IL DOLCE TIPICO DI CARNEVALE
Questo dolce tipico del periodo di Carnevale, comunissimo in tutta l’Italia,
quale che sia il nome regionale che prenda à una sola antichissima tradizione
che risale agli antichi romani ed alle loro FRICTILIA: dolci di farina di
frumento o mais, fritti nel grasso di maiale e conditi con il miele, che
nell'antica Roma venivano preparati intorno al 500 a.C. quando dall'1 al 15
febbraio si celebravano a Roma i Lupercali feste purificatorie in onore di
Pan/Luperco;questi dolci venivano prodotti in gran quantità poiché dovevano
durare per un lungo periodo, almeno fino alle Liberalia, le feste delle
divinità dispensatrici del 'vino e del grano nel giorno del 17 marzo. In onore
di Sileno, compagno di bagordi e precettore di Bacco, si bevevano fiumi di vino
addizionato di miele e spezie e si friggevano profumate frittelle di frumento;
Si tratta di dolci, poco lievitati, molto friabili, ma croccanti che,
tradizionalmente vengono fritti, oggi però anche (dieteticamente…, ma
scioccamente) cotti al forno ed infine cosparsi di zucchero al velo.
Attualmente sono preparazioni tipiche del periodo di Carnevale e vengon
chiamate con nomi diversi a seconda delle regioni di provenienza: chiacchiere e
lattughe in Lombardia, cenci e donzelle in Toscana, frappe nel Lazio, sfrappole
o lasagne in Emilia, cròstoli in Trentino, galani o gale in Veneto, bugíe o
rosoni in Piemonte, pampuglie(nelle Puglie e talora Campania), lengue d’ ‘a
socra (a Napoli ed in Campania). Ne do súbito la ricetta ed in coda tratterò
ove sia possibile l’etimo e la semantica dei varî nomi.
Eccone per ora la ricetta(riporto quella napoletana, comunque affine a quelle
delle altre regioni :
Ingredienti
600 gr farina,
100 gr. zucchero,
50 gr. di strutto,
4 uova,
1 bicchiere vino bianco secco,
1 tazzina di anice,
abbondante zucchero al velo,
½ bustina di lievito per dolci,
sale fino q.s.,
abbondante olio x friggere.
Preparazione
Mischiare su una spianatoia dandole una forma a fontana la farina, lo zucchero,
il lievito ed un pizzico di sale; rompervi le uova, unire lo strutto, il vino ed il liquore.
Impastare bene finché non si ottienga una pasta soda e compatta. Farla
riposare, coperta da un canevaccio, per 30 minuti, indi stenderla col
matterello allo spessore di circa 3 mm, poi tagliare la sfoglia con una rotella
ondulata in strisce di cm. 7 x 2. Mandare a temperatura abbondante olio per
frittura in una tegame alto e profondo e friggervi velocemente le strisce di
pasta . Appena dorate scolarle ed adagiarle su dei fogli di carta assorbente;
servirle tiepide o fredde su di un piatto di portata cosparse abbondantemente
di zucchero al velo.
Giunti a questo punto esamino etimo e semantica dei varî nomi con i quali il
doce viene chiamato nelle differenti regioni; premesso che quasi tutti (se non
tutti) i nomi fanno riferimento alla forma a nastrino del dolce, dirò che il
dolce à il nome di
1)chiacchiere e lattughe in Lombardia; semanticamente il primo nome chiacchiere
si spiega con un percorso da sineddoche; il dolce à una forma di striscia che
richiama una lingua quella con la quale si articolano le chiacchiere (voce
onomatopeica deverbale di chiacchierare) che di per sé indicano le
conversazioni su argomenti di poca importanza; discorsi inutili, futili; dalla
lingua richiamata dalla forma del nastro di pasta, si perviene per metinomia o
sineddoche alla chiacchiera nome con cui è noto in Lombardia ed anche altrove
il dolce di cui parliamo; ugualmente sempre riferendosi alla forma lunga e
dentellata del nastro di pasta si giunge al nome di lattuga/ghe pianta erbacea
coltivata negli orti, le cui foglie tenere si mangiano in insalata; détte
foglie sono spesso appunto strette, lunghe e dentellate; di per sé il termine
lattuga è dal lat. lactuca(m), deriv. di lac lactis 'latte', per il liquido lattiginoso
che secerne; ricordo che con il nome di lattuga si indica altresí la gala di
merletto o di tela inamidata e increspata, che gli uomini portavano per
ornamento sul davanti delle camicie, la gorgiera; la forma del dolce in esame
può richiamare oltre che le foglie della lattuga le medesime gale di merletto o
di tela inamidata e increspata; non per niente infatti, tenendo presente détta
forma richiamante le gale di merletto o di tela inamidata e increspata, nel
Veneto il dolce prende per l’appunto il nome di
2)gale o galani (gala s. f. striscia increspata di trina o di stoffa; nastro o
fiocco che si mette per ornamento dallo sp. gala 'guarnizione di vestiti';
mentre galano/i è dal fr. galan di significato analogo allo spagnolo gala;
3)cenci e donzelle in Toscana; sempe in riferimento alla forma del dolce in
esame che può richiamare oltre che le foglie della lattuga, anche le gale di
merletto o di tela inamidata e increspata; va da sé che quando le originarie
trine di merletto o tela inamidata non fossero perfettamente stirate o
inamidate potevano apparire piú degli stracci che degli ornamenti, da ciò ne
derivò che nel salace linguaggio popolare dei toscani la gala divenisse
cencio(dal lat. centiu(m)= centone, brandello, pezzo di stoffa vecchio e logoro;
in partic., quello usatoperlepuliziedomestiche;mentre è da ricercarsi in una
metinomia la semantica del termine donzella/e (dal provenz. donsela, che è dal
lat. dom(i)nicella(m), dim. di domina 'padrona') essendo queste ultime solite
ornarsi di gale e merletti.
