sabato 31 luglio 2021

IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA 5

 IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA 5

35- Paré 'nu sórece 'nfuso 'a ll' uoglio

Letteralmente: Sembrare un topo bagnato (id est: unto) dall’olio. Cosí, con icastica rappresentazione ci si riferisce a chi abbia il capo abbondantemente impomatato, lustro ed eccessivamente profumato, tanto da poter essere appaiato ad un sorcio che introdottosi in un contenitore d’olio, ne emerga completamente unto e luccicante; rammento che  altrove l’uomo che appaia  cosí tanto  pettinato, lustro  ed impomatato vien bollato con l’aggettivo  alliffato (unto, impomatato, imbellettato) che è etimologicamente dal greco aléiphar = unguento, pomata e per estensione belletto;

sórece s.vo m.le = topino domestico, sorcio, dal lat. sorice(m);

 'nfuso = bagnato, intriso, inzuppato e qui unto voce verb. part. pass. aggettivato dell’infinito ‘nfonnere =bagnare, aspergere,intridere etc. voce dal lat. in→’n+fúndere con la consueta assimilazione nd→nn;

uoglio s.vo neutro = olio; voce dal lat. oleu(m) dal greco élaion; dal lat. class. oleu(m) derivò il lat. volg.   ŏlju(m) donde uoglio con tipica dittongazione della ŏ→uo e passaggio del gruppo lj a gli come per familia→familja→famiglia – filia→filja→figlia;

rammento in coda all’esame dell’espressione che talora i napoletani meno esperti la usano anche in riferimento a chi, vittima d’un improvviso acquazzone, a cui non sia sfuggito,  risulti del tutto inzuppato ed intriso d’acqua; per la verità si tratta di un riferimento improprio: i napoletani d’antan ed amanti della propria cultura sanno che in caso di acquazzone il paragone da farsi e che meglio regge non è con un topo, ma con un polpo: cfr. farse/paré comme a ‘nu purpetiello   id est: Bagnarsi fino alle ossa come un piccolo polpo tirato su grondante d'acqua.

36-  Paré 'o diavulo e ll'acquasanta

Ad litteram: Sembrare il diavolo e l’acqua lustrale. Détto  in riferimento a due individui l’uno (quello adombrato quale acquasanta) d’indole onesta, giusta, virtuosa, dabbene e  proba, l’altro (inteso diavolo) d’indole cattiva se non pessima, malvagia, perfida, maligna,empia, crudele, sadica, turpe, spietata etc.,   di caratteri cioè cosí tanto contrastanti da essere addirittura antitetici ed incompatibili tali da risultare in perenne contrasto attesa la incociliabilità dei rispettivi intendimenti operativi ed i conseguenziali modi di agire.

 

 diavulo s.vo m.le = diavolo, demonio, spirito del male, nemico di Dio e degli uomini, personificato in Satana, principe delle tenebre, identificato anche con Lucifero, capo degli angeli ribelli, variamente rappresentato in figura umana con corna, coda e talvolta ali. è voce che viene da un tardo latino diabōlu(m)→diavulo, dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabállein 'disunire, mettere male, calunniare'

acquasanta s. f. acqua benedetta per uso liturgico, acqua lustrale, purificatoria; la voce è formata agglutinando il s.vo acqua (dal lat. aqua(m)) con l’agg.vo santa (dal lat. sancta(m), propr. part. pass.f.le di sancire 'sancire').

37- Paré Pascale passaguaje.

Letteralmente: sembrare Pasquale passaguai.

Cosí sarcasticamente viene appellato chi si vada reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui in continuazione rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti. Il Pasquale richiamato nella locuzione  fu un tal Pasquale Barilotto lamentoso personaggio di farse pulcinelleche del teatro di Antonio Petito ((Napoli, 22 giugno 1822 –† 24 marzo 1876). 

passaguaje neologismo in forma d’agg.vo per significare poveretto, poveruomo, povero diavolo, malaugurato, infausto, sfortunato, sciagurato, formato agglutinando il so.vo pl. guaje (guai, sventure, avversità, traversie, incidenti; difficoltà, preoccupazioni, grattacapi; voce dal germ.*wai ) con, in posizione protetica, la voce verbale passa (3 pers. sg. ind. pres. dell’infinito passare/à = muoversi, transitare, ma qui subire, sopportare il passaggio di (dal lat. volg. *passare, deriv. di passus 'passo').  

38 – Paré ‘o càntaro ‘mmiez’â cchiesia.

Letteralmente : Sembrare il pitale (posto) nel mezzo della chiesa.Id est : sembrare, ma piú icasticamente, essere qualcosa di incongruo messo in un contesto,  un quadro, un insieme,una  situazione che  naturalmente gli siano estranei.Icastica espressione usata a dileggio di qualcosa o piú spesso di qualcuno entrati a far parte  di una condizione, posizione,circostanza, contingenza, di per sé  non inerente alla  destinazione di quel  qualcosa o alle capacità del qualcuno ; piú chiaramente un pitale, aggeggio da usarsi quale  vaso di comodo, non potrebbe essere adoperato nel bel mezzo di una navata di chiesa, contesto che gli è estraneo ; cosí ad esempio un pesante soprabito in pelliccia usato nei mesi estivi durante una passeggiata sul lungomare sarebbe inadatto ed incongruo, finendo per l’appunto per esser   paragonabile ad càntaro posto nel mezzo di una chiesa ; alla medesima stregua, sempre ad esempio,qualcuno che si intestardisse a voler praticare uno sport, o un’attività artistica  per i quali non sia tagliato e/o non ne conosca le regole     potrebbe ben dirsi che appaia un vaso di comodo adoperato nel bel mezzo di una navata di chiesa.

càntaro o càntero alto e vasto vaso cilindrico  dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere,  vaso di comodo atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con l’altra voce partenopea

cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un  quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia (ca 27 grammi) nel culo (e non occorre spiegare cosa rappresenti  l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!

