mercoledì 22 settembre 2021

ANTICHE JUOCHE NAPULITANE

 

 

 

ANTICHE JUOCHE NAPULITANE

Comme se jucava a Nnapule quanno ‘e strate

erano strate a mmesura ‘e guagliune

 

 

Coloro  che ànno i capelli bianchi, forse si commuoveranno nel ritrovare nelle pagine che seguono alcuni giochi che sicuramente fanno parte dei ricordi della loro infanzia. A quei tempi, nella nostra città, c’erano due categorie di ragazzi: gli scugnizzi, o ragazzi di stra­da e gli altri, o ragazzi di casa. I primi erano perennemente in strada, dove trascorrevano il loro tempo in giuochi fatti con attrezzi poveri, quali i loro mezzi potevano permettere. I secondi, viceversa, trascorrevano la maggior parte del tempo a scuola o in casa a studiare, ma, non appena potevano farlo, ad esempio nel tragitto da casa a scuola o con una scusa o quando erano mandati per commissioni, si univano tra loro o ai ragazzi di strada per partecipare ai loro giuochi, risultando, naturalmente, sempre perdenti, per­ché piú goffi ed imbranati di quegli altri. Ma quali erano i giochi dei ragazzi di strada? Oggi se ne sta perdendo perfino la memoria, oltre che l’uso. Gli attuali ragazzi di strada impiegano il tempo a scorrazzare su motorini o a giocare a calcetto o, i piú istruiti, ad usare aggeggi elettronici. Ecco che un recupero dei giochi antichi, oltre al gusto di ritrovare le proprie tradizioni e radici, avrebbe anche un significato pedagogico, richiedendo quei giochi oltre che abilità fisica, anche fantasia e destrezza psicologica.

Prenderò il “la” per queste paginette  dalla poesia “Guaglione” di Raffaele Viviani, scugnizzo per antonomasia, che ci offre uno spaccato della vita dei ragazzi di strada ed un elenco di alcuni dei giochi che essi  praticavano.

Ò accennato a gli scugnizzi e mi sembra giusto, prima di entrare in medias res,  soffermarsi sul termine scugnizzo dicendo che scugnizzo/a è un sostantivo ed aggettivo maschile o femminile e ci si trova ad avere a

 

che fare con un’altra parola che (come guaglione, guappo, camorra ,etc.), partita dal lessico partenopeo, è bellamente approdata in quello nazionale nel suo significato di monello, ragazzo astuto ed intelligente e, per estensione, ragazzo vivace ed irrequieto.

È pur vero – come détto – che la parola è ormai termine italiano e pertanto da riferirsi a qualsiasi monello dello stivale, ma, nel comune intendere, con la parola scugnizzo ci si riferisce ai monelli napoletani; sarebbe impensabile uno scugnizzo milanese, triestino, etc. alla medesima stregua di ciò che avvenne con lo sciuscià (voce che quale adattamento popolar-napoletano dell’inglese shoe-shine (boy) indicò il monello che allo sbarco degli alleati durante l’ultima guerra, si guadagnava da vivere pulendo le scarpe dei militari e/o civili) che – malgrado operasse in tutte le città - fu ritenuto essenzialmente napoletano (forse perché – come détto – la voce fu coniata a Napoli.

Torniamo allo scugnizzo ed all’etimologia della parola; essa è tranquil­lamente un deverbale di scugnà dal latino excuneare; il verbo scugnà significa battere il grano sull’aia, percuotere, bastonare, smallare (le noci), scheggiare con percosse (i denti); ma,nell’accezione che qui ci interessa, sbreccare, spaccare. Per comprender tale accezione occorre riferirsi ad un tipico giuoco: quello dello strummolo, alla cui trattazione rimandiamo, in particolare al momento in cui uno dei giocatori risultato perdente nella gara di far vorticare la sua trottolina lignea può vederla sbreccare o addirittura spaccare dal vincitore che – con accorto colpo – può far scempio della trot­tolina dell’avversario perdente scugnandola cioè a dire sbreccandola.

Ecco dunque che i monelli napoletani adusi a manovrare lo strummolo e spesso a sbreccare quello dell’avversario son detti scugnizzi e cioè capaci di scugnare ed abili a farlo. Il percorso morfologico della voce usò il tema scugn di scugnare addizionato del suffisso izzo collaterale nel napoletano del suffisso iccio (suffissi derivativi ed alterativi di aggettivi, che continuano il latino -iciu(m) ed esprimono diminuzione, imperfezione, approssimazione per lo piú con valore peggiorativo e spregiativo. E torniamo all’assunto.

 

GUAGLIONE di Raffaele Viviani

Quanno jucavo ô strummolo, â liscia, ê ffijurelle,

a cciaccia, a mmazza e pívezo, ô juoco d’’e ffurmelle,

stevo ‘int’ â capa retena d’’e figlie ‘e bbona mamma,

e me scurdavo ô ssolito, ca me murevo ‘e famma.

E ccomme ce sfrenàvamo: sempe chine ‘e sudore!

‘E mmamme ce lavàvano minute e quarte d’ore!

Junchee fatte cu ‘a canapa ‘ntrezzata, pe ffà a pprete;

sagliute ‘ncopp’a ll’asteche, p’annarià cumete;

p’ ‘o mare ce menàvamo spisso cu tutte ‘e panne;

e ‘ncuollo ce ‘asciuttàvamo, senza piglià malanne.

