi, ma
non ultimi ‘e vasette (dal latino
vas con aggiunta del diminutivo etto)contenitori cilindrici in terracotta
smaltata o invetriata, di diverse dimensioni, usati per conservare varî
alimenti; detti vasi erano sempre privi di coperchio; una volta che fossero
stati pieni, la copertura veniva assicurata da uno o piú fogli di carta oleata o paraffinata, fogli poggiati
sull’imboccatura, fatti debordare gli angoli con misura e trattenuti con uno o
piú giri di spago; per i vasetti piú piccoli
in luogo dello spago erano usati dei cedevoli elastici; avevamo ordunque
‘o vasetto d’’a ‘nzogna(= il vaso per la
sugna, il gustosissimo condimento che per talune preparazioni veniva usato con
o in sostituzione dell’olio;
Preciso súbito che la voce napoletana a margine
(‘nzogna) che rende l’italiano sugna o
strutto è voce che va scritta ‘nzogna con un congruo apice (‘)
d’aferesi (e qui di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno
d’aferesi, come purtroppo càpita di trovare scritto.
Ciò detto passiamo all’etimologia e sgombriamo
súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna,
(non ‘nzogna) possa essere
un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di
una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e
successivo passaggio di ns>nz,
dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e
ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre
ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il
condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura,
filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per
uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la
cotenna di porco ancòra ricca di grasso.
Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la
napoletana ‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra
assogna per la quale non ò trovato occorrenze di sorta! Messe da parte tali
fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e
morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia
quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da
cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)=
cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di
pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nsoinia→’nzogna.
Ordunque la sugna ( che era
essenzialmente di due specie: 1)‘nzogna ‘mpane(quella proveniente dal grasso
sottocutaneo della groppa del maiale ed era un pannicolo interamente di grasso
alto fino a tre dita); 2) lardiciello (quella proveniente dal grasso
sottocutaneo della pancia del maiale ed
era un pannicolo non interamente di grasso, striato di contenuti strati di
carne ed alto non piú di un paio dita) era acquistata nel mese di dicembre, al tempo
della macellazione dei maiali, in larghe
falde in macelleria, tagliata in congrui cubi, messi poi a liquefare su di una
fiamma dolce in un’ampia tiana, con
poco sale fino, in compagnia di
un paio di foglie di alloro, da noi detto giustamente lauro (forse da un
latino: laurus / lau(da)re se non da un daurus che imiterebbe un greco drýs
=quercia, pianta; lau(da)re si fa preferire rammentando che un tempo le foglie di lauro, piú che in cucina fossero
usate per incoronare capitani, sacerdoti o atleti vittoriosi. Una volta
ridotta allo stato liquido la sugna
veniva fatta intiepidire un poco
prima di esser versata in uno o piú vasetti ed a temperatura ambiente la si lasciava
raffreddare fino a che non acquistasse una consistenza cremosa; si recuperavano
le foglie di lauro e le si poneva alla sommità del vasetto pieno, coprendo il
tutto con i consueti fogli di carta
oleata; i residui della liquefazione dei cubi di sugna, venivano raccolti con
una schiumarola forata ed adeguatamente pressati con una schiacciapatate per ricavarne dei piccoli panetti
circolari detti ‘e cicule (= avanzi appunto dei pezzetti
del grasso di majale, dopo cavatone lo strutto o sugna; dal
latino:insciciolu(m) Va da sé che i ciculi piú gustosi fossero quelli residui
del lardiciello e non della ‘nzogna ‘mpane )Rammento qui che con la medesima
voce: cicoli o ciccioli in salumeria o, ma meno spesso, in macelleria si vendono dei gustosissimi
prodotti industriali che provengono non dai residui della liquefazione di cubi
di sugna, ma dalla cottura a vapore di carni, grasso e cotenna provenienti in massima parte dal collo del
maiale, opportunamente salati e pepati. Al termine della cottura a vapore il
tutto viene opportunamente pressato in
forme metalliche fino ad ottenere dei
grossi pani cilindrici piú larghi ( circa50 cm.) che alti(circa 15 cm) , che raffreddati
vengono venduti a taglio ed a peso nelle salumerie al banco dei salumi cui
sono, sia pure impropriamente apparentati; la sugna che comunque si ricava da
questa spremitura di carni, grasso e
cotenne viene venduta ugualmente come
condimento sia pure di seconda scelta. Ancóra in tema di sugna ricorderò che un
tempo chi non provvedesse a prepararla
in casa liquefacendo i pannicoli di ‘nzogna ‘mpane e/o lardiciello poteva
acquistarla dal proprio macellaio di fiducia che sostituendosi alla massaia
provvedeva alla bisogna e metteva in vendita la sugna approntata in consistenza
di pomata conservata non in vasetto, ma nelle vesciche di maiale: ‘a vessica
(dal lat. vesica(m)) ‘e ‘nzogna.che poteva essere acquistata per intera o piú
spesso a peso.