Rimando alibi sub càntaro/càntero. per  esaminare altre  due icastiche frasi e due duri insulti che chiamano in causa il càntaro/càntero.

‘mmiez’â  locuzione prepositiva di luogo = in mezzo alla, nel mezzo della formata con la preposizione in→’n→’m

per assimilazione regressiva,dal s.vo m.le miezo (mezzo) dal lat. medium e dalla preposizione articolata f.le alla nella forma di crasi â come altrove ô vale al/allo  ed ê  vale alle oppure a gli (ess. ‘mmiez’ô = in mezzo al/allo  e   ‘mmiez’ê = in mezzo alle/a gli);

cchiesia/cchiesa s.vo f.le  1chiesa, luogo di culto,  edificio sacro in cui si svolgono pubblicamente gli atti di culto delle religioni cristiane

2 comunità di fedeli che professano una delle confessioni cristiane,

3 per antonomasia, la chiesa cristiana cattolica;

voce dal lat. (e)cclesia(m)→cchiesia e talora, ma meno spesso chiesa.

      

E veniamo infine alle espressioni nelle quali il verbo paré non appare all’infinito  ma coniugato impersonalmente alla 3ª p. sg. dell’ind. presente ; illustro cioè le espressioni :

39- Pare brutto!

Letteralmente : Sembra brutto ! nel senso di Sta male !,è  scorretto ! o quanto meno, può apparire tale. Espressione del piú vieto conformismo  usata per ammantare di un perbenismo di maniera ed epidermico il consiglio fornito nei riguardi di taluni  comportamenti  che si raccomanda di  non tenére, non perché ritenuti veramente errati o esecrabili,  ma solo perché ipocritamente pensati  riprovevoli a gli occhi del mondo.

brutto agg.vo m.le agg.

 si dice di persona, animale o cosa di aspetto sgradevole, o che comunque produce un'analoga impressione;

2 cattivo, riprovevole, sconcio (detto di cosa): brutta abitudine; brutte parole;

3 sfavorevole, negativo: arrivare in un brutto momento; prendere un brutto voto; fare una brutta figura | grave, doloroso: una brutta malattia; una brutta notizia

4 che reca danno o molestia; che produce un effetto negativo

5 errato, scorretto,  sleale, disonesto, scortese

Voce dal  lat. brutu(m) 'bruto', con raddoppiamento consonantico espressivo.

40- Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.

Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso (giacché tu non ài nè la forza, nè la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle.). La frase viene usata a  sarcastico commento delle azioni iniziate da qualcuno  ritenutotanto   inetto al punto da non poter portare mai  al termine ciò che intraprende.Sovente l’espressione è pronunciata preceduta da un esclamatorio Ahé! Ad litteram:sembra che adesso ti vedrò vestito da orso Locuzione garbatamente  ironica da intendersi in senso antifrastico, id est: Mai ti vedrò vestito da orso!;   si tratta di una locuzione usata  a mo' di canzonatura  davanti alle risibili imprese dei saccenti, boriosi e  supponenti che si imbarchino (privi come sono  delle necessarie forze fisiche e/o capacità intellettive), in avventure ben superiori alle  loro scarse possibilità; va da sé che  a causa della penuria di forze e/o capacità  le imprese in cui s’avventurano son destinate a fallire miseramente; il nascosto protagonista della locuzione fa le viste di  disporsi  a catturare un orso per vestirsene della pelle, ma sciocco, presuntuoso  ed incapace qual è  non vi potrà mai riuscire, per cui  facilmente  è dato preconizzare che mai lo si potrà vedere vestito da orso e canzonarlo dicendogli l’espressione in esame; va da sé che  l’orso e la sua cattura son solo un icastico esempio d’ogni altra impresa intrapresa e non realizzabile  per pochezza di forze, mezzi e/o capacità.

ca  cong. o ca/che pronome relativo  che;  

come congiunzione che corrisponde all’italiano che

1) introduce prop. dichiarative (soggettive e oggettive) con il v. all’ind. o talvolta al congiunt..: se dice ca è partuto; fosse ora ca te   decidisse; nun penzo ca chillo vene; te dico ca nun è overo; è inutile ca tu liegge chillu cartello, manco ‘o capisce... | può essere omesso quando il v. è al congiunt.: spero fosse accussí | con valore enfatico: nun è ca sta  malato, pe ccerto è assaje stanco; è ca ‘e juorne  nun passano maje!; forze ca nun ‘o sapive?

2) introduce prop. consecutive, con il v. all'indic. o al congiunt. (spesso in correlazione con accussí, tanto, talmente, tale ecc.): cammina ca pare ‘nu ‘mbriaco; parla pe mmodo ca te putesse capí;  era talmente emozzionato ca nun riusciva a pparlà; stevo accussí stanco ca m’addurmette súbbeto; | entra nella formazione di  locuzioni, come ô punto ca, pe mmodo ca etc : continuaje a bevere pe mmodo ca se ‘mbriacaje;

3) introduce prop. causali con il v. all'indic. o al congiunt.: cummògliate ca fa friddo; nun è ca m’’a vulesse scapputtà

4) introduce prop. finali con il v. all’indicativo o al  congiunt.: fa' ca tutto prucede bbuono! ; se stevano accorte ca nun se facesse male;

5) introduce prop. temporali con il v. all'indic., nelle quali à valore di quando, da quando: te ‘ncuntraje ca era ggià miezojuorno; aspetto ca isso parte; sarranno dduje mesi ca nun ‘o veco | entra nella formazione di numerose loc. cong., come ‘na volta ca, doppo ca, primma ca, ògne vvota ca, d’’o juorno ca,: ll’hê ‘a  farlo, primma ca è  troppo tarde; ògne vvota ca ‘a ‘ncontro me saluta sempe;

