NAPOLETANISMI E/O MERIDIONALISMI NELL’ITALIANO
parte 2°
Proseguiamo con l’elencazione delle voci napoletane e/o meridionali
pervenute nell’italiano.
Mozzarella s.vo f.le
1 formaggio fresco di origine campana e bassolaziale, a pasta bianca e molle, in forme sferiche o di treccia, prodotto tassativamente con latte di bufala
2 (fig.) persona estremamente fiacca.
1 formaggio fresco di origine campana e bassolaziale, a pasta bianca e molle, in forme sferiche o di treccia, prodotto tassativamente con latte di bufala
2 (fig.) persona estremamente fiacca.
Ci troviamo a parlare di una voce nata in Campania e poi
adottata nel basso Lazio ed infine trasmigrata nel lessico nazionale; per il
vero la voce mozzarella dovrebbe
essere d’uso esclusivo di Campania e basso Lazio in quanto è soltanto in tali regioni e non in altre che viene prodotta l’autentica,unica, vera mozzarella
formaggio fresco a pasta bianca e molle, , prodotto tassativamente con latte di
bufala; formaggi similari prodotti in
altre regioni con latte vaccino usurpano il nome di mozzarella di cui copiano i
sistemi di lavorazione ,ma non l’ingrediente di base: il latte intero di bufala, di modo che tuttalpiú possono chiamarsi fiordilatte=
(formaggio fresco di pasta filata, molle e cruda, prodotto con latte di vacca)
ma non mozzarella che etimologicamente è un deverbale di mozzare = troncare in un
sol colpo una parte da un tutto, come
avviene nel caso appunto delle mozzarelle che in pezzi di circa 3 etti cadauno
vengono troncati (un tempo a mano, oggi anche con l’ausilio di mezzi meccanici),mediante
torsione e strappo (mozzatura) da un filone di pasta filata , filone ricavato
dalla lavorazione artigianale (con procedure un tempo addirittura segrete, trasmesse di padre in figlio) di latte intero
di bufala.
‘ndrangheta s.f. voce di origine meridionale (Calabria) usata
per indicare e connotare una delinquenza
organizzata di tipo mafioso, che è
propria di quella regione, voce che però,(prevengo l’obiezione d’un
qualche lettore pignolo) quantunque normalmente in uso nel parlato e nel lessico
dei media, molti vocabolarî (D.E.I. – Treccani – De Mauro) della lingua italiana sono restii a
registrare e non se ne comprende il motivo, visti diffusione ed uso del
vocabolo(che à valicato i confini regionali) e che etimologicamente deriva da una voce del greco di Calabria,
corrispondente al gr. classico (a)ndragathía 'coraggio, valore';
l’aferesi della vocale d’attacco mi induce a preferire la scrittura ‘ndrangheta piuttosto che ndrangheta: sono un appassionato, si sa,
anche dei pletorici segni diacritici!
Palo s.m s. m.
1 (edil.) elemento strutturale di legno, cemento armato o acciaio, generalmente cilindrico con un'estremità appuntita o munita di punta riportata (puntazza), che si conficca totalmente nel terreno per consolidarlo o per servire da sostegno ad altre strutture: palo di fondazione, di sostegno
2 qualsiasi asta di legno o di altro materiale rigido che si innalzi verticalmente dal terreno in cui è parzialmente conficcata: palo della luce, del telegrafo; i pali di recinzione, di sostegno del cancello | supplizio del palo, impalamento | ritto come un palo, si dice di persona che è rigidamente eretta; impettito | (estens.) struttura verticale a traliccio d'acciaio per il sostegno di importanti linee elettriche: i pali dell'alta tensione.
3 (sport) ognuno dei due sostegni della traversa che, con questa, delimitano la porta nel campo di calcio, di rugby ecc.: incrocio dei pali, intersezione tra un palo e la traversa | (estens.) tiro che colpisce un palo | palo di partenza, d'arrivo, nell'ippica, quelli che all'interno della pista indicano l'inizio e la fine del percorso | restare al palo, non partire; (fig.) perdere una buona occasione
4 (mar.) albero poppiero con vele di taglio, in un veliero con altri alberi a vele quadre: nave a palo, classico veliero a tre alberi e un palo
5 (arald.) pezza onorevole (figura araldica sullo scudo: la croce, la fascia, il capo, la banda, il palo ecc.) che occupa verticalmente il terzo di centro dello scudo
1 (edil.) elemento strutturale di legno, cemento armato o acciaio, generalmente cilindrico con un'estremità appuntita o munita di punta riportata (puntazza), che si conficca totalmente nel terreno per consolidarlo o per servire da sostegno ad altre strutture: palo di fondazione, di sostegno
2 qualsiasi asta di legno o di altro materiale rigido che si innalzi verticalmente dal terreno in cui è parzialmente conficcata: palo della luce, del telegrafo; i pali di recinzione, di sostegno del cancello | supplizio del palo, impalamento | ritto come un palo, si dice di persona che è rigidamente eretta; impettito | (estens.) struttura verticale a traliccio d'acciaio per il sostegno di importanti linee elettriche: i pali dell'alta tensione.
3 (sport) ognuno dei due sostegni della traversa che, con questa, delimitano la porta nel campo di calcio, di rugby ecc.: incrocio dei pali, intersezione tra un palo e la traversa | (estens.) tiro che colpisce un palo | palo di partenza, d'arrivo, nell'ippica, quelli che all'interno della pista indicano l'inizio e la fine del percorso | restare al palo, non partire; (fig.) perdere una buona occasione
4 (mar.) albero poppiero con vele di taglio, in un veliero con altri alberi a vele quadre: nave a palo, classico veliero a tre alberi e un palo
5 (arald.) pezza onorevole (figura araldica sullo scudo: la croce, la fascia, il capo, la banda, il palo ecc.) che occupa verticalmente il terzo di centro dello scudo
6 (gioco) ognuno dei semi dei mazzi di
carte da giuoco (cuori,quadri,fiori e
picche nelle carte francesi, denari,
bastoni,coppe e spade nelle carte
regionali: napoletane, piacentine etc.
7 (gerg.) chi vigila mentre i compagni compiono un furto.
7 (gerg.) chi vigila mentre i compagni compiono un furto.
È proprio in quest’ultima accezione che la voce di origine
gergale campana ed in genere meridionale, è pervenuta nel lessico nazionale a vele
spiegate (lessico dei media) nel significato, appunto, di complice che tiene bordone ai proprî pari
piantandosi di guardia come… un palo.
Etimologicamente è
voce derivata dal lat. *pa(g)lu(m), affine a pangere
'conficcare'. Nell’accezione sub 6 la voce partenopea palo è derivata dallo spagnolo dove i semi delle carte sono detti
appunto palos (pali).
Palombaro s.m. voce
di origine napoletana (quantunque(cfr. R. Andreoli e altri) attestata nei vocabolarî
partenopei come palummaro←palumbariu(m) con tipica assimilazione progressiva mb→mm
e chiusura in u della ō ), voce poi pervenuta nell’italiano, usata per indicare
chi esegue lavori sott'acqua (pesca, ricerche, ricuperi ecc.) munito di
scafandro; è voce che deriva per
metafora da un lat. tardo *palōmbariu(m)
'sparviero', perché colui che esegue lavori sott’acqua, immergendosi richiama l'immagine dello
sparviero che cala sulla preda.
-
Paglietta s. f. o m. voce di origine partenopea sia come s.vo f.le che s.vo m.le; letteralmente, come s.vo f.le : paglietta,
piccola paglia ( dal lat. palea(m)) tipico copricapo
originariamente da uomo, di rigida paglia intrecciata, con cupolino alto,
bordato con un’ampia fascia di seta, e tesa breve, copricapo usato specialmente
nella bella stagione e poi moltissimo in
teatro da attori comici (il piú famoso fu Nino Taranto(Napoli 1907- †ivi
1986) cantante ed attore insuperato interprete delle macchiette
napoletane(canzoni di argomento divertente e/o comico, ricche di recitativi
che ne favorivano l’interpretazione caricaturale;Taranto, su suggerimento di
Gigi Pisano (Na 1889 –† ivi 1973 poeta
ed attore) fecondissimo e facondissimo autore, spessissimo in coppia con il musicista GiuseppeCioffi (Na
1901 – †ivi 1976), indossò la paglietta sforbiciandone a pizzi triangolari la parte del davanti della
tesa; e la paglietta cosí tagliata divenne il suo segno distintivo, imitato in
sèguito da altri cantanti comici partenopei;
la paglietta fu poi ai principî
del 1900 il copricapo abituale di molti giovani e non molto esperti avvocati
o legulei al segno di divenirne quasi un emblema e con la voce paglietta inteso come s.vo m.le si
finí per indicare un avvocato cavilloso e parolaio, ma inaffidabile in
quanto non molto esperto o attento
conoscitore di codici e leggi; la voce partenopea, in ambedue le accezioni, è
stata recepita dal lessico nazionale.Rammento che la paglietta indossata da
quei tali non molto esperti avvocati o
legulei era tassativamente di
colore nero e ne era quasi il loro emblema, laddove le pagliette indossate da
ogni altra persona quale copricapo primaverile od estivo era di colore chiaro:
ghiaccio o giallino.