4)frappe nel Lazio; il termine frappa fa sempre riferimento alla forma a nastro
del dolce; infatti frappa è un s.vo f.le che indica (quale deverbale del fr.
frapper)
1 striscia di stoffa increspata e smerlata, posta per guarnizione ad abiti,
tende ecc.
2 la smerlatura delle foglie scolpite o dipinte; la raffigurazione del fogliame
in arte
3 spec. pl. nell'Italia centrale, dolce a forma di nastro, fritto e spolverato
di zucchero, tipico del periodo di carnevale; altrove chiamato chiacchiere,
cenci ecc.
5)sfrappole o lasagne in Emilia; anche in questa regione il nome con cui è
indicato il dolce fa riferimento alla sua forma a nastro di talché si ottengono
i due nomi a margine: sfrappole ( marcato etimologicamente sul precedente
frappe con l’aggiunta d’un prefisso intensivo (s) ed un suffisso ipocoristico
(ole); e lasagne (s. f. che di per sé, con derivazione dal lat. volg.
*lasania(m), deriv. del class. lasanum 'pentola', che è dal gr. lásana, pl.,
'tripode da cucina', indica in primis
1 spec. pl. sfoglia all'uovo tagliata in larghe strisce: (pasticcio di) lasagne
al forno, piatto tipico emiliano fatto con lasagne a strati, ragù e
besciamella; lasagne verdi, contenenti spinaci.
2 (ant.) strato di cera che rivestiva all'interno le forme di gesso entro cui
si facevano i getti in bronzo.
3 spec. pl. nelle Romagne, dolce a forma di nastro, fritto e spolverato di
zucchero, tipico del periodo di carnevale; altrove chiamato chiacchiere, cenci
ecc.
6)cròstoli in Trentino; qui il nome oltre a far riferimento alla forma a nastro
del dolce richiama la sua consistenza, la sua friabilità e croccantezza
rappresentate dal lat. crustulu(m)donde crostolo/i;
7)bugíe o rosoni in Piemonte, anche qui il nome usato fa riferimento alla forma
a nastro del dolce, ma sottolinea il fatto che il nastro deve risultare alla
fine avvolto concentricamente a mo’ di rosone o di piattello della bugia;
rosone/i s. m. (arch.) ( accrescitivo di rosa)
1 nelle chiese romaniche e gotiche, grande finestra circolare posta al centro
della facciata sopra la porta principale
2 elemento decorativo a forma di rosa.
3 spec. pl. nel Piemonte, dolce a forma di nastro avvolto a spirale
concentrica, fritto e spolverato di zucchero, tipico del periodo di carnevale;
altrove chiamato chiacchiere, cenci ecc.
Bugía/e bugía (di cui bugíe è il plurale) =1) altrove bugia, menzogna, nel
significato di menzogna è parola derivante dal provenzale bauzía che è dal
francone bausi = menzogna, malignità; ma qui nel caso che ci occupa
2) piattello ansato per ragger le candele;nel senso di piattello ansato per
regger candele deriva dal nome della città algerina Bugiaya dove si producevano
tali piattelli e da dove, pare, s’importasse la cera per produrre le candele;
3) spec. pl. nel Piemonte, dolce a forma di nastro avvolto a spirale
concentrica, fritto e spolverato di zucchero, tipico del periodo di carnevale;
altrove chiamato chiacchiere, cenci ecc.
