ANTICHE ESPRESSIONI NAPOLETANE 1.
Questa volta il destro per la stesura di queste paginette
me l’offre la richiesta dell’amica M.P.F. (al solito, motivi di riservatezza mi
impongono di riportar solo le iniziali di nome e cognome di chi mi scrive per
sollecitar ricerche), amica che mi à proposto un congruo ventaglio di
espressioni partenopee antiche ed in parte desuete, chiedendomi di illustrale e
chiosarle. Provvedo augurandomi di interessare anche qualcuno dei miei consueti
ventiquattro lettori.
Cominciamo.
1.NCE VERIMMO A FFELIPPO
Letteralmente: Ci vediamo a Filippo.
Espressione ancóra usata quale minaccioso ammonimento
equivalente a: "Bada! Al momento
opportuno te la farò pagare"; minaccia cioè di tirare definitivamente le somme di una
contesa in tempi piú propizi a chi stia minacciando.L’espressione scimmiotta
attraverso un’assonanza corruttiva
(Filippi/Felippo) quella minacciosa: Ci rivedremo a Filippi . Queste
parole secondo una leggenda riportata anche da Plutarco furono rivolte a Bruto dalla suo medesimo
cattivo démone (coscienza) o dallo spettro di Giulio Cesare apparsogli in sogno
alcune notti prima della battaglia di Filippi del 42 a.C., che terminò con la
vittoria di Ottaviano ed Antonio su Bruto e Cassio, i quali vi morirono.
L’espressione italiana, come quella corruttiva napoletana, à altresí – oltre il significato cui ò
accennato -, pure un significato rivendicativo del male ricevuto in quanto,
com' è noto, Cesare era stato vigliaccamente pugnalato da Bruto che era stato
da lui tanto amato. Narrò lo storico Plutarco che, dopo l'uccisione di Cesare
(44 a.C.), Bruto riparò con Cassio Longino e con l'esercito dei repubblicani in
Macedonia, dove lo inseguirono Marco Antonio e il giovane Ottaviano. Una notte
apparve a Bruto, nella sua tenda, un'ombra gigantesca che gli disse: "Io
sono il tuo cattivo genio, o Bruto, e mi rivedrai dopo Filippi".
Arditamente, Bruto replicò che non sarebbe mancato all'appuntamento, e l'ombra
disparve. Proprio nella piana di Filippi, presso Cavalla, sull'Egeo, gli
eserciti rivali si affrontarono, nel 42 a.C., per la battaglia decisiva. I
primi scontri volsero a favore di Bruto, ma per la seconda volta il gigante
riapparve, muto, all'assassino di Cesare. L'indomani si riaccese la mischia,
che si concluse con la disfatta dei repubblicani e col suicidio di Bruto. A
margine di tutto ciò rammento che il nome proprio Felippo ricorre in un’altra
nota locuzione partenopea che suona:
2.AVIMMO PERDUTO A FFELIPPO I ‘O PANARO
Ad litteram:
abbiamo perduto Filippo e la cesta. Id est: ci abbiamo rimesso tutto: il
capitale e gli interessi.Nel caso di
questa locuzione ancóra in uso,
affatto diversa dalla precedente il nome Felippo non è una corruzione di
Filippi, ma è il nome proprio Filippo
rammentato in una non meglio
identificata farsa pulcinellesca di Antonio Petito nella quale un tal Pancrazio aveva affidato al suo servo
Filippo una cesta di cibarie , perché la portasse a casa, ma il malfido servo,
riuniti altri suoi pari, si diede a gozzovigliare facendo man bassa delle cibarie contenute
nella cesta, e temendo poi le reazioni
del padrone, evitò di tornare a casa
lasciando il povero Pancrazio a dolersi del fatto con la frase in epigrafe.
