ACCÍDIA, PIGRÍZIA, INÈRZIA, SVOGLIATÉZZA, ABULÍA, APATÍA, FIACCA IGNÀVIA
Questa volta prendo spunto per parlare delle voci italiane in epigrafe ed illustrare a seguire quelle che le rendono in napoletano, da una richiesta fattami da un caro amico,di cui per problema di privatezza, mi limito ad indicare le sole iniziali di nome e cognome: G.G., amico che fa parte della Ass.ne Ex Alunni del Liceo classico G.Garibaldi di Napoli; cominciamo con
accídia, s.vo f.le astratto
1 avversione all'operare unita a tedio; indolenza, pigrizia, inerzia
2 (teol.) l'indolenza nell'operare il bene, che costituisce uno dei sette peccati capitali.
Etimologicamente è voce dal lat. tardo acidia(m) o acedia(m), che è dal gr. akìdía 'negligenza', comp. di a- priv. e kêdos 'cura';
pigrízia, s.vo f.le astratto
l'essere pigro; indolenza, neghittosità. L’etimo è dal lat. pigritia(m), deriv. di piger -gra -grum 'pigro' tardo
inèrzia, s.vo f.le astratto
1 l'essere inerte; inattività, inoperosità: giacere nell'inerzia; scuotersi dall'inerzia
2 (fis.) proprietà di ogni corpo di persistere nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme se non intervengono forze esterne | forza d'inerzia, forza fittizia data dal prodotto della massa di un corpo in moto per la sua accelerazione cambiata di verso | per forza d' inerzia, (fig.) per abitudine, senza propria scelta o volontà
3 (med.) stasi funzionale, totale o parziale: inerzia uterina. L’etimo è dal lat. inertia(m), deriv. di iners inertis 'inerte, inattivo'; l’etimo è dal dal lat. inertia(m), deriv. di iners inertis 'inerte, inattivo';
svogliatezza, s.vo f.le astratto
L’essere svogliato, come condizione abituale o passeggera: è stato rimproverato per la sua s.; dovresti toglierti di dosso questa s.; dimostra s. anche nel mangiare; s. dal lavoro, dallo studio. Quanto all’etimo è voce costruita su svogliato che è attraverso la protesi di esse distrattiva, derivato da voglia deverbale di volere← lat. volg. *volíre, per il class. velle;
abulía, s.vo f.le astratto
1 mancanza, debolezza della volontà; irresolutezza
2 (psicol.) forma patologica di mancanza di volontà. Quanto all’etimo è voce derivata dal greco aboulía, comp. di a- priv. e boulé 'volontà';
apatía, s.vo f.le astratto 1 stato di indifferenza verso il mondo circostante, caratterizzato da mancanza di sentimenti e di volontà di azione: vivere, cadere nell'apatia
2 (filos.) nella morale stoica, l'ideale della serenità dell'anima ottenuta con la liberazione dalle passioni e mantenuta con l'esercizio della virtù.
Per l’etimo è voce derivata dal lat. apathia(m), che è dal gr. apátheia 'assenza di passioni';
fiacca s.vo f.le astratto
1 spossatezza, stanchezza, svogliatezza; lentezza negli atti o nelle parole: avere la fiacca | battere la fiacca, fare le cose svogliatamente e lentamente.
2 (ant.) strepito, baccano
3 (tosc.) abbondanza.
Quanto all’etimo è voce deverbale di fiaccare a sua volta denominale del lat. flaccu(m);
ignàvia s.vo f.le astratto
(lett.) mancanza di volontà e di forza morale.
Per l’etimo è voce derivata dal lat. ignavia(m), deriv. di ignavus 'ignavo'.
E passiamo alle voci del napoletano che rendono quelle or ora illustrate:
Musciaría s.vo f.le astratto
1 fiacca
2 spossatezza, stanchezza, svogliatezza; lentezza negli atti o nelle parole: tené ‘a musciaría: fare le cose svogliatamente e lentamente. Etimologicamente è voce denominale attraverso il suff. delle voci astratte ería→aría di muscio che è dal lat. musteu(m)=simile al mosto, molle;
‘ncrescimiento, s.vo m.le astratto
Lett. rammarico,rimpianto che inducono all’indolenza, alla neghittosità cioè alla mancanza di volontà di agire: ‘ncrescimiento ‘e fà coccosa; etimologicamente è un deverbale del lat. increscere, comp. di in- e crescere 'crescere'; propr. 'crescere sopra, crescere oltre il giusto';
putrunaría, s.vo f.le astratto
lo stato della persona pigra, di chi ama poltrire, stare in ozio; etimologicamente è voce denominale attraverso il suff. delle voci astratte ería→aría di putrone che è dal lat. volg. *pullitru(m)→*pu(lli)tru(m)+il suff. accrescitivo one→putrone , *pullitru(m) deriv. da pullus 'animale giovane' nel senso di animale giovane pigro, restio ad esser domato;
sfattezza, s.vo f.le astratto
snervatezza, spossatezza, sfinimento, prostrazione etimologicamente è un deverbale attraverso il suff. (dal lat. itia(m)), delle voci astratte itia→izza→ezza del p. p. disfactu(m) del lat. (di)sfacere;
trascuràggena s.vo f.le astratto
negligenza, sciatteria, incuria, svogliatezza, menefreghismo, sciatteria, indolenza, noncuranza etimologicamente è un deverbale attraverso il suff. delle voci astratte aggine→aggena (suffisso, che continua il lat. -agine(m)) del lat. tra(n)s-curare
E qui reputo di poter far punto, convinto d’aver accontentato l’amico G.G. e qualcun altro dei miei ventiquattro lettori.
Satis est.
Raffaele Bracale
lunedì 31 maggio 2010
FÀ ‘NU BELL’ACCÀTTETO.
FÀ ‘NU BELL’ACCÀTTETO.
Ad litteram: fare un bell’acquisto Ironica locuzione da intendersi chiaramente in senso antifrastico che si riferisce a chi à fatto un pessimo affare, un cattivo acquisto e magari à sborsato una somma esorbitante rispetto alla quantità o, piú spesso, alla qualità del bene acquisito; per traslato la locuzione viene riferita, a mo’ di dileggio a chi abbia impalmato una sposa rivelatasi poi meno virtuosa o meno docile di quel che apparisse.
accàtteto letteralmente: acquisto, compera, guadagno (anche in senso figurato) etimologicamente voce deverbale di accattà = acquistare, comprare e talvolta prendere, sottrarre come nel caso dell’espressione: ‘o sorice s’è accattato ‘o furmaggio: il topo (finito in trappola) à preso il formaggio (senza esser catturato); il verbo accattà/are è, a sua volta, dal basso latino ad-captare→accaptare→accattare intensivo di capere = prendere.
Raffaele Bracale
Ad litteram: fare un bell’acquisto Ironica locuzione da intendersi chiaramente in senso antifrastico che si riferisce a chi à fatto un pessimo affare, un cattivo acquisto e magari à sborsato una somma esorbitante rispetto alla quantità o, piú spesso, alla qualità del bene acquisito; per traslato la locuzione viene riferita, a mo’ di dileggio a chi abbia impalmato una sposa rivelatasi poi meno virtuosa o meno docile di quel che apparisse.
accàtteto letteralmente: acquisto, compera, guadagno (anche in senso figurato) etimologicamente voce deverbale di accattà = acquistare, comprare e talvolta prendere, sottrarre come nel caso dell’espressione: ‘o sorice s’è accattato ‘o furmaggio: il topo (finito in trappola) à preso il formaggio (senza esser catturato); il verbo accattà/are è, a sua volta, dal basso latino ad-captare→accaptare→accattare intensivo di capere = prendere.
Raffaele Bracale
'A VARCA CAMMINA E 'A FAVA SE COCE.
'A VARCA CAMMINA E 'A FAVA SE COCE.
Letteralmente: la barca cammina, e la fava si cuoce.
Estensivamente: gli affari progrediscono ed il sostentamento è assicurato.
La locuzione mette in relazione il cuocersi della fava (che indica, con il riferimento al cibo in cottura, la sopravvivenza,id est la continuata abbondanza di cibo) con il cammino della barca, ossia con il progredire delle attività economiche, per cui sarebbe piú opportuno tradurre: se la barca va, la fava cuoce.
Il proverbio, che fa riferimento all’attività marinaresca-commerciale, nacque, quasi certamente, in paesi della zona costiera lí dove parecchi traevano i loro guadagni o dalla pesca o dai commerci marinareschi.
varca= barca ed estensivamente ogni natante piú o meno grande adibito al lavoro o al diporto; sost. femm. derivato da un tardo latino barca(m) con consueta alternanza partenopea b/v.
cammina = cammina, progredisce ma qui naviga, voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito cammenà= camminare muoversi, spostarsi da un punto a un altro a piedi; per estens., passeggiare muoversi, avanzare, detto di veicoli, imbarcazioni etc. denominale di cammino che è dal lat. volg. *camminu(m), di orig. celtica;
fava = fava pianta erbacea con foglie paripennate, fiori bianchi macchiati di nero e legume a baccello contenente semi commestibili, di color verde e della forma di un grosso fagiolo appiattito (fam. Leguminose) (estens.) il seme commestibile della pianta; sost. femm. derivato dal at. faba(m);
coce= cuoce, viene a cottura voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito còcere sottoporre al calore del fuoco gli alimenti per renderli mangiabili e digeribili, o sostanze quali vetro, argilla ecc. per renderle adatte a determinati usi: bruciare, ustionare; per estens., seccare, inaridire con derivazione da un basso latino cocere per il class. coquere.
Raffaele Bracale
Letteralmente: la barca cammina, e la fava si cuoce.
Estensivamente: gli affari progrediscono ed il sostentamento è assicurato.
La locuzione mette in relazione il cuocersi della fava (che indica, con il riferimento al cibo in cottura, la sopravvivenza,id est la continuata abbondanza di cibo) con il cammino della barca, ossia con il progredire delle attività economiche, per cui sarebbe piú opportuno tradurre: se la barca va, la fava cuoce.
Il proverbio, che fa riferimento all’attività marinaresca-commerciale, nacque, quasi certamente, in paesi della zona costiera lí dove parecchi traevano i loro guadagni o dalla pesca o dai commerci marinareschi.
varca= barca ed estensivamente ogni natante piú o meno grande adibito al lavoro o al diporto; sost. femm. derivato da un tardo latino barca(m) con consueta alternanza partenopea b/v.
cammina = cammina, progredisce ma qui naviga, voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito cammenà= camminare muoversi, spostarsi da un punto a un altro a piedi; per estens., passeggiare muoversi, avanzare, detto di veicoli, imbarcazioni etc. denominale di cammino che è dal lat. volg. *camminu(m), di orig. celtica;
fava = fava pianta erbacea con foglie paripennate, fiori bianchi macchiati di nero e legume a baccello contenente semi commestibili, di color verde e della forma di un grosso fagiolo appiattito (fam. Leguminose) (estens.) il seme commestibile della pianta; sost. femm. derivato dal at. faba(m);
coce= cuoce, viene a cottura voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito còcere sottoporre al calore del fuoco gli alimenti per renderli mangiabili e digeribili, o sostanze quali vetro, argilla ecc. per renderle adatte a determinati usi: bruciare, ustionare; per estens., seccare, inaridire con derivazione da un basso latino cocere per il class. coquere.
Raffaele Bracale
À TIRATO ‘A SCIAVECA etc
À TIRATO ‘A SCIAVECA oppure
STA TIRANNO ‘A SCIAVECA
Letteralmente: À tirato la sciabica oppure Sta tirando la sciabica
Ambedue le espressioni sono usate o posteriormente o nel durante ad ironico ed antifrastico commento delle azioni di chi o reduce da o operante un leggero e/o inconferente lavoro, faccia invece cialtronescamente le viste di aver condotto a termine o di star facendo una faticosa incombenza;
la sciaveca è la grossa rete a strascico munita di ampio sacco centrale ed ali laterali sorrette da sugheri galleggianti, che viene calata in mare in prossimità della battigia e poi faticosamente tirata a riva a forza di braccia dai pescatori che per poterlo piú agevolmente fare sogliono entrare in acqua fino a restare a mollo con il fondoschiena donde l’espressione: stà cu ‘e ppacche dint’ a ll’acqua id est: star con le natiche in acqua per significare oltre che lo star lavorando faticosamente anche lo star in grande miseria nella convinzione (sia pure erronea) che il mestiere di pescatore non sia mai abbastanza remunerativo.
Etimologicamente la parola sciaveca pervenuta nel toscano come sciabica è derivata al napoletano (attraverso lo spagnolo xabeca) dall’arabo shabaka da cui anche il portoghesejabeca/ga.
Pacche s. f. pl. di pacca= natica e per traslato ognuna delle piú parti in cui si può dividere longitudinalmente una mela o una pera; etimologicamente la voce è dal lat. med. pacca marcato sul long. pakka.
Raffaele Bracale
STA TIRANNO ‘A SCIAVECA
Letteralmente: À tirato la sciabica oppure Sta tirando la sciabica
Ambedue le espressioni sono usate o posteriormente o nel durante ad ironico ed antifrastico commento delle azioni di chi o reduce da o operante un leggero e/o inconferente lavoro, faccia invece cialtronescamente le viste di aver condotto a termine o di star facendo una faticosa incombenza;
la sciaveca è la grossa rete a strascico munita di ampio sacco centrale ed ali laterali sorrette da sugheri galleggianti, che viene calata in mare in prossimità della battigia e poi faticosamente tirata a riva a forza di braccia dai pescatori che per poterlo piú agevolmente fare sogliono entrare in acqua fino a restare a mollo con il fondoschiena donde l’espressione: stà cu ‘e ppacche dint’ a ll’acqua id est: star con le natiche in acqua per significare oltre che lo star lavorando faticosamente anche lo star in grande miseria nella convinzione (sia pure erronea) che il mestiere di pescatore non sia mai abbastanza remunerativo.
Etimologicamente la parola sciaveca pervenuta nel toscano come sciabica è derivata al napoletano (attraverso lo spagnolo xabeca) dall’arabo shabaka da cui anche il portoghesejabeca/ga.
Pacche s. f. pl. di pacca= natica e per traslato ognuna delle piú parti in cui si può dividere longitudinalmente una mela o una pera; etimologicamente la voce è dal lat. med. pacca marcato sul long. pakka.
Raffaele Bracale
AGO & DINTORNI
AGO & DINTORNI
Relativamente alla voce ago dirò che in napoletano abbiamo ad un dipresso per indicare alcuni tipi di ago, le seguenti voci:
1 aco corrisponde all’italiano ago per cucire; s. m. piccola asticciola d'acciaio appuntita ad un'estremità e fornita all'altra di un foro (cruna) attraverso il quale si fa passare il filo per cucire; l’etimo è dal lat. acu(m), corradicale di acies 'punta';
2 cuglie nonché l’iterativo cuglie-cugliecorrisponde all’italiano ago per ricamare s. m. asticciola d'acciaio, un po’ piú sottile della precedente, appuntita ad un'estremità e fornita all'altra di un foro (cruna) attraverso il quale si fa passare il filo da ricamo ; l’etimo è da cercarsi o nello spagnolo (a)gugja o nel francese (ai)guille voci che ripetono nelle lingue d’appartenenza l’italiano aguglia tipico pesce azzurro armato di rostro aghiforme; tuttavia tutte le voci da agugja ad aguglia passando per aiguille prendon l’avvio tutte (con buona pace di Semerano... per il quale probabilmente la radice AK=AC, donde acus e ciò che ne segue, non è indoeuropea, ma semita!) da acus attraverso una forma diminutiva acucla sincopato di acuc(u)la.
A margine della voce cuglie/cuglie-cuglie rammento la tipica espressione napoletana che recita:vení armato ‘e preta pommice, cuglie-cuglie e fierre ‘e cazette
Ad litteram: Giungere fornito di pietra pomice, aghi sottilissimi e ferri da calze; detto di chi, chiamato a compiere un lavoro venga sul luogo dove debba operare ben fornito di tutti i ferri del mestiere( quelli che altrove si dice che facciano ‘o masto cioè che rendano provetto qualsiasi operaio che allora può portare a termine un’operazione, solo quando non gli manchino gli attrezzi adatti) ed in aggiunta a gli specifici ferri del mestiere, porti seco anche non specifici attrezzi, ma minuterie varie quali una pietra pomice, degli aghi sottili e/o sottilissimi e dei ferri da calza ( sorta di aghi molto piú spessi), tutte cose che, all’occorrenza, possano mostrarsi utili se non necessarie. Colui che, chiamato, si presentasse fornito di tutto quanto détto darebbe ad intendere d’essere adatto e preparato a compiere il lavoro che gli si intende affidare. Deporrebbe male chi, al contrario, mancasse di portar seco gli attrezzi necessarî: a costui, probabilmente non affideremmo nemmeno un piccolo e semplice lavoro.
3 - aco saccurale corrisponde all’italiano ago da sacchi o da materassaio asticciola d'acciaio, un po’ piú lunga e doppia delle precedenti, appuntita ad un'estremità e fornita all'altra di un foro (cruna) attraverso il quale si fa passare lo spago per cucire i sacchi o impunturare i materassi imbottiti di lana ; dovrebbe corrispondere all’incirca all’acucèddha voce pugliese; l’etimo dell’agg.vo saccurale è probabilmente d’un tardo latino *saccur+ale) che dovrebbe ripetere il greco sakkorapha= grosso ago da sacchi.Nella voce tardo latina si è partiti da saccu(m)e vi si è aggiunto il suffisso di pertinenza ale da alis legato, per evitar lo iato, attraverso l’epentesi della consonante R.
4 - fierre ‘e cazette letteralmente sono non specificatamente degli aghi, ma dei lunghi ( circa 40 cm. cadauno) sottili ferri da calze usati appunto nel lavoro di maglieria artigianale per la produzione di calze o altri manufatti in filato di lana o altri materiali tessili.
Fierre s.vo m. pl. di fierro lungo ago (di ferro, alluminio, acciaio, ma anche di legno o di plastica) che serve per lavorare a maglia ( dal lat. ferru(m)) Rammento che in napoletano con la parola fierro si indica sia il metallo grigio-argenteo, tenero, duttile, magnetico, raro in natura allo stato libero, ma presente in un gran numero di minerali, da cui si estrae fin dalla piú remota antichità, quanto qualsiasi strumento da lavoro forgiato in tutto o in parte con tale metallo (ad es. ‘o fierro pe stirà = il ferro da stiro, ‘e fierre d’’a fatica= gli strumenti da lavoro; la particolarità linguistica sta nel fatto che il metallo ferro in napoletano è inteso neutro e come tale va scritto con la geminazione della consonante iniziale (‘o ffierro = il metalloferro), mentre il ferro da lavoro è inteso maschile e perde la geminazione consonantica iniziale(‘o fierro d’’a fatica = il ferro da lavoro, ‘o fierro pe stirà =il ferro per stirare) e tutto ciò si ripropone ad es. per la voce pane che come alimento è inteso neutro (perciò ‘o ppane e non ‘o pane) ed ancór piú sui ritrova nella voce caffè che in napoletano indica la pianta tropicale sempreverde con fiori bianchi e frutti a bacche scarlatte contenenti ciascuna due chicchi verdognoli (fam. Rubiacee), i chicchi di détta pianta e la bevanda amara e aromatica che si ricava dalla polvere dei chicchi tostati e macinati,( ed in tal caso la voce è neutra e si à ‘o ccafè), ma indica pure il locale dove viene preparato e venduta al minuto la bevanda di caffè (ed in tal caso la voce è maschile e si à ‘o cafè) infine ancóra ad esempio del doppio genere abbiamo in napoletano, il maschile ‘o russo (= colui che è rosso di capelli) ed il neutro ‘o rrusso (il colore rosso / il sangue).
Raffaele Bracale
Relativamente alla voce ago dirò che in napoletano abbiamo ad un dipresso per indicare alcuni tipi di ago, le seguenti voci:
1 aco corrisponde all’italiano ago per cucire; s. m. piccola asticciola d'acciaio appuntita ad un'estremità e fornita all'altra di un foro (cruna) attraverso il quale si fa passare il filo per cucire; l’etimo è dal lat. acu(m), corradicale di acies 'punta';
2 cuglie nonché l’iterativo cuglie-cugliecorrisponde all’italiano ago per ricamare s. m. asticciola d'acciaio, un po’ piú sottile della precedente, appuntita ad un'estremità e fornita all'altra di un foro (cruna) attraverso il quale si fa passare il filo da ricamo ; l’etimo è da cercarsi o nello spagnolo (a)gugja o nel francese (ai)guille voci che ripetono nelle lingue d’appartenenza l’italiano aguglia tipico pesce azzurro armato di rostro aghiforme; tuttavia tutte le voci da agugja ad aguglia passando per aiguille prendon l’avvio tutte (con buona pace di Semerano... per il quale probabilmente la radice AK=AC, donde acus e ciò che ne segue, non è indoeuropea, ma semita!) da acus attraverso una forma diminutiva acucla sincopato di acuc(u)la.