panzerotto s.m. (gastr.) grosso raviolo ripieno di
prosciutto, formaggio, uova e altri ingredienti, per lo piú fritto; è una
specialità pugliese, voce dunque di culla meridionale, recepita però nel
lessico nazionale dove talvolta è
improvvidamente confuso con un altro termine partenopeo:
panzarotto specialità
della cucina napoletana; voce con cui si
indica una tipica frittella di forma cilindrica, frittella lunga 10, 12 cm.ricavata da un impasto
di patate lesse e schiacciate, farina, rossi d’uova, sale, pepe, erbe
aromatiche, farcita di pezzetti di salame e bastoncini di mozzarella o provola
affumicata ,frittella intinta nella
chiara d’uovo, rollata nel pan grattato e fritta in olio bollente e profondo; allor
che la parola napoletana panzarotto emigrò nella lingua toscana
ecco che, inopinatamente,forse per confusione con il panzerotto
pugliese, perdette la seconda a (per altro etimologica e dunque sacrosanta) in
favore della chiusa E ritenuta piú elegante e
consona alla lingua di Alighieri Dante,e si ridusse a panzerotto
voce con la quale, come ò detto, non si
indicò piú la frittella di pasta di patata, ma una sorta di piú o meno grosso
raviolo di semplice pasta lievitata rustica o dolce adeguatamente imbottito di
ingredienti salati (ricotta, formaggi etc.) o dolci (marmellate, uvetta etc.) e
la frittella di patate divenne, nell’italiano,
crocchetta o crocchè, assegnandole scioccamente ed erroneamente (la
frittella di patate non deve esser croccante, ma morbida e tenera!) un nome
mutuato dal francese croquant = che crocca, nella fallace convinzione che una
preparazione di origine popolare e rustica si ingentilisca e diventi di nobile
prosapia se le si assegna un elegante nome francesizzante, come alibi già
capitò con l’umile, ma gustosa frittata di sole uova, formaggio sale e pepe frittata che,diventata omelette, non migliorò…, né d’altra parte lo poteva: era già buona
di suo! Etimologicamente sia il panzerotto
pugliese che il panzarotto napoletano derivano quali diminutivi con riferimento al
rigonfiamento sia del panzerotto che
del panzarotto. dal s. panza (lat.pànticem→pan(ti)cem, donde
per metaplasmo pan(ti)cia→ pan(ti)cja→panza.). Nella città bassa la voce
panzarotto, con riferimento semantico alla sua forma, è usato anche per
indicare per traslato salace il
membro maschile.
Paranza s. f. 1 grossa barca, un tempo a vela
latina, oggi a motore, usata per la pesca a strascico;
2 (estens.) rete da pesca a strascico, trainata da una o due paranze; sciabica. Trattasi di una voce tipicamente meridionale (usata nel lessico dei pescatori della Campania,Calabria, Puglia, Sicilia); quanto all’etimo forse è voce deriv. di paro 'paio', perché queste imbarcazioni procedono spesso in coppia, ma mi sembra migliore e piú interessante l’idea dell’amico prof. C.Iandolo che legge in paranza un part. pl. neutro parantia dal verbo parare, participio pass. poi inteso f.le sg. aggettivale di un sottinteso ratis,cymba= barca che procura(pesce).
2 (estens.) rete da pesca a strascico, trainata da una o due paranze; sciabica. Trattasi di una voce tipicamente meridionale (usata nel lessico dei pescatori della Campania,Calabria, Puglia, Sicilia); quanto all’etimo forse è voce deriv. di paro 'paio', perché queste imbarcazioni procedono spesso in coppia, ma mi sembra migliore e piú interessante l’idea dell’amico prof. C.Iandolo che legge in paranza un part. pl. neutro parantia dal verbo parare, participio pass. poi inteso f.le sg. aggettivale di un sottinteso ratis,cymba= barca che procura(pesce).
pastiera s. f. torta che in un involucro di pasta frolla contiene un ripieno di ricotta zuccherata, uova
intere, grano bollito e macerato nel
latte,crema pasticciera, canditi ed
aromi; è la insuperabile ed insuperata specialità della pasticceria napoletana.
È dolce che viene tradizionalmente approntato per festeggiare il ritorno della
primavera in concomitanza con la festività della Pasqua. Come ò già détto alibi
e qui ripeto, questo dolce è tipico della zona napoletana e viene preparato in
occasione della festività primaverile della santa Pasqua e la sua ricetta è
molto antica. Da qualcuno, ma non so quanto veridicamente, si afferma che la pastiera, , accompagnò le feste pagane celebranti il ritorno della
primavera, durante le quali le sacerdotesse di Cerere portavano in processione
l'uovo, simbolo di vita nascente, mentre
il grano o il farro, misto alla morbida crema di ricotta, potrebbero
derivare dal ricordo del pane di farro delle nozze romane, dette appunto confarreatio=
confarreazione,
una delle forme legali del matrimonio romano, la piú solenne (tanto che un
matrimonio celebrato in questa forma non poteva esser mai sciolto!) che
prendeva il nome dalla focaccia di farro farcita di ricotta offerta agli sposi e a Giove.
Un'altra ipotesi
circa l’origine della pastiera la fa
risalire alle focacce rituali che si diffusero all'epoca di Costantino il
Grande, derivate dall'offerta di latte e miele, che i catecumeni ricevevano
nella sacra notte di Pasqua al termine della cerimonia battesimale.
Per il vero la
versione originale della pastiera napoletana, versione nata nell’ anonimo contado partenopeo,e successivamente poi
perfezionata, con l’aggiunta dell’acqua
di millefiori, nell’antico monastero
femminile basiliano di San Gregorio Armeno, consistette ed in taluni paesi ancóra consiste
( sia pure con il nome di pizza doce ‘e
tagliuline) in una sorta di frittata o timballo di pasta, frittata o timballo dolci fatti mescolando uova, zucchero,
ricotta ed aromi con della pasta lessa (spaghetti o vermicelli o tagliolini)
scondita,avanzata in quanto eccedente il
fabbisogno dei commensali; dalla parola pasta addizionata del suffisso femm. di
pertinenza iera deriva
etimologicamente la voce a margine, voce pervenuta nell’uso dell’italiano e
finita – a disdoro dei napoletani -
nelle mani di molti pasticcieri, che non essendo campani, mai dovrebbero osare
di approntare un dolce sacramentale quale è la pastiera, dolce che solo i
napoletani o i campani sono autorizzati a preparare!Rammento in chiusura di
questa voce che, come vuole un’antica leggenda,la degustazione del dolce qui preso in considerazione riuscí a
restituire il sorriso ad una regina triste Maria Teresa Isabella
d'Asburgo-Teschen (Vienna, 31 luglio 1816 - † Albano, 8 agosto 1867) moglie in seconde nozze del re Ferdinando II di Borbone (Palermo, 12 gennaio
1810 –† Caserta, 22 maggio 1859), il quale diede
ordine al proprio ciambellano Gennaro Spadaccini (quello che gli aveva risolto
il problema di far servire alla tavola reale i maccheroni lunghi,di cui il re
era ghiotto, inventandosi la forchetta a
quattro rebbi) di fare approntare il dolce molto piú spesso e non soltanto
nelle ricorrenze pasquali.
Pittare voce verbale originaria del napoletano usata nel
significato di pitturare, dare la tinta, il colore, spec. a pareti e infissi
etc., dipingere: il medico salí fino al piccolo cancello... pittato in verde
(GADDA).Rammento che l’italiano prima di accogliere la voce napoletana a
margine ed usarla nei soli significati di pitturare, tinteggiare, imbiancare
(laddove il napoletano con la voce pittare fa riferimento anche ad attività
artistiche ad es.: pittare un quadro= dipingere – pittare una volta=affrescare) dicevo prima di accogliere il
napoletano pittare, già aveva un omografo ed omofono pittare v. int. détto del pesce, dare successivi strappi intorno
all'amo, senza abboccare. In questa accezione la voce pittare è un derivato del dialetto genevese dove vale beccare;
nell’accezione del napoletano pittare deriva invece dal lat. *pictare, iterativo di pingere
'dipingere'.
Pizza s.f. 1 (gastr.) focaccia di pasta
lievitata, dolce o salata: pizza rustica; pizza pasquale | per
antonomasia, focaccia di forma molto schiacciata condita con olio, pomodoro e
altri ingredienti; è una specialità napoletana oggi diffusa ovunque: pizza
margherita, marinara, quattro stagioni. DIM. pizzetta
2 nel linguaggio cinematografico, la scatola piatta e circolare in cui si custodisce un rotolo di pellicola; per estens., la pellicola stessa con riferimento semantico al fatto che la pizza/focaccia è di forma rotonda, spesso con bordi alti;
3 (fam. fig.) persona o cosa estremamente noiosacon riferimento semantico al fatto che la pizza/focaccia tavolta se non è ben lievitata risulta greve ed indigesta tal quale una persona noisa.
2 nel linguaggio cinematografico, la scatola piatta e circolare in cui si custodisce un rotolo di pellicola; per estens., la pellicola stessa con riferimento semantico al fatto che la pizza/focaccia è di forma rotonda, spesso con bordi alti;
3 (fam. fig.) persona o cosa estremamente noiosacon riferimento semantico al fatto che la pizza/focaccia tavolta se non è ben lievitata risulta greve ed indigesta tal quale una persona noisa.