‘E gguardie? sempe a sfotterle, pe’ ffà secutatune;

ma ê vvote ce afferravano cu schiaffe e scuzzettune

e â casa ce purtavano: Tu, pate, ll’hê ‘a ‘mparà!

Ma manco ‘e figlie lloro sapevano educà.

A dudece anne, a tridece, tanta piezz’’e stucchiune:

ca niente maje capévamo pecché sempe guagliune!

‘A scola ce ‘a sàlavamo p’’arteteca e pp’’a foja:

‘o cchiú ‘struvito, ô mmassimo, faceva ‘a firma soja.

Po gruosse, senza studio, senz’arte e ssenza parte,

fernévamo pe perderce: femmene, vino, carte,

dichiaramiente, appicceche; e sciure ‘e giuventú

scurdate ‘int’a ‘nu carcere, senza puté ascí cchiú.

Pur’io jucavo ô strummolo, â liscia, ê ffijurelle,

a cciaccia, a mmazza e pívezo, ô juoco d’’e ffurmelle:

ma, a ddudece anne, a ttridece, cu ‘a famma e cu ‘o ccapí,

dicette: Nun po’ essere: ‘sta vita à dda ferní.

Pigliaje ‘nu sillabbario: Rafele mio, fa’ tu!

E me mettette a correre cu A, E, I, O, U.

 

1.Nome del gioco e traduzione in italiano: STRUMMOLO (trottolina)

Corrispondenza con altre regioni italiane: nessuna che mi sia nota.

Etimologia: greco strómbos trasmigrato nel latino strumbus poi, con consueta assimilazione progressiva, strummus ed infine nel napoletano, con il suffisso diminutivo olu(m)→olo: strummolo con il suo esatto significato di piccola trottola.

Descrizione del gioco: Trattasi di una trottolina di legno a forma di cono con il vertice costituito da una punta metallica infissa nel legno e con numerose scalanature incise su tutta la superficie in modo concentrico e parallelo rispetto al vertice; in dette scanalature viene avvolta strettamente una cordicella che ha lo scopo di imprimere un moto rotatorio allo strummolo, una volta che détta corda sia stata velocemente srotolata e portata via dallo strummolo mediante uno strappo secco, per modo che la trottolina lanciata in terra prenda a girare vorticosamente su sé stessa facendo perno sulla punta metallica: piú abile è il giocatore e di miglior fattura è lo strummolo, tanto maggiore sarà la velocità della roteazione e la sua durata.

Se invece lo strummolo è di scadente fabbricazione, il piú delle volte ri­sulterà scentrato e non bilanciato rispetto alla punta, per cui il suo prillare risulterà di breve o nulla durata: in tali casi si suole dire che lo strummolo è ballarino o tiriteppe, volendo con tale onomatopea indicare appunto la non idoneità del giocattolino. Allorchè poi alla scentratezza dello strummolo si unisca una cordicella non sufficientemente lunga, tale cioè da non per­mettere di imprimere forza al moto rotatorio dello strummolo, si usa dire: s’è aunito ‘a funicella corta e ‘o strummolo tiriteppe e tale espressione è usata quando si voglia fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come nel caso, ad esempio, di una persona incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente fornito, per giunta, di ferri del mestiere inadeguati, rammentando un famoso modo di dire che afferma che songo ‘e fierre ca fanno ‘o masto (sono gli attrezzi a rendere uno maestro) e cioè che un buono artiere è quello che possiede buoni utensili...o magari – per concludere - quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno parimenti svogliato.

 

2.Nome del gioco e traduzione in italiano: ‘A LISCIA ( voce intraducibile)

Corrispondenza con altre regioni italiane: gioco praticato in tutta l’Italia me­ridionale soprattutto nelle regioni ricche di fiumi.

Etimologia: liscio di cui liscia è il femminile, etimologicamente è da un latino volgare lisiu(m), voce di origine espressiva.

Descrizione del gioco: Si fanno scivolare a mo’ di primordiali bocce dei sassi appiattiti e levigatissimi, probabilmente ciottoli di fiume, quegli stessi che in varie misure servirono un tempo per lastricar (prima dell’uso dei pa­rallelepipedi di basalto/pietra lavica) le strade napoletane dando luogo alle cosiddette ‘mbrecciate, derivato di brecce, plurale di breccia, dal latino volgare briccia.

3.Nome del gioco e traduzione in italiano: FIJURELLE (figurine o immaginette di santi) e piú tardi (1930 e ss.) anche RITRATTIELLE (piccoli ritratti)

Corrispondenza con altre regioni italiane: gioco praticato in tutta Italia.

Etimologia: fijurella sostantivo femminile diminutivo di figura, dal latino figura da fingere (plasmare, foggiare); ritrattiello sostantivo maschile diminutivo di ritratto (immagine fotografica, pittorica o scultoria del viso, del busto), participio passato di ritrarre, dal latino retrahere, composito di re- (indietro ) e trahere (trarre).