6) introduce prop. comparative: tutto è fernuto primma ca nun  sperasse

7) introduce prop. condizionali con il v. al congiunt., in loc. come posto ca,datosi ca,   ‘ncaso ca, a ppatto ca, nell'ipotesi ca ecc.: posto ca avesse tutte ‘e ragioni, nun s’aveva ‘acumportarse comme à fatto!; t’’o ffaccio,   ‘ncaso ca t’’o mierete;datosi ca hê ‘a partí, te ‘mpresto ‘sta balicia;

8) introduce prop. eccettuative (in espressioni negative, correlata con ato, ati, ‘e n’ata manera, per lo piú sottintesi): non fa (ato) ca dicere fessaríe ; nun aggio potuto (altro) ca dicere ‘e sí!; nun putarria cumpurtarme (‘e n’ata manera) ca accussí  | entra a far parte delle loc. cong. tranne ca, salvo ca, a meno ca, senza ca: tutto faciarria o facesse, tranne ca darle raggione; vengo  a truvarte, a meno ca tu nun staje ggià ‘nampagna; è partuto  senza ca nesciuno ne fosse ‘nfurmato;

9) introduce prop. imperative e ottative con il v. al congiunt.: ca nisciuno trasesse!; ca ‘o Cielo t’aonna! Dio ; ca ‘stu sparpetuo fernesse ampressa;

10) introduce prop. limitative con il v. al congiunt., con il valore di 'per quanto':  ca i’ sapesse non à telefonato nisciuno;

11) con valore coordinativo in espressioni correlative sia ca... sia ca; o ca... o ca: sia ca te piace  sia ca nun te piace,stasera avimm’’a ascí ;i’ parto oca chiove o ca nun chiove...;

12) introduce il secondo termine di paragone nei comparativi di maggioranza e di minoranza, in alternativa a di (‘e) (ma è obbligatorio quando il paragone si fa tra due agg., tra due part., tra due inf., tra due s. o pron. preceduti da prep.): Firenze è meno antica ca (o ‘e) Roma; sto’ cchiú arrepusato oje ca (o ‘e) ajere;tu sî cchiú sturiuso ca ‘nteliggente;; è cchiú difficile fà ca  dicere;  à scritto meglio dinto a ‘sta lettera ca dinto a cchella d’’o mese passato | (fam.) in correlazione con tanto, in luogo di quanto, nei comparativi di eguaglianza: la cosa riguarda tanto a  mme ca a vvuje  | in espressioni che ànno valore di superl.: songo cchiú ca certo; songo cchiú ccerto ca  maje;

13) entra nella formazione di numerose cong. composte e loc. congiuntive: affinché, benché, cosicché, perché, poiché; sempe ca, in quanto ca, nonostante ca, pe mmodo ca e sim.

Circa l’etimo di questa congiunzione  qualcuno ipotizza, ma poco convincentemente,  un’aferesi di (poc)ca=poiche  mentre mi appare piú corretto l’etimo dal   lat. quia→q(ui)a→qa→ca; oltretutto se il ca  congiunzione fosse derivata da un’aferesi (poc)ca  sarebbe stata  buona norma scrivere il ca congiunzione con un segno d’aferesi ‘ca  che distinguesse anche visivamente  il ‘ca congiunzione dal ca pronome!Ma i fatti, fortunatamente, non stanno cosí!  

Per il pronome ca  mi limito a ricordare che corrisponde al  che pron. rel. invar.  corrispondente all’italiano che, ma in napoletano è spesso usato nella forma ca

1) il quale, la quale, i quali, le quali (si riferisce sia a persona sia a cosa, e si usa normalmente nei casi diretti): chillu signore ca/ch’ è trasuto mo  è ‘o direttore; ‘e perzone ca tu hê visto, so’ perzone meje; ‘o ggiurnale ca/che staje liggenno è chillo d’ajere

2)  talvolta è usato come compl. indiretto, con o senza prep.) soprattutto  nel linguaggio pop., spec. col valore di in cui (temporale e locale):’a staggiona ca/che ce simmo ‘ncuntrate; paese ca vaje/ che vvaje ausanze ca truove; piú fortemente popolare o dialettale in funzione di altri compl.: è cchesta ‘a carne ca ('con cui') se fa ‘o broro | in altre espressioni dell'uso comune è usato solo nella forma che : (nun) tene ‘e che s’ allamentà, (non)  à motivo di lamentarsi; (nun) tene ‘e  che vivere, (non) à risorse economiche; | nun c'è che ddicere, nulla da eccepire,espressione di consenso

3)  la quale cosa (con valore neutro, preceduto dall'art. o da una prep.)anche in questo caso si usa sempre il che : te sî  miso a sturià, ‘o cche te fa onore;  nun s’ è  ffatto cchiú vedé, ‘a che aggiu capito ca nun le passa manco p’’a capa chill’affare; | come  pron. interr. [solo sing.] quale cosa è usato in prop. interr. dirette e indirette): che ne sarrà ‘e lloro?; che staje dicenno?; a cche pienze?; ma ‘e che te miette paura?; nun saccio che fà; nun capisco ‘e che te lamiente; è spesso rafforzato/seguíto o, nel linguaggio familiare, sostituito da cosa: (che) cosa vuó?; nun saccio  (che) cosa penza ‘e fà | che cc’ è, che nun cc’ è, (fam.) tutt'a un tratto, improvvisamente | a cche?, a quale scopo?, a qual pro? |  ‘e che?/ e cche?, ‘o che?, ma che?, rafforzativi di interrogazione che esprimono stupore polemico: e che? einisse che dicere? |talora come  pron. escl. [solo sing.] quale cosa: che dice!; che m’aveva capità!; ma che m’ at- tocca ‘e sèntere! | come inter., nell'uso familiare, esprime meraviglia, stupore: «Ce vaje?» «Che! (ma piú spesso Addó?) Ma neanche a dicerlo!»; «Che! Staje pazzianno?» |

