mercoledì 30 luglio 2008

PROVERBI E LOCUZIONI VARII 18

1 Fatte 'e fatte tuoje e vide chi t''e fa fà...
Letteralmente: Impicciati dei fatti tuoi e vedi (se c’è qualcuno che te li faccia fare)id est: procura di trovare qualcuno che ti aiuti ad impicciarti solo degli affari tuoi. La locuzione viene usata nei confronti di chi, inveterato, inguaribile saccente si ostini ad intervenire negli altrui casi ponendovi lingua, dando consigli non richiesti, laddove l'esperienza insegna che se si vuole evitare di dare e/o ricevere impicci e fastidi ci si deve occupare esclusivamente delle proprie faccende. Cosí come formulata in epigrafe la locuzione usa il termine eufemistico fatti uso favorito dall’assonanza con l’imperativo fatti , mentre in una versione piú corposa il sostantivo è sostituito con uno piú triviale, e perciò piú causticamente popolare.
2 Carta vène e giucatore s'avanta.
Letteralmente: carta (vincente) viene e giocatore (vittorioso) si vanta. La locuzione, prendendo spunto dal giuoco delle carte, stigmatizza il comportamento ridicolo e pretestuosamento presuntuoso - tipico peraltro di coloro che ànno scarse capacità intellettive - di chi tenti di farsi merito di successi ottenuti non per propria capacità, intelligenza e valore, ma per mera fortuna che lo abbia condotto al primato, come avviene in taluni giuochi di carte dove basta il possesso di determinate carte vincenti a procurare la vittoria e conta veramente poco il modo di giocare le predette carte.E ciò càpita soprattutto ad es. nel giuoco détto tressette (impropriamente ritenuto il giuoco di carte piú bello e/o difficile) dove chi si viene a trovare in possesso di determinate carte vincenti, è destinato comunque a primeggiare quale che sia il modo di giocarle.
3 Chella 'a mana è bbona; è 'a valanza ca vo’ essere accisa!
Letteralmente: Quella la mano è buona, è la bilancia che si comporta in modo tale da meritarsi d'essere ammazzata. La locuzione va riferita sarcasticamente a chi proditoriamente tiri a derubare sul peso e tenti di far ricadere la colpa sul tramite ossia nella fattispecie sulla bilancia. Per traslato la locuzione la si usa ironicamente nei confronti di chiunque, per un motivo o l'altro, non si voglia assumere le responsabilità del proprio truffaldino comportamento, addebitando essa responsabilità ad un terzo tramite innocente.
4 Chisto è n'ato d''a pasta fina.
Letteralmente: Costui è un altro della pasta fine. Id est: anche questo fa parte di un gruppo di brutti ceffi, di cui diffidare. La locuzione nacque allorché, alla fine del '800, in Napoli alcuni comorristi erano soliti riunirsi in una bettola tenuto da un tal Pastafina. Letta tenendo presente questa annotazione, la locuzione assume una sua valenza di offesa.
5 Fattélle cu cchi è mmeglio 'e te e fance 'e spese.
Letteralmente: Intrattieni duraturi rapporti con chi è migliore di te e sopporta le spese che ne derivano.Id est: le proprie amicizie bisogna sceglierle tra chi ci sia moralmente superiore , e occorre poi coltivarle anche se per fare ciò bisogna por mano alla tasca anche figurativamente parlando.
6 Addó sperdettero a Giesú Cristo.
Letteralmente: dove dispersero Gesú Cristo. Lo si dice di un luogo lontano ed impervio, difficile da raggiungere... La locuzione fa certamente riferimento all'episodio dell'evangelo allorché Maria e Giuseppe persero di vista il Redentore che s'era attardato in Gerusalemme ed impiegarono alcuni giorni prima di ritrovarlo.
7 'A coppa sant' Ermo, pesca 'o purpo a mmare.
Letteralmente: Di sopra sant' Elmo pesca un polpo a mare. Lo si dice, ironizzando, sull'azione di chi si affanni a voler raggiungere un risultato, che certamente invece gli mancherà, stanti le errate premesse da cui parte la propria opera, come chi volesse appunto pescare un polpo nel mare del golfo partenopeo e si trovasse a farlo assiso sulla collina vomerese dove s’erge il castello di sant'Elmo, che è vero che guarda il mare, ma lo fa da un'altezza di circa 250 metri... distanza ovviamente ostativa alla pesca dei polpi.
Il castello di sant’Elmo è un castello medievale, oggi adibito a museo. Un tempo era denominato Paturcium e sorge nel luogo dove vi era, a partire dal X secolo, una chiesa dedicata a Sant'Erasmo (da cui Ermo (cosí ancóra nel napoletano) e poi Elmo). Esso trasse origine da una torre d'osservazione normanna chiamata Belforte. Per la sua importanza strategica, il castello è sempre stato una postazione molto ambita: dalla sua posizione si può controllare tutta la città, il golfo, e le strade che dalle alture circostanti conducono alla città. Fu in esso che nel 1799 – entrate approfittando ed a seguito del tradimento del comandante del forte – si asserragliarono le truppe dei francesi invasori e di lí cannoneggiarono verso la città prendendo alle spalle i patrioti napoletani fedeli al re borbone e ne fecero strage.
8 Va' fà ll'osse ô ponte
Letteralmente: vai a raccattare le ossa al ponte. Id est: mandare qualcuno a quel paese. Infatti la locuzione suona pure: mannà ô ponte(mandare al ponte) con il medesimo significato. Un tempo a Napoli presso il ponte della Maddalena, già ponte Licciardo esistette un macello, dove il popolo si recava ad acquistare le carni delle bestie macellate. I meno abbienti si accontentavano di prelevare gratis et amore Dei le ossa, per farne del brodo, per cui spingere qualcuno a fare le ossa al ponte significa augurargli grande miseria. La medesima accezione vale per la locuzione mannà a ‘o ponte; (mandare al ponte) tenendo presente che questa seconda locuzione la si usa nei confronti di uomini attempati e un po’ rovinati dagli acciacchi e dall’età ecco che essa locuzione à una valenza un po’ piú amara della prima giacché la si rivolge a chi- probabilmente - non à la capacità di ripigliarsi ed è costretto a subire gli strali dell’avversa fortuna.
9 Nè femmena, nè ttela a lume de cannela.
Letteralmente: Né donne, né tessuti alla luce artificiale. Id est: la luce artificiale può nascondere parecchi difetti, che - invece - alla luce del sole - vengono in risalto e ciò vale sia per la consistenza dei tessuti, sia - a maggior ragione - per la bellezza muliebre.
10 Meglio 'nu cantàro 'ncapa ca n'onza 'nculo!
Letteralmente: Meglio un quintale in testa che un'oncia nel sedere! Id est: meglio patire un danno fisico, che sopportarne uno morale. In pratica gli effetti del danno fisico, prima o poi svaniscono o si leniscono, quelli di un danno morale perdurano sine die.
la parola cantàro = quintale è un sost. masch. derivato dall’arabo qintar ed indica una misura di peso (circa cento chilogrammi) e non va assolutamente confusa con la parola càntaro che con derivazione dal lat. càntharu(m) indica il vaso da notte, il pitale.
Talvolta mi è occorso di udire, sulla bocca di meno esperti della lingua napoletana, la frase in epigrafe riportata come Meglio 'nu càntaro 'ncapa ca n'onza 'nculo! ma si tratta di un evidente errore da cui emendarsi.
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