Voce di incontrovertibile origine partenopea: la fama della
pizza napoletana à varcato i confini non solo regionali, ma nazionali affermandosi
ovunque come la miglior focaccia rustica, salata condita con olio, pomodoro e altri
ingredienti. Quanto all’etimo qualcuno ne propone uno forse di origine germ.,
da un antico alto longob. Bizzo- pizzo 'morso, focaccia'; trovo molto
piú perseguibile l’idea di chi lègge in pizza un’originaria pinza→pizza= schiacciata derivata del verbo lat. pinsere= pigiare, pestare, schiacciare.
Voci derivate, nel napoletano e poi anche nell’italiano, da pizza sono:
pizzaiolo s.m. f. -a]
chi fa le pizze; gestore di una pizzeria; pizzaiola s.f. che indica ovviamente il femm.le della voce pizzaiolo, mentre nella loc. agg. e avv. alla pizzaiola,
si dice di vivanda cotta in una salsa
fatta con olio, sugo di pomidoro,
aglio, sale, pepe ed origano: carne, pesce alla pizzaiola; cuocere
(qualcosa) alla pizzaiola.
provola s. f. formaggio a pasta filata semidura, per lo
piú, se non tassativamente, di latte
intero di bufala, che si mangia fresco o piú spesso affumicato; è specialità
dell'Italia meridionale; per esser precisi si tratta di una mozzarella di piú
gran pezzatura: fino a 9 etti rispetto ai 3 della classica mozzarella,
moderatamente salata e poi affumicata
DIM. provolina, provoletta. Quanto all’etimo se ne propone(forse perché quel tipo di
formaggio serviva all’assaggio) una derivazione da prova che è dal verbo provare (cfr. il lat. probare 'trovare buona una cosa,
approvarla', deriv. di probus 'buono'; voce accrescitiva (cfr. il suff.
one) di provola è la voce seguente
provolone s. m. formaggio a pasta filata dura, dolce o
piccante, prodotto con latte di vacca intero; è tipico dell'Italia meridionale,
segnatamente delle zone campane (provolone del monaco etc.) anche se pervenuta
la voce nell’italiano è stata usata per identificare qualsiasi formaggio a pasta
filata dura, dolce o piccante, prodotto con latte di vacca intero, da qualunque
produttore della penisola e non piú da
imprese artigianali e/o industrie
casearie meridionali.
recchione o ricchione,
s. m. omosessuale maschile, pederasta,gay, vocabolo che, partito dal
lessico partenopeo, è approdato per merito o colpa di taluna letteratura minore ed altre forme
artistiche quali: teatro cinema e televisione, nei piú completi ed aggiornati
vocabolarî della lingua nazionale dove viene riportata come voce volgare, nel generico significato di omosessuale maschile.
Molto piú precisamente della lingua nazionale,
però, il napoletano con i vocaboli a margine
non definisce il generico
omosessuale maschile, ma l’omosessuale
maschile attivo quello cioè che nel rapporto sodomitico svolge la parte attiva; chi invece svolge la parte passiva è definito nel napoletano : femmenella che è quasi: femminuccia, piccola femmina ed è
etimologicamente dal latino fémina(m) con raddoppiamento
popolare della postonica m tipico in parole sdrucciole piú il
consueto suffisso diminutivo ella.
Torniamo al recchione -
ricchione precisando súbito che
nel napoletano tale omosessuale maschile non va confuso (come invece accade
nell’italiano)con il pederasta il quale, come dal suo
etimo greco: pais-paidos=fanciullo ed
erastós=amante, è chi intrattiene
rapporti omosessuali con i fanciulli;per il vero la lingua napoletana non à un
termine specifico per indicare il pederasta e ciò probabilmente perché la pedofilía o pederastía fu quasi sconosciuta alla latitudine
partenopea, quantuque Napoli siastata città di origine e cultura greca ;dicevo:
ben diverso il pederasta dal
recchione – ricchione che infatti à i suoi viziosi rapporti
sodomitici quasi esclusivamente con adulti di pari risma.
Ed accostiamoci adesso al
problema etimologico del termine recchione – ricchione; sgombrando
súbito il campo dall’idea che esso
termine possa derivare dall’affezione parotidea nota comunemente con il termine
orecchioni, affezione che attaccando
le parotidi le fa gonfiare ed aumentare di volume.
Una prima e principale scuola di
pensiero, alla quale, del resto mi sento di aderire fa risalire i termini in
epigrafe al periodo viceregnale(XV-XVI sec.) sulla scia del termine spagnolo orejón
con il quale i marinai spagnoli solevano indicare i nobili incaici, conosciuti
nei viaggi nelle Americhe, che si facevano forare ed allungare, tenendovi
attaccati grossi e pesanti monili, le orecchie; con il medesimo nome erano
indicati anche dei nobili peruviani privilegiati, noti altresí per i loro
costumi viziosi e lascivi; taluni di costoro usavano abbigliarsi in maniera
ridondante ed eccentrica talora cospargendosi di polvere d’oro i padiglioni
auricolari,donde la frase napoletana: tené ‘a póvera ‘ncopp’ ê rrecchie = avere la polvere sulle orecchie, usata
ironicamente appunto per indicare gli omosessuali.
Da non dimenticare che detti usi
di incaici e peruviani furono spesso mutuati da molti marinai che sbarcavano a
Napoli, provenienti dalle Americhe, agghindati con grossi e pesanti
orecchini(cosa che i napoletani non apprezzarono ritenendo gli orecchini monili
da donna e non da uomo..) e parecchi di questi marinai furono súbito indicati
con i termini in epigrafe oltre che per l’abbigliamento e le acconciature usati
anche per il modo di proporsi ed incedere quasi femmineo, atteso che dai
napoletani si ritenne che il loro comportamento sessualecambiato, fosse stato determinato dalla lunga permanenza
in mare, per i viaggi transoceanici, permanenza che li costringeva a non aver
rapporti con donne e doversi contentare di averne con altri uomini.
Successivamente i termini recchione
– ricchione palesi adattamenti dello orejón spagnolo passarono
ad indicare non solo i marinai, ma un po’ tutti gli omosessuali attivi,
conservando il termine femmeniello/femmenelle per quelli
passivi.
E mi pare che ce ne sia
abbastanza, anche se – per amore di completezza – segnalo qui una nuova ipotesi
etimologica proposta dall’amico prof. Carlo Jandolo che ipotizza per ricchione/recchione
una culla greca: orkhi-(pédes)= chi à la strozzatura dei testicoli,impotente,
con aferesi iniziale, suono di transizione i fra r –cch con raddoppiamento
popolare e suffisso qualitativo accrescitivo one; tuttavia lo stesso
Jandolo non esclude un influsso di recchia soprattutto tenendo presente
la fraseologia riportata che fa riferimento ad un orecchio impolverato.
A malgrado dei sentimenti amicali
che nutro per Jandolo, non trovo serî motivi per abbandonare quella, a mio
avviso, convincente via vecchia per percorrere la impervia nuova.
Sartú s. m. (gastr.) sformato di riso
sontuosamente condito spesso con sugo di pomodoro, ma sempre con funghi,polpettine, mozzarella, uova ed altro; è una specialità della cucina napoletana.
tale sartú ( voce derivata dal francese sour tout= al di
sopra di tutto, mentre sourtout vale soprammobile, centrotavola ),fu ideato da cuochi francesi ( i famosi monzú (cosí i napoletani chiamarono, storpiando la parola monsieur
quei cuochi d’oltralpe chiamati
a Napoli dalla regina Maria Carolina,
al tempo(1768) delle proprie nozze con Ferdinando IV Borbone-Napoli, per
migliorare la cucina napoletana ritenuta troppo semplice, se non addirittura
povera; per il vero il sartú non era ricetta
originaria di Francia, ma inventata a Napoli con tutti i prodotti in uso nella
cucina napoletana con la sola eccezione
del burro che è condimento nordico.., e
partito dalle cucine regali dove i monzú
lo prepararono per la corte borbonica, approdò alle cucine familiari e da allora divenne un trionfo della cucina napoletana,
diffondendosi peraltro prima in tutto il Sud Italia e poi nella restante
penisola e con la diffusione della pietanza, il lemma a margine fu accolto nel lessico
nazionale.
Scamorza s.f.
talvolta ma meno comunemente scamozza
1 formaggio, simile alla mozzarella ma piú insaporito (sale e/o stagionatura), fatto con latte di vacca o misto di vacca e capra; è prodotto soprattutto nell'Abruzzo e in Campania
2 (fig. scherz.) persona che dimostra scarse capacità o che è debole fisicamente; ennesima voce di origine meridionale,accolta poi nel lessico nazionale con la diffusione del formaggio che ne porta il nome e in concomitanza con l’estendersi della produzione che da artigianale e locale è divenuta industriale e diffusa in tutta la penisola; quanto all’etimo la parola è un deverbale di scamozzare=mozzar via il capo affine al mozzare di mozzarella, in quanto la scamorza, (cosí come la mozzarella) è prodotta in pezzi di circa 3 etti cadauno, pezzi che vengono scamozzati =troncati (un tempo a mano, oggi anche con l’ausilio di mezzi meccanici),mediante torsione e strappo (mozzatura) da un filone di pasta filata , filone ricavato dalla lavorazione artigianale, con procedure trasmesse di padre in figlio, di latte intero di vacca e capra.