 

cca ( e non ca)avv. di luogo  = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua;  etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che nell’idioma napoletano (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine  va scritto senza alcun segno diacritico  trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; nel  napoletano esistono , per vero,come abbiamo visto,  una cong. ed un pronome ca = (che), pronome e congiunzione  che  però  si rendono con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la  c iniziale geminata ( cca)  e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno d’apocope…, inutile giacché non è caduta alcuna sillaba!) e talora addirittura ccà’ addizionando errore ad errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già inutile accento   un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che, ripeto,  non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico! In coda a quanto fin qui détto, mi occorre però  aggiungere un’ultima osservazione:  è vero che gli antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R. Andreoli) registrarono l’avverbio a margine come cà per distinguerlo dagliomofoni ca (che) pronome e congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea, giustificata forse dal fatto che temporibus illis lo studio della linguistica era ancóra gli albori e quei vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo tentativo operato nel  registrare puntigliosamente  i lemmi della parlata napoletana, non erano né informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi vocabolaristi devo segnalare il caso del peraltro preziosissimo Raffaele D’Ambra   che, diligentemente riprendendo l’autentica parlata popolare  registrò  sí l’avverbio a margine  con la  c iniziale geminata (cca) ma lo forní d’un inutile accento (ccà) forse lasciandosi fuorviare dal cà  registrato dai suoi  omologhi. Dal tempo però dei varî P.P. Volpi, R. Andreoli e Raffaele D’Ambra   la linguistica e lo studio delle etimologie à fatto enormi passi per cui se mi sento di perdonare  a Raffaele D’Ambra,P.P. Volpi, R. Andreoli  e ad  altri talune imprecisioni o strafalcioni, non mi sento di perdonarli ad alcuni spocchiosi sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura cattedratico accademico, colpevolmente a digiuno di regole linguistiche, (quando non sai una cosa, insegnala!) che si abbandonano a fantasiose, erronee soluzioni grafiche!

mo  avv. di tempo ora, adesso

Nel napoletano vuoi  nei testi scritti, che nel comune parlare si trova o si sente spessissimo il vocabolo in epigrafe usato – come ò détto - per significare: ora, adesso e, talvolta esso vocabolo trasmigra addirittura nell’italiano con il medesimo significato.Ciò che voglio segnalare  è innanzitutto il suono da assegnare alla vocale (o) che nel parlato cittadino è pronunciata e va pronunciata  con timbro aperto (mò) mentre nella provincia scivola verso una pronuncia chiusa (mó), dando modo a chi ascolta di poter tranquillamente  definire cittadino o provinciale colui che pronunci l’avverbio mo che se è pronunciato con la o aperta  connota il cittadino e  se è pronunciato con la  o chiusa connota il provinciale.

  Questo mo è possibile passim  trovarlo anche come  mo' o ancóra mò), ma è pur sempre  l’ avv.  ora, adesso; poco fa.  Concorrente di ora ed adesso, mo à una lunga tradizione storica, ma non si è quasi  mai affermato nell'uso scritto dell’italiano ; resta quindi limitato all'uso parlato di gran parte d'Italia, in partic. di quella centro-merid.

nel napoletano anche nella forma iterata mmo mmo  con tipico raddoppiamento espressivo della consonante d’avvio nel significato di súbito, immediatamente, senza por tempo in mezzo

Detto ciò passiamo ad un altro problema; come si scrive la parola in epigrafe?

Il problema non è di facilissima soluzione posto che  non v’è identità di vedute circa l’etimologia della parola, unica strada forse  da percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta soluzione;

vi sono infatti parecchi  scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di ora, adesso; ebbene, qualora si scegliesse questa strada sarebbe opportuno scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene apocopata di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente indicato  dall’apposizione di un segno diacritico (‘).

Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino mox =  ora, súbito, come io reputo che sia, ecco che la faccenda diviene piú semplice  e basterà scrivere mo senza alcun segno diacritico.

È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando un termine,  per motivi etimologici, perde una sola o piú  consonanti in fin di parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale),  non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba;

ecco dunque che  ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum   per  pe (per), per po (poi)che è dal lat. po(st) dove cadendo una sola o una doppia  consonante ( m – r - st ) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è  là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono   ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là  dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.mle. C’è invece un napoletano po’  che necessita dell’apostrofo finale: è il po’= può (3ª pr. sg. ind. pres. di potere) che derivando dal lat. po(te)(st)  comporta la caduta d’una vera sillaba, caduta da indicarsi con l’apostrofo che serve altresí a distinguere gli omofoni po = poi e po’ = può.

Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu ( articolo un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi  e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie, inchiostro  o appesantisse la pagina scritta e il non apporlo non fosse invece, quale a mio avviso invece  è, segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo e chi piú ne à piú ne metta!)  

Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe derivare  da mox in quanto, pare, che una doppia consonante  come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica  come la d di modo.

Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della lingua nazionale  re  che pur derivata dritto per dritto dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della caduta  x ,  anche ammettendo, dicevo   che il napoletano mo discenda da modo e non da mox  non si capisce perché  esso mo  andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di  un medesimo idioma, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.

Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel toscano/italiano accentare il mò (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di modo (mo’ dell’espressione a mo’ d’esempio), ma nel napoletano non esistendo il termine modo né la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi segno diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso).