A margine della voce cuglie/cuglie-cuglie rammento la tipica espressione napoletana che recita:vení armato ‘e preta pommice, cuglie-cuglie e fierre ‘e cazette
Ad litteram: Giungere fornito di pietra pomice, aghi sottilissimi e ferri da calze; detto di chi, chiamato a compiere un lavoro venga sul luogo dove debba operare ben fornito di tutti i ferri del mestiere( quelli che altrove si dice che facciano ‘o masto cioè che rendano provetto qualsiasi operaio che allora può portare a termine un’operazione, solo quando non gli manchino gli attrezzi adatti) ed in aggiunta a gli specifici ferri del mestiere, porti seco anche non specifici attrezzi, ma minuterie varie quali una pietra pomice, degli aghi sottili e/o sottilissimi e dei ferri da calza ( sorta di aghi molto piú spessi), tutte cose che, all’occorrenza, possano mostrarsi utili se non necessarie. Colui che, chiamato, si presentasse fornito di tutto quanto détto darebbe ad intendere d’essere adatto e preparato a compiere il lavoro che gli si intende affidare. Deporrebbe male chi, al contrario, mancasse di portar seco gli attrezzi necessarî: a costui, probabilmente non affideremmo nemmeno un piccolo e semplice lavoro.
3 - aco saccurale corrisponde all’italiano ago da sacchi o da materassaio asticciola d'acciaio, un po’ piú lunga e doppia delle precedenti, appuntita ad un'estremità e fornita all'altra di un foro (cruna) attraverso il quale si fa passare lo spago per cucire i sacchi o impunturare i materassi imbottiti di lana ; dovrebbe corrispondere all’incirca all’acucèddha voce pugliese; l’etimo dell’agg.vo saccurale è probabilmente d’un tardo latino *saccur+ale) che dovrebbe ripetere il greco sakkorapha= grosso ago da sacchi.Nella voce tardo latina si è partiti da saccu(m)e vi si è aggiunto il suffisso di pertinenza ale da alis legato, per evitar lo iato, attraverso l’epentesi della consonante R.
4 - fierre ‘e cazette letteralmente sono non specificatamente degli aghi, ma dei lunghi ( circa 40 cm. cadauno) sottili ferri da calze usati appunto nel lavoro di maglieria artigianale per la produzione di calze o altri manufatti in filato di lana o altri materiali tessili.
Fierre s.vo m. pl. di fierro lungo ago (di ferro, alluminio, acciaio, ma anche di legno o di plastica) che serve per lavorare a maglia ( dal lat. ferru(m)) Rammento che in napoletano con la parola fierro si indica sia il metallo grigio-argenteo, tenero, duttile, magnetico, raro in natura allo stato libero, ma presente in un gran numero di minerali, da cui si estrae fin dalla piú remota antichità, quanto qualsiasi strumento da lavoro forgiato in tutto o in parte con tale metallo (ad es. ‘o fierro pe stirà = il ferro da stiro, ‘e fierre d’’a fatica= gli strumenti da lavoro; la particolarità linguistica sta nel fatto che il metallo ferro in napoletano è inteso neutro e come tale va scritto con la geminazione della consonante iniziale (‘o ffierro = il metalloferro), mentre il ferro da lavoro è inteso maschile e perde la geminazione consonantica iniziale(‘o fierro d’’a fatica = il ferro da lavoro, ‘o fierro pe stirà =il ferro per stirare) e tutto ciò si ripropone ad es. per la voce pane che come alimento è inteso neutro (perciò ‘o ppane e non ‘o pane) ed ancór piú sui ritrova nella voce caffè che in napoletano indica la pianta tropicale sempreverde con fiori bianchi e frutti a bacche scarlatte contenenti ciascuna due chicchi verdognoli (fam. Rubiacee), i chicchi di détta pianta e la bevanda amara e aromatica che si ricava dalla polvere dei chicchi tostati e macinati,( ed in tal caso la voce è neutra e si à ‘o ccafè), ma indica pure il locale dove viene preparato e venduta al minuto la bevanda di caffè (ed in tal caso la voce è maschile e si à ‘o cafè) infine ancóra ad esempio del doppio genere abbiamo in napoletano, il maschile ‘o russo (= colui che è rosso di capelli) ed il neutro ‘o rrusso (il colore rosso / il sangue).
Raffaele Bracale
domenica 30 maggio 2010
FARSE VENÍ ‘E STINGINE
FARSE VENÍ ‘E STINGINE
Locuzione che quasi litteram può rendersi come quella che recita“farse vení ‘e riscenzielle” con : farsi venire le convulsioni, i deliquii.
Simpatica, icastica espressione che fotografa anch’essa l’isterico e falso comportamento di chi, si lasci andare a piccoli strani contorcimenti e/o convulsioni ( epperò piú figurati e morali che concreti e fisici) conditi di sterili isterismi e stolti capricci: atteggiamento che tuttavia non è tipico(come invece quello che parla di riscenzielle) delle donne o dei bambini, ma è d’uso anche tra gli uomini fatti che davanti a situazioni od accadimenti che non ritengono di loro gradimento, sogliono pretestuosamente reagire con comportamenti di pretestuosa ripulsa, di fastidiosi dinieghi, cadendo in quei figurati contorcimenti coi quali tentano di allontanare quelle situazioni e/o quegli accadimenti ritenuti sgradevoli o sgraditi.
Molto particolare l’etimologia di stengine o altrove stencine che sono innanzi tutto il plurale di stingino o altrove stincino e risultano essere un deverbale del verbo stingenà/stincinà = storcere, allontanare da una normale linea dritta ; tale verbo che a sua volta è un denominale di stenca= stinco, osso che va dal ginocchio alla caviglia ( e che è derivato dal longobardo skenka); tento di chiarire il percorso semantico per giungere alle convulsioni e/o contorcimenti indicati dalle voci stingino/stincino partendo dalle azioni indicate dal verbo stingenà/stincinà; in effetti, un improvviso, proditorio colpo che sia assestato allo stinco può ingenerare con il dolore che ne provoca, un innaturale, procurato storcimento della gamba se non di tutto il corpo, un’andatura irregolare, una sorta di zoppía; segnalo ancóra che il verbo stingenà/stincinà à oltre i rammentati significati di storcere, allontanare da una normale linea dritta, soprattutto se coniugato al part. passato (stingenato/a-stencenato/a) anche quelli traslati ed estensivi di storcere/storcersi donde storto/a ed anche il significato di spaventarsi soprattutto se addizionato della causa efficiente specificativa ‘e paura = dalla paura donde stingenato/a-stencenato/a ‘e paura cioè a dire: tanto impaurito da torcersene.
Satis est.
raffaele bracale
Locuzione che quasi litteram può rendersi come quella che recita“farse vení ‘e riscenzielle” con : farsi venire le convulsioni, i deliquii.
Simpatica, icastica espressione che fotografa anch’essa l’isterico e falso comportamento di chi, si lasci andare a piccoli strani contorcimenti e/o convulsioni ( epperò piú figurati e morali che concreti e fisici) conditi di sterili isterismi e stolti capricci: atteggiamento che tuttavia non è tipico(come invece quello che parla di riscenzielle) delle donne o dei bambini, ma è d’uso anche tra gli uomini fatti che davanti a situazioni od accadimenti che non ritengono di loro gradimento, sogliono pretestuosamente reagire con comportamenti di pretestuosa ripulsa, di fastidiosi dinieghi, cadendo in quei figurati contorcimenti coi quali tentano di allontanare quelle situazioni e/o quegli accadimenti ritenuti sgradevoli o sgraditi.
Molto particolare l’etimologia di stengine o altrove stencine che sono innanzi tutto il plurale di stingino o altrove stincino e risultano essere un deverbale del verbo stingenà/stincinà = storcere, allontanare da una normale linea dritta ; tale verbo che a sua volta è un denominale di stenca= stinco, osso che va dal ginocchio alla caviglia ( e che è derivato dal longobardo skenka); tento di chiarire il percorso semantico per giungere alle convulsioni e/o contorcimenti indicati dalle voci stingino/stincino partendo dalle azioni indicate dal verbo stingenà/stincinà; in effetti, un improvviso, proditorio colpo che sia assestato allo stinco può ingenerare con il dolore che ne provoca, un innaturale, procurato storcimento della gamba se non di tutto il corpo, un’andatura irregolare, una sorta di zoppía; segnalo ancóra che il verbo stingenà/stincinà à oltre i rammentati significati di storcere, allontanare da una normale linea dritta, soprattutto se coniugato al part. passato (stingenato/a-stencenato/a) anche quelli traslati ed estensivi di storcere/storcersi donde storto/a ed anche il significato di spaventarsi soprattutto se addizionato della causa efficiente specificativa ‘e paura = dalla paura donde stingenato/a-stencenato/a ‘e paura cioè a dire: tanto impaurito da torcersene.
Satis est.
raffaele bracale
CAGNACAVALLE
CAGNACAVALLE
Con la parola in epigrafe, a far tempo dalla seconda metà del 1400, a Napoli si intese indicare chi su banchetti di fortuna nell’àmbito dei mercati rionali esercitasse, spesso senza essere autorizzato/a, il mestiere di cambiavalute e non chi esercitasse l’attività di addetto al cambio di posta ( come erroneamente potrebbe far pensare la parola formata dall’agglutinazione della voce verbale cagna (3° persona ind. pres. del verbo cagnare= cambiare dal tardo lat. *cammjare per * cambiare, di orig. gallica) con il sostantivo cavalle (plur. di cavallo che è dal tardo lat. caballu(m).
La faccenda si spiega con il fatto che la voce cavalle, seconda parte della voce cagna-cavalle non si riferisce al veri e proprî grossi mammiferi erbivori con testa lunga, collo diritto sovrastato da criniera, coda corta con peli lunghissimi, orecchie corte e diritte, arti con un solo dito, usati appunto nelle poste (luoghi situati lungo le vie di comunicazioni ed usati dai viaggiatori per fermarvisi temporaneamente, rifocillarsi e sostituire gli stanchi cavalli usati fino al momento del cambio), ma si riferisce ad una moneta che i napoletani chiamarono cavallo; rammento appunto che
nella seconda metà del Quattrocento Napoli era governata da Ferdinando I d’Aragona, il quale nel 1472 fece coniare una moneta sul cui rovescio era effigiato un cavallo galoppante. Il popolo chiamò questa moneta «cavallo»→ca(va)llo e, nei secoli successivi, molti altri sovrani fecero battere monete con la medesima effige e conseguente medesimo nome, sino all’ultima emissione da tre cavalli→tre ca(va)lle del 1804. A margine rammento un icastica espressione partenopea che recita: Pe ttre ccalle 'e sale, se perde 'a menesta.
Letteralmente: per pochi soldi di sale si perde la minestra. La locuzione la si usa quando si voglia commentare la sventatezza di qualcuno che per non aver voluto usare una piccola diligenza nel condurre a termine un'operazione, à prodotto danni incalcolabili, tali da nuocere alla stessa conclusione dell'operazione. 'O treccalle, come ricordato, era la piú piccola moneta divisionale napoletana pari a stento al mezzo tornese ed aveva un limitatissimo potere d'acquisto, per cui era da stupidi rischiare di rovinare un'intera minestra per lesinare sull'impiego di trecalli per acquistare il necessario sale che insaporisse la minestra.
Raffaele Bracale
Con la parola in epigrafe, a far tempo dalla seconda metà del 1400, a Napoli si intese indicare chi su banchetti di fortuna nell’àmbito dei mercati rionali esercitasse, spesso senza essere autorizzato/a, il mestiere di cambiavalute e non chi esercitasse l’attività di addetto al cambio di posta ( come erroneamente potrebbe far pensare la parola formata dall’agglutinazione della voce verbale cagna (3° persona ind. pres. del verbo cagnare= cambiare dal tardo lat. *cammjare per * cambiare, di orig. gallica) con il sostantivo cavalle (plur. di cavallo che è dal tardo lat. caballu(m).
La faccenda si spiega con il fatto che la voce cavalle, seconda parte della voce cagna-cavalle non si riferisce al veri e proprî grossi mammiferi erbivori con testa lunga, collo diritto sovrastato da criniera, coda corta con peli lunghissimi, orecchie corte e diritte, arti con un solo dito, usati appunto nelle poste (luoghi situati lungo le vie di comunicazioni ed usati dai viaggiatori per fermarvisi temporaneamente, rifocillarsi e sostituire gli stanchi cavalli usati fino al momento del cambio), ma si riferisce ad una moneta che i napoletani chiamarono cavallo; rammento appunto che
nella seconda metà del Quattrocento Napoli era governata da Ferdinando I d’Aragona, il quale nel 1472 fece coniare una moneta sul cui rovescio era effigiato un cavallo galoppante. Il popolo chiamò questa moneta «cavallo»→ca(va)llo e, nei secoli successivi, molti altri sovrani fecero battere monete con la medesima effige e conseguente medesimo nome, sino all’ultima emissione da tre cavalli→tre ca(va)lle del 1804. A margine rammento un icastica espressione partenopea che recita: Pe ttre ccalle 'e sale, se perde 'a menesta.
Letteralmente: per pochi soldi di sale si perde la minestra. La locuzione la si usa quando si voglia commentare la sventatezza di qualcuno che per non aver voluto usare una piccola diligenza nel condurre a termine un'operazione, à prodotto danni incalcolabili, tali da nuocere alla stessa conclusione dell'operazione. 'O treccalle, come ricordato, era la piú piccola moneta divisionale napoletana pari a stento al mezzo tornese ed aveva un limitatissimo potere d'acquisto, per cui era da stupidi rischiare di rovinare un'intera minestra per lesinare sull'impiego di trecalli per acquistare il necessario sale che insaporisse la minestra.
Raffaele Bracale
SE FRUSCIA PINTAURO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO etc.
SE FRUSCIA PINTAURO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO. variante: SE FRUSCIA PANTUSCO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO.
Ad litteram: Si vanta (a torto) Pintauro delle (sue) sfogliatelle (che invece risultano) inacidite; nella variante, il cognome Pintauro, ( che come chiarirò fu quello del piú famoso pasticciere napoletano principale produttore di sfogliatelle (fra i piú tipici e rinomati dolci partenopei) fu sostituito con il nome di fantasia Pantusco, per non incorrere con l’espressione in epigrafe, nelle ire del sig. Pintauro che si vedeva messo in ridicolo e punto sul vivo in ciò ch’egli riteneva tra le sue migliori capacità: quella di sfornare ottime sfogliatelle che normalmente erano freschissime e gustose e non certo inacidite, come si tentava di far credere. Locuzione popolarissima usata a sapido, anzi sarcastico commento delle azioni di chi, supponente ed arrogante, si glori, vantandosi a spropositodel proprio operato che – lungi dall’esser commendevole – è in realtà di segno opposto. Nella stesura della locuzione, di origine popolare si prese a riferimento dapprima il dolciere Pasquale Pintauro, che – come vedremo – aveva fatto le sue fortune commerciali fabbricando un dolce diventato poi famosissimo, la cui ricetta originaria (e lo vedremo) gli era stata forse suggerita da una sua anziana congiunta, monaca nel monastero di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini nelle cui cucine era stata casualmente inventata la santarosa tronfia antenata della sfogliatella. Successivamente, forse a causa delle rimostranze di P.Pintauro che vedeva coinvolto il suo nome in una locuzione negativa, si mutò il nome di Pintauro (personaggio reale ed esistente) in quello di un inventato di Pantusco che, d’altro canto, storicamente nulla aveva a che spartire (né poteva essendo persona inesistente) con la sfogliatella. E di quest’ultima tracciamo ora brevemente una storia. Comincerò col dire che, come è intuibile, ogni dolce à una sua storia. A volte faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata. La storia della sfogliatella appartiene fortunatamente alla prima categoria. La sfogliatella, dolce tipicamente partenopeo nacque (sia pure con un nome diverso) come spesso accadde per tanti dolci napoletani in un monastero: quello di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In quel riservato luogo ci si dedicava tantissimo alla preghiera, allo studio ed al lavoro manuale; il poco tempo libero residuo, (non potendo le monache intrattener rapporti con il mondo esterno…) veniva speso in cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il loro orto e la loro vigna, sí da ridurre al minimo i contatti con l’esterno, ed aumentare, con la preghiera, quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menú servito a refettorio era ovviamente uguale per tutte; soltanto le monache piú anziane potevano godere di un vitto speciale, fatto di semplici, ma nutrienti minestrine. Avvenne cosí che un giorno di tanto tempo fa (siamo nel 1600) la suora addetta alla cucina si accorse che in un tegame era avanzata un po’ di semola cotta nel latte, preparata per una vecchia suora sdentata; buttarla sarebbe stato un sacrilegio. Fu cosí che, come ispirata dal Cielo , la suora cuciniera vi cacciò dentro un paio di uova, due o tre cucchiai di ricotta, un po’ di frutta secca tritata , dello zucchero e del liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”, disse fra sé e sé. Ma da metter dentro a che cosa? La fantasia non le mancava e risolse súbito il problema: preparò con uova e farina due sfoglie di pasta vi aggiunse strutto e vino bianco, e vi sistemò nel mezzo il ripieno. Poi, per soddisfare il suo gusto estetico, sollevò un po’ la sfoglia superiore, le diede la forma di un cappuccio di monaco, ed infornò il tutto. A cottura ultimata, guarní il dolce con un cordone di crema pasticciera e delle amarene candite. La Madre Superiora, a cui per prima fu ammannito il dolce, sulle prime lo annusò , e súbito dopo (non si è Madri superiore indarno o per caso!...) fiutò l’affare: con quell’invenzione benedetta (e soprattutto saporita) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse del convento. La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce poteva esser messo nella classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci avessero messo (in entrata), qualche moneta. Al dolce venne assegnato ovviamente , il nome della Santa a cui era dedicato il convento. Come tutti i doni di Dio, la santarosa non poteva restare confinata in un sol luogo, per la gioia di pochi. Occorse del tempo, ma poi il dolce divenne noto in tutto il napoletano; in effetti la santarosa impiegò circa centocinquant’anni per percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui vi arrivò ai primi del 1800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro, nipote di una delle monache del convento amalfitano. I napoletani d’antan potrebbero opporre che Pintauro fu un pasticciere, e non un oste. Eppure al tempo di cui stiamo parlando, P.Pintauro era effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di fronte alla strada di Santa Brigida. La bottega di P.Pintauro rimase un’osteria fino al 1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso, probabilmente come grazioso dono della sua zia monaca che gliene parlò in articulo mortis, della ricetta originale della santarosa. Fu cosí che Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertí in un laboratorio dolciario, dove si produssero con le sfogliatelle anche altri dolci pare d’invenzione dello stesso Pintauro: zeppole di san Giuseppe, code d’aragoste ,babà con l’uvetta e naturalmente tutti gli altri dolci della tradizione partenopea, nati quasi tutti nei monasteri femminili napoletani e/o della provincia o copiati da altri famosi dolcieri come nel caso del diplomatico e del ministeriale . Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la modificò, eliminando la crema pasticciera e l’amarena, e sopprimendo la protuberanza superiore a cappuccio di monaco. Era nata la sfogliatella. La sua varietà piú famosa, la cosiddetta “riccia”, mantiene da allora la sua forma triangolare, a conchiglia, vagamente rococò. Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli, con gran soddisfazione. Se si cerca l’eccellenza però,accanto alla bottega dei F.lli Attanasio al vico Ferrovia (che sull’insegna e la carta intestata scrive Napule tre ccose tene ‘e bbello: ‘o mare, ‘o Vesuvio e ‘e sfugliatelle bisogna cercare la bottega di Pintauro che è ancòra là a Toledo: à cambiato gestione, ma non à cambiato il nome e neppure l’insegna, e tanto meno la qualità. Che resta quella di quasi duecento anni or sono.
se fruscia = si vanta, si pavoneggia, si gloria voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) del riflessivo frusciarse da fruscià/frusciare che con etimo dal b.latino frustiare sta per fare in pezzi, sciupare, consumare; i significati estensivi di vantarsi, gloriarsi, pavoneggiarsi del riflessivo frusciarse sono da collegarsi forse, ma la strada da percorrere è impervia, al significato primo del riflessivo che è affaccendarsi in qlc., facendo mostra del proprio impegno. Pintauro: Come abbiamo visto si tratta dell’oste, poi pasticciere (sfogliatelle, zeppole di san Giuseppe, code di aragoste ed altri dolci) Pasquale Pintauro che ebbe dapprima osteria e poi pasticceria in un piccolo antichissimo locale sito in Napoli alla via Toledo; di tale oste/dolciere mancano precise note biografiche; la tradizione vuole che fosse il nipote d’una monaca di clausura, che – come ò detto – pare gli forní, in punto di morte, la ricetta della santarosa da cui l’oste ricavò la sfogliatella. Pantusco inesistente personaggio il cui nome inventato dal popolino venne usato per sostituire l’originario Pintauro che s’era adontato sentondosi ingiustamente chiamato in causa, con la locuzione in epigrafe, come produttore di dolci non freschissimi.
sfugliatelle = sfogliatelle s. f. plurale di sfugliatella piccolo, gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di semola, uova e ricotta, canditi e spezie varie; etimologicamente è un derivato di sfoglia→sfogliata→sfogliatella.
jute= andate voce verbale (part. pass. femm.plur.) dell’infinito jí= andare dal lat. ire.
acito= aceto s. m. prodotto della fermentazione del vino o di altri liquidi alcolici, usato come condimento, nella conservazione di prodotti alimentari e in farmacia; (etimo dal lat. acitu(m)); l’espressione jí acito vale inacidire, andare a male ed è detto soprattutto dei cibi che, o perché confezionati con ingredienti non freschissimi o perché mal conservati o esposti ad improprî agenti atmosferici, perdono l’originario sapore e diventano acidi, rovinandosi tanto da non esser piú commestibili; in senso estensivo e traslato l’espressione può essere usata anche nei riguardi di situazioni interpersonali che, per svariati motivi, si logorano perdendo l’originaria freschezza fino a determinare la interruzione di quei rapporti logorati.