1 formaggio, simile alla mozzarella ma piú insaporito (sale e/o stagionatura), fatto con latte di vacca o misto di vacca e capra; è prodotto soprattutto nell'Abruzzo e in Campania
2 (fig. scherz.) persona che dimostra scarse capacità o che è debole fisicamente; ennesima voce di origine meridionale,accolta poi nel lessico nazionale con la diffusione del formaggio che ne porta il nome e in concomitanza con l’estendersi della produzione che da artigianale e locale è divenuta industriale e diffusa in tutta la penisola; quanto all’etimo la parola è un deverbale di scamozzare=mozzar via il capo affine al mozzare di mozzarella, in quanto la scamorza, (cosí come la mozzarella) è prodotta in pezzi di circa 3 etti cadauno, pezzi che vengono scamozzati =troncati (un tempo a mano, oggi anche con l’ausilio di mezzi meccanici),mediante torsione e strappo (mozzatura) da un filone di pasta filata , filone ricavato dalla lavorazione artigianale, con procedure trasmesse di padre in figlio, di latte intero di vacca e capra.
Scarola s.f.ed anche scariola, è voce napoletana,
derivata dal lat. volg. *escariola(m), che è del lat. escarius 'che serve per
mangiare', da ísca 'cibo, esca')
ed usata a Napoli per indicare una
varietà di indivia;la voce pervenuta nel lessico dell’italiano,à finito
per indicare in alcune regioni, anche una
varietà di lattuga o cicoria. Rammento che a Napoli ed in Campania esistono due speci di
scarola-indivia: la riccia e la liscia; la prima è usata essenzialmente da
cruda in insalata da sola o con altri ortaggi come il cavolo bianco lesso etc. condita all’agro con olio aglio trito e limone o aceto, mentre la scarola-indivia
liscia viene usata da cotta dapprima lessata in acqua salata e poi saltata in
padella con olio, aglio, acciughe, capperi ed olive nere di Gaeta; è con quest’ultimo tipo di scarola-indivia che a
Napoli si prepara (nelle festività
natalizie e di fine d’anno la gustosissima
pizza di scarole cotta al forno o
fritta in padella.
Scassare v. tr. 1 (agr.) lavorare,
dissodare il terreno in profondità;
2 (fam.) rompere, rendere inutilizzabile: à scassato la valigia;
2 (fam.) rompere, rendere inutilizzabile: à scassato la valigia;
scassarsi v. intr. pron. (fam.)
rompersi, guastarsi: l'orologio si è scassato
Il verbo scassare nell’accezione sub 2 fu dapprima nel
napoletano parlato e letterario e poi pervenne nel lessico nazionale nella
medesima accezione ed in quella estensiva qui indicata sub 1 ed in tali
accezioni etimologicamente è verbo derivato dal lat. volg. *exquassare,
comp. di ex-, con valore intens., e quassare, intens. di quatere
'scuotere, scrollare'.
Nel lessico dell’italiano prima dell’ingresso dello scassare
napoletano esistevano già altri due scassare di significato ed etimo affatto
diversi: a) scassare=
v. tr. [der. di cassa, col prefisso s-per dis]. - togliere dalla
cassa, dalle casse: scassare la merce, i
libri. b) scassare = v. tr. [comp. di s-intensivo e cassare(dal lat. cassare
'annullare', deriv. di cassus 'vuoto, vano')]
cassare, cancellare. Per il vero anche lo scassare (annullare) qui sub b era
voce del napoletano ceduta all’italiano
e taluni linguisti, con la puzza al naso, snobbavano il verbo
sconsigliandone l’uso in quanto voce dialettale, come se la maggior parte delle
voci dell’italiano non fosse stata dapprima nei linguaggi regionali… Ah la
spocchia di taluni paludati cattedratici che fanno la lingua!
Sciabica s.f. 1
rete a strascico a maglie, formata da due lunghe ali laterali e da un sacco,
per la pesca del pesce minuto;
2 imbarcazione a remi con prua molto slanciata, da cui si cala in mare tale rete; meridionalismo d’origine siciliana,poi pervenuto nell’italiano assieme ad un diminutivo(ma lo registrano solamente il D.E.I. ed il TRECCANI!) derivato sciabichello= piccola rete/rastrello a strascico usata per la raccolta delle telline e/o altri piccoli molluschi marini commestibili dei bivalvi con la conchiglia sottile e appiattita, che vivono nell’umida sabbia a riva di mare; la voce sciabica deriva etimologicamente dall'ar. shabaka 'rete'.
2 imbarcazione a remi con prua molto slanciata, da cui si cala in mare tale rete; meridionalismo d’origine siciliana,poi pervenuto nell’italiano assieme ad un diminutivo(ma lo registrano solamente il D.E.I. ed il TRECCANI!) derivato sciabichello= piccola rete/rastrello a strascico usata per la raccolta delle telline e/o altri piccoli molluschi marini commestibili dei bivalvi con la conchiglia sottile e appiattita, che vivono nell’umida sabbia a riva di mare; la voce sciabica deriva etimologicamente dall'ar. shabaka 'rete'.
Scocciare v. tr. dar noia, fastidio: lo scoccia di continuo
||| scocciarsi v. intr. pron. (fam.) seccarsi,
annoiarsi: mi sono scocciato di aspettarlo; napoletanismo pervenuto nel lessico nazionale dove si è andato ad
accostare ad altri due scocciare
di significato ed etimo affatto diversi:
a) scocciare=
v. tr. rompere cose fragili,
delicate: scocciare un vaso. etimologicamente verbo derivato di coccia 'guscio (dell'uovo)', col
prefisso distrattivo s-; in orig. 'sgusciare', b) scocciare= v. tr. (mar.)
sganciare, togliere un gancio da un anello di metallo o di un cavo; etimologicamente
questo verbo è un derivato di incocciare, con sostituzione
del prefisso in illativo con il prefisso distrattivo s-; lo
scocciare napoletano = infastidire,
annoiare, seccare etimologicamente è formato sul sostantivo coccia (nel senso
di testa, capo) con il prefisso
distrattivo s che si spiega
semanticamente col fatto che chi scoccia, annoia etc. in pratica e sia pure
metaforicamente rompe o sbrecca il capo dello scocciato.
Scoppola s.f. 1
(region.) scappellotto dato con la mano aperta sulla nuca; più in
generale, colpo, botta |
2(fig.) grave perdita o danno, spec. di natura economica
3(tras.) sbalzo improvviso di un aeroplano durante il volo
voce proveniente nelle due accezioni sub 1 e 2, dal lessico partenopeo ed approdato in quello italiano dove è stata usata anche in una diversa accezione (traslata) sub 3 che però semanticamente duro fatica a spiegarmi; etimologicamente la voce napoletana scoppola è formata sul sostantivo coppa ( dal lat. cuppa nel senso di nuca, capo).
3(tras.) sbalzo improvviso di un aeroplano durante il volo
voce proveniente nelle due accezioni sub 1 e 2, dal lessico partenopeo ed approdato in quello italiano dove è stata usata anche in una diversa accezione (traslata) sub 3 che però semanticamente duro fatica a spiegarmi; etimologicamente la voce napoletana scoppola è formata sul sostantivo coppa ( dal lat. cuppa nel senso di nuca, capo).
Scostumato agg. 1
che si comporta in modo contrario alle norme della morale e del costume: una
persona scostumata | (estens.) vizioso, immorale: donna, vita
scostumata
2 maleducato
come s. m. [f. -a] persona scostumata
il relativo avverbio è scostumatamente
2 maleducato
come s. m. [f. -a] persona scostumata
il relativo avverbio è scostumatamente
Anche in questo caso ci troviamo difronte ad un accertato
napoletanismo dove era attestato oltre che nell’accezione sub 2,anche nel
significato di intemperate, ghiottone, villano; napoletanismo penetrato
nell’italiano con un consueto modesto
adattamento morfologico in scostumato di
un originario scustumato (ma in tale
intatta forma lo usò Giovanni Boccaccio nel suo Decamerone) che etimologicamente è dal lat. volg. *costume(n), per il
class. consuetudine(m) con il prefisso distrattivo s per dis( privo di (buon)costume) ed il suffisso aggettivale ato. Altra voce
napoletana, penetrata nell’italiano quale diretta derivazione della voce a margine è
Scostumatezza s.f.astratto 1 l'essere scostumato;2detto,
atto da scostumato, azione,
comportamento da persona scostumata; nel napoletano valse anche 3
condotta sregolata e/o dissoluta, con riferimento soprattutto al
sesso.L’italiano però non raccolse
quest’ultima accezione. Morfologicamente
la voce fu formata aggiungendo alla voce scostumato
il suff. ezza che continua il
suff. latino itia→izia usato nella formazione di nome astratti.
Scugnizzo s.m.
Ecco un’altra parola, che guaglione,guappo, partita dal lessico partenopeo, è bellamente
approdata in quello nazionale nel suo significato di monello, ragazzo astuto ed
intelligente e per estens., ragazzo
vivace ed irrequieto.