Te pron. pers. di seconda pers. sg.

1 forma complementare tonica del pron. pers. tu, che si usa come compl. ogg. quando gli si vuol dare particolare rilievo e nei complementi retti da prep.; può essere rafforzato con stesso o medesimo: vonno proprio a tte(vogliono proprio te); pe tte fosse meglio(per te sarebbe meglio); fràteto venarrà cu tte o cu ttico(tuo fratello verrà con te); ce vedimmo dimane addu te(ci vedremo da te domani); fallo a ppe tte(fallo da te), da solo; quanto a tte, facimmo ‘e cunte aroppo(quanto a te, faremo i conti dopo), per ciò che ti riguarda; allora, pe tte è sbaggliato?(allora, per te è sbagliato?), secondo il tuo parere | si usa nelle esclamazioni: povero a tte!(povero te!) viato a tte!(beato te!); nelle comparazioni dopo come e quanto: ne saccio quanto a tte(ne so quanto te); nun è comme a tte (non è come te); come predicato dopo i verbi essere, parere, sembrare, a meno che il sogg. non sia tu (espresso o sottinteso): i’ nun songo te (io non sono te) (ma nun sî cchiú tu(non sei più tu

2 si usa in luogo del pron. pers. ti in presenza delle forme pronominali atone lo, la, li, le e della particella ne, in posizione sia enclitica sia proclitica: te ‘o ddico io(te lo dico io); te nn’ànno parlato?(te ne ànno parlato?); te ne pentarraje(te ne pentirai); accattatelo(compratelo); sturiàtelo(studiatelo) | nel linguaggio familiare, con semplice valore rafforzativo: e senza dicere ata t’ ‘o mettette for’ â porta(e senza aggiungere altro, te lo mise fuori dalla porta).

veco  = vedo  voce verbale (1ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito vedé= vedere (dal lat. vid-íre), ma per la voce a margine che à una radice diversa da vid occorre riferirsi ad un lat. volg. *vidic-are frequentativo attraverso il suff. ico di vid-íre: la radice vidic è stata manipolata con la caduta della dentale e crasi delle due residue ii→e  sino ad ottenere vi(d)ic→vec, con medesimo procedimento operato per talune  le voci verbali del verbo andare dove accanto alle voci derivate dalla radice di ji-re si à la voce derivata da   *vadic-are donde l’italiano vad(ic)→vado ed il napoletano va(di)c→vaco.

vestuto = vestito voce verbale: p. p. agg.to dell’infinitovèstere = vestire (dal lat. vestíre, deriv. di vestis 'veste' ).

‘a =1) la art. determ. f.le sg.  si premette ai vocaboli femminili singolari (es.: ‘a mamma, ‘a scola, ‘a scala); deriva dal lat.  (ill)a(m), f.le di ille 'quello'; l’aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘); 2) la prima di un verbo è pronome f.le (es.: ‘a veco cca = la vedo qui); 3) come nel ns. caso = da preposizione semplice dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc.

 

urzo s.vo m.le = orso, 1 (zool.) genere di grossi mammiferi plantigradi, dalle forme tozze e robuste, con testa grossa, arti brevi, forti unghioni, coda corta e pelo foltissimo, che vivono isolati o in gruppi poco numerosi (ord. Carnivori): orso bruno, specie europea e asiatica con pelliccia di colore bruno; orso bianco (o polare), specie che abita le zone artiche circumpolari; orso grigio, grizzly; orso nero, baribal | vendere la pelle dell'orso prima che sia morto (o prima che sia preso), (fig.) disporre di una cosa prima che la si abbia in possesso.

2 per le sue movenze lente e impacciate è assunto a simbolo di goffaggine fisica: muoversi, ballare come un orso, in maniera goffa, sgraziata | per le sue abitudini di animale solitario, può anche indicare una persona scontrosa, scarsamente socievole: è un orso, non ha amici, non vede mai nessuno

3 nel gergo della borsa, ribassista; anche, situazione di mercato tendente al ribasso.

Voce dal lat. ursu(m) con tipico passaggio della la fricativa dentale sorda (s) all’affricata alveolare sorda (z).

41 -Pare ca mo 'o vveco…

Ad litteram:sembra che adesso lo vedrò… Id est: campa cavallo!, mai vedrò (che ciò avvenga)! Locuzione sarcastica di portata molto simile alla precedente, ma di valore piú generico  che si usa  in presenza di una imprecisata previsione di un risultato fallimentare cui è comunque  destinata l'azione intrapresa da chi è ritenuto incapace ed inadatto a sostenere un impegno qualsiasi e perciò a raggiungere un risultato.

 ‘o ‘o/’u = a) ‘o/’u lo art. determ. m. sing.  si premette ai vocaboli maschili o neutri  singolari; la forma ‘u è forma antica di ‘o ora ancora in uso in talune parlate provinciali e/o dell’entroterra;  la derivazione sia  di ‘o  che di ‘u è  dal lat.  (ill)u(m), acc.vo di ille 'quello'; l’aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘); la particolarità di questo articolo è che quando sia posto innanzi ad un vocabolo inteso neutro, ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.: ‘o pate voce maschile, ma ‘o ppane voce neutra etc.);

b) ed è il ns. caso ‘o talora anche lo ma sempre eliso in ll’ se proclitico; = lo pronome personale  m.le di terza pers. sing. [forma complementare atona di isso(egli) (forma tonica lui), esso]

1 si usa come compl. ogg. riferito a persona o cosa, in posizione sia enclitica sia proclitica; si può elidere dinanzi a vocale purché non crei ambiguità: ‘o’ mmidio assaje (lo invidio molto); ll’aggiu accattato pe tte(l'ò comprato per te); liéggelo(leggilo); vulesse averlo(vorrei averlo); ‘o ‘í ccanno(eccolo);