Raffaele Bracale
Ad litteram: Si vanta (a torto) Pintauro delle (sue) sfogliatelle (che invece risultano) inacidite; nella variante, il cognome Pintauro, ( che come chiarirò fu quello del piú famoso pasticciere napoletano principale produttore di sfogliatelle (fra i piú tipici e rinomati dolci partenopei) fu sostituito con il nome di fantasia Pantusco, per non incorrere con l’espressione in epigrafe, nelle ire del sig. Pintauro che si vedeva messo in ridicolo e punto sul vivo in ciò ch’egli riteneva tra le sue migliori capacità: quella di sfornare ottime sfogliatelle che normalmente erano freschissime e gustose e non certo inacidite, come si tentava di far credere. Locuzione popolarissima usata a sapido, anzi sarcastico commento delle azioni di chi, supponente ed arrogante, si glori, vantandosi a spropositodel proprio operato che – lungi dall’esser commendevole – è in realtà di segno opposto. Nella stesura della locuzione, di origine popolare si prese a riferimento dapprima il dolciere Pasquale Pintauro, che – come vedremo – aveva fatto le sue fortune commerciali fabbricando un dolce diventato poi famosissimo, la cui ricetta originaria (e lo vedremo) gli era stata forse suggerita da una sua anziana congiunta, monaca nel monastero di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini nelle cui cucine era stata casualmente inventata la santarosa tronfia antenata della sfogliatella. Successivamente, forse a causa delle rimostranze di P.Pintauro che vedeva coinvolto il suo nome in una locuzione negativa, si mutò il nome di Pintauro (personaggio reale ed esistente) in quello di un inventato di Pantusco che, d’altro canto, storicamente nulla aveva a che spartire (né poteva essendo persona inesistente) con la sfogliatella. E di quest’ultima tracciamo ora brevemente una storia. Comincerò col dire che, come è intuibile, ogni dolce à una sua storia. A volte faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata. La storia della sfogliatella appartiene fortunatamente alla prima categoria. La sfogliatella, dolce tipicamente partenopeo nacque (sia pure con un nome diverso) come spesso accadde per tanti dolci napoletani in un monastero: quello di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In quel riservato luogo ci si dedicava tantissimo alla preghiera, allo studio ed al lavoro manuale; il poco tempo libero residuo, (non potendo le monache intrattener rapporti con il mondo esterno…) veniva speso in cucina, amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il loro orto e la loro vigna, sí da ridurre al minimo i contatti con l’esterno, ed aumentare, con la preghiera, quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menú servito a refettorio era ovviamente uguale per tutte; soltanto le monache piú anziane potevano godere di un vitto speciale, fatto di semplici, ma nutrienti minestrine. Avvenne cosí che un giorno di tanto tempo fa (siamo nel 1600) la suora addetta alla cucina si accorse che in un tegame era avanzata un po’ di semola cotta nel latte, preparata per una vecchia suora sdentata; buttarla sarebbe stato un sacrilegio. Fu cosí che, come ispirata dal Cielo , la suora cuciniera vi cacciò dentro un paio di uova, due o tre cucchiai di ricotta, un po’ di frutta secca tritata , dello zucchero e del liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”, disse fra sé e sé. Ma da metter dentro a che cosa? La fantasia non le mancava e risolse súbito il problema: preparò con uova e farina due sfoglie di pasta vi aggiunse strutto e vino bianco, e vi sistemò nel mezzo il ripieno. Poi, per soddisfare il suo gusto estetico, sollevò un po’ la sfoglia superiore, le diede la forma di un cappuccio di monaco, ed infornò il tutto. A cottura ultimata, guarní il dolce con un cordone di crema pasticciera e delle amarene candite. La Madre Superiora, a cui per prima fu ammannito il dolce, sulle prime lo annusò , e súbito dopo (non si è Madri superiore indarno o per caso!...) fiutò l’affare: con quell’invenzione benedetta (e soprattutto saporita) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse del convento. La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce poteva esser messo nella classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci avessero messo (in entrata), qualche moneta. Al dolce venne assegnato ovviamente , il nome della Santa a cui era dedicato il convento. Come tutti i doni di Dio, la santarosa non poteva restare confinata in un sol luogo, per la gioia di pochi. Occorse del tempo, ma poi il dolce divenne noto in tutto il napoletano; in effetti la santarosa impiegò circa centocinquant’anni per percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui vi arrivò ai primi del 1800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro, nipote di una delle monache del convento amalfitano. I napoletani d’antan potrebbero opporre che Pintauro fu un pasticciere, e non un oste. Eppure al tempo di cui stiamo parlando, P.Pintauro era effettivamente un oste, con bottega in via Toledo, proprio di fronte alla strada di Santa Brigida. La bottega di P.Pintauro rimase un’osteria fino al 1818, anno in cui Pasquale entrò in possesso, probabilmente come grazioso dono della sua zia monaca che gliene parlò in articulo mortis, della ricetta originale della santarosa. Fu cosí che Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertí in un laboratorio dolciario, dove si produssero con le sfogliatelle anche altri dolci pare d’invenzione dello stesso Pintauro: zeppole di san Giuseppe, code d’aragoste ,babà con l’uvetta e naturalmente tutti gli altri dolci della tradizione partenopea, nati quasi tutti nei monasteri femminili napoletani e/o della provincia o copiati da altri famosi dolcieri come nel caso del diplomatico e del ministeriale . Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la modificò, eliminando la crema pasticciera e l’amarena, e sopprimendo la protuberanza superiore a cappuccio di monaco. Era nata la sfogliatella. La sua varietà piú famosa, la cosiddetta “riccia”, mantiene da allora la sua forma triangolare, a conchiglia, vagamente rococò. Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli, con gran soddisfazione. Se si cerca l’eccellenza però,accanto alla bottega dei F.lli Attanasio al vico Ferrovia (che sull’insegna e la carta intestata scrive Napule tre ccose tene ‘e bbello: ‘o mare, ‘o Vesuvio e ‘e sfugliatelle bisogna cercare la bottega di Pintauro che è ancòra là a Toledo: à cambiato gestione, ma non à cambiato il nome e neppure l’insegna, e tanto meno la qualità. Che resta quella di quasi duecento anni or sono.
se fruscia = si vanta, si pavoneggia, si gloria voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) del riflessivo frusciarse da fruscià/frusciare che con etimo dal b.latino frustiare sta per fare in pezzi, sciupare, consumare; i significati estensivi di vantarsi, gloriarsi, pavoneggiarsi del riflessivo frusciarse sono da collegarsi forse, ma la strada da percorrere è impervia, al significato primo del riflessivo che è affaccendarsi in qlc., facendo mostra del proprio impegno. Pintauro: Come abbiamo visto si tratta dell’oste, poi pasticciere (sfogliatelle, zeppole di san Giuseppe, code di aragoste ed altri dolci) Pasquale Pintauro che ebbe dapprima osteria e poi pasticceria in un piccolo antichissimo locale sito in Napoli alla via Toledo; di tale oste/dolciere mancano precise note biografiche; la tradizione vuole che fosse il nipote d’una monaca di clausura, che – come ò detto – pare gli forní, in punto di morte, la ricetta della santarosa da cui l’oste ricavò la sfogliatella. Pantusco inesistente personaggio il cui nome inventato dal popolino venne usato per sostituire l’originario Pintauro che s’era adontato sentondosi ingiustamente chiamato in causa, con la locuzione in epigrafe, come produttore di dolci non freschissimi.
sfugliatelle = sfogliatelle s. f. plurale di sfugliatella piccolo, gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di semola, uova e ricotta, canditi e spezie varie; etimologicamente è un derivato di sfoglia→sfogliata→sfogliatella.
jute= andate voce verbale (part. pass. femm.plur.) dell’infinito jí= andare dal lat. ire.
acito= aceto s. m. prodotto della fermentazione del vino o di altri liquidi alcolici, usato come condimento, nella conservazione di prodotti alimentari e in farmacia; (etimo dal lat. acitu(m)); l’espressione jí acito vale inacidire, andare a male ed è detto soprattutto dei cibi che, o perché confezionati con ingredienti non freschissimi o perché mal conservati o esposti ad improprî agenti atmosferici, perdono l’originario sapore e diventano acidi, rovinandosi tanto da non esser piú commestibili; in senso estensivo e traslato l’espressione può essere usata anche nei riguardi di situazioni interpersonali che, per svariati motivi, si logorano perdendo l’originaria freschezza fino a determinare la interruzione di quei rapporti logorati.
Raffaele Bracale
ARZIGOGOLO e dintorni
ARZIGOGOLO e dintorni
L’amico N.C. (i consueti problemi di privatezza mi impongono l’indicazione delle sole iniziali di nome e cognome) mi chiese di parlare della voce in epigrafe e delle corrispondenti voci del napoletano. L’accontento qui di sèguito con il dire che con la voce in epigrafe arzigogolo ( con etimo derivato da girigogolo allungamento di girigoro secondo un percorso morfologico comportante la trasposizione di lettere nel primo elemento e cioè: argi→arzi per giri) la lingua ufficiale nazionale intende volta a volta un discorso o un ragionamento astruso e lambiccato, una fantasticheria, un cavillo, un espediente dialettico, una trovata spesso truffaldina, ma ingegnosa, un giro di parole ingegnoso e bizzarro, un raggiro fuorviante, un pretesto etc.
Il napoletano per tali necessità à parecchie voci ed ognuna piú circostanziata ed esattamente coniata per indicare con maggior precisione ognuna delle suaccennate occorrenze; tento qui di sèguito di elencare tali voci partenopee dandone, ove possibile, l’etimo ed il preciso campo d’applicazione; cominciamo:
allefrecaglia/arrefrecaglia che nel significato di giro di parole ingegnoso e bizzarro, sono ambedue ampliamento di lefrecaglia deverbale del basso latino *refragare = cavillare, sminuzzare etc.;
ciaranfa che nel significato di discorso astruso e lambiccato, noiosamente ripetitivo trova il suo etimo nell’adattamento popolare della voce ciaraffa che di per sé (con provenienza dall’arabo giarif) indica una moneta sonante, ma di poco valore e semanticamente la cosa si spiega col fatto che come la moneta ciaraffa è sonante,sí ma in realtà di poco valore, cosí la ciaranfa quale discorso astruso e lambiccato, noiosamente ripetitivo, produce solo rumore, ma non significante e quindi senza valore;
‘mbròglia è una fantasticheria intrisa di parole eccedenti, un pretesto lungamente... diluito di chiacchiere tendenti al raggiro ed è quanto all’etimo un deverbale di ‘mbruglià= imbrogliare che a sua volta è dal fr. ant. brouiller 'mescolare, confondere', deriv. di brou 'brodo' e semanticamente si spiega essendo – come ò detto – la ‘mbroglia null’altro che una sequela di parole eccedenti, un pretesto di chiacchiere diluite tali quale un brodo;
pagliettaría è precisamente il cavillo, l’ espediente dialettico, la trovata quasi sempre truffaldina, ma ingegnosa, azioni che di per sé son tutte riconducibili al modo di agire dei cosiddetti paglietta voce singolare maschile che indica un avvocatucolo,un leguleio cavilloso, ma inesperto e spesso truffaldino; letteralmente la voce a margine parrebbe essere un diminutivo vezzeggiativo di paglia e come tale femminile, mentre in realtà è – come ò detto- voce singolare maschile (‘o paglietta) nei significati detti ed è voce che al plurale va scritta correttamente ‘e pagliette, mentre scritta con la geminazione iniziale: ‘e ppagliette torna ad esser femminile indicando i tipici cappelli di paglia, solitamente usati dagli uomini) e va letta con la geminazione iniziale della p; scritta però, come ò detto, con la iniziale p scempia: ‘e pagliette, la medesima voce plurale di paglietta è maschile e per chiaro traslato o sineddoche indica appunto avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti quegli stessi cioè che ad inizio del 1900 usavano indossare a mo’ di divisa comune una paglietta (cappello di paglia (donde il nome, partendo da un lat. palea(m)) da uomo, con cupolino alto, in foggia di tamburo, bordato di nastro di seta, ampia e piatta tesa rigida il tutto rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, in ispecie nella bella stagione, pagliette di color chiaro; e con questa spiegazione penso d’aver fatto giustizia sommaria del parere di qualcuno (ma non ne ricordo il nome…né meriterebbe d’esser rammentato ) che fantasiosamente fa risalire il termine paglietta inteso, come riportato, quale avvocatucolo, leguleio cavilloso, ma inesperto e truffaldino all’ampia gorgiera rigida indossata sulle toghe dagli avvocati d’antan; ora atteso che la gorgiera fu colletto plissettato ed inamidato indossato da talune categorie di notabili in epoca cinquecentesca e seicentesca,e poi definitivamente dismesso, mentre il tipo paglietta inteso avvocatucolo etc. è figura del tardo ‘800 – principî ‘900, non vedo dove (se non presso un costumista tearale) un avvocatucolo del tardo ‘800 o dei primi del ‘900 avrebbe potuto reperire una gorgiera inamidata e plissettata da indossare sulla toga...
da paglietta con aggiunta del suffisso di pertinenza ria si è giunto a pagliettaría voce che per sua fortuna è rimasta nell’àmbito della lingua napoletana e non è pervenuto in quello della lingua italiana dove è pur presente la voce paglietta nel significato di avvocatucolo etc.; ò detto per sua fortuna poi che se la voce pagliettaría fosse approdata nel dialetto di alighieri dante sarebbe stata certamente stravolta in pagliettería= azione o comportamento da paglietta subendo lo stesso trattamento della voce partenopea fessaría che pervenuta nell’italiano divenne fessería assumendo una inesatta e chiusa e non etimologica al posto della esatta aperta a forse nella sciocca convinzione che una vocale chiusa fosse piú consona di una aperta alla eleganza (?) della lingua nazionale;
raciàmmulo voce singolare maschile usata per indicare un giro di parole ingegnoso e bizzarro e fuorviante che miri a nascondere verità altrimenti palesi; etimologicamente è un derivato del tardo latino *racimulus, diminutivo per il class. racímus; =gracimolo,ciascun rametto di un grappolo d'uva; piccolo grappolo d'uva; semanticamente si spiega col fatto che come il gracimolo si nasconde tra i pampini e copre a sua volta gli acini del grappolo, cosí il raciàmmulo tenta di non far apparire, nascondendole con giri di parole, talune verità altrimenti palesi;
scazzella voce singolare maschile (a malgrado della desinenza in a) usata esattamente per indicare non l’azione cavillosa, pretestuosa, capziosa quando non litigiosa, ma per indicare colui che agisca e si esprima cavillosamente, pretestuosamente, capziosamente; in effetti la parola a margine (‘o scazzella) risulta essere etimologicamente una contrazione del termine scazzazella a sua volta formato dal verbo scazzà/scazzecà= schiacciare, scacciare, sommuovere (da una base di lat. reg. s(intensivo) + capticare frequentativo di captiare= cacciare) + il sost. zella =tigna, debito, magagna, imbroglio (da un lat. reg. psilla(m)); va da sé che chi schiaccia, smuove i residui della tigna lo fa in maniera attenta, cavillosa, pretestuosa alla medesima maniera di chi tenti di schiacciare, scacciare, sommuovere un debito o magagna;
- tràstula sostantivo femm. sing. usato per indicare un generico trucco e/o inganno; in realtà come deverbale di trastulià (che letteralmente è il porre in essere innocenti giochini o inganni da saltimbanchi) la voce a margine solo estensivamente indica ogni altro inganno teso ad imbrogliare, raggirare etc; ad un superficiale esame potrebbe sembrare che il verbo napoletano trastulià donde la derivata tràstula sia un adattamento del toscano trastullare; non è cosí però; è vero che ambedue i verbi, l’italiano ed il napoletano, partono da un comune latino transtum che fu in origine il banco cui erano assisi i rematori delle galee romane, per poi divenire i banchi su cui si esibivano i saltimbanchi con i loro trucchi ed inganni detti in napoletano trastule e chi li eseguiva fu il trastulante passato in seguito a definir semplicemente l’imbroglione , ma mentre l’italiano trastullare è usato nel ridotto significato di dilettare con giochini i bambini, il napoletano trastulià à il piú duro significato di mettere in atto trucchi ed inganni, e non per divertire i bambini, quanto per ledere gli adulti;
Giunti a questo punto rammenterò che tutte le voci che ò elencate furono usate negli scrittori partenopei (poeti, drammaturghi etc.) a far tempo dal 1400 con eccezione di quelle nate (ad. es. pagliettaría) in epoche successive. C’è una sola voce che non à trovato posto nei reperti letterarii, ma è rimasta a far tempo dal 1940 circa, nel parlato popolare ed ancora vi permane ben salda avendo soppiantato quasi tutte le voci elencate fin qui con le sole eccezioni di ‘mbroglia e tràstula; la voce è
paraustiello voce singolare maschile nata in origine in senso positivo per significare esempio, spiegazione ma che à finito per prendere il senso negativo di ragionamento caustico, capzioso, pretestuoso cavillo, metafora maliziosa e furbesca, appiglio gratuito, arbitrario, infondato, fittizio, esempio, ma ad usum delphini, argomentazione tortuosa etc. Quanto all’etimologia ancòra c’è qualcuno che sulla scorta del primo significato di esempio, spiegazione propende per l’iberico para usted (per voi) quasi che con la parola paraustiello si volesse avvertire: tutto ciò che abbiamo detto è stato un esempio portato per voi. La cosa non convince soprattutto perché il paraustiello fin quasi dal suo apparire non fu usato solo nel senso positivo di esempio, spiegazione ma prese quasi súbito nell’uso del discorrere popolare (come ò detto) il senso negativo di ragionamento caustico, capzioso, metafora maliziosa e furbesca, appiglio gratuito, arbitrario, infondato, fittizio,argomentazione tortuosa e dunque mi pare corretto pensare per l’etimo di paraustiello ad un adattamento del greco paràstasis che vale giustappunto ragionamento, metafora, argomentazione.
Ed a questo punto penso d’avere esaurito l’argomento, d’aver contentato l’amico N.C.e qualche altro dei miei ventiquattro lettori e poter ben dire Satis est.
Raffaele Bracale
L’amico N.C. (i consueti problemi di privatezza mi impongono l’indicazione delle sole iniziali di nome e cognome) mi chiese di parlare della voce in epigrafe e delle corrispondenti voci del napoletano. L’accontento qui di sèguito con il dire che con la voce in epigrafe arzigogolo ( con etimo derivato da girigogolo allungamento di girigoro secondo un percorso morfologico comportante la trasposizione di lettere nel primo elemento e cioè: argi→arzi per giri) la lingua ufficiale nazionale intende volta a volta un discorso o un ragionamento astruso e lambiccato, una fantasticheria, un cavillo, un espediente dialettico, una trovata spesso truffaldina, ma ingegnosa, un giro di parole ingegnoso e bizzarro, un raggiro fuorviante, un pretesto etc.