È pur vero – come detto – che la
parola è ormai termine italiano e pertanto da riferirsi a qualsiasi monello
dello stivale, ma nel comune intendere e per solito con la parola scugnizzo ci si intende
riferire ai monelli napoletani; sarebbe impensabile uno scugnizzo milanese,
triestino etc. alla medesima stregua di ciò che avvenne con lo sciuscià (il
monello che allo sbarco degli alleati durante l’ultima guerra, si guadagnava da
vivere pulendo le scarpe dei militari
e/o civili) che – a malgrado operasse in tutte le città - fu ritenuto essenzialmente napoletano…
Torniamo allo scugnizzo ed all’etimologia della parola; essa
è tranquillamente un deverbale di scugnà dal latino:excuneare;
il verbo scugnà significa: battere
il grano sull’aia, percuotere, bastonare,smallare (le noci), scheggiare con
percosse (i denti); ma nell’accezione che qui ci interessa: sbreccare,
spaccare; per comprender tale accezione occorre riferirsi ad un tipico giuoco:
quello dello strummolo a cui accenno
brevemente qui di sèguito: trattasi di una trottolina di legno a forma di cono
o strobilo con il vertice costituito da una punta metallica infissa nel legno e
con numerose scalanature incise su tutta la superficie in modo concentrico e
parallelo rispetto al vertice, in dette scanalature viene avvolta strettamente
una cordicella che à lo scopo di imprimere un moto rotatorio allo strummolo,
una volta che detta corda sia stata velocemente srotolata e portata via dallo
strummolo mediante uno strappo secco per modo che la trottolina lanciata in
terra prenda a girare vorticosamente su se stessa facendo perno sulla punta
metallica: piú abile è il giocatore e di miglior fattura è lo strummolo, tanto
maggiore sarà la velocità della
roteazione e la sua durata . Se invece
lo strummolo è di scadente fabbricazione
, il piú delle volte risulterà scentrato e non bilanciato rispetto alla punta,
per cui il suo prillare risulterà di
breve o
nulla durata: in tali casi si suole dire che lo strummolo è ballarino
o tiriteppe= la trottolina è
ballerina o tiriteppe, volendo indicare con tale ultima voce
onomatopeica appunto la non idoneità del giocattolino. Allorch poi alla scentratezza dello strummolo si unisca
una cordicella non sufficientemente lunga, tale cioè da non permettere di imprimere forza al moto rotatorio dello
strummolo si usa dire: s’è aunito ‘a funicella corta e ‘o strummolo
tiriteppe = si son congiunte una
cordicella corta ed una trottolina scentrata e tale espressione è usata quando si voglia
fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come nel caso ad esempio nel caso di una persona
incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente fornito, per giunta, di ferri del mestiere inadeguati, o magari –
per concludere - quando concorrono un
professore eccessivamente severo ed un alunno
parimenti svogliato. Torniamo al gioco: di solito la gara si svolge tra
due o piú antagonisti che si sfidano; a noi interessa accennare, in particolare,
al momento in cui uno dei giocatori
risultato perdente nella gara di far
vorticare la sua trottolina lignea (strummolo) può vederla sbreccare o addirittura spaccare dal
vincitore che – con accorto colpo – può
far scempio della trottolina dell’avversario perdente scugnandola cioè a dire sbreccandola.
Ecco dunque che i monelli
napoletani adusi a manovrare lo strummolo e spesso a sbreccare quello
dell’avversario son detti scugnizzi
e cioè quelli capaci di scugnare
ed abili a farlo.
Sfizio s.m.
capriccio, voglia, gusto, grillo, ghiribizzo, uzzolo,ticchio; altra voce
napoletana, ma presente pure, sempre nei medesimi significati, in altre regioni di quel che fu il reame di
Napoli o delle Due Sicilie (1734 – 1860), come nel calabrese: sfizziu e nell’abruzzese sfizie;
pertanto certamente voce meridionale;
il termine sfizzio (correttamente scritto in napoletano con due zeta)partendo
dal napoletano, è approdato nel lessico
nazionale seppure scritto con la z scempia: sfizio, ma mantenendo il medesimo significato di: capriccio, voglia
etc.: togliersi uno sfizio; levarsi lo sfizio di fare qualcosa | per
sfizio, per puro capriccio, per divertimento portandosi dietro molte voci
derivate, come:il sostantivo sfiziosità (cosa sfiziosa; in partic., ricercatezza
alimentare), l’aggettivo sfizioso (che
soddisfa una voglia, un capriccio; che piace, attrae, perché originale)
nonché l’avverbio:sfiziosamente e (per sfizio). Di non facile lettura l’etimologia di sfizzio; la maggioranza dei dizionari in uso, a cominciare dal D.E.I., si trincera dietro il solito pilatesco: etimo incerto o addirittura oscuro; qualcuno, un po’ forse fantasiosamente, propende per una culla latina ed ipotizza un (sati)s -facio di cui lo sfizzio conserverebbe il sostrato di soddisfazione per raggiunger la quale occorre fare abbastanza. Qualche altro, ancor piú fantasiosamente, (e mi dispiace che tra costoro ci sia anche l’amico prof. C. Jandolo) pensa ad un latino ex+ vitium nella pretesa che lo sfizzio configuri una sorta di stravizio.
nonché l’avverbio:sfiziosamente e (per sfizio). Di non facile lettura l’etimologia di sfizzio; la maggioranza dei dizionari in uso, a cominciare dal D.E.I., si trincera dietro il solito pilatesco: etimo incerto o addirittura oscuro; qualcuno, un po’ forse fantasiosamente, propende per una culla latina ed ipotizza un (sati)s -facio di cui lo sfizzio conserverebbe il sostrato di soddisfazione per raggiunger la quale occorre fare abbastanza. Qualche altro, ancor piú fantasiosamente, (e mi dispiace che tra costoro ci sia anche l’amico prof. C. Jandolo) pensa ad un latino ex+ vitium nella pretesa che lo sfizzio configuri una sorta di stravizio.
Non manca infine chi propende - e forse non a torto, piú
correttamente - per un’etimologia greca
da un fuxis(evasione) con
tipica prostesi della S intensiva
partenopea, atteso che lo sfizio è qualcosa che eccedendo il normale si connota come un’evasione dalla quotidianeità.
Sfarzo s.m. lusso vistoso, appariscente, , ostentazione di ricchezza,
di fasto ostentazione, sfoggio di lusso, di ricchezza, spec.
nell’arredo e nell’abbigliamento: un salone addobbato con
grande sfarzo. Voce napoletana penetrata nell’italiano sin dalla fine del
1600 ( Magalotti Roma 1637 -† Firenze 1712) e già registrata dal N. Tommaseo
nel suo Dizionario dei sinonimi della lingua italiana; quanto all’etimo il
napoletano/italiano sfarzo 'vanto infondato', è un derivato di sfarzare 'simulare, ostentare', che
trae dallo sp. disfrazar
'fingere, mascherare'.
Sfogliatella s. f. tipico piccolo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di semolino, ricotta,uova, canditi e spezie varie. Cominciamo col dire che ogni dolce à una sua storia. A volte faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata. La storia della sfogliatella appartiene fortunatamente alla prima categoria. La sfogliatella, dolce tipicamente partenopeo nacque (sia pure con un nome diverso) come spesso accadde per tanti dolci napoletani in un monastero: quello di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In quel riservato luogo ci si dedicava tantissimo alla preghiera, allo studio ed al lavoro manuale; il poco tempo libero residuo, (non potendo le monache intrattener rapporti con il mondo esterno…) veniva speso in cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il loro orto e la loro vigna, sí da ridurre al minimo i contatti con l’esterno, ed aumentare, con la preghiera, quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menu servito a refettorio era ovviamente uguale per tutte; soltanto le monache piú anziane potevano godere di un vitto speciale, fatto di semplici, ma nutrienti minestrine. Avvenne cosí che un giorno di tanto tempo fa (siamo nel 1600) la suora addetta alla cucina si accorse che in un tegame era avanzata un po’ di semola cotta nel latte, preparata per una vecchia suora sdentata; buttarla sarebbe stato un sacrilegio. Fu cosí che, come ispirata dal Cielo , la suora cuciniera vi cacciò dentro un uovo, un paio di cucchiai di ricotta, un po’ di frutta secca tritata , dello zucchero e del liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”, disse fra sé e sé. Ma da metter dentro a che cosa? La fantasia non le mancava e risolse súbito il problema: preparò con uova e farina due sfoglie di pasta vi aggiunse strutto e vino bianco, e vi sistemò nel mezzo il ripieno. Poi, per soddisfare il suo gusto estetico, sollevò un po’ la sfoglia superiore, le diede la forma di un cappuccio di monaco, ed infornò il tutto. A cottura ultimata, guarní il dolce con un cordone di crema pasticciera e delle amarene candite. La Madre Superiora, a cui per prima fu ammannito il dolce, sulle prime lo annusò , e súbito dopo (non si è Madri superiore indarno o per caso!...) fiutò l’affare; con quell’invenzione benedetta (e soprattutto saporita) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse del convento. La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce poteva esser messo nella classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci avessero messo (in entrata), qualche moneta. Al dolce venne assegnato ovviamente , il nome della Santa a cui era dedicato il convento: santa Rosa Come tutti i doni di Dio, la santarosa non poteva restare confinata in un sol luogo, per la gioia di pochi. Occorse del tempo, ma poi il dolce divenne noto in tutto il napoletano; in effetti la santarosa impiegò circa centocinquant’anni per percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui vi arrivò ai primi del 1800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro, nipote di una delle monache del convento amalfitano. I napoletani d’antan potrebbero opporre che Pintauro fu un pasticciere, e non un oste. Eppure al tempo di cui stiamo parlando, P.Pintauro era effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di fronte alla strada di Santa Brigida. La bottega di P.Pintauro rimase un’osteria fino al 1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso, probabilmente come grazioso dono della sua zia monaca che gliene parlò in articulo mortis, della ricetta originale della santarosa. Fu cosí che Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertí in un laboratorio dolciario, dove si produssero con le sfogliatelle anche altri dolci pare d’invenzione dello stesso Pintauro: zeppole di san Giuseppe, code d’aragoste ,babà con l’uvetta e naturalmente tutti gli altri dolci della tradizione partenopea, nati quasi tutti nei monasteri femminili napoletani e/o della provincia o copiati da quelli prodotti da altri famosi dolcieri come nel caso del diplomatico e del ministeriale . Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la modificò,semplificandola ed eliminando il cordone di crema pasticciera e l’amarena, e sopprimendo la protuberanza superiore a cappuccio di monaco. Era nata la sfogliatella. La sua varietà piú famosa, la cosiddetta “riccia”, mantiene da allora la sua forma triangolare, a conchiglia, vagamente rococò. Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli, con gran soddisfazione. Se si cerca l’eccellenza però, (e non è pubblicità!...)accanto alla bottega dei F.lli Attanasio al vico Ferrovia (che sull’insegna e la carta intestata scrive Napule tre ccose tene ‘e bbello: ‘o mare, ‘o Vesuvio e ‘e sfugliatelle bisogna cercare la bottega di Pintauro che è ancóra là a Toledo: à cambiato gestione, ma non à cambiato il nome e neppure l’insegna, e tanto meno la qualità. Che resta quella di quasi duecento anni or sono. Quanto all’etimo sfogliatella è un diminutivo (cfr. il suff. ella) di sfogliata derivato di sfoglia: strato di pasta all'uovo stesa e assottigliata col matterello: fare la sfoglia | pasta sfoglia:pasta dolce o salata, a base di burro o strutto e farina, che cuocendo si divide in strati leggeri.