2 può assumere il valore di ciò, riferito a una prop. precedente o con funzione prolettica: vo’ riturnà, me ll’à ditto isso(vuole ritornare, me lo ha detto lui); ‘o ssapevo ca succedeva(lo sapevo che sarebbe accaduto) | con lo stesso sign. in funzione predicativa: diceva d’essere figlio sujo, ma nun ll’era(diceva di essere suo figlio, ma non lo era); era janca ‘e capille, ll’era addiventata dinto a ppochi mise  (era bianca di capelli, lo era diventata in pochi mesi). Amargine di tutto ciò rammento che nel napoletano oltre ‘o (articolo o pronome) esiste un altro ‘o  di cui dico qui a seguire:

 

o’  non è come a prima vista potrebbe apparire un’errata scrittura del precedente articolo ‘o (lo/il) o del precedente  pronome ‘o errata scrittura (tutti possiamo sbagliare!) che talvolta mi è capitato di ritrovare inopinatamente in talune pagine di giornali, vergata da indegni pennaruli che per mancanza di tempo o ignavia  non usano piú rileggere e/o correggere ciò che scrivono (....mi rifiuto infatti  di credere che un giornalista non sappia che in napoletano gli artt. lo/il ed il pronome lo  vanno resi con ‘o  e non con o’) a meno che quei tali pennaruli nel loro scrivere non errino lasciandosi  condizionare dalla dimestichezza con lo O’ (apocope dello of   inglese che vale l’italiano de/De).

L’ o’  napoletano a margine è anch’esso un’apocope, quella del vocativo oj→o’=oh e viene usata nei vocativi esclamativi del tipo o’ fra’!= fratello!  oppure o’ no’!= nonno! La forma intera oj  è usata in genere nei vocativi come oj ne’! – oj ni!’= ragazza! – ragazzo!. Rammento  che il corretto  vocativo oj   viene – quasi sempre e nella maggioranza degli anche famosi e famosissimi  scrittori e/o poeti partenopei – riportato in una scorrettissima  forma oje  con l’aggiunta di una pletorica inesatta semimuta e,  aggiunta che costringe il vocativo oj  a trasformarsi   nel sostantivo oje = oggi con derivazione dal lat. (h)o(di)e→oje; ah, se tutti i sedicenti  scrittori e/o poeti partenopei prima di mettere nero sul bianco facessero un atto di umiltà  e consultassero una buona grammatica del napoletano, o quanto meno compulsassero un qualche dizionario, quante inesattezze o strafalcioni si eviterebbero! Purtroppo tra i piú o meno  famosi o  famosissi  scrittori e/o poeti partenopei che reputano d’esser titolari di scienza infusa, l’umiltà non alligna, né trova terreno fertile! Il Cielo perdoni la loro supponenza spocchiosa...

 

42– Pare ‘o carro ‘e Bbattaglino

Letteralmente: sembra il carro di Battaglino. Id est: ogni mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori si dice che sembra il carro di Battaglino; ugualmente ogni altra riunione di persone caotica, disordinata e confusa oltre che rumorosa si dice che sia  simile ad un famoso carro che veniva usato a Napoli per una processione votiva della sera del sabato santo, processione promossa dalla Cappella della SS. Concezione a Montecalvario. Detta Cappella era stata fondata nel 1616 dal nobile Pompeo Battaglino( ne mancano precise  notizie biografiche , ma tra il 1619 ed il 1625 fu presidente della R. Camera della Sommaria che (1444-1806) fu un organo amministrativo, giurisdizionale e consultivo dell'antico regime angioino operante nel Regno di Napoli; fu fondata nel 1444 da Alfonso V d'Aragona, che - nell'ambito della sua riforma dell'ordinamento giudiziario - unificò due organi: la Magna Curia Magistrorum Rationarum (Corte dei Maestri Razionali) e la Summaria audentia rationum (Camera dei Conti). Si tenga conto, peraltro, del fatto che, in latino, ratio significa anche conteggio, enumerazione, calcolo (da cui il termine ragioneria). La Regia Camera fu proclamata da re Ferrante (noto con il nome di Ferdinando I di Napoli (2 giugno 1423 –† 28 gennaio 1494), figlio naturale di Alfonso V di Aragona e I di Sicilia e di Napoli, fu re di Napoli dal 1458 al 1494.) Tribunale Supremo, con competenza a giudicare in materia fiscale.); sul carro che dal nobile Pompeo Battaglino prese il nome, era portata in processione l'immagine della Madonna accompagnata da un gran numero di musici  e cantori.In ricordo di détto accadimento  carro, ogni mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori, o ogni riunione disordinata e chiassosa  si dice che sembri il carro di Battaglino.

carro  s.vo m.le  carro,  veicolo da trasporto a due o quattro ruote, trainato da uno o piú animali da tiro; voce dal lat. carru(m) df’origine gallica.

43 – Pare ‘o pastore ‘a maraviglia

Letteralmente: Sembra un pastore della meraviglia.

Détto icasticamente ed a mo’ di dileggio di chi (uomo o donna)  mostri di avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certune figurine (pastori) del presepe napoletano settecentesco raffigurate appunto in pose stupíte ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta dall’aria inebetita, il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista san Luca che scrisse: pastores mirati sunt.

pastore s.vo m.le  letteralmente pastore, 1 chi guida al pascolo le greggi e ne à la cura e il governo: fare il pastore; la vita dei pastori; un pastore di pecore, di capre | (fig.) membro dell'Accademia dell'Arcadia. 

2 (fig.) capo, guida; in partic., guida spirituale, sacerdote: pastore di anime; il Buon Pastore, Cristo | nelle chiese protestanti, il ministro del culto

3 denominazione di cani di diversa razza, adatti alla guardia delle greggi.