Nota linguistica
In questa ’espressione
il verbo avimmo perduto regge due complenti oggetto ( il nome proprio
Filippo ed il nome comune panaro), ma mentre Filippo è introdotto dalla
preposizione A, ciò non avviene per il s.vo panaro che non viene introdotto da
ô (crasi di a +’o(lo/il)), ma viene
introdotto dal semplice art. determ. m. ‘o (lo/il); ciò avviene perché in napoletano
la preposizione A è usata talvolta per
introdurre, quasi in maniera indiretta, un complemento oggetto quando però
tale complemento sia una persona o essere animato, mai un oggetto (es.:
aggiu visto a ppàteto= ò visto tuo padre; aggiu ‘ntiso ô cane ca alluccava = ò
sentito il cane che latrava ( dove ô = a + ‘o= a + il/lo); ma aggiu
pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere, aggiu ‘ntisa ‘a campana = ò
sentito la campana.) La ragione di questa particolare A segnacaso del
complemento oggetto non è da
ricercarsi come sostiene qualcuno nel
fatto che venuto meno il latino con le declinazioni comportanti esatte
desinenze distinte per il nominativo e l’accusativo in un corrotto latino
regionale volgare privo di desinenze distinte si sarebbe ingenerata
un’ipotetica confusione in una frase del tipo: Petrus vidit Paulus non
potendosi stabilire se il soggetto di vidit fosse Petrus o Paulus. Ciò è
inesatto in quanto, se è vero che, ad un dipresso, il latino classico, almeno fino a quello ciceroniano, mantenne il soggetto anteposto al verbo reggente, per il latino della decadenza volgarizzatosi con
l’entrata in contatto con le parlate locali, proprio per non ingenerare confusioni,
soprattutto nella lingua parlata si
preferí porre il soggetto sempre prima del verbo reggente. Reputo
dunque molto piú verosimile l’idea che
tale particolare A segnacaso del complemento oggetto sia un residuo plebeo di un latino volgare
parlato, quello che produsse anche lo
spagnolo, il portoghese ed il rumeno, lingue in cui perdura l’uso dell’A come
segnacaso del complemento oggetto.
3.TENE 'NA VARVA COMM' A SSALARDO! Letteralmente: Avere una barba come Salandra.
Espressione desueta da intendersi in senso ironico ed antifrastico; in realtà
essa vale: essere sbarbato Id est: Avere
inclinazioni del tutto diverse
da Salandra e avere un comportamento
opposto a quello tenuto dal Salandra; piú esattamente: mantenersi
neutrali davanti a situazioni o faccende in cui per codardia, timore o
pusillanimità non si voglia prender
partito. L’espressione abbastanza moderna (1914 ca) fu coniata prendendo a
riferimento il comportamento di Antonio
Salandra (Troia, 13 agosto 1853 –†Roma,
9 dicembre 1931), politico italiano, presidente del consiglio dei ministri dal
21 marzo 1914 al 18 giugno 1916; costui
conservatore, divenne primo ministro dopo la caduta del governo di
Giovanni Giolitti (Mondoví, 27 ottobre 1842 – †Cavour, 17 luglio 1928) politico italiano, piú volte presidente del
Consiglio dei ministri.Fu uno dei politici liberali piú efficacemente impegnati
nell'estensione della base democratica del giovane Stato unitario; Salandra fu
scelto dallo stesso Giolitti che ancora guidava la maggioranza in parlamento.
Comunque, egli si distaccò ben presto da Giolitti sulla questione della
partecipazione italiana alla prima guerra mondiale. Mentre Giolitti era
schierato a favore della neutralità, Salandra e il suo ministro degli esteri,
Sidney Sonnino, appoggiavano l'intervento a fianco della Triplice
Intesa(un'intesa politica raggiunta da tre grandi potenze, cioè Francia, Regno
Unito ed Impero russo all'inizio del XX secolo), e si assicurò l'entrata in
guerra dell'Italia, nonostante l'opposizione della maggioranza del parlamento
(Neutralità italiana (1914-1915)). Chiarito che l’atteggiamento del Salandra fu
improntato all’interventismo, se ne ricava che - con l’intenderla in senso antifrastico - l’espressione in esame, equivale a mantenersi neutrali nelle occasioni
pericolose o compromettenti. Da notare come nell’espressione napoletana
viva la corruzione del cognome Salandra
adattato in Salardo.
