S’’O PPENZA CCHIÚ ISSO CA ‘O GGRANO D’’A CARASTÍA
Accontento qui di
seguito o m’auguro di farlo l’amico B.Z. (al solito, motivi di riservatezza mi
impongono di riportar solo le iniziali
di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) che mi à chiesto di
mettere a fuoco portata, significato e valenza dell’ antica espressione in epigrafe, molto usata un
tempo e che ancóra si può cogliere sulle labbra dei napoletani d’antan.
Comincio col dire che
l’espressione ad litteram si rende con: Si loda, si insuperbisce, si vanta [dei
suoi meriti e della sua importanza]piú lui che [non]il grano [coltivato e
raccolto] in tempo di carestia ed è espressione riferita a dileggio di soggetto
tanto superbo, presuntuoso, arrogante, altezzoso, orgoglioso, immodesto,
borioso e pieno di sé da gloriarsi dei propri meriti, veri o supposti, piú di
quanto si glorierebbe il grano ipoteticamente coltivato e mietuto in tempo di
carestia quando notoriamente si verifica
mancanza o grave insufficienza di derrate alimentari, in seguito a cause
naturali (maltempo, epidemie), o guerre, crisi economiche, ecc. La voce
napoletana carastía [etimologicamente
dal lat. mediev. caristìa,è un derivato di *carestum, part. pass. di carere «mancare»]
vale l’italiano carenza, scarsità, penuria, mancanza, scarsezza, povertà, miseria,
indigenza, ristrettezza,. E qui giunto mi fermo convinto d’avere
esaurito l’argomento, d’aver
adeguatamente risposto all’amico B.Z. e
spero d’avere altresí interessato i miei
consueti ventiquattro lettori.
Satis est. R.Bracale
Brak
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