Ma nell’espressione con il termine pastore non si intende segnatamente l’accezione sub 1 chi guida al pascolo le greggi e ne à la cura e il governo:, ma qualsiasi personaggio (statuine di terracotta)che popoli il presepe napoletano settecentesco.

La voce è dal lat. pastore(m), deriv. di pascere 'pascolare'.

maraviglia  s.vo f.le  meraviglia, 1 (come nel caso che ci occupa) sentimento di viva sorpresa suscitato da qualcosa di nuovo, strano, straordinario o comunque inatteso; 2 persona o cosa che per la sua bellezza o il suo carattere straordinario suscita ammirazione.

La voce è dal lat. mirabilia, propr. 'cose meravigliose', neutro pl. poi inteso femminile  dall'agg. mirabilis 'meraviglioso' da mirabilia si perviene a maraviglia per il tramite d’un’ assimilazione regressiva della prima i alla successiva a, alternanza b→v (cfr. bocca→vocca – barca→varca etc.) ed ilia→ilja→iglia (cfr. familia→familja→famiglia – filia→filja→figlia;) 

44 – Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: trentatré chiaje e pure ‘a cora fràceta! Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: trentatré chiaje e pure ‘a cora fràceta!

Ad litteram: Sembra l’asino di Fichella: trentatré piaghe ed anche la coda marcia. Divertente, sarcastica espressione (nata a Napoli ,e ne dirò, in àmbito sportivo intorno al 1929),   usata in riferimento a chi realmente sia o in riferimento  a chi faccia le viste di essere di salute estremamente malferma, continuamente in preda ad acciacchi, malesseri piccoli o grandi,  cosa che gli impedisce di attendere adeguatamente  con costanza e congruenza ai proprî uffici con conseguente fastidio di parenti o colleghi che devono sobbarcarsi anche il suo lavoro. Questo( ma non si sa quanto veridicamente)  malmesso, malaticcio, cagionevole  individuo  viene paragonato ad un famoso asino, di proprietà d’un tal Fechella (di cui dirò), usato originariamente  per piccoli trasporti di derrate alimentari e/o oggettistica, asino che gravato di basto ne aveva la schiena piagata in piú punti, asino di cui si diceva che perfino la coda fosse marcita; a differenza però dell’individuo cui è paragonato  il solerte asino, a malgrado delle sue afflizioni continuava ad essere adibito costantemente al suo lavoro e non se ne lagnava. Tuttavia il paragone tra il piagato asino e chi sia piú o meno autenticamente in modo continuo oppresso, abbattuto, prostrato, avvilito, tormentato, perché afflitto da malanni, acciacchi, malattie ricorrenti, m’appare ugualmente icasticamente calzante! Ciò precisato diamo dapprima un rapido sguardo alle voci dell’espressione, riservandoci di dire in coda del Fechella e della storia del suo asino.

ciuccio  s.vo m.le = asino, ciuco,  quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio ed un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante;  varie sono le proposte circa l’origine della parola :chi dal lat. cicur=  mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus  da collegare al greco kíllos= asino;  chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi  che non mi convincono molto; e  segnatamente non mi convince (in quanto morfologicamente troppo arzigogolata)  quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a  malgrado che  sia  ipotesi che  appaia semanticamente perseguibile.   Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate,   l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana  è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale  strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco;  d’altro canto non amo  qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti   la voce italiana ciuco  etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario.  Men che meno poi  mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano     ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo! 

In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce  ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima  radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare;

trentatré agg. num. card. invar.

1 numero naturale corrispondente a trenta unità più tre; nella numerazione araba è rappresentato da 33, in quella romana da XXXIII

2 posposto al sostantivo, con valore di ordinale;

3 come s.vo m.le  la parola che il paziente è invitato a pronunciare durante l'auscultazione del torace, perché genera un fremito dal quale il medico può trarre indicazioni circa la presenza di affezioni broncopolmonari: dica trentatré!. dal lat. pop. volg. tr(i)enta+tre(s)  per il cl. trigintatre(s);

chiaje s.vo f.le pl. di chiaja = piaga, 1 lesione della pelle o di una mucosa, piú o meno profonda, che presenta difficoltà a rimarginarsi:tené ‘o cuorpo cupierto ‘e chiaje (avere il corpo coperto di piaghe) | essere tutto ‘na chiaja(essere tutto una piaga), averne in tutto il corpo.

2 (fig.) grave male, flagello: ‘e chiaje d’ Eggitto( le piaghe d'Egitto), secondo il racconto biblico, le dieci calamità con cui Dio puní gli egizi che tenevano gli ebrei in schiavitú

3 (fig.) dolore cocente: tené ‘na chiaja dint’ ô core(avere una piaga nel cuore); arapí ‘na vecchia chiaja(riaprire una vecchia piaga), rinnovare un dolore non del tutto sopito ' mettere ‘o dito ‘ncopp’â chiaja (mettere il dito sulla, nella piaga), toccare un argomento doloroso, delicato, imbarazzante; anche, rilevare il punto critico di una situazione

4 (fig. scherz.) persona molto noiosa, lamentosa: sî ‘na chiaja(sei una piaga, fai la piaga).

Voce dal lat. plaga(m) con tipico mutamento di pl in chi (cfr. platea→chiazza - plumbeum→chiummo – plattu-m→chiatto etc.)

córa  s.vo f.le  = coda, estremità posteriore del corpo degli animali vertebrati, formata, nei mammiferi e nei rettili, da un prolungamento della colonna vertebrale. Voce dal lat. volg. coda(m), per il class. cauda(m) con tipica rotacizzazione osco-mediterranea d→r.

fràceta  agg.vo f.le (al m.le fràceto) fradicia/o,marcia/o, marcita/o dal lat.fracida(m) f.le di   fracidu(m) con sostituzione espressiva della occlusiva dentale sonora (d)

con l’occlusiva dentale sorda (t).