Descrizione del gioco: le figurine riproducono foto o disegni di personaggi storici, attori/attrici o campioni dello sport. In tempi antichi furon merci vendute dai cartolai (calcografate su sottili fogli di carta da incollare su cartoncini flessibili e poi ritagliar alla bisogna e poi impilate e piegate al centro lungo l’asse maggiore, per essere usate nel giuoco, sia come mezzo di divertimento, che come posta del giuoco stesso) ben prima che apparissero sul mercato le figurine Panini. Il gioco, condotto da due giocatori, consiste nel metter a disposizione un mazzetto di egual numero di figurine ciascuno, con il fronte sul piano d’appoggio. Il giocatore avversario deve indovinare quale personaggio si trova sulla prima figurina del mazzetto: se non ci riesce, si prosegue, se indovina si impadronisce di tutto il residuo mazzetto che porrà sotto il suo, toccando all’avversario a sua volta di indovinare. Vince chi riesce ad impadronirsi del maggior numero di figurine.

 

Variante piú divertente e dinamica (in quanto non basata sulla pura fortuna, ma comportante una destrezza manuale) del giuoco, sempre condotto tra due giocatori: ogni giocatore impila le proprie figurine tenendone il recto (faccia) in alto, piegate al centro lungo l’asse maggiore; l’avversario assesta, con la mano in postura concava, un colpo al lato della pila cercando di procurare un adeguato spostamento d’aria tale che faccia voltare una o piú figurine dalla faccia al verso; la /le figurina/e rivoltate vengono conquistate.

4.Nome del gioco e traduzione in italiano: CIACCIA (schiaffo del soldato)

Corrispondenza con altre regioni italiane: gioco praticato in tutta Italia

Etimologia: voce chiaramente d’origine onomatopeica dal tipico rumore: cià, cià provocato dal secco, violento colpo della palma della mano contro la palma dell’altrui mano.

Descrizione del gioco: Uno dei giocatori, estratto a sorte, svolge il ruolo della “madre”ed ha il compito di controllare che nessuno bari. Un altro giocatore estratto a sorte “va sotto”, cioè si pone con il volto sulla spalla della madre, una delle due mani a coprire il viso e l’altra con il palmo esposto sotto la sua spalla. Gli altri giocatori, posti alle sue spalle, devono, uno per volta, colpire con uno schiaffo la mano di quello che sta sotto. Questi si volta e deve indovinare quale degli altri giocatori lo ha colpito, cercando di riconoscerlo attraverso le dimensione della mano e la violenza dello schiaffo. Il colpitore, se riconosciuto, va sotto, altrimenti rimane sotto quello che già c’era e così via.

5.Nome del gioco e traduzione in italiano: MAZZA E PIVEZO (mazza e pezzo)

Corrispondenza con altre regioni italiane: in Toscana: lippa, a Roma: nizza, nel Veneto: mazza e pandolo, nel comasco: ciangal, in Si­cilia: manciugghia, in Lombardia: a la rella, in Friuli: ceba e ve­gna, nelle province laziali mazza e zipola o mazzapicchia. Il gioco era praticato anche dai Tartari di Tamerlano e presenta singo­lari attinenze con l’inglese cricket e con l’americano baseball.

Etimologia: mazza sostantivo femminile dal latino volgare matea, mateola (mazza); pivezo sostantivo maschile da un basso latino:pélsu(m)→ pilsu(m) 9

 

per il classico pulsu(m) (ligneum)= (legnetto lanciato) che è il breve pezzo di bastone appuntito ai lati.

Descrizione del gioco: si traccia sulla terra battuta un cerchio con la stessa mazza del gioco di circa due metri di diametro (oppure con il gesso in caso di asfalto o basoli).Il gioco consiste nel colpire una prima volta (mazzeca e uno) con la mazza la punta del pivezo (con il pezzo a terra) allo scopo di farlo sollevare e colpirlo nuovamente al volo (mazzeca e ddoje) cercando di lanciarlo il piú lontano possibile. L’altro giocatore, raggiunto il pívezo, deve lanciarlo nel cerchio difeso dal battitore che tenta di ribatterlo (mazzeca e ttre) il piú lontano possibile. Se ci riesce si scambiano i ruoli, in caso contrario il battitore con tre colpi (descritti come sopra) allontana il piú possibile il pezzo dal cerchio, per modo da porre in difficoltà l’avversario che dovendo ripetere il lancio del pivezo verso il cerchio, può mancarlo e non raggiungerlo mettendo fine alla contesa con la vittoria del lanciatore/battitore.

 

6.Nome del gioco e traduzione in italiano: O JUOCO D’’E FURMELLE (il giuoco dei bottoni)

Corrispondenza con altre regioni italiane: gioco praticato in tutta Italia

Etimologia: juoco sostantivo maschile dal latino iocus (scherzo, giuoco); fur­mella sostantivo femminile dal latino formella (piccola forma, formaggella).

Descrizione del gioco: il gioco prevede il lancio dei bottoni radente il suolo verso un buco ricavato sul terreno o simulato con il disegno di un cerchio tracciato con il gesso; una volta lanciati i loro bottoni, i singoli giocatori spingono il loro bottone verso il cerchio o buco sospingendoli con un colpo dell’unghia del pollice che prende slancio facendo leva contro il polpastrello dell’indice; vince chi riesce a far cadere, colpendoli con destrezza e misura, nel buco o nel cerchio i bottoni degli avversarî. I bottoni possono essere sostituiti da monete metalliche. Per stabilire la priorità del lancio dei bottoni verso il cerchio/buco occorre dar corso a due fasi prodromiche: la prima (sottamuro) consiste nel lanciare verso un muro o altro ostacolo i bottoni o le monete cercando di farle accostare il piú possibile al muro/ostacolo; seguendo l’ordine di accostamento al muro, valutato, se de visu non sia possibile stabilirlo, servendosi del palmo (distanza tra la punta del pollice e quella del mignolo, misurata con la mano aperta e le dita distese e divaricate al massimo; un tempo costituiva un’unità di misura corrispondente a circa 25 cm) e dello ziracchio (distanza tra la punta del pollice e quella dell’indice, misurata con la mano aperta e le dita distese e divaricate al massimo; un tempo costituiva un’unità di misura corrispondente a circa 18 cm). I giocatori, quindi, danno luogo alla seconda fase prodromica (battimuro), consistente nel far battere, di taglio contro il muro o l’ostacolo uno per volta i proprî bottoni o monete facendoli ricadere il piú lontano possibile; il giocatore che riesce vittorioso in questa seconda fase ha il diritto di lanciare per il primo le sue munizioni verso il cerchio o buco