Il napoletano per tali necessità à parecchie voci ed ognuna piú circostanziata ed esattamente coniata per indicare con maggior precisione ognuna delle suaccennate occorrenze; tento qui di sèguito di elencare tali voci partenopee dandone, ove possibile, l’etimo ed il preciso campo d’applicazione; cominciamo:
allefrecaglia/arrefrecaglia che nel significato di giro di parole ingegnoso e bizzarro, sono ambedue ampliamento di lefrecaglia deverbale del basso latino *refragare = cavillare, sminuzzare etc.;
ciaranfa che nel significato di discorso astruso e lambiccato, noiosamente ripetitivo trova il suo etimo nell’adattamento popolare della voce ciaraffa che di per sé (con provenienza dall’arabo giarif) indica una moneta sonante, ma di poco valore e semanticamente la cosa si spiega col fatto che come la moneta ciaraffa è sonante,sí ma in realtà di poco valore, cosí la ciaranfa quale discorso astruso e lambiccato, noiosamente ripetitivo, produce solo rumore, ma non significante e quindi senza valore;
‘mbròglia è una fantasticheria intrisa di parole eccedenti, un pretesto lungamente... diluito di chiacchiere tendenti al raggiro ed è quanto all’etimo un deverbale di ‘mbruglià= imbrogliare che a sua volta è dal fr. ant. brouiller 'mescolare, confondere', deriv. di brou 'brodo' e semanticamente si spiega essendo – come ò detto – la ‘mbroglia null’altro che una sequela di parole eccedenti, un pretesto di chiacchiere diluite tali quale un brodo;
pagliettaría è precisamente il cavillo, l’ espediente dialettico, la trovata quasi sempre truffaldina, ma ingegnosa, azioni che di per sé son tutte riconducibili al modo di agire dei cosiddetti paglietta voce singolare maschile che indica un avvocatucolo,un leguleio cavilloso, ma inesperto e spesso truffaldino; letteralmente la voce a margine parrebbe essere un diminutivo vezzeggiativo di paglia e come tale femminile, mentre in realtà è – come ò detto- voce singolare maschile (‘o paglietta) nei significati detti ed è voce che al plurale va scritta correttamente ‘e pagliette, mentre scritta con la geminazione iniziale: ‘e ppagliette torna ad esser femminile indicando i tipici cappelli di paglia, solitamente usati dagli uomini) e va letta con la geminazione iniziale della p; scritta però, come ò detto, con la iniziale p scempia: ‘e pagliette, la medesima voce plurale di paglietta è maschile e per chiaro traslato o sineddoche indica appunto avvocatucoli, legulei cavillosi, ma inesperti quegli stessi cioè che ad inizio del 1900 usavano indossare a mo’ di divisa comune una paglietta (cappello di paglia (donde il nome, partendo da un lat. palea(m)) da uomo, con cupolino alto, in foggia di tamburo, bordato di nastro di seta, ampia e piatta tesa rigida il tutto rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, in ispecie nella bella stagione, pagliette di color chiaro; e con questa spiegazione penso d’aver fatto giustizia sommaria del parere di qualcuno (ma non ne ricordo il nome…né meriterebbe d’esser rammentato ) che fantasiosamente fa risalire il termine paglietta inteso, come riportato, quale avvocatucolo, leguleio cavilloso, ma inesperto e truffaldino all’ampia gorgiera rigida indossata sulle toghe dagli avvocati d’antan; ora atteso che la gorgiera fu colletto plissettato ed inamidato indossato da talune categorie di notabili in epoca cinquecentesca e seicentesca,e poi definitivamente dismesso, mentre il tipo paglietta inteso avvocatucolo etc. è figura del tardo ‘800 – principî ‘900, non vedo dove (se non presso un costumista tearale) un avvocatucolo del tardo ‘800 o dei primi del ‘900 avrebbe potuto reperire una gorgiera inamidata e plissettata da indossare sulla toga...
da paglietta con aggiunta del suffisso di pertinenza ria si è giunto a pagliettaría voce che per sua fortuna è rimasta nell’àmbito della lingua napoletana e non è pervenuto in quello della lingua italiana dove è pur presente la voce paglietta nel significato di avvocatucolo etc.; ò detto per sua fortuna poi che se la voce pagliettaría fosse approdata nel dialetto di alighieri dante sarebbe stata certamente stravolta in pagliettería= azione o comportamento da paglietta subendo lo stesso trattamento della voce partenopea fessaría che pervenuta nell’italiano divenne fessería assumendo una inesatta e chiusa e non etimologica al posto della esatta aperta a forse nella sciocca convinzione che una vocale chiusa fosse piú consona di una aperta alla eleganza (?) della lingua nazionale;
raciàmmulo voce singolare maschile usata per indicare un giro di parole ingegnoso e bizzarro e fuorviante che miri a nascondere verità altrimenti palesi; etimologicamente è un derivato del tardo latino *racimulus, diminutivo per il class. racímus; =gracimolo,ciascun rametto di un grappolo d'uva; piccolo grappolo d'uva; semanticamente si spiega col fatto che come il gracimolo si nasconde tra i pampini e copre a sua volta gli acini del grappolo, cosí il raciàmmulo tenta di non far apparire, nascondendole con giri di parole, talune verità altrimenti palesi;
scazzella voce singolare maschile (a malgrado della desinenza in a) usata esattamente per indicare non l’azione cavillosa, pretestuosa, capziosa quando non litigiosa, ma per indicare colui che agisca e si esprima cavillosamente, pretestuosamente, capziosamente; in effetti la parola a margine (‘o scazzella) risulta essere etimologicamente una contrazione del termine scazzazella a sua volta formato dal verbo scazzà/scazzecà= schiacciare, scacciare, sommuovere (da una base di lat. reg. s(intensivo) + capticare frequentativo di captiare= cacciare) + il sost. zella =tigna, debito, magagna, imbroglio (da un lat. reg. psilla(m)); va da sé che chi schiaccia, smuove i residui della tigna lo fa in maniera attenta, cavillosa, pretestuosa alla medesima maniera di chi tenti di schiacciare, scacciare, sommuovere un debito o magagna;
- tràstula sostantivo femm. sing. usato per indicare un generico trucco e/o inganno; in realtà come deverbale di trastulià (che letteralmente è il porre in essere innocenti giochini o inganni da saltimbanchi) la voce a margine solo estensivamente indica ogni altro inganno teso ad imbrogliare, raggirare etc; ad un superficiale esame potrebbe sembrare che il verbo napoletano trastulià donde la derivata tràstula sia un adattamento del toscano trastullare; non è cosí però; è vero che ambedue i verbi, l’italiano ed il napoletano, partono da un comune latino transtum che fu in origine il banco cui erano assisi i rematori delle galee romane, per poi divenire i banchi su cui si esibivano i saltimbanchi con i loro trucchi ed inganni detti in napoletano trastule e chi li eseguiva fu il trastulante passato in seguito a definir semplicemente l’imbroglione , ma mentre l’italiano trastullare è usato nel ridotto significato di dilettare con giochini i bambini, il napoletano trastulià à il piú duro significato di mettere in atto trucchi ed inganni, e non per divertire i bambini, quanto per ledere gli adulti;
Giunti a questo punto rammenterò che tutte le voci che ò elencate furono usate negli scrittori partenopei (poeti, drammaturghi etc.) a far tempo dal 1400 con eccezione di quelle nate (ad. es. pagliettaría) in epoche successive. C’è una sola voce che non à trovato posto nei reperti letterarii, ma è rimasta a far tempo dal 1940 circa, nel parlato popolare ed ancora vi permane ben salda avendo soppiantato quasi tutte le voci elencate fin qui con le sole eccezioni di ‘mbroglia e tràstula; la voce è
paraustiello voce singolare maschile nata in origine in senso positivo per significare esempio, spiegazione ma che à finito per prendere il senso negativo di ragionamento caustico, capzioso, pretestuoso cavillo, metafora maliziosa e furbesca, appiglio gratuito, arbitrario, infondato, fittizio, esempio, ma ad usum delphini, argomentazione tortuosa etc. Quanto all’etimologia ancòra c’è qualcuno che sulla scorta del primo significato di esempio, spiegazione propende per l’iberico para usted (per voi) quasi che con la parola paraustiello si volesse avvertire: tutto ciò che abbiamo detto è stato un esempio portato per voi. La cosa non convince soprattutto perché il paraustiello fin quasi dal suo apparire non fu usato solo nel senso positivo di esempio, spiegazione ma prese quasi súbito nell’uso del discorrere popolare (come ò detto) il senso negativo di ragionamento caustico, capzioso, metafora maliziosa e furbesca, appiglio gratuito, arbitrario, infondato, fittizio,argomentazione tortuosa e dunque mi pare corretto pensare per l’etimo di paraustiello ad un adattamento del greco paràstasis che vale giustappunto ragionamento, metafora, argomentazione.
Ed a questo punto penso d’avere esaurito l’argomento, d’aver contentato l’amico N.C.e qualche altro dei miei ventiquattro lettori e poter ben dire Satis est.
Raffaele Bracale
sabato 29 maggio 2010
ORECCHIETTE ALLA DOPPIA GOLOSITÀ
ORECCHIETTE ALLA DOPPIA GOLOSITÀ
Questa volta vi suggerisco un gustosissimo piatto di pasta nel quale sapientemente si sposano sapori morbidi e sapori forti in un connubio dal risultato esaltante.
Eccovi la ricetta:
ingredienti e dosi per 6 persone:
600 gr. di orecchiette di grano duro,
200 gr. di pancetta affumicata tesa tagliata a listellini di cm 5 x 2 x 1,
1 cipolla bianca affettata grossolanamente,
1 polputa falda di peperone giallo,
1 falda di peperone rosso,
1 falda di peperone verde,
2 grossi funghi porcini freschi o surgelati affettati sottilmente alla francese in senso longitudinale,
1 etto di olive verdi di Spagna denocciolate,
1 etto di olive nere di Gaeta denocciolate,
4 pomidoro freschi e maturi tipo Roma o Sanmarzano, lavati, sbollentati, pelati e tagliati a grossi pezzi,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v.p.s.a f.,
3 etti di ricotta di pecora,
1 tazzina di cognac o brandy,
1 etto di pecorino grattugiato,
1 dado da brodo vegetale,
sale grosso un pugno,
sale fino e pepe decorticato q.s.
procedimento.
Riducete a piccoli pezzi le falde lavate ed asciugate dei peperoni; nettate con uno straccetto inumidito e con un affilatissimo coltellino i funghi ed affettateli accuratamente alla francese ; ponete tre quarti dell’olio in un’ ampia padella e fate soffriggere la cipolla tritata con i listellini di pancetta; versate quindi dapprima i pezzi di peperoni e fateli intenerire con mezza ramaiolata d’acqua bollente in cui avrete discilto il dado ; unite poi i funghi a fettine e le olive denocciolate e fate sobbollire per circa 10’; aggiungete infine i pezzi di pomidoro schiacciandoli con una forchetta, salate e lasciate cuocere per altri 10’; rimestate delicatamente ed a fine cottura passate il tutto in un mixer a lame da umido e frullate ad alta velocità fino ad ottenere una crema soffice che spolverizzerete con il prezzemolo tritato a fresco; tenere in caldo questa crema mentre lessate in abbondante acqua (8 litri) salata (sale grosso) le orecchiette; scolatele al dente e versatele in una zupiera calda nella quale, poco prima avrete stemperata la ricotta aggiungendovi tutto l’olio residuo e la tazzina di cognac o brandy; rimestate, aggiungete la crema di peperoni, rimestate ancóra ed impiattate cospargendo le portate di pecorino ed abbondante pepe decorticato macinato fresco. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E sciàlateve!
raffaele bracale
Questa volta vi suggerisco un gustosissimo piatto di pasta nel quale sapientemente si sposano sapori morbidi e sapori forti in un connubio dal risultato esaltante.
Eccovi la ricetta:
ingredienti e dosi per 6 persone:
600 gr. di orecchiette di grano duro,
200 gr. di pancetta affumicata tesa tagliata a listellini di cm 5 x 2 x 1,
1 cipolla bianca affettata grossolanamente,
1 polputa falda di peperone giallo,
1 falda di peperone rosso,
1 falda di peperone verde,
2 grossi funghi porcini freschi o surgelati affettati sottilmente alla francese in senso longitudinale,
1 etto di olive verdi di Spagna denocciolate,
1 etto di olive nere di Gaeta denocciolate,
4 pomidoro freschi e maturi tipo Roma o Sanmarzano, lavati, sbollentati, pelati e tagliati a grossi pezzi,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v.p.s.a f.,
3 etti di ricotta di pecora,
1 tazzina di cognac o brandy,
1 etto di pecorino grattugiato,
1 dado da brodo vegetale,
sale grosso un pugno,
sale fino e pepe decorticato q.s.
procedimento.
Riducete a piccoli pezzi le falde lavate ed asciugate dei peperoni; nettate con uno straccetto inumidito e con un affilatissimo coltellino i funghi ed affettateli accuratamente alla francese ; ponete tre quarti dell’olio in un’ ampia padella e fate soffriggere la cipolla tritata con i listellini di pancetta; versate quindi dapprima i pezzi di peperoni e fateli intenerire con mezza ramaiolata d’acqua bollente in cui avrete discilto il dado ; unite poi i funghi a fettine e le olive denocciolate e fate sobbollire per circa 10’; aggiungete infine i pezzi di pomidoro schiacciandoli con una forchetta, salate e lasciate cuocere per altri 10’; rimestate delicatamente ed a fine cottura passate il tutto in un mixer a lame da umido e frullate ad alta velocità fino ad ottenere una crema soffice che spolverizzerete con il prezzemolo tritato a fresco; tenere in caldo questa crema mentre lessate in abbondante acqua (8 litri) salata (sale grosso) le orecchiette; scolatele al dente e versatele in una zupiera calda nella quale, poco prima avrete stemperata la ricotta aggiungendovi tutto l’olio residuo e la tazzina di cognac o brandy; rimestate, aggiungete la crema di peperoni, rimestate ancóra ed impiattate cospargendo le portate di pecorino ed abbondante pepe decorticato macinato fresco. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E sciàlateve!
raffaele bracale
VERMICELLONI INCACIATI CON CREMA DI RUCOLA E RICOTTA
VERMICELLONI INCACIATI CON CREMA DI RUCOLA E RICOTTA
Ingredienti e dosi per 6 persone:
6 etti vermicelloni,
3 etti di pecorino (laticauda) grattugiato finemente,
abbondante pepe decorticato macinato a fresco,
2 bicchieri di olio d’oliva e.v.p. s. a f. ,
3 etti di gherigli di noci tritati.
sale doppio mezzo pugno
pepe decorticato macinato a fresco q.s.,
3 etti di ricotta ovina stemperata con un mestolino d’acqua di cottura della pasta;
Per la crema di rucola
12 fascetti di rucola piccante,
1 bicchiere e mezzo di olio d’oliva e.v.p. s. a f.,
il succo filtrato di un limone non trattato,
1 etto di gherigli di noci,
½ etto di pinoli tostati,
2 spicchi d’aglio mondati e tritati,
sale fino e pepe decorticato q.s.
procedimento
Per preparare questi vermicelloni incaciati , per prima cosa occorre mettere a lessare la pasta in abbondante acqua leggermente (mezzo pugno di sale doppio) salata.Nel frattempo mandare a temperatura un bicchiere d'olio in un tegame unendovi una generosa quantità di pepe decorticato macinato a fresco; a seguire porre in
un’ insalatiera 3 etti di pecorino laticauda grattugiato finemente ed un po' d' acqua di cottura della pasta; amalgamare il tutto con un cucchiaio di legno fino ad ottenere una crema liscia. A seguire occorre approntare una morbida e spumosa crema di rucola mondando e lavando la rucola e tagliandone via i gambi troppo lunghi e meno teneri.
Una volta asciugata la si mette in un mixer con lame da umido , con sale, pepe, 1 bicchiere olio d’oliva e.v.p. s. a f.,, un cucchiaio di aglio tritato ed il succo di un limone, si frulla e si aggiungono a seguire proseguendo la frullatura i gherigli di noci ed i pinoli che, a nostro piacimento, avremo tostato piú o meno leggermente in una padella con un filino d’olio; si tiene da parte la crema di rucola e si scolano i vermicelloni lessati al dente, trasferendoli nell’insalatiera con il formaggio; si aggiunge la ricotta stemperata e si rimestano accuratamente. Si spalmano a specchio sul fondo di sei fondine calde alcune cucchiaiate della crema di rucola e vi si porzionano i vermicelloni; si completano i piatti distribuendo su ogni porzione abbondanti gherigli di noce tritati.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
Ingredienti e dosi per 6 persone:
6 etti vermicelloni,
3 etti di pecorino (laticauda) grattugiato finemente,
abbondante pepe decorticato macinato a fresco,
2 bicchieri di olio d’oliva e.v.p. s. a f. ,
3 etti di gherigli di noci tritati.
sale doppio mezzo pugno
pepe decorticato macinato a fresco q.s.,
3 etti di ricotta ovina stemperata con un mestolino d’acqua di cottura della pasta;
Per la crema di rucola
12 fascetti di rucola piccante,
1 bicchiere e mezzo di olio d’oliva e.v.p. s. a f.,
il succo filtrato di un limone non trattato,
1 etto di gherigli di noci,
½ etto di pinoli tostati,
2 spicchi d’aglio mondati e tritati,
sale fino e pepe decorticato q.s.
procedimento
Per preparare questi vermicelloni incaciati , per prima cosa occorre mettere a lessare la pasta in abbondante acqua leggermente (mezzo pugno di sale doppio) salata.Nel frattempo mandare a temperatura un bicchiere d'olio in un tegame unendovi una generosa quantità di pepe decorticato macinato a fresco; a seguire porre in
un’ insalatiera 3 etti di pecorino laticauda grattugiato finemente ed un po' d' acqua di cottura della pasta; amalgamare il tutto con un cucchiaio di legno fino ad ottenere una crema liscia. A seguire occorre approntare una morbida e spumosa crema di rucola mondando e lavando la rucola e tagliandone via i gambi troppo lunghi e meno teneri.
Una volta asciugata la si mette in un mixer con lame da umido , con sale, pepe, 1 bicchiere olio d’oliva e.v.p. s. a f.,, un cucchiaio di aglio tritato ed il succo di un limone, si frulla e si aggiungono a seguire proseguendo la frullatura i gherigli di noci ed i pinoli che, a nostro piacimento, avremo tostato piú o meno leggermente in una padella con un filino d’olio; si tiene da parte la crema di rucola e si scolano i vermicelloni lessati al dente, trasferendoli nell’insalatiera con il formaggio; si aggiunge la ricotta stemperata e si rimestano accuratamente. Si spalmano a specchio sul fondo di sei fondine calde alcune cucchiaiate della crema di rucola e vi si porzionano i vermicelloni; si completano i piatti distribuendo su ogni porzione abbondanti gherigli di noce tritati.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
FILETTI DI MAIALE CON PATATE STUFATE
FILETTI DI MAIALE CON PATATE STUFATE
Gustosissimo connubio tra la carne di maiale cotta in umido e patate stufate in sugo di pomidoro.
Ingredienti e dosi per 6 persone
Per i bocconcini
1,8 kg. di filetto di maiale in bocconcini di cm. 5 x 4 x 3,
½ kg. di pomidori freschi rossi e maturi, sbollentati, pelati e frazionati in piccoli pezzi,oppure pari peso di pomidoro pelati in iscatola privati del liquido di conserva e frazionati in piccoli pezzi,
farina q.s.,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
1 grossa cipolla dorata mondata ed affettata sottilmente,
un rametto di rosmarino fresco,
1 gran ciuffo di prezzemolo lavato asciugato e tritato finemente,
sale fino e pepe nero q.s.
Per le patate stufate
1 kg. di patate a pasta gialla,
200 gr di olive verdi snocciolate,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
2 grossi cucchiai di concentrato di pomidoro
1 piccola cipolla dorata mondata ed affettata sottilmente un rametto di rosmarino fresco,
sale fino e pepe nero q.s.
un pugno di sale doppio.
procedimento
Si comincia con l’approntare le patate stufate, nel modo che segue: Sbucciare le patate e tagliarle a pezzi. Lessarle per 5 minuti in acqua bollente salata, quindi scolarle accuratamente. Sistemarle in una casseruola con l'olio, il concentrato di pomidoro, il rametto di rosmarino, un pizzico di sale e le olive tritate. Aggiungere 2 dl di acqua calda e portare a ebollizione. Coprire con un coperchio ed abbassare la fiamma al minimo. Lasciare sobbollire per 15 minuti. A fine cottura, correggere di pepe ed eventualmente di sale; mantenere in caldo. A seguire preparare a fuoco moderato, in un ampio tegame, provvisto di coperchio il sugo di pomidoro, versandovi dapprima l’olio e la cipolla da far dorare, unire poi i cubetti di pomidoro, sale e pepe ed il rametto di rosmarino e portare a cottura il sugo in circa 20 minuti; a questo punto lavare i bocconcini di maiale, infarinarli abbondantemente, adagiarli nel sugo allungato con parecchia acqua bollente; incoperchiare e far cuocere per circa novanta minuti rivoltando i bocconcini ogni due minuti; aggiustare di sale e pepe ed unire ai bocconcini le patate stufate; rimestare ed impiattare, cospargere con il prezzemolo trito e servire caldissimi di fornello questi bocconcini.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
Gustosissimo connubio tra la carne di maiale cotta in umido e patate stufate in sugo di pomidoro.