4.VA' 'O PIGLIA’ A
AGNANO! o piú semplicemente PIGLIAL’ A AGNANO
Letteralmente: Va’ a pigliarlo in Agnano o piú semplicemente: piglialo
ad Agnano Eufemistica, ma icastica, graziosa, divertente espressione ancóra
usata al posto delle becere Vallo a pigliarlo in culo o piglialo in culo
oppure Vallo a pigliarlo in ano/piglialo
in ano ; le becere espressioni valgono ad litteram: va’ a prenderlo nel culo/prendilo
nel culo(ed il cosa è facilmente intuibile) l’espressione in esame è una
rabbiosa esclamazione indirizzata verso chi si voglia invitare a lasciarsi figuratamente sodomizzare, per significargli
che deve accettare ciò che viene, senza
opporre resistenza, soprattutto se ciò che arriva è un tiro mancino proditorio
ed inatteso, tiro scoccato da qualcuno con cui non si può competere; spesso la
locuzione in esame è accompagnata da un perentorio e statte zitto (e taci).La graziosità
dell’espressione va riscontrata nell’adattamento eufemistico fatto delle voci
in ano trasformate nell’assonante Agnano
che di per sé attualmente
corrisponde ad una zona di Napoli compresa nella decima municipalità ed
in origine fu un vulcano estinto dei Campi Flegrei che
formò una conca e dalle sorgenti di acqua termale che vi sgorgano
copiose, nel XI secolo la conca si trasformò in un lago prosciugato poi con una bonifica nel 1870: dei canali a
raggiera convogliano le acque in una vasca centrale dalla quale si diparte un
emissario che, passando sotto il Monte Spina, sfocia a mare a
Bagnoli.Interessantissima l’etimologia del nome Agnano: Secondo Benedetto di
Falco, il nome della località sarebbe derivato,
a metà del '500, dal termine Anguignano, per la moltitudine di serpi che
si annidavano tra le felci che contornavano il lago (dal latino anguis,
"serpente"). In effetti nell'opera di Pietro da Eboli (Eboli1170? –†
ivi 1220 ca) chierico che fu cronista,
poeta e miniaturista, vicino alla corte sveva), la miniatura che illustra la
sorgente termale di Agnano, chiamata Balneum Sudatorium, mostra il lago pieno
di rane e di serpenti. Una tale etimologia, però, non à basi linguisticamente
probanti. Tralasciando numerose altre ipotesi, parimenti poco credibili,
formulate tra il '600 e l'800, risale al 1931 il primo lavoro in cui
l'etimologia del toponimo Agnano viene trattata in maniera scientifica.
L'autore, Raimondo Annecchino, dopo un'attenta disamina delle fonti, fa
risalire il toponimo Agnano ad un ipotetico praedium Annianum, cioè ad un fondo
di proprietà di esponenti della gens Annia, attestata a Pozzuoli in epoca
romana. Cita, infatti, vari documenti medioevali in cui compare il toponimo
Anianum o Annianum. La teoria è stata di recente criticata da Gaetano Barbarulo
in un saggio in cui evidenzia come il toponimo originario fosse Angulanum
(luogo a forma di angolo) e traesse origine dalle caratteristiche
geomorfologiche del luogo. Da Angulanum (attestato già in una fonte del VI
secolo), attraverso le forme intermedie Anglanum e Agnanum, si sarebbe giunti
alla moderna forma Agnano. Tutte queste ipotesi etimologiche sono riportati par
pari in un famoso saggio di toponomastica di Gino Doria (Napoli1888-†ivi1975)
singolare figura di storico, personalità
eclettica, dai molteplici interessi culturali (letteratura, musica, arte,
bibliografia, giornalismo, storia patria etc.).Nota linguistica Nella corretta scrizione napoletana
dell’espressione in esame l’infinito pigliare è scritto in maniera apocopata
piglia’ con il segno diacritico (‘) che indica l’avvenuta apocope della sillaba
finale re, ma lascia invariato come è giusto che sia l’accento tonico della
parola per cui il piglia’ di va’ ‘o
piglia’etc. va lètto piglia ; si volesse spostare l’accento tonico della parola
come nella frase corrispondente vallo a ppiglià etc. dove il pronome lo è enclitico di va si
dovrebbe usare per indicare l’avvenuta apocope non l’apostrofo, ma l’accento ed
ottenere piglià. In effetti bisogna
tener presente che il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre
quando si voglia operare un taglio
ad un termine mantenendone però il primitivo accento tonico
; per esempio il verbo èssere può essere apocopato (soprattutto in poesia, per
particolari esigenze metriche e/o espressive) in èsse' che non andrà letto
essè, ma èsse, come ancora ad es. il verbo tégnere, può, per particolari
esigenze espressive o metriche, essere
apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando
alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo
cadere va reso con la grafia cadé e non
cade’ che si deve leggere càde e non cadé!
Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco
dove quasi tutti gli infiniti risultano
apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono
giustamente resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto:
vede e non vedé.
A margine e completamento di tutto quanto fin qui detto
rammento che – checché ne dicano taluni pedestri vocabolaristi i quali (poggiandosi sul fatto che la voce apocope in
greco indica appunto il troncamento) confondono l’apocope con il troncamento;
quest’ultimo è infatti la caduta di un
suono in fine di parola: es. fior per fiore o anche pur per pure, qual per
quale, tal per tale etc.; l’apocope ( cfr. nel napoletano si’ che sta per
si(gnore) è pur essa la caduta di uno o piú suoni in fine di parola, ma tale
caduta è, nella stragrande maggioranza
dei casi, caduta di una o piú sillabi
finali ad es. nell’italiano: san per santo e (almeno per ciò che riguarda
il napoletano (nell’italiano tale esigenza non è contemplata salvo che per
talune parole come fra’ che è da fra(te), po’che è da po(co)) l’apocope (caduta di suoni rappresentati
da una o piú sillabe finali, non di una
sola consonante; infatti come si ricava dalla medesima parola la consonante non
è titolare d’un suono proprio che le viene offerto da una vocale
d’accompagnamento... ) dev’essere
indicata con un segno diacritico (‘) quando la caduta della sillaba non esiga
addirittura l’accento come ad es.in tutti gli infiniti dei verbi
dove la caduta della sillaba finale (re) lascia una parola terminante per
vocale che va accentata tonicamente (cfr. parlà che è da parla(re) – capÍ che è
da capi(re) e cosí via; in questo caso
mettere il segno dell’apocope (‘) porterebbe ad avere parla’ – capi’ che non consentirebbero l’esatta pronuncia
di parlà o
capí, ma andrebbero pronunciati parla e capi; l’accento in luogo
dell’apocope mette le cose a posto e pertanto è inutile e pleonastico scrivere
(come pure inopinatamente (cfr. A.Altamura) m’è occorso di trovare scritto parlà’ e capí’ abbondando in pletorici segni
diacriti quali i due apostrofi accanto
a vocali già accentate.
In napoletano i monosillabi apocopati di una o piú
consonanti (che come visto non è/son rappresentativa/e da sola/e di un suono)
non necessitano di alcun segno diacritico (ad. es. mo =ora, adesso (che è da mox), cu= con (da cum),pe=per (da per)po=
poi (da post) etc.)
5.VEDERSE PIGLIATO Dê TURCHE Ad litteram Vedersi preso dai Turchi Id est: essere assalito da terrore, orrore,
spavento, panico, sgomento, disperazione davanti ad avvenimenti spiacevoli sgradevoli,
seccanti, urtanti, tristi quando non forieri di rischio, insidia, azzardo,
incognita o di conclamato pericolo anche
letale e tutto ciò in ricordo delle
antiche, cruente scorribande, incursioni, razzie operate sulle coste campane
dalle bande turche e/o saracene (onnicomprensivamente détti Turchi), saccheggi
che diedero vita ad espressioni esclamatorie e di sgomento quali Mamma lli Turche! oppure All’arme,
all’arme la campana sona lli Turche so’ sbarcate alla Marina! Rammento che il
timore delle incursioni turchesche fu tale che di esse si fe’ menzione nella
famosa canzone Michelemmà (titolo sulla cui interpretazione scrissi alibi e vi
rimando).
6.VOGLIO SAPé TUTTO DALL'A NFI’ ô RUMME Antica icastica espressione
purtroppo desueta che letteralmente si può rendere con Intendo esser messo al
corrente di ogni cosa dalla a sino al rum. Id est: Voglio saper vita, morte e
miracolo (di qualcosa)Lo si dice di chi indiscreto, ficcanaso, invadente,
impiccione di un accadimento voglia essere informato particolareggiatamente,
messo a conoscenza minutamente, in tutti
i particolari, soprattutto quando
dell’avvenimento in questione dovrebbe mantenersi all’oscuro in quanto non di
sua pertinenza.