8)pampuglie(Puglie e talvolta Campania); anche nel caso della voce a margine,
d’àmbito pugliese si fa sempre in riferimento alla forma a nastro del dolce, ma
questa volta il nastro preso a modello non è una gala, una trina o una frappa,
è invece molto piú prosasticamente la pampuglia che nel significato primo sta
per piallatura,truciolo del legname ed estensivamente: inezia, cosa da nulla,
bagatella, frivolezza e persino, come estrema valenza, come nel caso che ci
occupa, quel tipo di dolce nastriforme carnascialesco altrove detto
chiacchiera, bugia, frappa etc.
Prima di passare a dire dell’etimologia di pampuglia, voglio rammentare come
esso termine nel precipuo significato di truciolo, piallatura à nell’idioma
napoletano, sempre abbastanza attento, preciso e circostanziato, degli
specificativi diversi secondo la forma o provenienza dei trucioli; abbiamo
dunque: -pampuglia riccia quella a spirale da legno dolce, -pampuglia ‘e
chianuzzella quella strettamente arrotolata, prodotta non dalla pialla grande,
ma da una pialla piú stretta e piccola detta in napoletano chianuzzella che è
il diminutivo di chianozza che è dal latino: planula attrezzo per render piano,
privandolo delle asperità, un asse di legno, - pampuglia ‘e
‘ntraverzatura(deverbale del verbo ‘ntraverzà= attraversare, andando contro il
primitivo senso di marcia) che è il truciolo, per solito di legni piú duri, ottenuti
per piallatura operata controfilo che produce perciò trucioli irregolari e
frammentati.
E soffermiamoci sull’etimologia di pampuglia, etimologia non tranquillissima;
un tempo si congetturò un neutro plurale tardo latino fabulía = favuli, gambi
delle fave, che dopo la raccolta venivano estirpati, adeguatamente seccati ed
usati per alimentare, tal quali le pampuglie lignee, i forni domestici; la
seconda ipotesi, che a mio avviso mi pare un po’ piú percorribile si rifà ad un
latino regionale: pampulia forgiata su un pampus forma sincopata di pampinus
che è propriamente il pampino: tralcio di vite vestito di foglie, tralcio che
se improduttivo viene resecato e destinato al fuoco. Da quanto ò détto è
semplice dedurre che il nome usato nelle Puglie e talora in Campania per
significare il dolce nastriforme carnascialesco, faccia riferimento alle
piallature, ai trucioli, per solito di legni piú duri, ottenuti per piallatura
operata controfilo che produce perciò trucioli irregolari e frammentati;
richiami cioé la pampuglia ‘e ‘ntraverzatura.
9)lengue d’ ‘a socra ( Napoli e/o Campania): letteralmente lingue della
suocera. Ò lasciato volutamente in coda il nome che in Campania, temporibus
illis con il sarcasmo tipico dei partenopei significativamente alternandolo al
nome pampuglie si indicò il dolce détto, ormai anche a Napoli…, chiacchiere,
bugie, frappe; il nome a margine un tempo usato a Napoli e nel napoletano,
ripeto in alternativa a pampuglie fa riferimento al fatto che il dolce à una
forma di striscia che può richiamare la forma una lunga lingua dai bordi
frastagliati, lingua che potrebbe essere quella maldicente(per la lunghezza) e
pungente (per la frastagliatura) d’una suocera;
lengue s.vo f.le pl. di lengua = lingua, organo mobile della bocca, che compie
i movimenti necessari alla masticazione, alla deglutizione ed all'articolazione
della voce; con etimo sia per l’italiano che per il napoletano dal latino
lingua(m)
socra s.vo f.le = suocera,in italiano la madre del marito o della moglie,
rispetto all'altro coniuge; per il napoletano il fatto è un po’ diverso e lo
chiarisco qui di séguito la voce napoletana socra è dal lat. class.
*socra(m)←socru(m) ed è usata per indicare segnatamente la madre dello sposo
per cui una donna per parlare della mamma del suo sposo dirà sòcrema (id est:
la mia socra), mentre uno sposo per indicare la mamma della sposa dirà gnórema
( id est la mia gnora) dove ‘gnora sta per (si)gnora;
Nel parlato comune infatti si è cercato di dare il nome di mamma anche alla
suocera, ma come dicevo, il napoletano è molto piú attento dell'italiano a
talune sottigliezze emozionali per cui posto che – specialmente per il maschio
napoletano - l'unica donna cui compete o possa competere il titolo di mamma è
la propria genitrice diretta, ecco che il napoletano per significare la mamma
della sua sposa ricorre al meno impegnativo e piú asettico si-gnora. Da tutto
ciò se ne ricava che l’espressione ‘e llengue d’ ‘a socra fu coniato da una
donna con riferimento alla lingua maldicente e pungente della mamma di suo
marito; l’avesse coniata un uomo l’espressione con ogni probabilità sarebbe
stata ‘e llengue d’ ‘a ‘gnora con riferimento alla lingua maldicente e pungente
della mamma di sua moglie!
Satis est.
Raffaele Bracale
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