Ingredienti e dosi per 6 persone
Per i bocconcini
1,8 kg. di filetto di maiale in bocconcini di cm. 5 x 4 x 3,
½ kg. di pomidori freschi rossi e maturi, sbollentati, pelati e frazionati in piccoli pezzi,oppure pari peso di pomidoro pelati in iscatola privati del liquido di conserva e frazionati in piccoli pezzi,
farina q.s.,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
1 grossa cipolla dorata mondata ed affettata sottilmente,
un rametto di rosmarino fresco,
1 gran ciuffo di prezzemolo lavato asciugato e tritato finemente,
sale fino e pepe nero q.s.
Per le patate stufate
1 kg. di patate a pasta gialla,
200 gr di olive verdi snocciolate,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
2 grossi cucchiai di concentrato di pomidoro
1 piccola cipolla dorata mondata ed affettata sottilmente un rametto di rosmarino fresco,
sale fino e pepe nero q.s.
un pugno di sale doppio.
procedimento
Si comincia con l’approntare le patate stufate, nel modo che segue: Sbucciare le patate e tagliarle a pezzi. Lessarle per 5 minuti in acqua bollente salata, quindi scolarle accuratamente. Sistemarle in una casseruola con l'olio, il concentrato di pomidoro, il rametto di rosmarino, un pizzico di sale e le olive tritate. Aggiungere 2 dl di acqua calda e portare a ebollizione. Coprire con un coperchio ed abbassare la fiamma al minimo. Lasciare sobbollire per 15 minuti. A fine cottura, correggere di pepe ed eventualmente di sale; mantenere in caldo. A seguire preparare a fuoco moderato, in un ampio tegame, provvisto di coperchio il sugo di pomidoro, versandovi dapprima l’olio e la cipolla da far dorare, unire poi i cubetti di pomidoro, sale e pepe ed il rametto di rosmarino e portare a cottura il sugo in circa 20 minuti; a questo punto lavare i bocconcini di maiale, infarinarli abbondantemente, adagiarli nel sugo allungato con parecchia acqua bollente; incoperchiare e far cuocere per circa novanta minuti rivoltando i bocconcini ogni due minuti; aggiustare di sale e pepe ed unire ai bocconcini le patate stufate; rimestare ed impiattare, cospargere con il prezzemolo trito e servire caldissimi di fornello questi bocconcini.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale
ZUPPA D’’O PARULANO
ZUPPA D’’O PARULANO
zuppa all’ortolana
ingredienti e dosi per 6 persone:
3 grosse cipolle dorate affettate grossolanamente,
2 zucchine verdi piccole e sode, lavate, spuntate e tagliate in tocchetti da 2 cm.,
1 grosso peperone quadrilobato, lavato, scapitozzato del picciolo, liberato dei semi e delle costine bianche interni, e ridotto in falde di circa 5 cm.,
2 carote medie, grattate, lavate e tagliate in cubetti da cm. 1,5 di lato,
1 grossa costa di sedano, lavata, liberata dei filamenti e tagliata in tocchetti da 3 cm.,
1 spicchio d’aglio mondato ed affettato finemente,
2 pomidoro Roma o San Marzano lavati, sbollentati pelati e spezzettati grossolanamente,
1 confezione artigianale (contenitore di vetro) di fagioli cannellini lessati da 250gr.
1 fascetto di basilico tritato,
1 rametto di piperna,
1 foglia d’alloro fresco,
1 cucchiaio di strutto,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.
1 peperoncino forte spezzettato a mano
sale fino alle erbe e pepe bianco q.s.
1 dado vegetale da brodo,
acqua bollente q.s.
6 – 8 fette di pane casereccio bruscate a forno caldissino (220°),
1 etto di pecorino grattugiato.
procedimento
Ponete in un ampio tegame provvisto di coperchio l’olio e lo strutto con lo spicchio d’aglio mondato ed affettato finemente; alzate i fuochi ed appena l’aglio sia imbiondito aggiungete i pezzi di pomidoro schiacciandoli con una forchetta; unite súbito il trito di basilico e la foglia d’alloro spezzettata a mano e dopo cinque minuti di cottura aggiungete via via tutti gli ortaggi, tenendo per ultimo la piperna, i fagioli lessati ed il peperoncino spezzettato a mano;
abbassate un po’ i fuochi ed allungate il tutto con alcune ramaiolate d’acqua bollente in cui avrete sbriciolato il dado vegetale; regolate con il sale alle erbe ed il pepe bianco, incoperchiate e fate sobbollire il sugo per circa 40’ badando che gli ortaggi cuociano, ma non si disfino eccessivamente; se il sugo si dovesse asciugare troppo aggiungete un po’ d’acqua bollente regolando ancóra di sale.
Ponete le fette di pane bruscate spezzettandole in grossi pezzi, in sei fondine calde; versate sul pane una ramaiolata di zuppa bollente, cospargete di pecorino e pepe ed infornate a gratinare in forno (160°) per circa 20’. Servite súbito.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
raffaele bracale
zuppa all’ortolana
ingredienti e dosi per 6 persone:
3 grosse cipolle dorate affettate grossolanamente,
2 zucchine verdi piccole e sode, lavate, spuntate e tagliate in tocchetti da 2 cm.,
1 grosso peperone quadrilobato, lavato, scapitozzato del picciolo, liberato dei semi e delle costine bianche interni, e ridotto in falde di circa 5 cm.,
2 carote medie, grattate, lavate e tagliate in cubetti da cm. 1,5 di lato,
1 grossa costa di sedano, lavata, liberata dei filamenti e tagliata in tocchetti da 3 cm.,
1 spicchio d’aglio mondato ed affettato finemente,
2 pomidoro Roma o San Marzano lavati, sbollentati pelati e spezzettati grossolanamente,
1 confezione artigianale (contenitore di vetro) di fagioli cannellini lessati da 250gr.
1 fascetto di basilico tritato,
1 rametto di piperna,
1 foglia d’alloro fresco,
1 cucchiaio di strutto,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.
1 peperoncino forte spezzettato a mano
sale fino alle erbe e pepe bianco q.s.
1 dado vegetale da brodo,
acqua bollente q.s.
6 – 8 fette di pane casereccio bruscate a forno caldissino (220°),
1 etto di pecorino grattugiato.
procedimento
Ponete in un ampio tegame provvisto di coperchio l’olio e lo strutto con lo spicchio d’aglio mondato ed affettato finemente; alzate i fuochi ed appena l’aglio sia imbiondito aggiungete i pezzi di pomidoro schiacciandoli con una forchetta; unite súbito il trito di basilico e la foglia d’alloro spezzettata a mano e dopo cinque minuti di cottura aggiungete via via tutti gli ortaggi, tenendo per ultimo la piperna, i fagioli lessati ed il peperoncino spezzettato a mano;
abbassate un po’ i fuochi ed allungate il tutto con alcune ramaiolate d’acqua bollente in cui avrete sbriciolato il dado vegetale; regolate con il sale alle erbe ed il pepe bianco, incoperchiate e fate sobbollire il sugo per circa 40’ badando che gli ortaggi cuociano, ma non si disfino eccessivamente; se il sugo si dovesse asciugare troppo aggiungete un po’ d’acqua bollente regolando ancóra di sale.
Ponete le fette di pane bruscate spezzettandole in grossi pezzi, in sei fondine calde; versate sul pane una ramaiolata di zuppa bollente, cospargete di pecorino e pepe ed infornate a gratinare in forno (160°) per circa 20’. Servite súbito.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
raffaele bracale
PORPA D’ANNECCHIA GLASSATA CU FUNGE E FASULE
PORPA D’ANNECCHIA GLASSATA CU FUNGE E FASULE
Gustosissima portata di carne completa di contorno, portata che se accompagnata da crostini di pane casareccio può fungere anche da salutare piatto unico!
Nota linguistica introduttiva:
porpa = polpa s.vo f.le la carne senza ossa e senza grasso degli animali macellati, segnatamente quella del quarto posteriore; voce dal lat. pulpa(m)→purpa(m)→porpa con tipica alternanza della liquida l/r;
annecchia s.vo f.le che con derivazione dal lat. annicula→anniclja→annecchia indica il vitello o la vitella molto giovane quella bestia cioè che sia stata macellata quando non abbia superato l’anno d’età ed abbia gustose carni sode, morbide e non grasse.
funge = funghi; la voce italiana fungo (pl. funghi) deriva dal lat. fungus, mentre il napoletano funge (sing. fungio) pur con derivazione per il singolare dal medesimo fungu(m) à subíto la palatizzazione della g che da gu→gi donde fungum à dato fungio detta palatizzazione è ovviamente mantenuta nel plurale funge.
fasule = fagioli (sing. fagiolo/fagiuolo dal lat. phaseolu(m), dim. di phasílus, dal gr. phásílos); anche il napoletano fasulo (pl. fasule) à il medesimo etimo dal lat. phaseolu(m),ma attraverso un lat. volg. *fasjólu(m) con normale passaggio di sj→s ; da notare che mentre l’italiano à trasformato la sibilante etimologica s nel gruppo gruppo palatale gi, il napoletano molto piú correttamente à mantenuto la sibilante, approdando a fasulo piuttosto che a fagiolo/fagiuolo , ragion per cui auspicherei che anche in italiano si accogliesse fasulo/e dismettendo i leziosi fagiolo/i fagiuolo/i.
E passiamo alla ricetta
ingredienti e dosi per 6 persone:
1.5 kg. di polpa (spalla) d’annecchia in sottili fettine di cm. 7 x 4 x 1,
farina q.s.,
1 bicchiere e mezzo di latte intero,
1 etto di pecorino (laticauda) grattugiato finemente,
abbondante pepe nero macinato a fresco,
un gran ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
noce moscata q.s.
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
500gr. di fagioli cannellini secchi,
in alternativa 2 confezioni vitree da 250 gr. cadauna di fagioli cannellini già lessati,
1 cipolla dorata,
1 costa di sedano ed una carota lavate,grattate e divise in grossi pezzi,
1 foglia d’alloro,
5 chiodi di garofano,
una presa di sale doppio
3 grossi funghi porcini freschi (o anche surgelati se di ottima qualità),
3 spicchi d’aglio mondati e tritati,
250 gr. di pancetta tesa tagliata a cubetti da ½ cm. di spigolo,
peperoncino piccante q.s.,
sale doppio e pepe nero q.s..
1 ciuffo di prezzemolo tritato finemente assieme ad un aglio mondato.
procedimento
Lavare i fagioli e metteteli a mollo in acqua fredda (con un cucchiaio di bicarbonato) la sera prima di cucinarli. Il giorno successivo ponete a lessare a fuoco lentissimo i fagioli possibilmente in una pignatta di terracotta con l’acqua dell’ammollo, la cipolla, sedano e carota, la foglia d’alloro, i chiodi di garofano ed una presa di sale doppio . In un capace tegame soffriggete per 10 minuti con la metà dell’olio, l’aglio a fettine, la pancetta a cubetti ed il peperoncino tagliuzzato, poi aggiungete i funghi porcini, mondati con uno straccio umido ed un affilatissimo coltellino e sfettati alla francese in fettine da ½ cm. di spessore, bagnateli con una tazza d’acqua bollente e fate rosolare a fuoco lento regolando di sale.
Frattanto in un altro tegame soffriggete nell’ olio residuo il secondo spicchio d’aglio tritato. Quando l’aglio è imbiondito scolate e aggiungete i fagioli lessati o il contenuto delle due confezioni di cannellini lessati; fate sobbollire per cinque minuti, indi unite i funghi con il loro fondo di cottura , mescolate, regolate di sale e pepe, cospargete con il trito d’aglio e prezzemolo e lasciate riposare alquanto.
In un terzo tegame provvisto di coperchio mandate a temperatura e tenetevelo a fuoco moderato tutto l'olio residuo unendovi una generosa quantità di pepe nero macinato a fresco; a seguire ponete in un’ insalatiera il pecorino laticauda grattugiato finemente e mezzo bicchiere di latte bollente, ed amalgamatelo; trasferite il tutto bene amalgamato con un cucchiaio di legno nel tegame con l’olio a temperatura;attendete (5 minuti) che la crema vada ad ebollizzione, lavate ed infarinate abbondantemente i bocconcini di annecchia ed adagiateli nel tegame con la crema uno accanto all’altro senza sovrapporli; aggiungete il residuo latte caldo ed abbondante noce moscata grattugiata, incoperchiate e sempre a fuoco moderato in circa 20 minuti portate a cottura i bocconcini rivoltandoli ogni due minuti; al termine unite i funghi ed i fagioli, rimestate ed a fuochi spenti cospargete con il trito di prezzemolo, impiattate irrorando generosamente le porzioni con il fondo di cottura; servite caldissimi di fornello questi gustosissimi bocconcini, quale piatto unico accompagnati con dei crostini di pane casareccio bruscato al forno (240°). Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
Raffaele Bracale
Gustosissima portata di carne completa di contorno, portata che se accompagnata da crostini di pane casareccio può fungere anche da salutare piatto unico!
Nota linguistica introduttiva:
porpa = polpa s.vo f.le la carne senza ossa e senza grasso degli animali macellati, segnatamente quella del quarto posteriore; voce dal lat. pulpa(m)→purpa(m)→porpa con tipica alternanza della liquida l/r;
annecchia s.vo f.le che con derivazione dal lat. annicula→anniclja→annecchia indica il vitello o la vitella molto giovane quella bestia cioè che sia stata macellata quando non abbia superato l’anno d’età ed abbia gustose carni sode, morbide e non grasse.
funge = funghi; la voce italiana fungo (pl. funghi) deriva dal lat. fungus, mentre il napoletano funge (sing. fungio) pur con derivazione per il singolare dal medesimo fungu(m) à subíto la palatizzazione della g che da gu→gi donde fungum à dato fungio detta palatizzazione è ovviamente mantenuta nel plurale funge.
fasule = fagioli (sing. fagiolo/fagiuolo dal lat. phaseolu(m), dim. di phasílus, dal gr. phásílos); anche il napoletano fasulo (pl. fasule) à il medesimo etimo dal lat. phaseolu(m),ma attraverso un lat. volg. *fasjólu(m) con normale passaggio di sj→s ; da notare che mentre l’italiano à trasformato la sibilante etimologica s nel gruppo gruppo palatale gi, il napoletano molto piú correttamente à mantenuto la sibilante, approdando a fasulo piuttosto che a fagiolo/fagiuolo , ragion per cui auspicherei che anche in italiano si accogliesse fasulo/e dismettendo i leziosi fagiolo/i fagiuolo/i.
E passiamo alla ricetta
ingredienti e dosi per 6 persone:
1.5 kg. di polpa (spalla) d’annecchia in sottili fettine di cm. 7 x 4 x 1,
farina q.s.,
1 bicchiere e mezzo di latte intero,
1 etto di pecorino (laticauda) grattugiato finemente,
abbondante pepe nero macinato a fresco,
un gran ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
noce moscata q.s.
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
500gr. di fagioli cannellini secchi,
in alternativa 2 confezioni vitree da 250 gr. cadauna di fagioli cannellini già lessati,
1 cipolla dorata,
1 costa di sedano ed una carota lavate,grattate e divise in grossi pezzi,
1 foglia d’alloro,
5 chiodi di garofano,
una presa di sale doppio
3 grossi funghi porcini freschi (o anche surgelati se di ottima qualità),
3 spicchi d’aglio mondati e tritati,
250 gr. di pancetta tesa tagliata a cubetti da ½ cm. di spigolo,
peperoncino piccante q.s.,
sale doppio e pepe nero q.s..
1 ciuffo di prezzemolo tritato finemente assieme ad un aglio mondato.
procedimento
Lavare i fagioli e metteteli a mollo in acqua fredda (con un cucchiaio di bicarbonato) la sera prima di cucinarli. Il giorno successivo ponete a lessare a fuoco lentissimo i fagioli possibilmente in una pignatta di terracotta con l’acqua dell’ammollo, la cipolla, sedano e carota, la foglia d’alloro, i chiodi di garofano ed una presa di sale doppio . In un capace tegame soffriggete per 10 minuti con la metà dell’olio, l’aglio a fettine, la pancetta a cubetti ed il peperoncino tagliuzzato, poi aggiungete i funghi porcini, mondati con uno straccio umido ed un affilatissimo coltellino e sfettati alla francese in fettine da ½ cm. di spessore, bagnateli con una tazza d’acqua bollente e fate rosolare a fuoco lento regolando di sale.
Frattanto in un altro tegame soffriggete nell’ olio residuo il secondo spicchio d’aglio tritato. Quando l’aglio è imbiondito scolate e aggiungete i fagioli lessati o il contenuto delle due confezioni di cannellini lessati; fate sobbollire per cinque minuti, indi unite i funghi con il loro fondo di cottura , mescolate, regolate di sale e pepe, cospargete con il trito d’aglio e prezzemolo e lasciate riposare alquanto.
In un terzo tegame provvisto di coperchio mandate a temperatura e tenetevelo a fuoco moderato tutto l'olio residuo unendovi una generosa quantità di pepe nero macinato a fresco; a seguire ponete in un’ insalatiera il pecorino laticauda grattugiato finemente e mezzo bicchiere di latte bollente, ed amalgamatelo; trasferite il tutto bene amalgamato con un cucchiaio di legno nel tegame con l’olio a temperatura;attendete (5 minuti) che la crema vada ad ebollizzione, lavate ed infarinate abbondantemente i bocconcini di annecchia ed adagiateli nel tegame con la crema uno accanto all’altro senza sovrapporli; aggiungete il residuo latte caldo ed abbondante noce moscata grattugiata, incoperchiate e sempre a fuoco moderato in circa 20 minuti portate a cottura i bocconcini rivoltandoli ogni due minuti; al termine unite i funghi ed i fagioli, rimestate ed a fuochi spenti cospargete con il trito di prezzemolo, impiattate irrorando generosamente le porzioni con il fondo di cottura; servite caldissimi di fornello questi gustosissimi bocconcini, quale piatto unico accompagnati con dei crostini di pane casareccio bruscato al forno (240°). Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
Raffaele Bracale
venerdì 28 maggio 2010
FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ 4°
FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ
Parte quarta
N - Parlà comme a ‘nu libbro stracciato.
Ad litteram:parlare come un libro strappato id est: esprimersi in maniera incomprensibile, frammentaria, approssimativa e perciò inutile, come inutile sarebbe il consultare un libro che strappato e ridotto in pezzi non sarebbe nè consultabile, né comprensibile.
comme avv. e cong. = come
avv.
1 in quale modo, in quale maniera (in prop. interrogative dirette e indirette): comme staje?(come stai?); comme è gghiuto ‘o viaggio?(come è andato il viaggio?); dimme comme staje(dimmi come sta)i; comme maje (come mai?), perché mai, per quale ragione: comme maje nun è cchiú partuto?(come mai non è piú partito?) | comm’ è ca?…,comme va ca?(com'è che...?, come va che...?), qual è il motivo per cui... | ma comme?!(ma come?!), per esprimere sdegno o meraviglia | comme dice?(come dici?), comme hê ditto?(come ài detto?), per chiedere che si ripeta qualcosa | comme sarria a ddicere?(come sarebbe a dire?), per chiedere una spiegazione | comm’è, comme nun è(com'è, come non è), (fam.) per introdurre un fatto che si è verificato all'improvviso | comme no?!(come no?!), certamente | comme ve permettite?!(come vi permette?!), si guardi bene dal permettersi
2 quanto (in prop. esclamative):comme chiove!( come piove!); comme sî bbuono!(come sei buono!); | e ccomme!, è proprio cosí!