7.Nome del gioco e traduzione in italiano: JUNCHEA (fionda fatta con sottili giunchi intrecciati o con altre piante flessibili di crescita spontanea)

Corrispondenza con altre regioni italiane: gioco praticato in tutta Italia

Etimologia: junchea sostantivo femminile dal latino iuncu(m) (giunco).

Descrizione del gioco: La fionda si usa per una gara di lancio di pietre ver­so un determinato bersaglio; vince chi colpisce con maggior precisione il

 

bersaglio oppure, in una variante piú semplice, vince chi lancia i proiettili (pietre) piú lontano.

Anticamente (epoca vicereale 1503 e ss.) non si trattava di un giuoco, ma di una vera e propria battaglia fatta tra due squadre di opposti contendenti che davano luogo alla cosiddetta petrïata ed in tal caso il bersaglio dei conten­denti era la persona degli avversarî; in origine non si parlò di petrïata ma di guainella ed a seguire chiarisco il perché.

Guainella (sostantivo femminile) in origine fu un grido di battaglia (guainella, guainé, brié, ahó!) in uso quale voce d’incitamento tra gli scugnizzi impegnati in pericolosi e spesso cruenti scontri a colpi di pietra; in prosieguo di tempo il grido, o meglio la sola parola d’avvio: guainella (per metonimia) passò ad indicare la vera e propria tenzone. Successivamente poi, caduta in disuso, in luogo di guainella si adottò la voce petrïata (sassaiuola).

Non di facile soluzione il problema etimologico di questa voce assente nella magna pars dei vocabolarî dell’idioma napoletano o dei calepini etimologici del napoletano e d’altronde quei pochi che la prendono in considerazione (D’Ambra, Altamura, Salzano, D’Ascoli, de Falco) o sorvolano sull’etimo o non hanno identità di vedute, pur convenendo sul fatto che la voce in primis indicasse un grido di incitamento allo scontro e successivamente la vera e propria tenzone. Occorre rammentare che in origine la lotta, la tenzone, lo scontro tra due fazioni di scugnizzi, spesso rappresentanti di rioni limitrofi e rivali, non fu operata con il lancio di pietre, ma a colpi di elastici e flessibili bastoni e/o pertiche ricavati dai rami piú alti di piante quali i salici o piante consimili come il vetrice; orbene tali bastoni e/o pertiche prendevano il nome di ainella/e (dal greco agnos letto come hagnos = casto e puro); si trattava infatti di una pianta il cui succo delle foglie si riteneva conferisse castità e purezza. Ipotizziamo dunque che in origine il grido di incitamento allo scontro, lanciato dai capifazione fosse ainella, ainé, brié, ahó! e valesse: “suvvia, armatevi di bastoni, alle pertiche!”

Successivamente l’originaria (‘a) ainella fu letta (‘a) uainella ed ancór piú sempre per motivi eufonici (‘a) guainella che fu dapprima un grido d’incita­mento e poi identificò lo scontro una volta a colpi di bastoni e poi, dismessi quelli per mancanza di alberi da cui procurarseli, a colpi di sassi e pietre abbondanti in taluni luoghi della città bassa dove avvenivano gli scontri.

Petrïata/petrata sostantivi femminili diversi l’uno dall’altro: letteralmente la voce petrata è la sassata, il tiro e il colpo di una singola pietra, mentre con la voce petrïata si intende una prolungata gragnuola di colpi di pietra, quasi una lapidazione. Anticamente, a far tempo dalla fine del ‘500, a Napoli, soprattutto in talune zone della città quali Arenaccia, Arena alla Sanità, San Carlo Arena, san Giovanni a Carbonara, ricche di detriti sassosi, residuali di piogge che trasportavano a valle terriccio e sassi provenienti dalle alture di  

 

Capodimonte, Fontanelle etc. o, nelle stagioni secche, residui di fiumiciattoli (es. Sebéto) in secca si svolgevano, tra opposte bande di scugnizzi e/o bassa plebaglia, delle autentiche battaglie con feriti spesso gravi; ai primi del ‘600 tali battaglie divennero così cruente che i viceré dell’epoca furono costretti ad emanar prammatiche, nel (peraltro) vano tentativo di limitare il fenomeno. Si ricorda una divertente espressione in uso tra i contendenti di tali petrïate: Menàte ‘e grosse, pecché ‘e piccerelle vanno dint’ a ll’uocchie! (Tirate le (pietre) grandi, giacché quelle piccole vanno negli occhi!).