Fechélla   letteralmente piccola fica  in quanto la voce a margine è il diminutivo (cfr. il suff. élla) di fica (= albero e frutto del fico e per traslato vulva; con etimo dal lat. *fica(m) femminilizzazione di ficu(m) marcato sul greco súkon che à anche il medesimo  significato traslato  osceno; piú spesso in luogo del diminutivo f.le a margine se ne usa uno m.le: ficuciello  con suff. m.le iello e suono di transizione – c – (cfr. balcone→balcun-c-iello); nel caso che ci occupa la voce a margine fu un soprannome cioè un appellativo familiare, scherzoso o ingiurioso, di una persona, diverso dal cognome e dal nome proprio, che prende generalmente spunto da qualche caratteristica individuale, fu un soprannome assegnato ad un piccolo, rinsecchito, vizzo omettino (un tale don Mimí(Domenico) Ascione, originario di Torre del Greco, ma non meglio identificato) che negli anni tra il 1928 ed il 1930,  servendosi di un vecchio e malmesso somaro provvisto di basto e/o piccolo barroccio, forniva servizio di modesto trasporto di vettovaglie e/o masserizie  nella zona del cosiddetto Rione Luzzatti (rione di case popolari edificato nella zona orientale della città, voluto da  Luzzatti Luigi uomo politico ed economista italiano, presidente del Consiglio nel periodo 1910-1911 (Venezia 1841 -† Roma 1927). Orbene nella zona suddetta   don Mimí Ascione(Fechella) ed il suo asino erano notissimi cosí che quando  nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli (la Società Sportiva Calcio Napoli S.p.A., abbreviata in SSC Napoli e nota come Napoli, fu ed ancóra è la principale società calcistica della città di Napoli, militante all’attualità in Serie A; fu fondata il 1º agosto 1926 su iniziativa dell'industriale napoletano, ma di ascendenze semitiche,  Giorgio Ascarelli(Napoli, 18 maggio 1894 – † ivi 12 marzo 1930) con il nome di Associazione Calcio Napoli, ed  assunse poi l'attuale denominazione nel 1964.

Il simbolo del club attualmente  è l'Asinello,ma in origine fu quello del Cavallo rampante sfrenato il medesimo del municipio cittadino,  mentre il colore sociale è l'azzurro-cielo e non il blu-savoia di talune improvvide, iettatorie divise talvolta indossate. Gioca attualmente le partite interne allo stadio San Paolo, inaugurato nel 1959.)Ripeto: cosí che quando  nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli uno stadio  progettato da Amedeo D'Albora su commissione del primo presidente del Napoli l’industriale Giorgio Ascarelli ed edificato nei pressi della zona nota come "Rione Luzzatti",  sulle tribune dell'impianto  costruite in legno, inizialmente denominato "Stadio Vesuvio"),sulle tribune,dicevo,   tra i  20.000 spettatori ce n’erano numerosissimi  provenienti appunto dalla predetta zona; la squadra di calcio del Napoli alle sue prime esibizioni  non ebbe eccessiva fortuna ed i risultati ottenuti  furono tutt’altro che esaltanti, cosí avvenne che  all’ennesima sconfitta rimediata dalla squadra napoletana tra le mura amiche si levò la voce  d’uno spettatore, quella  d’un tal  Raffaele Riano,  tifoso azzurro e frequentatore della redazione del settimanale satirico ”Vaco ‘e pressa” ,molto diffuso a Napoli negli anni ’20; costui, avvezzo a motti di spirito,   esclamò tra l’ilarità degli spettatori a lui prossimi:”Ato ca cavallo sfrenato, chisto me pare ‘o ciuccio ‘e Fechella!” (Altro che cavallo sfrenato, questo mi sembra l’asino di Fichella!);da quel momento l’emblema del Napoli calcio non fu piú il cavallo rampante e sfrenato, ma l’umile paziente laborioso asinello, segnato dalle piaghe procuategli dal basto.

45 - Pare ‘na pupata ‘e Guidotte

Letteralmente: Sembra una bambola di Guidotti; id est: essere bella affascinante ed elegante tal quale una figura di Guidotti.

Per venire a capo dell’espressione occorre dire súbito di Guidòtti, Paolo, detto il Cavalier Borghese. Costui fu pittore, scultore, architetto e scienziato (Lucca 1560 circa - †Roma 1629). Dipinse, prediligendo ampie forme tardomanieriste e una luce intensa e drammatica, affreschi ed alcune pale d'altare a Roma (S. Luigi dei Francesi, S. Francesco a Ripa, ecc.), a Napoli (S. Maria del parto: Gesú, la presentazione al tempio), a Pisa, a Lucca, ecc. Come studioso del volo umano fu uno dei piú fedeli seguaci delle idee leonardesche, che arrivò a mettere personalmente in pratica in un tentativo, peraltro sfortunato, realizzato attraverso un paio di ali artificiali.

Le  figure femminili dei suoi dipinti agghindate  anacronisticamente sempre in abiti cinquecenteschi erano  belle, formose ed elegantissime, al segno che a Napoli divenne proverbiale la locuzione in esame Paré ‘na pupata ‘e Guidotte  (sembrare una bambola di Guidotti) per riferirsi ad una donna che apparisse molto bella ed affascinante e vestisse in maniera sontuosa e ricercata. E qui penso di poter chiudere queste lunghissime pagine, augurandomi d’avere accontentato l’amico A.B. ed interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori.

Satis est.

Raffaele Bracale

(FINE)


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