3 il modo nel quale, in quale modo (introduce una prop. dichiarativa): le raccuntaje comme ll’amico sarria partuto(gli raccontò come l'amico sarebbe partito); nun te n’adduone ‘e comme sî ffesso?!(non ti accorgi come sei stupido?!) | preceduto da ecco, con lo stesso significato e funzione: ecco comme jettero ‘e ccose; ecco comme ce se po’ arruvinà (ecco come andarono le cose; ecco come ci si può rovinare)
4 nel modo in cui, quanto (introduce una prop. comparativa): è bbello comme credevo; arrivarrà cchiú ttarde ‘e comme aveva avvisiato (è bello come credevo; arriverà più tardi di come aveva annunciato);| in frasi comparative ellittiche del verbo stabilisce una relazione di somiglianza o di identità: janco comm’ ô llatte; ‘a figlia è aveta comm’â mamma; poche so’ sfaticate come a tte; ‘e juorno comme ‘e notte (bianco come il latte; la figlia è alta come la madre; pochi sono pigri come te; di giorno come di notte) | in espressioni rafforzative o enfatiche: mo comme a mmo(ora come ora), oje comme oje(oggi come oggi), al momento attuale | con il sign. di nella condizione, in qualità di, introduce un'apposizione o un compl. predicativo: tu, comme arbitro, nun hê ‘a essere ‘e parte! (tu, come arbitro, devi essere imparziale!); fuje scíveto comme testemmonio(fu scelto come testimone); tutte ‘a vulevano comme mugliera(tutti la richiedevano come moglie)
5 nel modo in cui, in quella maniera che (introduce una prop. modale): aggiu fatto come tu hê voluto (ò fatto come tu ài voluto; tutto è succieso comme speràvamo (tutto è accaduto come speravàmo) | preceduto da accussí: lassa ‘e ccose accussí comme so’ (lascia le cose cosí come sono) | in correlazione con accussí o con tanto (in luogo di quanto): non è accussí tarde come pensavo;(non è cosí tardi come pensavo); tanto ll’une comme ll’ ate ( tanto gli uni come gli altri) ' comme (si), nello stesso modo che, quasi che: rispettalo comme (si) fosse pàteto (rispettalo come (se) fosse tuo padre) | comme non l’êsse ditto come non l’avessi detto, per ritirare una precedente affermazione.
cong.
1 appena, non appena; quando (introduce una prop. temporale): comme ‘o sapette, telefonaje (come lo seppe, telefonò) | a mano a mano che: ‘e nutizzie erano passate comme arrivavano (le notizie venivano comunicate come arrivavano)
2 (lett.) giacché, siccome (introduce una prop. causale): e comme n’effetto s’aveva avé… ( e siccome un effetto bisognava ottenere…)
‘no oppure’nu = corrisponde ad un ed uno della lingua italiana dove sono agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm. [ in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s.vo o agg.vo che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa indifferentemente ‘no/‘nu davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa la forma tronca un (ad es.: un osso) nella parlata napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)nu(m) l’apocope della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il malvezzo di scrivere no/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile ;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘na = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una; l’etimo di ‘na è ovviamente dal lat. (u)na(m) l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori, anche preparati, seguano il malvezzo di scrivere l’articolo na come pure il corrispondente del maschile e neutro no/nuprivi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, mi ripeto, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile.
libbro s.vo m.le = libro, volume, insieme di fogli, stampati o manoscritti, cucitio incollati insieme secondo un dato ordine e racchiusi da una copertina; etimologicamente è voce derivata dal lat. libru(m)→libbro con consueto raddoppiamento espressivo dell’esplosiva labiale, orig. 'sottile membrana fra la corteccia e il legno dell'albero', che prima dell'introduzione del papiro si usava come materiale per scrivere;
stracciato = strappato,fatto a pezzi part.pass. agg.vato dell’infinito stracciare/straccià che è dal lat. volg. *extractiare, deriv. di tractus, part. pass. di trahere 'trarre'
O - Parlà assestato
Ad litteram:parlare con cura e precisione,esponendo in maniera chiara responsabile, affidabile, scrupolosa, coscienziosa. Détto di chi, si esprima in modo serio e costruttivo, dimostrando accuratezza, cura, attenzione, meticolosità, diligenza, scrupolosità, ordine, rigore,nonché il raziocinio d’ una mente concretamente in sesto.
assestato part. pass. aggettivato dell’infinito assestà = 1 mettere in sesto, in ordine (anche fig.); sistemare;2 regolare con cura, adattare con precisione; ||| assestarse v. rifl. o intr. pron.
1 sistemarsi; mettersi in ordine, a posto (anche fig.):
2 (ant. lett.) adattarsi, confarsi.
Etimologicamente assestare/assestà è un denominale di sesto (che è dal lat. sextu(m)) s. m.
1 ordine, assetto, disposizione normale di qualcosa:
2 (arch.) curvatura di un arco;
3 (ant.) compasso, sesta:
P - Parlà chiatto e ttunno
Corrisponde all’italiano Parlar chiaro e tondo È l’esatto contrario della precedente I - Parlà mazzecato.
Ad litteramquesta a margine è:parlare grasso e tondo,ma si può rendere con l’italiano parlar chiaro e tondo, quantunque l’espressione napoletana nella sua icasticità sia piú rappresentativa del concetto di profferir parole copiose (chiatto=grasso, abbondante ) e rotonde (tunno= tondo, rotondo, anche sferico, privo di spigolosità) id est parlare senza reticenze; esprimersi senza incertezze, con chiarezza e dovizia di particolari, senza nulla sottacere, usando un eloquio aperto, ampio e rotondo che in napoletano è détto grasso come che ponderoso e privo di spigolosità che se esistessero impedirebbero la necessarie trasparenza e/o chiarezza che son proprie di un parlare chiaro e tondo che cioè non voglia nasconder nulla.
Chiatto e ttunno = copioso, abbondante e rotondo locuzione avverbiale formato dall’unione di due aggettivi: chiatto/a agg.vo m.le o f.le= pingue, grasso/a e dunque copioso/a, abbondante
Voce che è dal greco plat(s) con raddoppiamento espressivo della dentale e consueto passaggio (che è anche in lemmi dal latino) del gruppo pl a chi (cfr. ad es. plu(s)→chiú – plumbeu(m)→chiummo – plaga→chiaja etc.) e tunno/a agg.vo m.le o f.le= tondo/a, rotondo/a, sferico/a e dunque senza spigoli o asperità
Voce che è dal lat. (ro)tundu(m)→tunno con tipica assimilazione progressiva nd→nn.
Q – Parlà a cocoricò
Espressione del parlato e solo del parlato a cui però è quasi impossibile dare una traduzione letterale atteso che la voce cocoricò nell’inteso comune si presta ad una doppia interpretazione; a) pappagalo, b) matto, folle;
Intendendo cocoricò come pappagallo (dandole cioè un etimo onomatopeico che si riallaccia al verso del pennuto uccello esotico addomesticabile, con caratteristico becco adunco e colori smaglianti) l’espressione varrebbe parlar pappagallescamente imitando l’altrui eloquio; intendendo invece, come io penso e ritengo, ntendendo cocoricò una voce derivata dal turco curuk→cucuruco→cocoricò (agg.vo che vale in primis marcio e per traslato folle, matto) ecco che l’espressione parlà a cocoricò acquista la medesima valenza della precedente parlà a spaccastrommole cioè in maniera concitata, a ruota libera senza nesso o senso, quasi alla maniera dei matti,valenza che semanticamente s’attaglia benissimo al curuk→cucuruco→cocoricò = folle, matto.
Q - Parlà a scampule ‘e mele cotte
Ad litteram: parlare alla maniera (dei venditori) di scampoli di mele cotte id est parlare per tropi ed immagini spesso menzognere e/o fasulle in maniera suadente, ma falsa ed ingannevole nell’intento di convincere l’ascoltatore/cliente ad acquistare scampoli residuali di mele cotte probabilmente invendute per cattiva qualità delle medesime.Analogamente ai venditori di scampoli di mele cotte chiunque usasse, soprattutto a fini illusorî,e/o ingannevoli, un eloquio suadente, ma menzognero potrebbe essere accreditato di parlà a scampule ‘e mele cotte.
scampule s.vo m.le pl. di scampulo s. m.
in primis piccolo taglio di tessuto che avanza da una pezza;
fig. come nel caso che ci occupa avanzo, rimasuglio
etimologicamente la voce scampulo è un deverbale di scampare/scampà =
1uscire salvo da un pericolo(nel caso dello scampolo da quello della vendita); sfuggire a un rischio (idem c.s.) mortale:
2 trovare rifugio in un luogo: scampà all'estero ||| v. tr.
1 proteggere, liberare, salvare da mali e pericoli: scampare qualcuno dalla morte | Dio ci (ce ne) scampi!, escl. che esprime la speranza di non incorrere in un pericolo, di non subire un male
2 evitare, scansare (un male, un danno e sim.); il verbo scampare, a sua volta deriva da campo (di battaglia), col pref. s- che indica allontanamento.
E con questa analizzata avrei esaurito l’esame delle piú usate locuzioni modali costruite con il verbo parlare, ma amor di completezza mi spinge ad illustrare altre due caratteristiche espressioni partenopee costruite usando l’infinito parlà:
R - Nun farme parlà!
Letteralmente: Non farmi parlare! Id est: Fammi tacere, non istigarmi a dire qualcosa di cui potrei pentirmi… Della persona o dell’argomento dei quali vorresti ch’io parlassi conosco cose e circostanze spiacevoli che se le riferissi potrebbero suscitare malumori, dissapori o malintesi di cui sarei responsabile e di cui dovrei pentirmi; per cui Non indurmi a parlare.È preferibile ch’io taccia!
S- Jí a pparlà cu ‘o pato
Letteralmente: Andare a parlare con il padre (della fidanzata). Id est: Ufficializzare una situazione impegnandosi chiaramente a mantenere l’impegno di fare sfociare un fidanzamento nel matrimonio. L’espressione napoletana, in disuso ormai dalla fine degli anni ’60 del 1900 in coincidenza con la rivoluzione dei costumi giovanili e della società, e con il subentro all’istituto del matrimonio, della disdicevole consuetudine della convivenza disimpegnata, libera e senza regole, l’espressione in esame corrisponde ad un dipresso a quella dell’italiano chiedere la mano della sposa Rispetto a quella dell’italiano, l’espressione napoletana coglie al meglio l’importanza della figura paterna (del tutto assente nell’espressione italiana) figura che sino alla fine degli anni ’60 del 1900 ebbe un posto preminente nell’àmbito della famiglia di cui rappresentò l’indiscussa guida materiale e morale responsabile titolare della cosiddetta patria potestas ed occorreva che con lui e con nessun altro l’aspirante promesso sposo parlasse dando garanzie di serietà morale, supportata da un lavoro retribuito e chiarisse le sue serie intenzioni di voler metter su famiglia impalmando la figliola di colui con cui si andava a parlare.
jí corrisponde al verbo italiano andare ( che etimologicamente qualcuno pensa derivi dal lat. ambulare o da un lat. volg. *ambitare, ma che molto piú esattamente sembra derivi da un *aditare frequentativo di adire ed è verbo che à alcune forme che ànno per tema vad- derivando dal lat. vadere/vadicare 'andare'); è reso,in napoletano, con derivazione dal lat. ire, con l’infinito jí/ghí e son numerose le locuzioni formate con détto infinito e per esaminarle rimando alibi. Preciso che in napoletano la grafia corretta dell’infinito è – come ò scritto – jí oppure in talune espressioni ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per comodità espressiva dal suono gh. È pertanto assolutamente errato (come purtroppo càpita di trovare nella stragrande maggioranza di sedicenti scrittori napoletani noti e/o meno noti!), è assolutamente errato rendere in napoletano l’infinito di andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponessero i loro parti… poetici dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo di jí oppure, ove del caso, ghí/gghí, li metteva decisamente alla porta consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1°,2° e 3° pers. sg.) si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à: i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1° e 2° pers. pl.usa il tema di ji –re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3° ps. pl che è lloro vanno.
cu cong.
Corrisponde all’italiano con in tutte le sue funzioni ed accezioni :
1) esprime relazione di compagnia, se è seguito da un nome che indica essere animato (può essere rafforzato da insieme): è partito cu ‘o pato ; à magnato cu ll’ amice; campa (‘nzieme) cu ‘a sora;
2) in senso piú generico, introduce il termine cui si riferisce una qualsiasi relazione: s’è appiccecato cu ‘o frato; à sfugato cu mme;
3) con valore propriamente modale: restà cu ll’uocchie nchiuse; vulé bbene cu tutto ‘o cuore; trattà cu ‘e guante gialle( cioè con rispetto e dedizione quelli dovuti ai nobili che usavano indossare guanti di camoscio in tinta chiara) | con valore tra modale e di qualità: pasta cu ‘e ssarde; stanza cu ‘o bbagno; casa cu ‘o ciardino;
4) introduce una determinazione di mezzo o di strumento: cu ‘a bbona vulontà s’ave tutto; ‘o vino se fa cu ll'uva; scrivere cu ‘a penna stilografica; partí cu ‘o treno ;
5) indica una circostanza, stabilendo un rapporto di concomitanza: nun ascí cu ll’acqua!;
6) può avere valore concessivo o avversativo, assumendo il significato di 'non ostante,a malgrado': cu tutte ‘e guaje ca tène, riesce ancòra a ridere; cu tutta ‘a bbona vulontà, ma è proprio ‘mpussibbile. L’etimo della preposizione a margine è dal lat. cum. Rammento qui e valga anche a futura memoria che tutte le parole che abbiano un etimo da una voce latina terminante per consonante (che nella parola formata cade) non necessitano di alcun segno diacritico in quanto il segno diacritico dell’apocope (accento o apostrofo) è necessario apporlo graficamente quando a cadere sia una sillaba e non una o due consonanti; nel caso in esame cum dà cu e non l’inesatto cu’ che spesso mi è occorso di trovare negli scritti anche di famosi autori, accreditati da qualcuno (ma evidentemente a torto) d’essere esperti dell’ idioma napoletano, autori che invece ànno spesso marcato o marcano il loro napoletano sulla sintassi e la grammatica dell’italiano, facendo una sciocchezza sesquipedale atteso che – come ò piú volte détto e provato – il napoletano è un linguaggio del tutto originale ed autonomo, con una propria storia letteraria e di derivazione, come tutti gli altri linguaggi regionali, diretta dal latino volgare, con proprie regole grammaticali e di sintassi e non è tributaria di nessun altra lingua, men che meno dell’italiano/toscano! Ciò che ò appena detto vale anche per la preposizione seguente cioè
pe che (con etimo dal lat. per) corrisponde all’italiano per in tutte le sue funzioni ed accezioni :
1) determina il luogo attraversato da un corpo in movimento o attraverso il quale passa qualcosa che à un'estensione lineare (anche fig.): il ‘o treno è passato pe Caserta; ‘o curteoà sfilato pe ‘o corzo;’o mariuolo è trasuto p’’a fenesta; | può anche specificare lo spazio circoscritto entro cui un moto si svolge e, per estens., la cosa, l'ambito entro cui un fenomeno, una condizione si verificano: passiggià p’’o ciardino;jí pe mmare e pe tterra; tené delure pe tutt’’a vita | indica anche la direzione del moto: saglí e scennere p’’e scale; arrancà pe tutta ‘a sagliuta
2) indica una destinazione: partí pe Pparigge; ‘ncammenarse p’’a città; piglià ‘a strata p’’o mare; ‘o treno pe Rroma | (estens.) esprime la persona o la cosa verso cui si à una disposizione affettiva, un'inclinazione: tené simpatia pe quaccheduno; avé passione p’’a museca ;
3) introduce una determinazione di stato in luogo, che si riferisce per lo piú a uno spazio di una certa estensione: ‘ncuntrà quaccheduno p’’a strata; ce stanno cierti giurnale pe tterra;
4) esprime il tempo continuato durante il quale si svolge un'azione o un evento si verifica (può anche essere omesso): aspettà (pe) ore e ore; faticà (pe) anne e nun cacciarne niente; sciuccaje (pe) tutta ‘a notte; durarrà (pe) tutta ‘a vita | se introduce una determinazione precisa di tempo, esprime per lo piú una scadenza nel futuro: turnarrà p’’e ddiece; êsse ‘a essere pronto pe Nnatale
5) introduce un mezzo: mannà pe pposta; spedí pe ccurriere; dirlo pe ttelefono; parlà pe bbocca ‘e n’ato;
6) esprime la causa: era stracquo p’’a fatica; alluccava p’’o dulore; non ve preoccupate pe nnuje; supportaje tutto p’ ammore sujo; condannà pe ‘mmicidio;
7) introduce il fine o lo scopo: libbro pe gguagliune; pripararse pe ‘nu viaggio; attrezzarse p’’a montagna; | in dipendenza da verbi che indicano preghiera, giuramento, promessa, esortazione e sim., indica l'ente, la persona, il principio ideale per cui o in nome di cui si prega, si giura, si promette ecc.: facítelo pe Ddio; pe ccarità, facite ca nun se venesse a sapé in giro; giurà pe ll’uocchie suoje; ll’à prummiso pe qquanto tène ‘e cchiú ccaro |, Pe ttutte ‘e diavule!, p’’a miseria! e sim., formule di esclamazione o di imprecazione
8) introduce la persona o la cosa a vantaggio o a svantaggio della quale un'azione si compie o una circostanza si verifica: faciarria qualsiasi cosa pe tte; accussí nun va bbuono pe nnuje; piezzo e ppejo pe cchi nun vo’ capí; n’aria ca nun è bbona p’’a salute; murí p’’ammore d’’e figlie; pregàe p’’e muorte; avutà pe n’amico ; ‘a partita è fernuta tre a ddoje p’’a squadra ‘e casa ;
9) determina il limite, l'ambito entro cui un'azione, un modo di essere, uno stato ànno validità: pe ll’intelliggenza è ‘o meglio d’’a classe; p’’e tiempe ‘e mo, è pure assaje; pe chesta vota sarraje perdunato; pe lloro è comme a ‘nu figlio; pe mme, state sbaglianno; pe quanto te riguarda, ce penzo io personalmente ;
10) introduce il modo, la maniera in cui un'azione si compie: ; parlà pe ttelefono; chiammà pe nnomme ; pavà pe ccuntante; tené pe mmano; assumere pe ccuncorzo;
11) indica un prezzo, una stima: aggio accattato pe ppochissimi sorde ‘nu bbellu mobbile antico; vennere ‘na casa pe cciento meliune; nun ‘o faciarria pe ttutto ll'oro d’’o munno;
12) in funzione distributiva: marcià pe dduje;metterse pe ffile; uno pe vvota; duje pacche pe pperzona; juorno pe gghiuorno | per estensione, indica la percentuale (pe cciento, nell'uso scritto %): ‘nu ‘nteresse d’’o diece pe cciento (o 10%) | nelle operazioni matematiche, dice quante volte un numero si moltiplica o divide (nel secondo caso può essere omesso): multiplicà cinche pe ddoje 5 ; diciotto diviso (pe) ttre dà seje; da qui l'uso assol. di pe a indicare un prodotto (nell'uso scritto rappresentato dal segno X)
13) introduce una misura o un'estensione: ‘a strata è ‘nzagliuta pe pparicchie chilometri; l'esercito avanzaje pe ccinche miglia e cchiú;
14) introduce una funzione predicativa, equivalendo a come: averlo p’ amico; pigliarla pe mmugliera; tené pe ccerto; pavà ‘nu tot pe ccaparra;
15) indica scambio, sostituzione, equivalendo alle locuzioni in vece, in cambio, in luogo di e sim.: l’aggiu pigliato p’’o frato; t’’o ddice isso pe mme; capí ‘na cosa pe n’ata;
16) indica origine, provenienza familiare nella loc. pe pparte ‘e: parente pe pparte ‘e mamma;
17) il pe seguito dal verbo all'infinito introduce una prop. finale: l’hê scritto p’’o ringrazzià?; ce ne vo’ pe tte cunvincere!; | causale: fuje malamente cazziato p’ avé risposto scustumatamente; era assaje stanco pe nun avé durmuto tutt’’a notte| consecutiva: è troppo bbello p’ essere overo; sî abbastanza crisciuto pe ccapirlo
18) nelle loc. perifrastiche , stare/stà pe, essere sul punto, in procinto di: stongo pe ppartí; steva quase pe sse cummuovere;
19) concorre alla formazione di numerose loc. avverbiali: p’’o mumento; pe qquanno è ‘o caso; pe ttiempo; pe lluongo; pe llargo; pe ccerto; pe ll'appunto; pe ccaso; pe ccumbinazzione; pe ppoco | congiuntive: p’’o fatto ca; pe vvia ca | pe ppoco (assaje, bello, brutto, caro e sim.) ca è o ca fosse , con valore concessivo: pe ppoco ca è, meglio ‘e niente.