Tutta l’espressione è incentrata sul termine rumme s.vo m.le che è etimologicamente la lettura popolare della sillaba -rum,poi
che come alibi ricordo il napoletano per solito aborre da voci terminanti per
consonanti e li rende con l’aggiunta d’una paragoge, cioè di una sillaba finale
con vocale evanescente e con il
raddoppiamento della consonante
(cfr. tramme←tram, bisse←bis,
barre←bar,gasse←gas, autobbusso←autobus
con la sola eccezione della negazione NUN
talvolta attestata però anche
come nune insieme a none che vale no ed a sine= sí ); rummo è dunque il
nome dell’abbreviazione con cui si rappresentava, nel Medioevo e nel
Rinascimento, la desinen-za latina -rum, e anche altri gruppi finali
comincianti con r- (per es., illorum, coram, notarium, feriam potevano essere
scritti: illorumme coramme notoriumme, feriamme etc. ). Nella tavola
dell’alfabeto il segno era posto dopo la zeta, donde la locuz. dall’a ô (=al)
rumme, in uso un tempo con lo stesso sign. di «dall’a alla zeta».
Rammento in coda che nel napoletano esistono almeno altre
due voci omofone (per il fenomeno della evanescenza della sillaba finale), ma
non omografe della voce rumme con la quale esse non vanno confuse ; e sono
1)rummo= rombo s. m. (zool.) nome comune di alcuni pesci marini teleostei,
commestibili, affini alla sogliola con corpo appiattito romboidale ed entrambi
gli occhi sul lato sinistro (ord. Pleuronettiformi) (dal lat.
rhōmbu(m)→rumbu(m)→rummu(m)→rummo, che è dal gr. rhómbos, propr. 'trottola',
poi nome del pesce, per la forma simile a quella di una trottola schiacciata;
2) rumma = rum acquavite ottenuta per lo piú
dalla distillazione della melassa di canna da zucchero fermentata.la
voce inglese rum è derivata da rum- bustious 'chiassoso, violento', con
allusione al comportamento degli ubriachi bevitori della suddetta acquavite; la
voce napoletana rumma è coniata su
quella inglese con una tipica paragoge, ma qui
di una piena a finale (invece
della consueta e semimuta) e raddoppiamemento espressivo della m etimologica
fino a formare la seconda sillaba ma
della voce rumma, come altrove tramme←tram,barre←bar etc.
nfino prep.ed avv.
=sino voce che con derivazione dal lat. fine, abl. di finis 'limite',
con il significato preposizionale di
'fino a' si adopera davanti ad un avv.,
ad un sostantivo o ad un'altra
prep. e può essere preceduta da una n eufonica che, come tale,
non necessita di segno diacritico d’aferesi, necessario invece nel
caso si fosse trattato di una ‘n
illativa derivata da in→(i)n→’n;
introduce il termine ultimo di una distanza spaziale o temporale: nfino a
cquanno?(sino a quando?); nfino addó?;nfino a ttanno(fin dove?; fino ad
allora); nfino a ‘ncimma(fin in cima);nfino â casa (sino a casa); nfino a
ll’urdemu (fino all'ultimo); nfino a cche(sino a che),
come avv. (lett.) persino, pure, anche: ce stevano tutte
quante, nfino a ‘e cchiú luntane pariente(c'erano tutti, fino i piú lontani
congiunti.
7.À ‘NGRASSATO ‘A CAPA ‘A CEPOLLA!... locuzione
eufemistica usata per à ‘ngrussato ‘a capa ‘a cepolla! Letteralmente la prima è
la cipolla à ingrassato la testa, la seconda è la cipolla à ingrossato la
testa; ambedue le espressioni sono da intendersi in senso giocoso/furbesco per
significare: Ci siamo, il glande è gonfio e
pronto alla tenzone amorosa! Come si evince in ambedue le
espressioni con il termine cipolla si
intende eufemisticamente quella parte del sesso maschile che allorché è in
erezione, si presenta gonfia e dura a mo’ d’una cipolla o rapa; infatti
rammento che a proposito di eccitazione
sessuale maschile, che accanto ad arrezzà/arrizzà (denominale del lat.