Procediamo.
In altri vasetti piú
piccoli si conservavano sotto olio: filetti di alici salate opportunamente
dissalati, eviscerati, lavati, ed asciugati superficialmente;in vasetti un po’
piú grandi, ugualmente sotto olio, ma
previa bollitura in aceto aromatizzato, si conservavano fette di melanzane
condite con aglio affettato sottilmente, origano, pezzetti di peperoncino
piccante; con il medesimo condimento e
previa identica bollitura in aceto, sempre sotto olio, in un abbastanza grande vasetto
si conservava la c.d. cumposta (dal latino: composita p.p. femm. dal verbo componere: mettere
insieme, unire) gustosissima miscellanea di piccole falde di peperoni,
tocchetti di melanzane,carote tagliate a rondelle, ciuffi di cavolfiore, olive
bianche e nere ed altri ortaggi come
pezzetti di sedano, in napoletano accio (dal latino: apiu-m con il medesimo evolversi morfologico che à dato il
napoletano saccio (so) dal latino: sapio.
Tale cumposta prelevata, secondo le necessità con una
piccola schiumarola bucata, per manter costante il livello dell’olio nel
vasetto, era usata o da sola come
stimolante contorno a pietanze di carne
o pesce, o come gustoso arricchimento di fresche insalate verdi!
‘a cucina – aggiunta 2
Un cenno a parte meritano
l’elencazione delle fajenze (stoviglie da cucina e/o da tavola) e l’elencazione
di brocche, bottiglie, bicchieri ed altri contenitori di vetro o di cristallo
(quando fossero piú eleganti e/o piú preziosi.
Con la voce fajenze, voce derivata dal nome della città di
Faenza dove erano prodotte famose e costose ceramiche si indicavano quelle
usate nelle famiglie della medio-alta borghesia partenopea come vasellame da
cucina o da tavola; ma il termine fajenze attecchí cosí tanto che invalse l’uso
anche nelle famiglie d’erstrazione popolare di attribuir quel nome a tutto il
modesto vasellame in semplice terracotta in uso nella città bassa. Le ceramiche
prodotte nella città di Faenza erano
cosí tanto costose che per metinomia la
voce fajenza fu addirittura usata in tutta la città, soprattutto in quella
bassa come uno dei sinonimi del danaro (cfr. alibi); orbene tra
le fajenze rammenterò piatte
(schiane
e accuppute)piattine, piattelle,zuppiere, zupperelle,
‘nzalatiere,tieste,
vernecale,lancelle etc., mentre con il generico nome di vrito/brito (anche quando fossero dialtro materiale: cristallo/terraglia) si indicarono
brocche (arciule, arciulille), bottiglie,damigiane (butteglie, chiacchiaresse, perette), bicchieri, caraffe(carrafe, carrafine/carrafelle)ampolle da
tavolo per l’olio e l’aceto (acetere)etc.
Esamino
le singole voci:
stoviglie
s.vo f.le pl. di stoviglia ma
usato generalmente al pl.= nome generico con cui si designa il vasellame per la
tavola e la cucina: lavare,
asciugare le stoviglie.voce dal lat. volg. *testuilia, neutro pl. di *testuile, deriv. del class. testa 'vaso di terracotta;
Dei
piatti (schiane = piani e accuppute= fondi) ò già detto antea e qui dirò solo di piattella (diminutivo femminilizzato pl. di piatto)=
piccolo piatto, piattino da frutta o dolce, mentre con il termine piattine pl. di piattino
si
indicò la sottocoppa; faccio notare la particolarità che presenta la voce piattino che mentre in italiano indica appunto il
piccolo piatto da frutta o dolce, nel napoletano indica la minuscola sottocoppa
e per indicare piccolo piatto da frutta o dolce
si preferí coniare il femminile sia pure diminutivo piattella secondando il consueto criterio che nel
napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se
maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es.
‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo
),‘a tammorra (piú
grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a
‘o cucchiaro
piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a
‘o carretto piú
piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o
caccavo piú grande de ‘a caccavella; nella fattispecie essendo la sottocoppa piú piccola del piattino da
frutta (piú grande) si assegnò a questo la voce piattella mentre la sottocoppa fu détta piattino; proseguiamo zuppiera, zupperella, s.vo f.le al pl. zuppiere, zupperelle, si tratta di due voci
di cui la seconda è diminutivo della prima usate per indicare recipienti con
coperchio, usati per servire in tavola minestre, brodi, stracotti o altri intingoli cucinati con
sughi. voci derivate piú che da zuppa,direttamente del fr. soupière con raddoppiamento
espressivo della esplosiva bilabiale (p) per influsso
di zuppa;
‘nzalatèra, s.vo f.le al pl. ‘nzalatiére con dittongazione
della è tonica intesa breve; si tratta di un termine che di per sé indicherebbe
il recipiente di terraglia, ceramica o
anche vetro in cui si condisce e si
serve l'insalata, termine tuttavia usato quale sinonimo dei precedenti; voce
marcata sullo spagnolo ensalada addizionato del suff.
di pertinenza èra (dal francese ier
cfr. G. Rohlfs);
tiesto,
s.vo m.le
al pl. tieste voce
desueta usata un tempo aternativamente per indicare
1)
coperchio
di terracotta,
2)
vasellame
di terracotta, recipiente da cucinadi terracotta o di metallo o
modernamente di vetro da fuoco per lo
più rotondo o rettangolare, con bordi molto bassi, usato per cuocere vivande in
forno, teglia;
voce
dal neutro lat.indeclinabile testu = vaso di
terracotta;
vernecale,s.vo m.le voce ( adattamento del lat. med. vernicare) che indicò in primis una scodella, una ciotola,
un recipiente (di ceramica o terraglia) verniciato e poi per traslato lo
stomaco pensato quale contenitore... laccato dal cibo.
arciulo, arciulillo, s.vo m.le il secondo non è che il diminutivo del primo
(cfr. il suff. illo) orcio, orcetto: grande o contenuto vaso panciuto di
terracotta, che soprattutto un tempo era usato per conservare liquidi, in
partic. l'olio e /o altre derrate alimentari come olive in salamoia, oppure ortaggi bolliti in aceto e conservati
sott’olio(melanzane, peperoni, sedano ed altro) oggi si impiega per lo piú come
vaso da piante; l’etimo di arciulo è dal lat. *urceolu(m) diminutivo
di urce(um).
lancella s.vo
f.le
la
lancella di per sé è una brocca o un vaso di creta,talvolta (come
nell’espressione Tanto
va 'a lancella abbascio ô puzzo, ca ce rummane 'a maneca. indica anche un secchio atto a contenere
acqua o ad attingerne dal pozzo; in tal caso è un secchio in
terraglia o provvisto di doghe lignee e
di un manico in metallo che, sollecitato lungamente, finisce per staccarsi dal
secchio.
La
voce lancella/langella è dal lat. lanx-lancis e dai suoi
diminutivi lancula e lancella .
E
passo infine a dire del
vrito,nome generico (lettura
metatetica del lat. vitru(m) con cui si indicarono brocche (lancelle,arciule, arciulille), bottiglie (butteglie) fiaschi, bicchieri,giare (giarre e giarretelle) caraffe(carrafe, carrafine)ampolle (da tavolo per l’olio e
l’aceto (acetere)etc. Di lancelle,arciule, arciulille ò già détto e qui dico di
butteglia s.vo
f.le=
bottiglia : dal
latino bu(t)ticula diminutivo di buttis= vaso, botte ma attraverso un francese bouteille,
piú che da uno spagnolo botilla
bicchiere
s.vo m.le=
1 piccolo recipiente
di svariate forme e dimensioni usato per bere: bicchiere da acqua, da
vino, a
calice; bicchiere
di vetro,
di cristallo, di plastica, di carta, d'alluminio, di terracotta; levare il bicchiere, brindare; il
bicchiere della staffa,
quello che si prende prima di congedarsi (si beveva, una volta, nel salire a
cavallo) | bere un bicchiere di troppo, ubriacarsi | come
bere un bicchiere d'acqua,
facilissimo | affogare in un bicchiere d'acqua, (fig.) arrestarsi al
primo ostacolo, perdersi per un nonnulla | tempesta in un bicchiere
d'acqua,
(fig.)
evento che è risultato molto meno grave del previsto | fondo
di bicchiere,
(fig.)