Sfruculiare verbo tr. del napoletano, pervenuto poi nell’italiano,stranamentesenza
alcun adattamento (di solito i napoletanismi (cfr. antea scustumato→scostumato)mutano le chiuse u nelle piú aperte o ) nel significato di infastidire, punzecchiare,
stuzzicare. Illustro qui di seguito la piú famosa locuzione partenopea con il
verbo a margine:
Sfruculià
'a mazzarella 'e san Giuseppe
Ad
litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare,
infastidire, tediare qualcuno molestandolo
con continuità asfissiante, quasi sbreccandone dei pezzetti.
La
locuzione si riferisce ad un'espressione
che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un attento e severo servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto, durante il suo
soggiorno veneziano da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi,
come appartenuto al santo padre putativo di Gesù. Il settecentesco celeberrimo
tenore il 1° agosto del 1713 rientrò a Napoli da Venezia - dove
aveva trionfato a “La Fenice” - convinto di recare con
sé l’autentico bastone (la mazzarella) al quale San Giuseppe
si era sostenuto nell’accompagnare la Madonna alla Grotta di Betlemme e
che (stando almeno a quanto fa intendere Annibale Ruccello) si
favoleggiava fosse efficace strumento per scacciare il Maligno
dal corpo degli indemoniati. Espose
dunque nel salotto del suo palazzo il
bastone e vi pose a guardia un suo servitore veneto con il compito di rammentare ai visitatori di
non sottrarre, a mo' di sacre reliquie,
minuti pezzetti (frecule) della verga,
insomma di non sfregolarla o sfruculià. Come si intende il verbo a margine è
dunque un denominale che partendo dal s.
frecula (pezzettino) è approdato a sfruculià/sfreculià passando
attraverso una ex→s (intensiva)+ il lat. volg. *friculiare=sfregare dolcemente, ma insistentemente per il class. fricare.
Smammare v.
intr. [aus. avere] verbo attestato nell’italiano come voce regionale
e pertanto se ne sconsiglia (ma non se ne comprende il motivo) l’uso; i significati: togliersi di mezzo, andarsene, sloggiare, filare via,
abbandonare una posizione: vattene, smamma!; fiutato il pericolo, à
subito smammato. Originariamente il verbo
fu nel napoletano dove venne dapprima usato nel senso di svezzare e poi in
tutte le altre accezioni ricordate e forní quale derivato l’agg.vo e s.vo m.le
o f.le smammatore/tora=
propalatore/trice di fandonie, sciocchezze, bugiardo/a matricolato/a;
etimologicamente il verbo risulta un deriv.
di mamma nel sign. di 'mammella( mamma
deriva giustappunto dal lat. mamma(m) 'mammella, poppa' ), attraverso la prostesi di una s (per dis
o ex) distrattiva per indicare
appunto lo svezzare cioè il distaccare il neonato dai capezzoli materni ed
avviarlo ad altro tipo di alimentazione; semanticamente sia lo svezzare che gli
altri significati esaminati, contengono in sé l’idea dell’allontanamento, del
distacco; e dunque il passaggio da
svezzare ad andarsene, sloggiare, abbandonare una posizione, si può comodamente spiegare col fatto che come il neonato
svezzato ed avviato ad altro tipo di alimentazione, difficilmente torna ad
attaccarsi alle poppe materne, cosí chi decide
di andarsene, sloggiare,filare via,
abbandonare una posizione, difficilmente
ritornerà sui suoi passi; ugualmente semanticamente si spiegano i
significati di propalatore/trice di
fandonie, sciocchezze, bugiardo/a matricolato/a come di chi avendo generato
una/delle fandonia/e decida di svezzarla/le, mandandola/le in giro;
Smargiasso s.m.Anche
questa volta, con la voce a margine ci troviamo difronte ad un’altra parola, che
partita dal lessico partenopeo, è bellamente approdata in quello
nazionale dove è in uso nel suo
significato di gradasso, spaccone,millantatore, insomma soggetto chi si vanta a sproposito, sbruffone
che si attribuisce meriti di imprese grandiose o qualità eccezionali che
in realtà non possiede.
I medesimi significati di gradasso, spaccone,millantatore,
individuo chi si
vanta a sproposito, sbruffone si riferiscono allo smargiasso dei vocabolarî
del napoletano dove accanto alla voce
smargiasso, per indicare il gradasso, lo spaccone etc. si usano, sia detto per
incidens, volta a volta le voci: favone, grannezzuso, rodamunno,sbardellone, sbafante, ,
spacca-e-mmette-ô-sole,squarcione mentre come già dissi alibi, il
millantatore parolaio e saccente è
indicato con il termine spallettone.
Prima di esaminare le singole voci riportate, torniamo
all’assunto e cioè che la voce smargiasso sia voce originariamente
partenopea, poi trasmigrata nell’italiano. E dirò che, a mio avviso, l’origine
napoletana di smargiasso è dimostrata da due fatti:
1) morfologicamente
la parola è formata da un tema smargi con l’aggiunta di un suffisso
dispregiativo asso; tale suffisso,con base nel lat. aceus (cfr. Rohlf “Grammatica Storica della Lingua Italiana e dei
Suoi Dialetti”) è prettamente
meridionale- napoletano; in italiano lo
si ritrova nella forma accio o azzo; ragion per cui se la voce smargiasso
fosse stata originaria dell’ italiano
avremmo avuto probabilmente smargiaccio o smargiazzo non smargiasso quale
che sia - e lo vediamo súbito -
l’origine del tema su cui si è costruita la parola in epigrafe;
2) etimologicamente la voce smargiasso, scartata un’ipotesi che congettura una derivazione (a mio avviso molto tortuosa
e fantasiosa) dallo sp. majo
'spaccone', con protesi di una esse intensiva, epentesi di una erre (eufonica?)-
e con suff. peggiorativo, penso debba derivare o dall’aggettivo greco màrgos=protervo,
arrogante oppure dal verbo smaragízein
= risuonare, rimbombare. È pur vero che sia nel caso dell’aggettivo che in
quello del verbo manca l’intermedio del latino, ma ciò è tutta acqua al mulino
del mio assunto che cioè la parola smargiasso
sia d’origine partenopea; infatti se fosse esistito l’intermedio del latino
culla e madre della lingua italiana e di tutti gli altri linguaggi regionali...,
la parola sarebbe potuta nascere
in un punto qualsiasi dello stivale, ma generata direttamente dal greco (che, classico e/o bizantino, fu lingua parlata nella Magna Grecia dove
spesso si uní alle parlate locali) mi conferma nell’ipotesi che la parola smargiasso sia d’origine napoletana.