ad+rectus) spesso s’usa o il verbo ‘ncepullirse (denominale di in +
cepolla= farsi duro come una cipolla) oppure piú spesso il verbo arrapà/arraparse etimologicamente denominale
di ad+rapa→arrapa/re semanticamente
spiegato tenendo presente che nell’eccitazione sessuale maschile il membro
eretto può esser duro tal quale una rapa ortaggio molto compatto, sodo, saldo, rigido. Cepolla = s. f.le
1 pianta erbacea coltivata per il bulbo commestibile,
composto di varie tuniche carnose (fam. Liliacee) | il bulbo stesso e, per
estens., il bulbo di altre piante: cipolla bianca, rossa; frittata con le
cipolle; togliere il velo alle cipolle, la prima squama sottilissima che
ricopre il bulbo; la cipolla del giglio, del tulipano ' mangiare pane e
cipolla, (fig.) pochissimo e male; essere molto povero. DIM. cipolletta,
cipollina ACCR. cipollona, cipollone (m.) PEGG. cipollaccia
2 (estens.) qualsiasi oggetto o sua parte a forma di
cipolla: la cipolla del lume a petrolio, la parte inferiore, sferica, che
contiene il liquido; la cipolla dell'annaffiatoio, la parte terminale del
collo, rotondeggiante e a buchi, da cui esce l'acqua
3 (scherz.) orologio da tasca di foggia antiquata
4 (scherz.) colpo
radente assestato con la mano aperta e diretto alla testa etimologicamente
richiamata nella caepa d’avvio;infatti in
latino caepulla da cui la nostra
cepolla ma pure l’italiana cipolla, è il diminutivo di caepa= testa. Con la
voce a margine alibi in senso furbesco si intende
5(scherz. come nel caso che ci occupa) il glande di un membro in istato erettivo.
8.JETTE PE SE Fà 'A CROCE E SE CECAJE N'UOCCHIO
Letteralmente: Si accinse per segnarsi con la croce e finí per mettersi un dito
in un occhio.Détto sarcasticamente di chi cosí tanto sfortunato, sventurato à
un ritorno negativo da qualsiasi cosa si disponga a fare, persino da pie pratiche religiose!
jette voce verbale (3ª pers. sg. pass. rem.)
dell’infinito jí/ghí (dal lat. ire).
pe = per
preposizione semplice derivata come il per dell’italiano dal lat. pe(r)
ed al proposito rammento che quando un termine,
per motivi etimologici, perde una sola o piú consonanti in fin di parola e non per
elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale), non è previsto che ciò si debba indicare
graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba;
ecco dunque che
ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in
napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum per
pe (per), per po (poi)che è dal lat. po(st) dove cadendo una sola o una
doppia consonante ( x - m – r - st ) e
non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è
inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per
l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in
italiano è là; sia l’avv. napoletano che
quello italiano sono ambedue derivati
dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è
necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano
là dove è presente l’omofono ed omografo
la art. determ. f.le. C’è invece un napoletano po’ che necessita dell’apostrofo finale: è il
po’= può (3ª pr. sg. ind. pres. di potere) che derivando dal lat. po(te)(st) comporta la caduta d’una vera sillaba, caduta
da indicarsi con l’apostrofo che serve altresí a distinguere gli omofoni po =
poi e po’ = può.
Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale
cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un
segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene
apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu
(un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non
addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di
rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico
alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è
erroneamente reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio
di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o
appesantisse la pagina scritta e non fosse invece, quale a mio avviso è, segno
di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di
Giacomo,F.Russo,
E. Nicolardi etc.e
giú giú fino ad E.De Filippo.)
Qualcuno, fautore della derivazione del napoletano mo dal
lat. modo, mi à fatto notare, e lo dico per incidens, che il termine mo non potrebbe derivare, come
invece l’amico Renato de Falco ed io sosteniamo, da mox,
in quanto –pare - che una doppia consonante come cs cioè x non possa cadere senza lasciar
tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale
intervocalica come la d di modo.
Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche
posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della
lingua nazionale re che pur derivata dritto per dritto dal latino
re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della x , anche ammettendo che il napoletano mo discenda da modo e non
da mox non si capisce perché esso mo
andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige
comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito
di un medesimo idioma, esistano omologhi
omofoni che potrebbero creare confusione.
Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel
toscano/italiano accentare il mò (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di
modo (mo’ dell’espressione a mo’ d’esempio), ma nel napoletano non esistendo il
termine modo né la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi
segno diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso).
fà = fare (
apocope del lat. facere) che preferisco scrivere accentato (come tutti gli
infiniti in are→à(cfr. magnare→magnà)ere→é(cfr. cadere→cadé) ire→í
(cfr.murire→murí)piuttosto che apocopato, evitando di scrivere – come
invece propone qualcuno fa’ o alibi da’ per dare che potrebbero esser confusi con gli
imperativi fa’= fai o da’= dai.
se cecaje voce
verbale (3ª pers. sg. pass. rem. dell’infinito riflessivo cecar/se (dal lat. caecare+ se)
uocchio s.vo m.le = occhio (dal lat. ŏculu(m)→
ŏclu(m)→uocchio con dittongazione della ŏ e risoluzione in chi del gruppo cl
seguito da vocale come in clausu(m)→cl(a)usu(m)→chiuso,clavu(m)→chiuovo etc.
9.JíRSE A SPILà 'E
RRECCHIE A SSAN PASCALE. Letteralmente:
andarsi a sturare le orecchie a san Pasquale. Espressione usata sarcasticamente
nei confronti di chi faccia le viste di essere improvvisamente insordito e
perciò non sentire un invito o un
comando per non metterlo in pratica. In realtà tutto ciò avviene perché manca
nel finto sordo la volontà di accettare l’invito o di sottostare al comando;
ebbene a costui si consiglia di provvedere a farsi curare la sordità recandosi
presso il monastero dei monaci( in origine Alcantarini di Lecce)di san Pasquale
a Chiaia che conducevano un piccolo ospedale annesso al loro monastero e vi curavano piccole o grosse affezioni otorino-laringotatriche; tra le
pratiche piú comuni v’era quella si liberare gli orecchi dall’eccesso di cerume
(causa talora di temporanea ipoacusia) servendosi di un olio medicamentoso prodotto dagli stessi
monaci con le mandorle raccolte nel proprio orto/giardino. Il monastero di san
Pasquale era adiacente all’omonima chiesa edificata per volontà
di Carlo di Borbone nel 1750 ca ed affidata ai monaci Alcantarini, famiglia francescana
nell'Ordine dei Frati Minori (O.F.M.); l'Ordine degli Alcantarini, nacque con
San Pietro d'Alcàntara nel 1555, come riforma all'interno del grande Ordine dei
Francescani Minori.
10. JíRSENE ‘NZUOCOLO Letteralmente: Andarsene in
dondolo, farsi sospingere come in altalena, lasciandosi dolcemente ciondolare;
per traslato l’espressione vale: godere beatamente e con voluttà
dei piaceri dei sensi ed il collegamento semantico si coglie
tenendo presente l’apparentamento tra il piacere che procura l’abbandonarsi al
festoso dondolio in altalena e quello che procura l’abbandonarsi al godimento
dei sensi;
jírsene = andarsene forma verbale formata dall unione
dell’’infinito jí (dal lat. ire) con in posizione enclitica i pronomi atoni se (pron. pers. m.le e f.le di terza pers.
sg. e pl. si usa in luogo della forma pronominale atona se davanti ai pron.
pers. lo, la, li, le e alla particella ne, in posizione sia enclitica sia
proclitica: s’ ‘o lassaje scappà (se lo lasciò scappare); s’ ‘a vedette
brutta(se la vide brutta); s’ ‘e mmettette dint’â sacca(se li intascò);
gudersela (godersela); se ne jette(se ne andò); jennosene (andandosene),
e ne (pron. m.le e
f.le , sg. e pl. [forma atona che si usa in posizione sia enclitica sia
proclitica; è sempre posposta ad altro pron. atono che l'accompagni e si può
elidere davanti a vocale: es. jírsen’ ‘e capa]).
‘nzuocolo = in dondolo, in altalena e per traslato in
godimento, in sollucchero;
etimologicamente la voce è per la maggior parte degli addetti ai lavori
ritenuta di etimo sconosciuto; ma a mio avviso è formata da un in→’n + il s.vo zuocolo
(dondolo, altalena e per traslato
godimento dal lat. jŏculu(m)→zuocolo (giuoco, scherzo, facezia).
Brak (SEGUE)
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