diamante falso
2 (estens.) la quantità di liquido contenuta in un bicchiere: bere un bicchiere (di vino). etimologicamente da un latino: bicarium che è da un greco bíkos= piccolo vaso per bere;
2 (estens.) la quantità di liquido contenuta in un bicchiere: bere un bicchiere (di vino). etimologicamente da un latino: bicarium che è da un greco bíkos= piccolo vaso per bere;
fiasco s.
m.le pl. fiasche
1 recipiente di vetro rivestito un tempo esclusivamente di paglia, oggi anche di plastica, panciuto in basso e sottile al collo: ll’aglianeco se venneva dint’ô fiasco (l’aglianico si vendeva nel fiasco) | (estens.) il liquido che esso contiene: bere un fiasco di vino.
2 (fig.) esito negativo, insuccesso: lo spettacolo, il romanzo è stato un fiasco; fare fiasco, non riuscire, fallire in qualcosa. che etimologicamente è da un basso latino: vasculum diminutivo di vas passando per vasc’lo→ vlasco→ flasco→ fiasco; l’accezione sub 2 della voce fiasco si fa risalire ad una disavventura occorsa verso la fine del 1600 ad un celebre attore bolognese, tale Domenico Biancolelli detto Dominique (Bologna, 1636 †Parigi, 1688) attore italiano che recitava come Arlecchino; Biancolelli esibendosi in quel di Firenze, una sera si cimentò in un monologo con versi improvvisati rivolgendosi ad un fiasco che teneva in mano.I versi però non piacquero ed il pubblico sommerse di fischi il povero Arlecchino. Partendo da tale grosso insuccesso, da quella volta si adottò nel linguaggio comune l'espressione " fare fiasco" che dapprima fu limitata ai soli spettacoli teatrali e poi allargata anche ad ogni altro tipo d'insuccesso.
1 recipiente di vetro rivestito un tempo esclusivamente di paglia, oggi anche di plastica, panciuto in basso e sottile al collo: ll’aglianeco se venneva dint’ô fiasco (l’aglianico si vendeva nel fiasco) | (estens.) il liquido che esso contiene: bere un fiasco di vino.
2 (fig.) esito negativo, insuccesso: lo spettacolo, il romanzo è stato un fiasco; fare fiasco, non riuscire, fallire in qualcosa. che etimologicamente è da un basso latino: vasculum diminutivo di vas passando per vasc’lo→ vlasco→ flasco→ fiasco; l’accezione sub 2 della voce fiasco si fa risalire ad una disavventura occorsa verso la fine del 1600 ad un celebre attore bolognese, tale Domenico Biancolelli detto Dominique (Bologna, 1636 †Parigi, 1688) attore italiano che recitava come Arlecchino; Biancolelli esibendosi in quel di Firenze, una sera si cimentò in un monologo con versi improvvisati rivolgendosi ad un fiasco che teneva in mano.I versi però non piacquero ed il pubblico sommerse di fischi il povero Arlecchino. Partendo da tale grosso insuccesso, da quella volta si adottò nel linguaggio comune l'espressione " fare fiasco" che dapprima fu limitata ai soli spettacoli teatrali e poi allargata anche ad ogni altro tipo d'insuccesso.
chiacchiaressa
s.vo f. recipiente di vetro
di modesta capacità: (ca 10 litri) per contenere liquidi (specialmente vino),di
forma sferica, ma a fondo piatto,
provvisto di piccola impugnatura ad anello insistente sul corto collo, provvisto di larga bocca dalla quale il vino
viene fuori quasi gorgogliando,
producendo,cioè , quel tipico rumore (chià-chià) simile ad un borbottío donde
se ne è ricavato il nome, quantunque aggiungendo allo chiacchiar onomatopeico
uno strano, non chiarito né spiegabile
suffisso dispregiativo femminile essa
che
continua al femminile il maschile asso corrispondente allo accio dell’italiano (cfr. Michelasso del napoletano ed il corrispondente Michelaccio dell’italiano);
peretto ed
il plurale’e
perette: caraffe vitree senza manico di varia capacità (dai
2 litri al quarto di litro) in cui si versava e talvolta ancóra si versa il
vino per servirlo in tavola : etimologicamente per alcuni da ricollegarsi a pera di cui ricalcherebbe vagamente la forma; la cosa poco mi convince, e
non prendo per buono quella che piú che
una etimologia, mi appare una frettolosa paretimologia, ed atteso che a mia
memoria ‘e
perette ch’io conobbi non somigliarono, né ancóra somigliano
ad una pera, né dritta, né capovolta, risultando invece essere dei cilindrici vasi vitrei (e
solamente vitrei) che per tutta la loro altezza mantenevano e mantengono il medesimo passo e solo verso l’alto
presentavano e presentano una contenuta
strozzatura che costringeva e costringe
il vaso a slargarsi in una imboccatura svasata,ecco che quanto
all’etimologia, penso che piú che alla
forma ci si debba riferire al materiale
ed al modo d’apparire d’essi perette che essendo (come ò detto) di terso e scintillante vetro (non
esistono, né esistettero perette in coccio o ceramica o porcellana…) penso ch’essi trassero il loro nome dall’antico alto
tedesco perhat= chiaro, splendente, trasparente cosí come i
perette furono e sono;
carrafa s.vo f.le = caraffa piú ampie – rispetto ai perette – caraffe usate solitamente per servire
in tavola l’acqua da bere e talora il vino : etimologicamente dall’arabo garafa=vaso per attingere; a margine di détta voce rammento l’icastica
espressione partenopea Tené 'a salute d''a
carrafa d''a Zecca
Ad litteram:tenere la salute (consistenza) della caraffa della
Zecca.