Ciò chiarito passiamo (esulando per un poco dal tema che mi
sono prefisso: NAPOLETANISMI E/O MERIDIONALISMI NELL’ITALIANO) ad esaminare brevemente sia le parole
dell’italiano, che quelle del napoletano
rese dalla voce che ci occupa.
gradasso: vanaglorioso,
chi si vanta di fare cose eccezionali, senza averne la capacità derivato
(piuttosto che dal lat. gradus, come
poco convincentemente propose qualcuno) per degradazione semantica dal nome
proprio di Gradasso, vanaglorioso personaggio dell'«Orlando
Innamorato» del Boiardo ((Scandiano, 1441 –† Reggio Emilia, 19 dicembre 1494) e dell'«Orlando
Furioso» dell'Ariosto (Reggio Emilia, 8 settembre 1474 –† Ferrara, 6 luglio 1533);
spaccone di significato simile al precedente; per l’etimo si
tratta di un evidente accrescitivo (cfr. suff. one) deverbale di spaccare: spezzare, dividere in piú parti; a sua volta spaccare è dal longob. *spahhan 'fendere';
millantatore il termine
indica chi in genere si vanti o vanti
qualità o meriti che non à ed etimologicamente è un deverbale di millantare
id est: accrescere millanta volte e quindi aggrandire esageratamente, vantarsi,
vanagloriarsi;
sbruffone che è chi
si attribuisce meriti di imprese grandiose o qualità eccezionali che
in realtà non possiede o chi racconti di imprese esagerate (peraltro false) menandone
vanto; etimologicamente sbruffone è un deverbale di sbruffare voce onomatopeica che indica
in primis l’emettere dalla bocca e/o dal naso spruzzi di liquidi fisiologici, come può accadere a
chi per vantarsi di imprese grandiose o
qualità eccezionali che in realtà non possiede, apra continuamente ed
esageratamente la bocca provocando quegli spruzzi;
favone è propriamente il
gran millantatore, vanesio chiacchierone oltre che saccente e supponente;
etimologicamente penso che, piú che al
latino fabulo/onis da un fabulari = raccontar sciocchezze, la parola possa
collegarsi al latino favonius che indicò un vento, come al vento si posson
appaiare le vuote parole emesse dal vanaglorioso, saccente favone;
grannezzuso che in primis è altezzoso,altero, e per estensione vanaglorioso, millantatore etc. l’etimo è dall’agg.vo granne ( lat. grande(m)→granne)attraverso il sost.vo grannezza;
grannezzuso che in primis è altezzoso,altero, e per estensione vanaglorioso, millantatore etc. l’etimo è dall’agg.vo granne ( lat. grande(m)→granne)attraverso il sost.vo grannezza;
rodamunno, chi si vanta
con arroganza di imprese straordinarie o
veramente affronta imprese rischiose, ma
solo per ostentare la propria forza e bravura; spaccone, smargiasso; per
quanto riguarda l’etimo la parola a margine è una sistemazione regionale, per
degradazione semantica di un nome
proprio e ciè di Rodomonte, personaggio dell'«Orlando Furioso» di L. Ariosto,
dotato di straordinaria forza e audacia;
sbafante, letteralmente vanitoso, vanaglorioso, aduso alla
spacconeria; l’etimo della parola è da ricercarsi in una serie onomatopeica ba... fa... da collegarsi
all’espirazione ed all’apertura di bocca di chi ecceda nel parlare per
vantarsi; alla serie ba,fa è premessa
una esse durativa ed aggiunto un suffisso ante che lascia
sospettare un participio presente d’uno *sbafare=vantarsi
e per amplimento semantico sfiatare,
sfogare;
sbardellone : esattamente il grande (si noti il suffisso
accrescitivo one) ridondante vanesio
ciarlatore, aduso ad eccedere i limiti, quasi ad esorbitare dal suo
alveo di competenze, in tutto in linea con il suo etimo che è un deverbale d’un bardellare = porre la
bardella (dal fr. bardelle =piccola sella) diventato sbardellare con la solita
protesi della esse che qui non è intensiva, ma distrattiva, per significare
proprio il debordamento delle ciarle dello sbardellone a margine;
spacca-e-mmette-ô-sole, letteralmente
vale spacca-e-pone-al-sole che indicherebbe di per sé l’azione di
quei contadini che raccolti i pomidoro li spaccano (aprono in due ) e li
pongono al sole perché si secchino; per traslato giocoso indica il
comportamento dello spaccone (cfr. antea);
squarcione letteralmente vale la voce precedente (spaccone) di cui mantiene il suffisso
accrescitivo one mentre cambia la
radice: lí spacca da spaccare, qui squarcia da squarcià di
significato simile a spaccare e con
etimo dal lat. volg. *ex-quarciare variante
di *ex-quartiare= dividere in quattro;
-
spallettone: eccoci a che fare con
l’altro termine che con il pregresso favone è usato in napoletano per indicare
il gran millantatore, il saccente, il supponente, il sopracciò,il gradasso
fastidioso, colui che anticamente fu definito mastrisso termine ironico
corruzione del latino magister ovvero colui che si ergeva a dotto e maestro, ma
non ne aveva né la cultura, nè il carisma necessarii; piú chiaramente dirò, per considerare le
sfumature che delineano il termine a margine , che vien definito spallettone
chi fa le viste d’essere onnisciente, capace di avere le soluzioni di tutti i
problemi, specialmente di quelli altrui , problemi che lo spallettone dice di
essere attrezzato per risolvere, naturalmente senza farsi mai coinvolgere in
prima persona, ma solo dispensando consigli ad iosa , che però non poggiano su
nessuna conclamata scienza o esperienza, ma son frutto della propria
saccenteria in forza della quale non v’è
campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone non sia
versato;l’economia nazionale? E lo spallettone sa come farla girare al meglio.
L’educazione dei figli altrui,mai dei propri!?, E lo spallettone, a
chiacchiere, sa come farne degli esseri commendevoli e, cosí via, non v’è cosa
che abbia segreti per lo spallettone che,specie quando non sia interpellato,si
propone tentando di imporre la propria presenza e dispensando ad iosa consigli
non richiesti che – il piú delle volte-
comporterebbero, se messi in pratica, in chi li riceve, un aggravio (senza
peraltro certezze di buoni risultati…) delle incombenze, del lavoro e
dell’impegno, aggravio che va da sé finisce per essere motivo di risentimento e
rabbia per il povero individuo fatto segno delle stupide e vacue chiacchiere
dello spallettone.
Per ciò che riguarda l’etimologia non vi sono certezze essendo il vocabolo completamente sconosciuto ai compilatori di vocabolarî del napoletano, adusi (al solito!) a pescare le parole negli scritti degli autori classici e, spesso, a tenere in non cale il vivo, corrente idioma popolare; non posso allora che proporre un’ipotesi, non supportata è vero da riscontri storico-letterarî, ma che mi pare sia estremamente perseguibile; eccovela: penso che, essendo il sostrato dello spallettone, la vuota chiacchiera, è semanticamente al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul verbo parlettià (ciarlare)con la classica prostesi della esse intensiva partenopea, l’assimilazione regressiva della erre alla elle successiva e l’aggiunta del suffisso accrescitivo one.
E qui circa il termine smargiasso penso di poter far punto, rimandando, per altre voci che avessi omesso, a ciò che alibi scrissi sotto il titolo Chiacchierone.
Per ciò che riguarda l’etimologia non vi sono certezze essendo il vocabolo completamente sconosciuto ai compilatori di vocabolarî del napoletano, adusi (al solito!) a pescare le parole negli scritti degli autori classici e, spesso, a tenere in non cale il vivo, corrente idioma popolare; non posso allora che proporre un’ipotesi, non supportata è vero da riscontri storico-letterarî, ma che mi pare sia estremamente perseguibile; eccovela: penso che, essendo il sostrato dello spallettone, la vuota chiacchiera, è semanticamente al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul verbo parlettià (ciarlare)con la classica prostesi della esse intensiva partenopea, l’assimilazione regressiva della erre alla elle successiva e l’aggiunta del suffisso accrescitivo one.
E qui circa il termine smargiasso penso di poter far punto, rimandando, per altre voci che avessi omesso, a ciò che alibi scrissi sotto il titolo Chiacchierone.
Sommozzatore s. m.
1 esperto nuotatore subacqueo
2 appartenente a corpi speciali dell'esercito, della marina, dei vigili del fuoco ecc. addestrato a eseguire lavori subacquei immergendosi con autorespiratore o in apnea.
2 appartenente a corpi speciali dell'esercito, della marina, dei vigili del fuoco ecc. addestrato a eseguire lavori subacquei immergendosi con autorespiratore o in apnea.
3 rammento che durante la seconda guerra mondiale, ebbe il nome di sommozzatore chi
faceva parte del personale volontario addestrato all’uso di mezzi d’assalto subacquei
Voce napoletana penetrata con il solito piccolo adattamento
morfologico(u→o) nell’italiano; etimologicamente si tratta di un deverbale di summuzzare/sommozzare
='tuffarsi', dal lat. volg. *subputeare 'sommergere, immergere',
comp. di sub 'sotto' e un deriv. di puteus 'pozzo'; tale
etimologia si fa preferire a quella pur morfologicamente ineccepibile del prof.
C. Iandolo che ipotizza un lat. volg. *submersare→summersare→summezzare→summuzzare→sommozzare=immergere,
in quanto i primi sommozzatori eseguivano
lavori di manutenzione proprio calandosi nei pozzi. È strano tuttavia che l’italiano abbia accolto la voce a
margine, ma non il verbo sommozzare da
cui essa deriva.