Etimologicamente sia petrata che petrïata sono un derivato metatetico di preta metatesi del latino petra, che è dal greco pétra; nella voce petrïata generata dopo petrata si è avuta l’anaptissi (inserzione di una vocale in un gruppo consonantico o tra una consonante ed una vocale; epentesi vocalica) di una i durativa allo scopo di espander nel tempo il senso della parola d’ori­gine; l’anaptissi di questa i ha determinato altresí la ritrazione dell’accento tonico e si è avuto petrïatapetríata in luogo di petriàta.

8.Nome del gioco e traduzione in italiano: ‘A MAZZA E ‘O CHIRCHIO (la mazza e il cerchio)

Corrispondenza con altre regioni italiane: nessuna che mi sia nota.

Etimologia: mazza sostantivo femminile dal latino volgare matea, mateola (mazza); chirchio sostantivo maschile dal latino circulus (circonferenza, cerchio)

Descrizione del gioco: il cerchio è di metallo e può essere recuperato dalle fasce di cinturazione delle botti o dalle ruote delle biciclette, togliendo i raggi; la mazza può essere metallica, con l’estremità curvata ad U, oppure di legno, con inserita una punta di metallo ad U.

Ogni giocatore deve percorrere con il cerchio-ruota un percorso prestabilito e disseminato di ostacoli. Il cerchio deve essere mosso e guidato esclusi­vamente con la mazza.

Durante la corsa il cerchio non deve cadere: verificandosi tale accadimento il concorrente viene eliminato o gli viene comminata una penalità.

Si subisce penalità anche in caso di mancato superamento di un ostacolo previsto nel tracciato del percorso. Vince chi, col minor numero di penalità, conclude il percorso realizzando il tempo migliore.  

 

9.Nome del gioco e traduzione in italiano: CARRUOCIOLO/CARRUOCCIOLO (carroccio);

La differenza morfologica del nome (una volta con la scempia affricata pa­latale sorda (c), una volta con la doppia (cc) è dovuta al fatto che il giuoco fu in uso in tutta la città, ma mentre nella pianeggiante città bassa, praticato su strade non sempre lastricate, ma spesso solo sterrate non produceva eccessivo frastuono di talché s’ebbe un nome carruociolo piú dolce e piú quieto con la consonante scempia (c), in collina, dove il giuoco si praticava su rumorose, lastricate strade in declivio, ecco che il giuoco s’ebbe un nome piú aggressivo riproducente il maggior strepito che l’attrezzo adoperato provocava e fu carruocciolo con la doppia (cc).

Corrispondenza con altre regioni italiane: è un antenato del monopattino o dello skate-board.

Etimologia: carruociolo , sostantivo maschile dal tardo latino, di origine gallica carrŭculum→carrŭclum→carruocchio→carruoccio addizionato del suffisso diminutivo olu(m)→olo dim. di carrus

Descrizione del gioco: il carruociolo è una tavola di legno di forma rettangola­re all’incirca 70 - 80 cm di lunghezza e 20 - 25 cm di larghezza, poggiante su due assi fisse sporgenti inchiodate nel solo punto centrale, portanti ciascuna due rotelle all’estremità.

Come rotelle si utilizzano generalmente cuscinetti meccanici usati, donati da qualche meccanico di buon cuore.

Dopo una breve rincorsa, salendovi sopra, si affrontano di solito discese abbastanza ripide riuscendo ad effettuare anche delle curve, grazie alla parte anteriore del carruociolo sagomata con due tagli ad angolo retto per permettere alle ruote anteriori di sterzare per mezzo di tiranti, collegati a queste ultime e ad un manubrio fissato su un piccolo ceppo, posto sopra la tavola. Usato in piano nella città bassa come diporto per i piú piccini, il carruociolo veniva trainato di corsa per il tramite di una corda.

 

10.Nome del gioco e traduzione in italiano: SCÉ-SCÉ, VULIMMO SCENNERE (su,su, vogliamo scendere)

Corrispondenza con altre regioni italiane: nessuna che ci sia nota

Etimologia: la voce scé-scé, che dà nome al giuoco, è la semplice reitera­zione della prima sillaba del verbo scennere = venir giú, calare (dal latino (de)scendere, composito di de (di) e scandere (salire) e non va confuso con un altro scescé in uso nella parlata napoletana soprattutto nell’espres­sione jí ascianno scescé (cercar pretesti,scuse). Espressione intraducibile ad litteram, ma che può rendersi con andare in cerca di pretesti; infatti con l’espressione suddetta si connota chi, in ogni occasione cerchi cavilli, prete­sti, adducendo scuse per non operare come dovrebbe o facendo le viste di non comprendere, per esimersi e, talvolta, allo scopo dichiarato di litigare, pensando di trovare nel litigio il proprio tornaconto. La parola scescé (che è diversa dal nostro scé-scé) è un chiara corruzione del francese chercher (cercare). Durante la dominazione murattiana un milite francese si fermò a chiedere un’informazione ad un popolano dicendogli forse: “Je cherche” (io cerco) oppure usò una frase contenente l’infinito: “chercher”

Il popolano che non conosceva la lingua francese fraintese lo chercher, che gli giunse all’orecchio come scescé e pensando che questo scescé fosse qualcosa o qualcuno di cui il milite andava alla ricerca, comunicò agli astanti che il milite jeva ascianno scescé (andava alla ricerca di un non meglio identificato scescé).