Id est: essere molto
cagionevoli di salute al segno di poter
essere figuratamente rapportati alla estrema fragilità delle ampolle di
sottilissimo vetro, la cui capacità era
di litri 0,727 che marcate e tarate
dalla Regia Zecca Napoletana erano le
uniche atte ad indicare la precisa quantità dei liquidi contenuti.
carrafina/carrafella s.vi f.li diminutivi del precedente
ampollina,boccetta, contenitore
di sottilissimo vetro o, ma meno spesso, di cristallo a collo stretto,
beccuccio e manichetto laterale, le
prime (carrafine) usate per contenere
domesticamente sciroppi o rosolî, le seconde acqua e vino (cfr. carrafelle
p’ ‘a Messa); le due ampolle (carrafelle) che contengono rispettivamente l’olio e l’aceto da portare in tavola
formano la cosiddétta
acetèra
s.vo f.le = oliera, cioè coppia di contenitori da tavola, uno per
l'olio e l'altro per l'aceto, spesso a forma di ampolle unite insieme (détte un
tempo popolarmente socra e nora (suocera e nuora) o inserite in un
supporto che può anche contenere una saliera e una pepiera; interessantissima
l’etimologia della voce napoletana acetera
che come ci rammentò l’insostituibile Raffaele
D’Ambra non deriva dal s.vo aceto come d’acchito, ma errando si potrebbe
pensare, ma deriva dallo spagnolo aceitera
(oliera)
che è da aceite (olio) a sua volta da
aceituña (oliva);
giarre
/giarretelle s.vi f.li di cui il secondo è il diminutivo del primo: vasi vitrei bassi e poco o
abbastanza panciuti, provvisti di manico, vasi usati per bere birra o altre
bevande fermentate e non , etimologicamente dall’arabo djarrah attraverso lo
spagnolo jarra.
A margine di queste ultime voci mi
piace rammentare l’espressione se so’ rrotte ‘e ggiarretelle! oppure
rumpimmo ‘e ggiaretelle!
Ad
litteram: Si son rotte le chicchere! oppure
Infrangiamo
le chicchere! Nel primo caso: È avvenuta la procurata rottura delle domestiche
tazzine, brocchettine etc. Nel secondo: Rompiamo le domestiche tazzine! Id est: Si è spezzata un’amicizia
consolidata, oppure: È il caso di infrangere un’amicizia consolidata; è venuta
meno o è opportuno che venga meno una frequentazione che un tempo
fu abituale in quanto fondata su di un’antica amicizia.