Tarallo s.m. s. Tarallo s.m. s.
biscotto a forma di ciambella tipico dell'Italia meridionale, dolce se condito
con zucchero e semi d'anice, rustico se condito con sugna e pepe o altro. DIM. taralletto,
tarallino, taralluccio. Trattasi chiaramente di un
meridionalismo, attese le regioni (tutte meridionali: Campania, Abruzzo,
Calabria e Puglia) dove vengono prodotti tali tipici biscotti. Voce penetrata
nel lessico dell’italiano vista la gran diffusione peninsulare ( per esportazione dalle regioni
produttrici) del prodotto che va sotto
il nome di tarallo. Quanto all’etimo della voce a margine non vi sono certezze
e si vaga nel campo delle ipotesi; tutti
i calepini a mia disposizione, a cominciare dal D.E.I. nicchiano o si rifugiano dietro il
solito pilatesco etimo
incerto;non so dire chi l’abbia formulata ma esiste un’ipotesi che riferirebbe
la voce tarallo al greco toros (= toroide); personalmente ipotizzo
il latino torus (= toro:
modanatura inferiore della colonna,cordone); semanticamente in ambedue i casi
ci si troverebbe nel giusto atteso che sia la forma del toroide che quella del
toro di colonna, richiamano quella del
tarallo, ma morfologicamente è alquanto complicato, tuttavia posto che in
linguistica non sono importanti gli adattamenti vocalici (o→a) è un po’ piú
complesso spiegare da dove salti fuori
quel suffisso allo a meno che (ed è questa la mia ipotesi!), a meno che
questo allo non sia un adattamento
locale di un originario suffisso diminutivo
ello←ellus prorio dei
sostantivi con tema in r;
oppure un adattamento metaplasmatico ed espressivo di un
originario suffisso diminutivo olo←olus;accettando
una delle due ipotesi si potrebbe ritenere il tar-allo un piccolo(per il suff.ello→allo
oppure olo→alo→allo) cordone (torus);
dopo lungo almanaccare, mi son fatto convinto di questa idea, quantunque neppure la grammatica del RHOLFS faccia
menzione di questi adattamenti di suffisso... In ogni caso, se si accettasse, per l’etimo di tarallo
la mia idea di tor-(us) + il suff.
ello→allo oppure olo→alo→allo
forse si potrebbe , indegnamente, dare scacco persino al D.E.I. che al proposito di tarallo elencò una sequenza di ipotesi
giudicandole tutte però improponibili o non perseguibili..., con la sola
eccezione, forse!, di una voce macedone:
dràmis = focaccia, voce che però il
curatore della lettera T (Giovanni Alessio) ipotizzò debba leggersi in modo
paleograficamente corretto dràllis. Stimo, e quanto! G. Alessio, ma
– nella fattispecie – penso che si fosse esibito in un doppio salto mortale
(senza rete), pericoloso esercizio in
cui, mancandomi forza e coraggio(lèggi: preparazione) non mi sento di seguirlo!
Ed in ogni caso il passaggio morfologico da dràllis
a tarallo d’acchito non si còglie!
Nell’accezione sub 1 è una preparazione tipicamente napoletana in uso tradizionalmente nel tempo pasquale, ricordando con la sua caratteristica forma a corona circolare, la corona di spine imposta a Cristo durante la sua passione; poiché però gli ingredienti di questa ricetta sono reperibili durante tutto l’anno e non solo nel tempo primaverile (tempo pasquale) nulla vieta che la si prepari in altre occasioni, come le festività natalizie: È sempre un asciolvere fantastico! Rammento che il primo sostanziale ingrediente del tòrtano napoletano è la sugna o strutto, componente che non può assolutamente essere sostituito con altri grassi (olio o burro); un napoletano che lo facesse ( come purtroppo ò visto fare da taluna inesperta massaia piú attenta ai falsi tabú del colesterolo e della linea, che ai dettami della sana tradizionale cucina partenopea...) incorrerebbe nella scomunica latae sententiae e meriterebbe di essere scacciato con abominio dalla comunità napoletana ! Ò compreso tra i napoletanismi/meridionalismi pervenuti nell’italiano anche la voce a margine, quantunque assente nei pricipali vocabolarî in uso (ma non manca nel D.E.I., che lo registra come napoletano tòrtano accanto all’abruzzese tòrtele ed al calabrese tòrtanu/a ), oltre per il riscontro or ora menzionato, anche per avere udito la parola sulla bocca di amici provenienti da ed originarî di regioni al di là dell’acqua santa (Garigliano); nell’italiano la voce a margine indica pure (tortano di pane) una particolare (ciambella a corona circolare) forma di pane comune del peso di ca un kg.; quanto all’etimo, la voce a margine è derivata dal lat.tort(ilis)tórto, ritórto addizionato del suff.di pertinenza atono ano←aneus.
Tortiera s.f. recipiente, spec. metallico e col bordo basso, per cuocere in forno le
torte: t. per
crostate, a cerniera, da savarin, di
ceramica, da microonde piú in generale:
teglia
tonda, per cuocere al forno torte o altre preparazioni dolci o salate. Si
tratta di un meridionalismo variamente
attestato ( nap. turtiéra, sic. turtèra, cal.tortèra, turtèra, tarantino turtièra)
pervenuto nell’italiano già a far tempo
dal XVII sec. Quanto all’etimo
c’è da scegliere: la voce a margine appare
derivata o dallo spagn. tortera=forma per pasticci o dal francese
tourtiere (XVI sec.); personalmente opto, stante la conservazione del dittongo
tonico ié, per la culla francese.
Vongola s.f.
(zool.) mollusco
lamellibranco che vive sui fondi sabbiosi o fangosi dei litorali dei mari
temperati, con conchiglia ovale bivalve (quella della vongola normale è di
colore grigio chiaro ed è finemente striata in bianco, quella della
vongola cosiddetta verace(fornita di un doppio sifone)è di colore quasi nero,
striata finemente in grigio chiaro; molte specie sono pescate per la
prelibatezza delle loro carni): zuppa di vongole; spaghetti alle
(con le) vongole; Si
tratta di un chiarissimo meridionalismo
variamente attestato (nap.vongola/vonghela,
barese: gonghela, foggiano e tarantino vonghela)
pervenuto nell’italiano già a far tempo
dal XVII sec.anche come góngola,cóngola
Quanto all’etimo c’è poco da scegliere: la voce a margine è certamente
di culla tardo-latina conchula diminutivo di concha=conchiglia. A
margine di tutto ciò ricordo qui che nel napoletano con la voce vongola/vonghela si intende non solo il mollusco di cui abbiamo
detto, ma si indica altresí una sciocchezza, uno strafalcione, una bestialità;
infatti con l’espressione partenopea Dicere
vongole, che à una variante in Dicere
scarole, sivuol significare: dire, profferire sciocchezze, parlare commettendo
strafalcioni logici e/o grammaticali; oggi piú semplicemente s'usa dire: Dicere fesserie (dire stupidate) ma tutte le espressioni ànno tutte la
medesima origine atteso che sia il richiamo ittico (vongole) sia quello
ortofrutticolo (scarole: altra voce, come ò riportato antea napoletana
trasmigrata nel toscano con derivazione dal latino scaríola da escarius=
commestibile) si riallacciano all'organo sessuale femminile(fessa)(da cui la napoletana fessaria= sciocchezza, stupidata,
donde la toscana fesseria di significato analogo)organo che un tempo fu
chiamato alternativamente vongola o scarola ed evito di spiegarne il motivo,
facilmente intuibile. In chiusura di questa voce faccio notare la solita
incomprensibile mutazione che opera il toscano trasformando una A etimologica
(da fessa: fessaria) per adottare una piú chiusa E (fessaria vien trasformata
in fesseria) nella sciocca convinzione che la vocale chiusa E
sia piú consona dell'aperta A alla elegante (?) lingua di Alighieri Dante.
Zeppola s.f.
frittella dolce di pasta choux o bignè; (gastron.)
Ciambelletta dolce tipica della cucina napoletana cotta in padella o nel forno,
guarnita di crema e confettura di amarene, tradizionale per la festa di san Giuseppe. 2.
(gastron.) Spec. al plur., nome di ciambelle e pasticcini di composizione
diversa .Anche in questo caso ci troviamo in presenza di un accertato
meridionalismo: la voce (registrata dal D.E.I. e numerosi altri vocabolarî
dell’italiano), è infatti variamente
attestata in area abruzzese,napoletana, calabrese e siciliana; si tratta perciò
d’un antico meridionalismo pervenuto nell’italiano (1536); quanto all’etimo,non
mi convince ciò che ritenne il prof. C.
Battisti, curatore della lettera Z del D.E.I., il quale Battisti
propose per zeppola una derivazione da zéppa =bietta, cuneo, (ma non mi pare
proprio che la ciambelletta/zeppola abbia la forma di un cuneo…) o una derivazione da zèppa= piena, gonfia (ma la ciambelletta/zeppola,
non è né piena, né molto gonfia, ma solo guarnita all’esterno di crema e
confettura; preferisco per l’intanto seguire l’idea
dell’amico prof.C. Jandolo che
propone il lat. sirpula (serpentello)
atteso che la forma della zeppola è
giustappunto quella d’un serpentello attorcigliato
su se stesso, quantuque a pag.1564 del Du Cange trovo registrata la voce
tardo-latina zippula nel
significato di focaccina schiacciata a
mo’ di lenticola. A margine e
completamento di tutto ciò rammento che nel napoletano accanto alla voce
zeppola usata per indicare il dolce di pasta choux o bigné esiste anche una
sorta di diminutivo: zeppulella usato per indicare una sorta di frittella
salata di semplice pasta lievitata, fritta in olio bollente e profondo. Non mi
riesco proprio a spiegare il motivo del nome zeppolella (piccola zeppola)
assegnato alla frittellina salata, atteso
che la forma della zeppola come detto
è
quella d’una ciambelletta o d’un
serpentello aottorcigliato su se stesso, mentre la zeppulella, che a mio avviso è piú corretto chiamare
semplicemente pastacrisciuta, à forma
irregolarmente sferica.
Ed
a questo punto mi pare di poter mettere un punto fermo, non sovvenendomi
d’altri napoletanismi e/o meridionalismi pervenuti nell’italiano. Satis est.
Raffaele
Bracale 2/12/2008
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