Descrizione del gioco: Si formano due squadre di almeno cinque giocatori. Un giocatore, generalmente il piú robusto, si posiziona chinato di fronte ad un muro, reggendosi allo stesso con le mani; il secondo giocatore, dopo una breve rincorsa, sale a cavalcioni sulla schiena del primo e vi rimane; il terzo fa lo stesso con il secondo e così via, fino a che l’intero gruppo crolli a terra. Vince la squadra che riesce a far salire il maggior numero di giocatori, o, a parità di numero, a crollare dopo piú tempo.

11.Nome del gioco e traduzione in italiano: ‘O MUCCATURO (rubabandiera)

Corrispondenza con altre regioni italiane: gioco praticato in tutta Italia.

Etimologia: muccaturo dallo spagnolo mocador (fazzoletto da naso o per detergere il sudore).

Descrizione del gioco: si formano due squadre di quattro componenti, che  

 

si pongono allineate ad una distanza di circa 5 metri ciascuna da un arbitro. I giocatori sono numerati; l’arbitro regge con il braccio teso davanti a sé un pezzo di stoffa (‘o muccaturo) e chiama un numero da 1 a 4. I due corri­spondenti giocatori delle due squadre partono di corsa dalle loro posizioni e raggiungono l’arbitro. Scopo del gioco è quello di rubare la bandiera e rientrare oltre la linea dei propri compagni senza che il giocatore avversario riesca a toccare una qualsiasi parte del corpo del “ladro”.

12.Nome del gioco e traduzione in italiano: O JUOCO D’’A PISTA (il giuoco della pista)

Corrispondenza con altre regioni italiane: gioco esistente in tutta l’Italia centro-meridionale.

Etimologia: juoco sostantivo maschile dal latino iocus (scherzo, giuoco); pista sostantivo femminile dal tardo latino pista, participio passato del lat. tardo pistare, iterativo di pinsere (battere, lasciare impronte)

Descrizione del gioco: È un gioco che si svolge tra piú giocatori divisi in due o piú squadre; il gioco in origine consisteva nel fare avanzare, alterna­tivamente tra tutti i giocatori delle squadre partecipanti, sospingendoli con un colpo dell’unghia del pollice che prende slancio facendo leva contro il polpastrello dell’indice lungo un percorso tortuoso, ricco di pretestuose, ple­toriche curve, tracciato con il gesso su accidentati muriccioli di confine di chiese o giardini privati o sulla pavimentazione stradale o dei marciapiedi in piperno, alcuni tappi di bibite (birra, cola etc.) reperiti sulla soglia di botteghe di vinattieri o mescite ed opportunamente appiattiti con i colpi dei cosiddetti cazzimbocchi. Ci piace precisare che il sostantivo napoletano cazzibocchio/cazzimbocchio/cazzibò, quanto alla forma, non è un ciottolo semisferico come il katzenkopf tedesco a cui qualcuno improvvidamente l’apparenta, né – d’altra parte – ha forma di cubo (e perciò è erroneo chiamarlo cubetto o quadruccio). Esso è un elemento lapideo di leucitite, a tronco di piramide a base quadrata, del tutto simile a quello usato a Roma ed in molte altre città per la pavimentazione di varie strade urbane e, fra l’altro, della piazza S. Pietro (donde il nome sampietrino). La sua forma consente ai lastricatori di acconciamente infiggere tali manufatti su di uno spesso letto di sabbia e terriccio, seguendo esattamente l’andamento curvato a schiena d’asino o a botte del piano stradale, e facendo poi colare poi della pece liquida negli interstizi. L’originaria voce espressiva partenopea, nata nell’àmbito dei la­stricatori fu cazzibocchio (nata da cazzi + occhio con epitesi, per evitare lo

 

iato, di una consonante eufonica (b), poi a mano a mano trasformatasi per evidente aggiustamento fonetico in cazzimbocchio ed infine semplificata in cazzibò, ma in tutte e tre le forme è riconoscibile il richiamo osceno d’at­tacco (cazzo→cazzi) con riferimento vuoi alla forma (il tronco di piramide richiama – sia pure con molta buona volontà - l’organo maschile in erezione) del manufatto di pietra lavica, vuoi al fatto che allorché d’un oggetto non si conosca o non sovvenga con precisione il nome, nel parlato popolare, si adotta quello generico di cazzo.

Tornando al giuoco in esame diremo che vince chi riesce per il primo a ta­gliare la linea di traguardo tracciata alla fine del percorso, senza mai lungo il tragitto debordare dal segno del tracciato o cadere dal muricciolo; se ciò avvenisse si dovrebbe ricominciare il percorso dalla linea di partenza. Suc­cessivamente (1950 e ss.) i tappi furono sostituiti con piccole sfere prima di pomice e poi di vetro colorato, ma il divertimento rimase il medesimo!

13.Nome del gioco e traduzione in italiano: UNO MONTA ‘A LUNA (uno monta la luna) oppure ‘o juoco d’ ‘e cavalle (il gioco dei cavalli).

Corrispondenza con altre regioni italiane: gioco esistente in tutta l’Italia centro-meridionale.

Etimologia : uno dal latino unus (uno); monta dal latino montare (salire, mon­tare); luna, sostantivo femminile, dal latino luna (luna); cavallo, sostantivo maschile, dal tardo latino caballus (cavallo).