Per
comprendere appieno il significato vero
(quello indicato dopo il precedente id est:) delle espressioni in esame,
occorrerà conoscere cosa si suole indicare, nella parlata napoletana con la voce ggiarretelle. Orbene la voce
ggiarretella di cui ggiarretelle è il plurale è un s.vo f.le diminutivo (vedi i suffissi et-ella/et-elle) di giarra che (con etimo, ripeto, dall’arabo ğarra passato nello spagnolo e provenzale jarra e nel
francese jarre) indica dapprima
un grosso recipiente di terracotta per
conservare olio, vino, acqua o granaglie e
poi una brocca (con manico) di vetro o talvolta terracotta per bere
acqua, birra ed altre bevande; il
diminutivo ggiarretella/e voce d’uso circoscritto napoletano indica invece
esclusivamente una minuscola brocca, una
chicchera, una piccolissima giara o un
gottino tutti recipienti forniti di manico
in materiali rigorosamente
poveri, umili (vetro, terracotta, ceramica e simili) usati per servir
domesticamente caffè, rosolî, gelati ad amici, parenti o sodali coi quali si abbia una
dimestichezza, intimità, familiarità, confidenza o frequentazione cosí intense e continuate da
non necessitare l’uso di vasellame in materiali nobili (cristallo, porcellana
etc.) Tutto ciò è stato valido però fino
a poco tempo addietro: oramai è invalso
il pedestre uso di servire domesticamente caffè, rosolî, gelati ad amici,
parenti e sodali in pessimi,pedestri, terrificanti contenitori monouso di
maleolente plastica…(quegli stessi usati nelle macchine automatiche che
distribuiscono presso uffici pubblici e/o privati ignobili bevande
contrabbandate per caffè, tè) ed è
oramai quasi impossibile trovare, nelle moderne case napoletane, le affettuose giarretelle d’antan!
Va da sé che con il venir meno dell’amicizia con relative dimestichezza,
intimità, familiarità, confidenza e frequentazione, si rende inutile l’uso
delle umili giarretelle che possono essere infrante
ed eliminate, per far posto a vasellami piú importanti in cui servire caffè, rosolî, gelati a nuovi conoscenti che non potrebbero
ritenersi amici, parenti o sodali.D’altro canto il rompere le giarretelle può bene indicare che si siano infrante quelle
amicizie che davano il destro per l’uso
dei suddetti premurosi, teneri
contenitori.
Delle
giarretelle ò detto,
so’ rrotte =sono
rotte voce verbale (3° pers. plur. ind. pres.
passivo) dell’infinito rompere= rompere,
infrangere (dal tardo lat. rumpere).
rumpimmo
= rompiamo, infrangiamo voce verbale (2°
pers. plur. ind. pres.con valore esortativo oppure2° pers. plur.
imperativo ) del medesimo infinito rompere= rompere, infrangere.
Come ò détto tutti i recipienti usati sia nelle bettole e/o osterie, cantine
etc,che domesticamente per servire il
vino o altre bevande furono détti onnicomprensivamente ‘o vvitro/‘o bbrito letteralmente il vetro ma per metonimia bicchieri, caraffe,ed ogni altro contenitore usato per
la mescita; la voce brito etimologicamente è, ripeto, una
lettura metatetica del lat.vitru(m) che à dato vritu(m)→
vitro oppure con tipica alternanza partenopea v/b (cfr. bocca/vocca- varca/barca etc.) vitru(m)→vritu(m)→ britu(m)→brito.
In coda a quanto détto rammento due tipiche
locuzioni partenopee che chiamano in causa gli argomenti trattati:
1) Levàte ‘o bbrito.
Ad litteram: Togliete il vetro id est:
Raccogliete e mettete via i bicchieri, le caraffe, i peretti, le giarre
etc. usati dai clienti in quanto la
giornata è finita e la mescita chiude.Domesticamente il comando dato dalla
padrona di casa alla/e domestica/che affiché sparecchiassero del vasellame
velocemente il desco dove s’era pranzato; comando mutuato da quello secco ed
imperioso che gli osti solevano dare ai
garzoni nell’approssimarsi dell’ora di chiusura dell’osteria, affinché
raccogliessero e lavassero i
contenitori usati dagli avventori, che -
a quel comando dato dall’oste ai garzoni - capivano che dovevano abbandonare il
locale; per traslato oggi la locuzione è usata ogni qualvolta si voglia fare
intendere che il tempo corre e ci si approssima alla fine della giornata lavorativa oppure alla fine
del lasso di tempo concesso per dar
corso ad una qualunque operazione intrapresa e quindi occorre affrettarsi se la
si vuole completare adeguatamente. Raffaele Petra, marchese di Caccavone (Napoli 1798 - † ivi
1873) usò nell’espressione in esame in un breve, ma denso epigramma/ sorta di testamento spirituale per indicare che ormai
era presso alla fine dei suoi giorni:
I
lumi omai son spenti,
lo sciacquitto è finito.
Salute ai rimanenti!
Guagliú, levate 'o bbrito!
lo sciacquitto è finito.
Salute ai rimanenti!
Guagliú, levate 'o bbrito!
E qui penso finalmente di dovere e poter far punto, non sovvenendomi altro da
raccontarvi.
Raffaele Bracale
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