Rammento, come ò già detto, che derivando il napoletano pe dal lat. pe(r) non necessità di alcun segno diacritico (accento o apostrofo) e pertanto va sempre scritta semplicemente pe e non nel modo scorretto pe’ che purtroppo ò spesso trovato anche fra i soliti grandi autori partenopei accreditati, ingiustamente!, di essere esperti della lingua napoletana; ovviamente il pe usato davanti a vocale va eliso in p’,(ed è chiaro che l’apostrofo non indica la caduta del gruppo originario er ma della sola vocale e di pe); usato invece davanti a consonante il pe esige la geminazione della consonante per cui avremo pe pparlà e non pe parlà e cosí via.
pate s.vo m.le = padre quanto all’etimo dritto per dritto dal lat. pat(r)e(m)→pate con dissimilazione totale della liquida.
Giunto a questo punto penso di non dover aggiungere altro, d’aver contentato l’amico A.B. ed aver interessato qualcun altro dei miei 24 lettori, per cui metto un punto fermo ed annoto: satis est!
raffaele bracale
Parte quarta
N - Parlà comme a ‘nu libbro stracciato.
Ad litteram:parlare come un libro strappato id est: esprimersi in maniera incomprensibile, frammentaria, approssimativa e perciò inutile, come inutile sarebbe il consultare un libro che strappato e ridotto in pezzi non sarebbe nè consultabile, né comprensibile.
comme avv. e cong. = come
avv.
1 in quale modo, in quale maniera (in prop. interrogative dirette e indirette): comme staje?(come stai?); comme è gghiuto ‘o viaggio?(come è andato il viaggio?); dimme comme staje(dimmi come sta)i; comme maje (come mai?), perché mai, per quale ragione: comme maje nun è cchiú partuto?(come mai non è piú partito?) | comm’ è ca?…,comme va ca?(com'è che...?, come va che...?), qual è il motivo per cui... | ma comme?!(ma come?!), per esprimere sdegno o meraviglia | comme dice?(come dici?), comme hê ditto?(come ài detto?), per chiedere che si ripeta qualcosa | comme sarria a ddicere?(come sarebbe a dire?), per chiedere una spiegazione | comm’è, comme nun è(com'è, come non è), (fam.) per introdurre un fatto che si è verificato all'improvviso | comme no?!(come no?!), certamente | comme ve permettite?!(come vi permette?!), si guardi bene dal permettersi
2 quanto (in prop. esclamative):comme chiove!( come piove!); comme sî bbuono!(come sei buono!); | e ccomme!, è proprio cosí!
3 il modo nel quale, in quale modo (introduce una prop. dichiarativa): le raccuntaje comme ll’amico sarria partuto(gli raccontò come l'amico sarebbe partito); nun te n’adduone ‘e comme sî ffesso?!(non ti accorgi come sei stupido?!) | preceduto da ecco, con lo stesso significato e funzione: ecco comme jettero ‘e ccose; ecco comme ce se po’ arruvinà (ecco come andarono le cose; ecco come ci si può rovinare)
4 nel modo in cui, quanto (introduce una prop. comparativa): è bbello comme credevo; arrivarrà cchiú ttarde ‘e comme aveva avvisiato (è bello come credevo; arriverà più tardi di come aveva annunciato);| in frasi comparative ellittiche del verbo stabilisce una relazione di somiglianza o di identità: janco comm’ ô llatte; ‘a figlia è aveta comm’â mamma; poche so’ sfaticate come a tte; ‘e juorno comme ‘e notte (bianco come il latte; la figlia è alta come la madre; pochi sono pigri come te; di giorno come di notte) | in espressioni rafforzative o enfatiche: mo comme a mmo(ora come ora), oje comme oje(oggi come oggi), al momento attuale | con il sign. di nella condizione, in qualità di, introduce un'apposizione o un compl. predicativo: tu, comme arbitro, nun hê ‘a essere ‘e parte! (tu, come arbitro, devi essere imparziale!); fuje scíveto comme testemmonio(fu scelto come testimone); tutte ‘a vulevano comme mugliera(tutti la richiedevano come moglie)
5 nel modo in cui, in quella maniera che (introduce una prop. modale): aggiu fatto come tu hê voluto (ò fatto come tu ài voluto; tutto è succieso comme speràvamo (tutto è accaduto come speravàmo) | preceduto da accussí: lassa ‘e ccose accussí comme so’ (lascia le cose cosí come sono) | in correlazione con accussí o con tanto (in luogo di quanto): non è accussí tarde come pensavo;(non è cosí tardi come pensavo); tanto ll’une comme ll’ ate ( tanto gli uni come gli altri) ' comme (si), nello stesso modo che, quasi che: rispettalo comme (si) fosse pàteto (rispettalo come (se) fosse tuo padre) | comme non l’êsse ditto come non l’avessi detto, per ritirare una precedente affermazione.
cong.
1 appena, non appena; quando (introduce una prop. temporale): comme ‘o sapette, telefonaje (come lo seppe, telefonò) | a mano a mano che: ‘e nutizzie erano passate comme arrivavano (le notizie venivano comunicate come arrivavano)
2 (lett.) giacché, siccome (introduce una prop. causale): e comme n’effetto s’aveva avé… ( e siccome un effetto bisognava ottenere…)
‘no oppure’nu = corrisponde ad un ed uno della lingua italiana dove sono agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm. [ in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s.vo o agg.vo che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa indifferentemente ‘no/‘nu davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa la forma tronca un (ad es.: un osso) nella parlata napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)nu(m) l’apocope della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il malvezzo di scrivere no/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile ;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
‘na = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una; l’etimo di ‘na è ovviamente dal lat. (u)na(m) l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori, anche preparati, seguano il malvezzo di scrivere l’articolo na come pure il corrispondente del maschile e neutro no/nuprivi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, mi ripeto, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile.
libbro s.vo m.le = libro, volume, insieme di fogli, stampati o manoscritti, cucitio incollati insieme secondo un dato ordine e racchiusi da una copertina; etimologicamente è voce derivata dal lat. libru(m)→libbro con consueto raddoppiamento espressivo dell’esplosiva labiale, orig. 'sottile membrana fra la corteccia e il legno dell'albero', che prima dell'introduzione del papiro si usava come materiale per scrivere;
stracciato = strappato,fatto a pezzi part.pass. agg.vato dell’infinito stracciare/straccià che è dal lat. volg. *extractiare, deriv. di tractus, part. pass. di trahere 'trarre'
O - Parlà assestato
Ad litteram:parlare con cura e precisione,esponendo in maniera chiara responsabile, affidabile, scrupolosa, coscienziosa. Détto di chi, si esprima in modo serio e costruttivo, dimostrando accuratezza, cura, attenzione, meticolosità, diligenza, scrupolosità, ordine, rigore,nonché il raziocinio d’ una mente concretamente in sesto.
assestato part. pass. aggettivato dell’infinito assestà = 1 mettere in sesto, in ordine (anche fig.); sistemare;2 regolare con cura, adattare con precisione; ||| assestarse v. rifl. o intr. pron.
1 sistemarsi; mettersi in ordine, a posto (anche fig.):
2 (ant. lett.) adattarsi, confarsi.
Etimologicamente assestare/assestà è un denominale di sesto (che è dal lat. sextu(m)) s. m.
1 ordine, assetto, disposizione normale di qualcosa:
2 (arch.) curvatura di un arco;
3 (ant.) compasso, sesta:
P - Parlà chiatto e ttunno
Corrisponde all’italiano Parlar chiaro e tondo È l’esatto contrario della precedente I - Parlà mazzecato.
Ad litteramquesta a margine è:parlare grasso e tondo,ma si può rendere con l’italiano parlar chiaro e tondo, quantunque l’espressione napoletana nella sua icasticità sia piú rappresentativa del concetto di profferir parole copiose (chiatto=grasso, abbondante ) e rotonde (tunno= tondo, rotondo, anche sferico, privo di spigolosità) id est parlare senza reticenze; esprimersi senza incertezze, con chiarezza e dovizia di particolari, senza nulla sottacere, usando un eloquio aperto, ampio e rotondo che in napoletano è détto grasso come che ponderoso e privo di spigolosità che se esistessero impedirebbero la necessarie trasparenza e/o chiarezza che son proprie di un parlare chiaro e tondo che cioè non voglia nasconder nulla.
Chiatto e ttunno = copioso, abbondante e rotondo locuzione avverbiale formato dall’unione di due aggettivi: chiatto/a agg.vo m.le o f.le= pingue, grasso/a e dunque copioso/a, abbondante
Voce che è dal greco plat(s) con raddoppiamento espressivo della dentale e consueto passaggio (che è anche in lemmi dal latino) del gruppo pl a chi (cfr. ad es. plu(s)→chiú – plumbeu(m)→chiummo – plaga→chiaja etc.) e tunno/a agg.vo m.le o f.le= tondo/a, rotondo/a, sferico/a e dunque senza spigoli o asperità
Voce che è dal lat. (ro)tundu(m)→tunno con tipica assimilazione progressiva nd→nn.
Q – Parlà a cocoricò
Espressione del parlato e solo del parlato a cui però è quasi impossibile dare una traduzione letterale atteso che la voce cocoricò nell’inteso comune si presta ad una doppia interpretazione; a) pappagalo, b) matto, folle;
Intendendo cocoricò come pappagallo (dandole cioè un etimo onomatopeico che si riallaccia al verso del pennuto uccello esotico addomesticabile, con caratteristico becco adunco e colori smaglianti) l’espressione varrebbe parlar pappagallescamente imitando l’altrui eloquio; intendendo invece, come io penso e ritengo, ntendendo cocoricò una voce derivata dal turco curuk→cucuruco→cocoricò (agg.vo che vale in primis marcio e per traslato folle, matto) ecco che l’espressione parlà a cocoricò acquista la medesima valenza della precedente parlà a spaccastrommole cioè in maniera concitata, a ruota libera senza nesso o senso, quasi alla maniera dei matti,valenza che semanticamente s’attaglia benissimo al curuk→cucuruco→cocoricò = folle, matto.
Q - Parlà a scampule ‘e mele cotte
Ad litteram: parlare alla maniera (dei venditori) di scampoli di mele cotte id est parlare per tropi ed immagini spesso menzognere e/o fasulle in maniera suadente, ma falsa ed ingannevole nell’intento di convincere l’ascoltatore/cliente ad acquistare scampoli residuali di mele cotte probabilmente invendute per cattiva qualità delle medesime.Analogamente ai venditori di scampoli di mele cotte chiunque usasse, soprattutto a fini illusorî,e/o ingannevoli, un eloquio suadente, ma menzognero potrebbe essere accreditato di parlà a scampule ‘e mele cotte.
scampule s.vo m.le pl. di scampulo s. m.
in primis piccolo taglio di tessuto che avanza da una pezza;
fig. come nel caso che ci occupa avanzo, rimasuglio
etimologicamente la voce scampulo è un deverbale di scampare/scampà =
1uscire salvo da un pericolo(nel caso dello scampolo da quello della vendita); sfuggire a un rischio (idem c.s.) mortale:
2 trovare rifugio in un luogo: scampà all'estero ||| v. tr.
1 proteggere, liberare, salvare da mali e pericoli: scampare qualcuno dalla morte | Dio ci (ce ne) scampi!, escl. che esprime la speranza di non incorrere in un pericolo, di non subire un male
2 evitare, scansare (un male, un danno e sim.); il verbo scampare, a sua volta deriva da campo (di battaglia), col pref. s- che indica allontanamento.
E con questa analizzata avrei esaurito l’esame delle piú usate locuzioni modali costruite con il verbo parlare, ma amor di completezza mi spinge ad illustrare altre due caratteristiche espressioni partenopee costruite usando l’infinito parlà:
R - Nun farme parlà!
Letteralmente: Non farmi parlare! Id est: Fammi tacere, non istigarmi a dire qualcosa di cui potrei pentirmi… Della persona o dell’argomento dei quali vorresti ch’io parlassi conosco cose e circostanze spiacevoli che se le riferissi potrebbero suscitare malumori, dissapori o malintesi di cui sarei responsabile e di cui dovrei pentirmi; per cui Non indurmi a parlare.È preferibile ch’io taccia!
S- Jí a pparlà cu ‘o pato
Letteralmente: Andare a parlare con il padre (della fidanzata). Id est: Ufficializzare una situazione impegnandosi chiaramente a mantenere l’impegno di fare sfociare un fidanzamento nel matrimonio. L’espressione napoletana, in disuso ormai dalla fine degli anni ’60 del 1900 in coincidenza con la rivoluzione dei costumi giovanili e della società, e con il subentro all’istituto del matrimonio, della disdicevole consuetudine della convivenza disimpegnata, libera e senza regole, l’espressione in esame corrisponde ad un dipresso a quella dell’italiano chiedere la mano della sposa Rispetto a quella dell’italiano, l’espressione napoletana coglie al meglio l’importanza della figura paterna (del tutto assente nell’espressione italiana) figura che sino alla fine degli anni ’60 del 1900 ebbe un posto preminente nell’àmbito della famiglia di cui rappresentò l’indiscussa guida materiale e morale responsabile titolare della cosiddetta patria potestas ed occorreva che con lui e con nessun altro l’aspirante promesso sposo parlasse dando garanzie di serietà morale, supportata da un lavoro retribuito e chiarisse le sue serie intenzioni di voler metter su famiglia impalmando la figliola di colui con cui si andava a parlare.
jí corrisponde al verbo italiano andare ( che etimologicamente qualcuno pensa derivi dal lat. ambulare o da un lat. volg. *ambitare, ma che molto piú esattamente sembra derivi da un *aditare frequentativo di adire ed è verbo che à alcune forme che ànno per tema vad- derivando dal lat. vadere/vadicare 'andare'); è reso,in napoletano, con derivazione dal lat. ire, con l’infinito jí/ghí e son numerose le locuzioni formate con détto infinito e per esaminarle rimando alibi. Preciso che in napoletano la grafia corretta dell’infinito è – come ò scritto – jí oppure in talune espressioni ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per comodità espressiva dal suono gh. È pertanto assolutamente errato (come purtroppo càpita di trovare nella stragrande maggioranza di sedicenti scrittori napoletani noti e/o meno noti!), è assolutamente errato rendere in napoletano l’infinito di andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponessero i loro parti… poetici dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo di jí oppure, ove del caso, ghí/gghí, li metteva decisamente alla porta consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1°,2° e 3° pers. sg.) si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à: i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1° e 2° pers. pl.usa il tema di ji –re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3° ps. pl che è lloro vanno.
cu cong.
Corrisponde all’italiano con in tutte le sue funzioni ed accezioni :
1) esprime relazione di compagnia, se è seguito da un nome che indica essere animato (può essere rafforzato da insieme): è partito cu ‘o pato ; à magnato cu ll’ amice; campa (‘nzieme) cu ‘a sora;
2) in senso piú generico, introduce il termine cui si riferisce una qualsiasi relazione: s’è appiccecato cu ‘o frato; à sfugato cu mme;
3) con valore propriamente modale: restà cu ll’uocchie nchiuse; vulé bbene cu tutto ‘o cuore; trattà cu ‘e guante gialle( cioè con rispetto e dedizione quelli dovuti ai nobili che usavano indossare guanti di camoscio in tinta chiara) | con valore tra modale e di qualità: pasta cu ‘e ssarde; stanza cu ‘o bbagno; casa cu ‘o ciardino;
4) introduce una determinazione di mezzo o di strumento: cu ‘a bbona vulontà s’ave tutto; ‘o vino se fa cu ll'uva; scrivere cu ‘a penna stilografica; partí cu ‘o treno ;
5) indica una circostanza, stabilendo un rapporto di concomitanza: nun ascí cu ll’acqua!;
6) può avere valore concessivo o avversativo, assumendo il significato di 'non ostante,a malgrado': cu tutte ‘e guaje ca tène, riesce ancòra a ridere; cu tutta ‘a bbona vulontà, ma è proprio ‘mpussibbile. L’etimo della preposizione a margine è dal lat. cum. Rammento qui e valga anche a futura memoria che tutte le parole che abbiano un etimo da una voce latina terminante per consonante (che nella parola formata cade) non necessitano di alcun segno diacritico in quanto il segno diacritico dell’apocope (accento o apostrofo) è necessario apporlo graficamente quando a cadere sia una sillaba e non una o due consonanti; nel caso in esame cum dà cu e non l’inesatto cu’ che spesso mi è occorso di trovare negli scritti anche di famosi autori, accreditati da qualcuno (ma evidentemente a torto) d’essere esperti dell’ idioma napoletano, autori che invece ànno spesso marcato o marcano il loro napoletano sulla sintassi e la grammatica dell’italiano, facendo una sciocchezza sesquipedale atteso che – come ò piú volte détto e provato – il napoletano è un linguaggio del tutto originale ed autonomo, con una propria storia letteraria e di derivazione, come tutti gli altri linguaggi regionali, diretta dal latino volgare, con proprie regole grammaticali e di sintassi e non è tributaria di nessun altra lingua, men che meno dell’italiano/toscano! Ciò che ò appena detto vale anche per la preposizione seguente cioè
pe che (con etimo dal lat. per) corrisponde all’italiano per in tutte le sue funzioni ed accezioni :
1) determina il luogo attraversato da un corpo in movimento o attraverso il quale passa qualcosa che à un'estensione lineare (anche fig.): il ‘o treno è passato pe Caserta; ‘o curteoà sfilato pe ‘o corzo;’o mariuolo è trasuto p’’a fenesta; | può anche specificare lo spazio circoscritto entro cui un moto si svolge e, per estens., la cosa, l'ambito entro cui un fenomeno, una condizione si verificano: passiggià p’’o ciardino;jí pe mmare e pe tterra; tené delure pe tutt’’a vita | indica anche la direzione del moto: saglí e scennere p’’e scale; arrancà pe tutta ‘a sagliuta
2) indica una destinazione: partí pe Pparigge; ‘ncammenarse p’’a città; piglià ‘a strata p’’o mare; ‘o treno pe Rroma | (estens.) esprime la persona o la cosa verso cui si à una disposizione affettiva, un'inclinazione: tené simpatia pe quaccheduno; avé passione p’’a museca ;
3) introduce una determinazione di stato in luogo, che si riferisce per lo piú a uno spazio di una certa estensione: ‘ncuntrà quaccheduno p’’a strata; ce stanno cierti giurnale pe tterra;
4) esprime il tempo continuato durante il quale si svolge un'azione o un evento si verifica (può anche essere omesso): aspettà (pe) ore e ore; faticà (pe) anne e nun cacciarne niente; sciuccaje (pe) tutta ‘a notte; durarrà (pe) tutta ‘a vita | se introduce una determinazione precisa di tempo, esprime per lo piú una scadenza nel futuro: turnarrà p’’e ddiece; êsse ‘a essere pronto pe Nnatale
5) introduce un mezzo: mannà pe pposta; spedí pe ccurriere; dirlo pe ttelefono; parlà pe bbocca ‘e n’ato;
6) esprime la causa: era stracquo p’’a fatica; alluccava p’’o dulore; non ve preoccupate pe nnuje; supportaje tutto p’ ammore sujo; condannà pe ‘mmicidio;
7) introduce il fine o lo scopo: libbro pe gguagliune; pripararse pe ‘nu viaggio; attrezzarse p’’a montagna; | in dipendenza da verbi che indicano preghiera, giuramento, promessa, esortazione e sim., indica l'ente, la persona, il principio ideale per cui o in nome di cui si prega, si giura, si promette ecc.: facítelo pe Ddio; pe ccarità, facite ca nun se venesse a sapé in giro; giurà pe ll’uocchie suoje; ll’à prummiso pe qquanto tène ‘e cchiú ccaro |, Pe ttutte ‘e diavule!, p’’a miseria! e sim., formule di esclamazione o di imprecazione
8) introduce la persona o la cosa a vantaggio o a svantaggio della quale un'azione si compie o una circostanza si verifica: faciarria qualsiasi cosa pe tte; accussí nun va bbuono pe nnuje; piezzo e ppejo pe cchi nun vo’ capí; n’aria ca nun è bbona p’’a salute; murí p’’ammore d’’e figlie; pregàe p’’e muorte; avutà pe n’amico ; ‘a partita è fernuta tre a ddoje p’’a squadra ‘e casa ;
9) determina il limite, l'ambito entro cui un'azione, un modo di essere, uno stato ànno validità: pe ll’intelliggenza è ‘o meglio d’’a classe; p’’e tiempe ‘e mo, è pure assaje; pe chesta vota sarraje perdunato; pe lloro è comme a ‘nu figlio; pe mme, state sbaglianno; pe quanto te riguarda, ce penzo io personalmente ;
10) introduce il modo, la maniera in cui un'azione si compie: ; parlà pe ttelefono; chiammà pe nnomme ; pavà pe ccuntante; tené pe mmano; assumere pe ccuncorzo;
11) indica un prezzo, una stima: aggio accattato pe ppochissimi sorde ‘nu bbellu mobbile antico; vennere ‘na casa pe cciento meliune; nun ‘o faciarria pe ttutto ll'oro d’’o munno;
12) in funzione distributiva: marcià pe dduje;metterse pe ffile; uno pe vvota; duje pacche pe pperzona; juorno pe gghiuorno | per estensione, indica la percentuale (pe cciento, nell'uso scritto %): ‘nu ‘nteresse d’’o diece pe cciento (o 10%) | nelle operazioni matematiche, dice quante volte un numero si moltiplica o divide (nel secondo caso può essere omesso): multiplicà cinche pe ddoje 5 ; diciotto diviso (pe) ttre dà seje; da qui l'uso assol. di pe a indicare un prodotto (nell'uso scritto rappresentato dal segno X)
13) introduce una misura o un'estensione: ‘a strata è ‘nzagliuta pe pparicchie chilometri; l'esercito avanzaje pe ccinche miglia e cchiú;
14) introduce una funzione predicativa, equivalendo a come: averlo p’ amico; pigliarla pe mmugliera; tené pe ccerto; pavà ‘nu tot pe ccaparra;
15) indica scambio, sostituzione, equivalendo alle locuzioni in vece, in cambio, in luogo di e sim.: l’aggiu pigliato p’’o frato; t’’o ddice isso pe mme; capí ‘na cosa pe n’ata;
16) indica origine, provenienza familiare nella loc. pe pparte ‘e: parente pe pparte ‘e mamma;
17) il pe seguito dal verbo all'infinito introduce una prop. finale: l’hê scritto p’’o ringrazzià?; ce ne vo’ pe tte cunvincere!; | causale: fuje malamente cazziato p’ avé risposto scustumatamente; era assaje stanco pe nun avé durmuto tutt’’a notte| consecutiva: è troppo bbello p’ essere overo; sî abbastanza crisciuto pe ccapirlo
18) nelle loc. perifrastiche , stare/stà pe, essere sul punto, in procinto di: stongo pe ppartí; steva quase pe sse cummuovere;
19) concorre alla formazione di numerose loc. avverbiali: p’’o mumento; pe qquanno è ‘o caso; pe ttiempo; pe lluongo; pe llargo; pe ccerto; pe ll'appunto; pe ccaso; pe ccumbinazzione; pe ppoco | congiuntive: p’’o fatto ca; pe vvia ca | pe ppoco (assaje, bello, brutto, caro e sim.) ca è o ca fosse , con valore concessivo: pe ppoco ca è, meglio ‘e niente.