Descrizione del gioco:

Partecipanti: Numero indefinito di giocatori, ma non meno di dieci Campo di gioco: Spazio aperto (spesso un intero marciapiede per tutta la sua lunghezza)Materiale occorrente: Nessuno Svolgimento del gioco: I concorrenti (cavalli) con la schiena curvata si di­spongono in fila indiana, a distanza di tre o quattro metri l’uno dall’altro.L’ultimo della fila (capo-gioco), dopo breve rincorsa, poggiandosi con le mani sulle spalle del primo cavallo cercherà di scavalcarlo, quindi proseguirà, attenendosi ai successivi comandi, pena una penitenza o l’esclusione dal giuoco, superando il successivo e cosí via fino all’ultimo, dopo di che egli stesso si disporrà nella stessa posizione degli altri, diventando cavallo. Quindi si continuerà ripartendo dall’ultimo.

In questo gioco occorre accompagnare i balzi scandendo volta a volta le frasi della seguente filastrocca ed accompagnando il salto talora con un gesto/comando:

 

1 - UNO, MONTA ‘A LUNA (salto semplice );

2 - DDOJE, MONTA ‘O VOJO (salto seguito da due veloci colpi a mano aperta sulla schiena del cavallo);

3 - TRE, ‘A FIGLIA D’ ‘O RRE’ (salto seguito da tre colpi di bacino sul fon­doschiena del cavallo successivo);

4 - QUATTO, ARAPE ‘STA BBUATTA!

(salto preceduto da una pedata nel sedere del cavallo);

5 - CINCHE, ‘A FORA DÔ SINCO”(salto seguito da cinque colpi di piede smontando dal cavallo ed atterrando fuori dalla fuga delle mattonelle del marciapiede o dei quadroni di basalto della strada, pena una piccola penitenza decisa dal capo-gioco);

6 - SEJE, ‘E TTOJE E ‘E MMEJE (saltando si colpisce la schiena a pugni chiusi di chi sta sotto; chi manca il colpo va sotto);

7 - SETTE, MAMMÀ ‘O DDICETTE: TRE PPASSE ‘NCRUCIATE ANNANTE E TTRE ADDERETO (dopo il salto si deve atterrare con i piedi incrociati, si devono fare veloci passi incrociati in avanti ed indietro e non si deve toccare nessun giocatore durante tutta l’operazione, pena l’esclusione dal giuoco);

8 - OTTO, ‘O PACCOTTO: SI ME TUOCCHE VAJE SOTTO(dopo il salto bisogna fermarsi dove si atterra, senza neppure sfiorare l’ostacolo saltato: un piccolo tocco fa sí che si vada sotto);

9 - NOVE, ‘A PACCHIANELLA ‘E LL’OVA (dopo il salto bisogna fermarsi dove si atterra e colpire con una manata (ma senza guardare) la testa dell’ostacolo saltato, chi manca il colpo va sotto);

10 - DDIECE, MULIGNANE A SCAPECE (salto semplice; dopo il salto si battono le mani tante volte quante decise dal capo-gioco);

11 - ÚNNICE, VIENEME ‘O DDICE (durante il salto bisogna posizionare le mani a mo’ di rapace e stringere la schiena di chi sta sotto come se fosse una preda, una volta atterrati si deve fare un passettino indietro ed urlare qualcosa - spesso una vibrante pernacchia - nell’orecchio di chi sta sotto);

12 - DDÚRECE, ZOCCOLE E SURECE (durante il salto bisogna picchiettare, a mo’ di passettini di topo, con una mano la schiena di chi sta sotto, se si travolge chi sta sotto o si manca il picchiettamento si va sotto);

13 - TRÍRECE, PENNIELLO E VVERNICE

(prima del salto, bisogna avvicinarsi a chi sta sotto ed effettuare questa operazione: strusciare con la mano aperta a mo’ di pennello tutta la schiena di chi sta sotto, assestare un colpo al sedere ed infine saltare l’ostacolo con un balzo da fermo);

14 - QUATTUÓRDICE, CURTIELLO E FFRÒBBICE (salto difficilissimo, da farsi da fermo, senza rincorsa, tenendo le mani in tasca o gravate del  

 

peso di un indumento. Chi perde l’indumento o travolge l’ostacolo è escluso definitivamente dal giuoco);

15 - QUÍNNECE, MIETTOLO ‘NCURNICE; MAMMÀ E PAPÀ CE VENONO A PPIGLIÀ! (salto semplice con fuga finale; il capo turno decide per quanti secondi chi sta sotto può cercare di acchiappare uno dei giocatori, se non ci riesce il gioco ricomincia con lui sotto).

14.Nome del gioco e traduzione in italiano: ‘A CAMPANA (la campana)

Corrispondenza con altre regioni italiane: gioco noto in tutto il mondo

Etimologia: campana, sostantivo femminile, dal tardo latino campana (cam­pana)

Descrizione del gioco: è un gioco che per tradizione è ritenuto pret­tamente femminile. Spesso però anche ragazzi si uniscono al grup­po delle ragazze per mettere in risalto la loro abilità cercando anche di rendere piú difficile il gioco con delle regole inventate al momento. Si traccia con un gessetto il disegno come quello della figura. L’altezza delle caselle è di circa 70 centimetri, mentre la larghezza dell’intera campana è di 2 metri. Ogni giocatore deve avere a disposizione qualcosa da poter tirare sulle caselle disegnate. Si può scegliere fra un sassolino, un tappetto, una piastrel­la, o altro; spesso l’oggetto è un cosiddetto coppatacco (soprattacco di cuoio) usato, reperito tra gli scarti dei ciabattini. A seconda dell’oggetto prescelto può variare la difficoltà per riuscire a farlo fermare proprio nella casella voluta. Con una conta si stabilisce l’ordine di gioco. La linea di tiro viene tracciata ad un paio di metri dalla base della campana. Da qui si tira l’oggetto nella casella numero 1. Se l’oggetto si ferma entro la casella, la gio­catrice (o giocatore), saltando su di un piede entrerà nella casella, raccoglierà l’oggetto e, senza mai met­tere il piede a terra, ritornerà sulla linea di partenza. Fatto questo dovrà tirare di volta in volta l’oggetto nella casella numero 2, 3, 4, ..., 12 adottando la stessa tecni­ca della prima casella. La casella 8 serve per riposarsi potendo qui mettere giú il piede sollevato. Invece le caselle 9 e 10 faranno riposare con un piede in ognuna. Si sbaglia se:

1) si tocca con il piede un segno della campana;

2) si mette giú il piede in una casella;  

 

3) l’oggetto lanciato non cade nel riquadro della casella designata;

4) si dimentica di riposare nelle apposite caselle.

La giocatrice che avrà fatto uno di questi sbagli dovrà uscire dal gioco per lasciare il posto a chi segue nell’ordine stabilito precedentemente con la conta. Quando di nuovo tornerà il suo turno dovrà riprendere il gioco da dove ha commesso l’errore. Una volta tirato l’oggetto sulla casella numero 12 inizia la seconda parte del gioco. Sempre a saltando su di un piede si dovrà spingere l’oggetto in ogni casella (sono ammessi fino a 3 colpi) iniziando dalla 1 e ter­minando alla 12, mantenendo ancora i riposi già prescritti nelle caselle 8,9e10. Vince chi per prima riuscirà a spingere saltando su di un piede l’oggetto nella casella 12.

15.Nome del gioco e traduzione in italiano: ‘O CUPPULONE (la grossa coppola)

Corrispondenza con altre regioni italiane: nessuna che ci sia nota.

Etimologia: cuppulone , sostantivo maschile, grossa coppola dal latino coppa (coppa) accrescitivo (cfr. il suffisso one) del tardo latino coppula (coppola).

Regole del gioco: trattasi di gioco praticato esclusivamente durante gli aboliti festeggiamenti, quelli pagani, non quelli religiosi, della Madonna di Piedigrotta. Il gioco consiste nel calare da un balcone un grosso cilindro di cartone, avente le maniche laterali in modo da simulare un càntero (dal latino càntherus e dal greco cànteros, vaso per soddisfare i bisogni), cercando di centrare la testa di un ignaro passante, il quale si troverà cosí, all’improv­viso, nell’impossibilità di vedere. Il cuppulone viene poi immediatamente ritratto dal calatore per evitare che il malcapitato, se pronto di riflessi, possa impadronirsene, spezzando il filo di spago che lo regge. La scena provoca, naturalmente, le risate e gli scherni degli astanti, spesso compari del calatore mescolati tra la folla. Una variante preferisce la forma tronco-conica in luogo di quella cilindrica. Un’altra variante prevede che il cuppulone non venga calato da un balcone, bensí sospeso ad una lunga pertica, in modo che il calatore agisca da tergo al bersaglio, mimetizzandosi nella folla. Spesso ‘o cuppulone azionato dalla pertica era condotto da una squadretta di piú persone armate ‘e mazzarielle (brevi bastoni di legno laccato); era cilindrico e grandissimo, capace di imprigionare per intero anche piú di una persona in una sola volta. I bersagli preferiti erano ignare coppie di fidanzati che venivano catturati sotto un enorme cilindro di cartone pesante variamente  

 

corredato di simboli non proprio virginei e lì sotto tenuti per alquanto tempo, frastornati dai colpi di mazzarielle vibrati contro il cuppulone e liberati solo dietro la promessa di pagare ai carcerieri tazze di caffè o gelati artigianali, ma spesso ci si accontentava di un cartoccetto di bruscolini (‘o spasso: ceci, noccioline e/o semi di zucca abbrustoliti).

14 .Nome del gioco e traduzione in italiano: ‘A PALLA ‘E PEZZA (la palla di stoffa)

Corrispondenza con altre regioni italiane: nessuna che mi sia nota.

Etimologia: palla, sostantivo femminile, dal longobardo palla (corpo di for­ma sferica); pezza, sostantivo femminile, dal latino volgare pettia (piccolo pezzo di stoffa).

Descrizione del gioco: trattasi di gioco praticato esclusivamente durante gli aboliti festeggiamenti, quelli pagani non quelli religiosi, della Madonna di Piedigrotta.

Si abbia una palla fatta di ritagli di stoffa strettamente interconnessi e cuciti tra di loro, riempita di segatura, a cui viene connesso un resistente elastico tubolare. Il portatore della palla la lancia verso un ignaro passante, e lo col­pisce da tergo, preferibilmente nel fondo schiena, ritirando rapidamente la palla con l’ausilio dell’elasticità del legaccio. Naturalmente, se il portatore della palla è di genere maschile (cosa che avviene nella quasi totalità dei casi), il bersaglio è normalmente di genere femminile, meglio se dotato di rotondità ben evidenti. Il bersaglio deve stare al gioco, non può rizelarsi, essendo i festeggiamenti di Piedigrotta zona franca per gli scherzi, come altrove lo è il Carnevale. In genere si volta di scatto cercando di individuare il colpitore, il quale può anche rivelarsi se intende tentare un approccio. Brak

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