Rammento, come ò già detto, che derivando il napoletano pe dal lat. pe(r) non necessità di alcun segno diacritico (accento o apostrofo) e pertanto va sempre scritta semplicemente pe e non nel modo scorretto pe’ che purtroppo ò spesso trovato anche fra i soliti grandi autori partenopei accreditati, ingiustamente!, di essere esperti della lingua napoletana; ovviamente il pe usato davanti a vocale va eliso in p’,(ed è chiaro che l’apostrofo non indica la caduta del gruppo originario er ma della sola vocale e di pe); usato invece davanti a consonante il pe esige la geminazione della consonante per cui avremo pe pparlà e non pe parlà e cosí via.
pate s.vo m.le = padre quanto all’etimo dritto per dritto dal lat. pat(r)e(m)→pate con dissimilazione totale della liquida.
Giunto a questo punto penso di non dover aggiungere altro, d’aver contentato l’amico A.B. ed aver interessato qualcun altro dei miei 24 lettori, per cui metto un punto fermo ed annoto: satis est!
raffaele bracale
FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ 3°
FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ
Parte terza
I - Parlà mazzecato Ad litteram:parlare masticato, profferir parole masticate id est parlare con reticenza; esprimersi con riluttanza, con vaghezza ed ambiguità sottacendo fattio situazioni anche importanti di cui pertimore o per colpevole menefreghismo, sciatteria, indolenza, noncuranza non si voglia far verbo come si comporterebbe chi parlasse tenenendo la bocca occupata da un boccone, per cui sarebbe costretto a non esprimersi con chiarezza e lo facesse quasi triturando le parole che risulterebbe non intellegibili, quasi sbocconcellate.
mazzecato = masticato, mordicchiato, triturato con i denti;
etimologicamente è il p.p. aggettivato dell’infinito mazzicare/mazzecare/mazzecà = mordere, masticare dal lat. tardo masticare→mazzicare, che è dal gr. mastichân, deriv. di mástax -akos 'bocca'.
L- Parlà ‘nfijura Ad litteram:parlare in figura, profferir parole figurate id est parlare non chiaramente, ma con tropi,allusioni, metafore esprimersi con circospezione e con vaghezza e ciò soprattutto in presenza di minori affrontando argomenti delicati. L’espressione a lato è una sorta d’invito rivolto ad adulti che si trovassero a parlare in presenza di minori di argomenti non consoni all’età di costoro; la medesima esortazione la si ritrova nell’espressione Mantenímmoce pulite, ca ce stanno 'e ccarte janche!
Letteralmente: manteniamoci netti perché son presenti le carte bianche! Id est: Non affrontiamo argomenti scabrosi; teniamo a mente che ci son presenti dei bambini che ci ascoltano ed in loro presenza è sconveniente toccare argomenti che potrebbero provocare domande a cui sarebbe difficile rispondere.
‘M - Parlà a spaccastrómmole Ad litteram:parlare a spaccatrottole id est: esprimersi in maniera concitata, a ruota libera senza nesso o senso, quasi alla maniera dei matti, con la medesima sconclusionata foga d’eloquio di quei scugnizzi (monelli) che nel giuoco dello strummolo (trottolina lignea) quando avessero l’opportunità di sbreccare o addirittuta di spaccare la trottolina dell’avversario perdente si esaltavano al punto da profferire emozionate parole convulse e prive di senso buttate fuori a casaccio.
a spaccastrommole locuzione avverbiale modale formata dalla unione della preposizione semplice a ( dal lat. ab/ad secondo che indichi provenienza oppure destinazione o , come qui, modo) con l’agglutinazione della voce verbale spacca (3° p. sg. ind. pres. dell’infinito spaccare/spaccà (dal longob. *spahhan 'fendere') con strommole pl. f,le metafonetico del sg. m.le strummolo.
Rammento che con il termine strúmmolo , nella parlata napoletana, si indica un semplicissimo giocattolino, che ormai è sotterrato sotto la coltre del tempo andato: trattasi di una sorta di trottolina di legno a forma di cono o piccola pigna con il vertice costituito da una punta metallica infissa nel legno e con numerose scalanature incise su tutta la superficie in modo concentrico e parallelo rispetto al vertice, in dette scanalature viene avvolta strettamente una cordicella (talvolta addirittura impeciata per aumentarne resistenza e durata) che à lo scopo di imprimere un moto rotatorio allo strúmmolo , una volta che detta corda sia stata velocemente srotolata e portata via dallo strúmmolo mediante uno strappo secco per modo che la trottolina lanciata in terra prenda a girare vorticosamente su se stessa facendo perno sulla punta metallica: piú abile è il giocatore e di miglior fattura è lo strúmmolo , tanto maggiore sarà la velocità della roteazione e la sua durata . Se invece lo strúmmolo è di scadente fabbricazione , il piú delle volte risulterà scentrato e non bilanciato rispetto alla punta, per cui il suo prillare risulterà di breve o nulla durata: in tali casi si suole dire che lo strúmmolo è ballarino o tiriteppe, volendo con tale ultima onomatopea indicare appunto la non idoneità del giocattolino. Allorchè poi alla scentratezza dello strúmmolo si unisca una cordicella non sufficientemente lunga, tale cioè da non permettere di imprimere forza al moto rotatorio dello strúmmolo si usa dire: s’è aunito ‘a funicella corta e ‘o strúmmolo tiriteppe e tale espressione è usata quando si voglia fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come nel caso ad esempio di una persona incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente fornito, per giunta di ferri del mestiere inadeguati, rammentando un famoso modo di dire che afferma che sono i ferri ca fanno ‘o masto e cioè che un buono aretiere è quello che posside buoni ferri...o magari – per concludere - quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno parimenti svogliato.
Per tornare allo strúmmolo rammentiamo un altro modo di dire: cu chestu lignammo se fanno ‘e strummole id est: con questo legno si fanno le trottoline; questo modo di dire à una doppia significazione:
A – È con questo legno, non con altro, che si fanno le trottoline...ovvero : ciò che volevate io facessi,andava fatta nel modo con cui la ò eseguita...
B – Con il legno che mi state conferendo si fanno trottoline, non chiedetemi altri manufatti; cioè: se non avrete ciò che vi aspettavate da me , sarà perché mi avrete dato materiali inadatti allo scopo, , non per mia inettitudine o incapacità.
Prima di accennare all’etimologia, ricordiamo ancora che uno strúmmolo costruito male per cui gira per poco tempo e crolla in terra risultante perditore era detto per dileggio: strúmmolo scacato.
Nel giuoco dello strúmmolo il maggior rischio che correva il perdente tra due contendenti era quello di vedersi scugnare (e per incidens, rammenterò che da tale verbo deriva la parola scugnizzo) il proprio strúmmolo da quello del vincitore che lanciava il proprio strúmmolo violentemente contro quello dell’avversario tentando di sbreccarlo con la punta acuminata del proprio strúmmolo , se non addirittura di spaccare la trottolina del perditore.
Pacifica la etimologia dello strúmmolo protagonista di un gioco addirittura greco se non antecedente e greca è l’etimologia della parola che viene dritto per dritto dal greco strómbos che in primis indicò la grossa conchiglia di un mollusco gasteropodo dei mari caldi con conchiglia a spira ripetuta nel disegno delle scanalature della trottolina; lo strómbos greco trasmigrato nel latino fu stròmbus da cui con consueta assimilazione progressiva mb→mm si arrivò a strummus donde con il suffisso diminutivo olus,si ottiene strúmmolo con il suo esatto significato di trottolina.Rammento che il s.vo sg. strummolo è maschile, ma à un doppio plurale: l’uno m.le strummoli (usato ovviamente per indicare piú trottoline) l’altro f.le metafonetico strommole (usato sia per indicare piú trottoline e segnatamente nella locuzione a spaccastrommole sia per indicare per traslato divertito delle sesquipedali fandonie, delle sciocchezze madornali quali sono delle insulse parole o affermazioni appaiabili ad un giuoco come giuoco è lo strummolo.
(segue)
r.b.
Parte terza
I - Parlà mazzecato Ad litteram:parlare masticato, profferir parole masticate id est parlare con reticenza; esprimersi con riluttanza, con vaghezza ed ambiguità sottacendo fattio situazioni anche importanti di cui pertimore o per colpevole menefreghismo, sciatteria, indolenza, noncuranza non si voglia far verbo come si comporterebbe chi parlasse tenenendo la bocca occupata da un boccone, per cui sarebbe costretto a non esprimersi con chiarezza e lo facesse quasi triturando le parole che risulterebbe non intellegibili, quasi sbocconcellate.
mazzecato = masticato, mordicchiato, triturato con i denti;
etimologicamente è il p.p. aggettivato dell’infinito mazzicare/mazzecare/mazzecà = mordere, masticare dal lat. tardo masticare→mazzicare, che è dal gr. mastichân, deriv. di mástax -akos 'bocca'.
L- Parlà ‘nfijura Ad litteram:parlare in figura, profferir parole figurate id est parlare non chiaramente, ma con tropi,allusioni, metafore esprimersi con circospezione e con vaghezza e ciò soprattutto in presenza di minori affrontando argomenti delicati. L’espressione a lato è una sorta d’invito rivolto ad adulti che si trovassero a parlare in presenza di minori di argomenti non consoni all’età di costoro; la medesima esortazione la si ritrova nell’espressione Mantenímmoce pulite, ca ce stanno 'e ccarte janche!
Letteralmente: manteniamoci netti perché son presenti le carte bianche! Id est: Non affrontiamo argomenti scabrosi; teniamo a mente che ci son presenti dei bambini che ci ascoltano ed in loro presenza è sconveniente toccare argomenti che potrebbero provocare domande a cui sarebbe difficile rispondere.
‘M - Parlà a spaccastrómmole Ad litteram:parlare a spaccatrottole id est: esprimersi in maniera concitata, a ruota libera senza nesso o senso, quasi alla maniera dei matti, con la medesima sconclusionata foga d’eloquio di quei scugnizzi (monelli) che nel giuoco dello strummolo (trottolina lignea) quando avessero l’opportunità di sbreccare o addirittuta di spaccare la trottolina dell’avversario perdente si esaltavano al punto da profferire emozionate parole convulse e prive di senso buttate fuori a casaccio.
a spaccastrommole locuzione avverbiale modale formata dalla unione della preposizione semplice a ( dal lat. ab/ad secondo che indichi provenienza oppure destinazione o , come qui, modo) con l’agglutinazione della voce verbale spacca (3° p. sg. ind. pres. dell’infinito spaccare/spaccà (dal longob. *spahhan 'fendere') con strommole pl. f,le metafonetico del sg. m.le strummolo.
Rammento che con il termine strúmmolo , nella parlata napoletana, si indica un semplicissimo giocattolino, che ormai è sotterrato sotto la coltre del tempo andato: trattasi di una sorta di trottolina di legno a forma di cono o piccola pigna con il vertice costituito da una punta metallica infissa nel legno e con numerose scalanature incise su tutta la superficie in modo concentrico e parallelo rispetto al vertice, in dette scanalature viene avvolta strettamente una cordicella (talvolta addirittura impeciata per aumentarne resistenza e durata) che à lo scopo di imprimere un moto rotatorio allo strúmmolo , una volta che detta corda sia stata velocemente srotolata e portata via dallo strúmmolo mediante uno strappo secco per modo che la trottolina lanciata in terra prenda a girare vorticosamente su se stessa facendo perno sulla punta metallica: piú abile è il giocatore e di miglior fattura è lo strúmmolo , tanto maggiore sarà la velocità della roteazione e la sua durata . Se invece lo strúmmolo è di scadente fabbricazione , il piú delle volte risulterà scentrato e non bilanciato rispetto alla punta, per cui il suo prillare risulterà di breve o nulla durata: in tali casi si suole dire che lo strúmmolo è ballarino o tiriteppe, volendo con tale ultima onomatopea indicare appunto la non idoneità del giocattolino. Allorchè poi alla scentratezza dello strúmmolo si unisca una cordicella non sufficientemente lunga, tale cioè da non permettere di imprimere forza al moto rotatorio dello strúmmolo si usa dire: s’è aunito ‘a funicella corta e ‘o strúmmolo tiriteppe e tale espressione è usata quando si voglia fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come nel caso ad esempio di una persona incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente fornito, per giunta di ferri del mestiere inadeguati, rammentando un famoso modo di dire che afferma che sono i ferri ca fanno ‘o masto e cioè che un buono aretiere è quello che posside buoni ferri...o magari – per concludere - quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno parimenti svogliato.
Per tornare allo strúmmolo rammentiamo un altro modo di dire: cu chestu lignammo se fanno ‘e strummole id est: con questo legno si fanno le trottoline; questo modo di dire à una doppia significazione:
A – È con questo legno, non con altro, che si fanno le trottoline...ovvero : ciò che volevate io facessi,andava fatta nel modo con cui la ò eseguita...
B – Con il legno che mi state conferendo si fanno trottoline, non chiedetemi altri manufatti; cioè: se non avrete ciò che vi aspettavate da me , sarà perché mi avrete dato materiali inadatti allo scopo, , non per mia inettitudine o incapacità.
Prima di accennare all’etimologia, ricordiamo ancora che uno strúmmolo costruito male per cui gira per poco tempo e crolla in terra risultante perditore era detto per dileggio: strúmmolo scacato.
Nel giuoco dello strúmmolo il maggior rischio che correva il perdente tra due contendenti era quello di vedersi scugnare (e per incidens, rammenterò che da tale verbo deriva la parola scugnizzo) il proprio strúmmolo da quello del vincitore che lanciava il proprio strúmmolo violentemente contro quello dell’avversario tentando di sbreccarlo con la punta acuminata del proprio strúmmolo , se non addirittura di spaccare la trottolina del perditore.
Pacifica la etimologia dello strúmmolo protagonista di un gioco addirittura greco se non antecedente e greca è l’etimologia della parola che viene dritto per dritto dal greco strómbos che in primis indicò la grossa conchiglia di un mollusco gasteropodo dei mari caldi con conchiglia a spira ripetuta nel disegno delle scanalature della trottolina; lo strómbos greco trasmigrato nel latino fu stròmbus da cui con consueta assimilazione progressiva mb→mm si arrivò a strummus donde con il suffisso diminutivo olus,si ottiene strúmmolo con il suo esatto significato di trottolina.Rammento che il s.vo sg. strummolo è maschile, ma à un doppio plurale: l’uno m.le strummoli (usato ovviamente per indicare piú trottoline) l’altro f.le metafonetico strommole (usato sia per indicare piú trottoline e segnatamente nella locuzione a spaccastrommole sia per indicare per traslato divertito delle sesquipedali fandonie, delle sciocchezze madornali quali sono delle insulse parole o affermazioni appaiabili ad un giuoco come giuoco è lo strummolo.
(segue)
r.b.
FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ 2°
FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ
Parte seconda
D-Parlà a schiovere
Ad litteram:parlare a vanvera, quasi a pioggia battente. Détto di chi, non avendo nulla di serio e costruttivo da comunicare, dà libero sfogo alla propria lingua ed a mo' di pioggia inonda il prossimo di vuote parole senza significato e/o costrutto , a ruota libera ed inopportunamente.
Preciso qui che il termine schiovere significa per solito: smettere di piovere, ma - in napoletano - spesso la prostesi di una S ad un termine à funzione intensiva e rafforzativa, non sottrattiva ed è il caso dello schiovere della locuzione qui annotata dove con l’anteporre la S alla parola chiovere (piovere) non si è inteso indicare la cessazione del fenomeno atmosferico, ma al contrario si è inteso aumentarne la portata! Il verbo chiovere è dal lat. tardo plovere, per il class. pluere con il tipico passaggio del gruppo lat. pl al napoletano chi (cfr. plu(s)→chiú – plumbeu(m)→chiummo – plaga→chiaja etc.)
.
E- Parlà sparo
Letteralmente: parlar dispari, caffo che sta per parlare offensivamente oltraggiosamente ed addirittura minacciosamente; semanticamente la cosa si spiega con il fatto che nel giuoco del paro e sparo (pari e dispari/caffo)sorta di morra in cui si deve indovinare se il numero totale delle dita che i giocatori apriranno sarà pari o dispari, il giocatore che partecipasse al gioco con il massimo dei numeri dispari da lui giocabili cioè il cinque,apriva completamente distendendolo il palmo della mano (in arabo kaff donde l’italiano caffo=dispari ) per mostrare appunto le cinque dita assumendo cioè una posizione quasi aggressiva come se volesse minacciare l’avversario di percuoterlo a mano aperta;per cui chi parlasse offensivamente, minacciosamente oltraggiosamente si disse che parlasse sparo come colui che distendendo interamente la mano giocasse un numero ( il cinque) dispari/caffo = sparo.
sparo agg.vo ed avverbio = dispari, in modo diverso, disuguale e per ampliamento semantico offensivo, oltraggioso, minaccioso etc. per l’etimo si deve risalire al lat. dis+pare(m)→(di)spare(m)→sparo, comp. di dis→s e par paris 'pari' cioè non pari .
F -Parlà sulo Ad litteram:parlar da solo, senza relazionarsi Détto di chi,accreditato d’essere folle o tendente alla pazzia venga isolato negandogli la possibilità di relazionarsi con gli altri e lo si costringa al vuoto ed inconferente soliloquio, al parlar da solo con se stesso che è proprio – per l’appunto – l’atteggiamento irrazionale di chi sia o faccia le viste d’esser pazzo, demente, folle, dissennato, squilibrato, forsennato, irragionevole, malato di mente, mentecatto.
Sulo agg.vo e talora anche avv. (sulo/sulamente) , ma qui aggettivo: isolato, senza compagnia,abbandonato, trascurato, accantonato, reietto, derelitto quanto all’etimo è dal lat. solu(m).
G- Parlà cu ‘o chiummo e cu ‘o cumpasso
Icastica espressione che ad litteram è: parlare con il(filo a) piombo ed il compasso id est: esprimersi ed agire in ogni occasione con estrema attenzione, cautela e prudenza,non disgiunte da accortezza, circospezione, avvedutezza, ponderazione, avvertenza, precauzione e precisione alla stregua del muratore che, se vuole portare a termine a regola d’arte le proprie opere, non può esimersi dal far ricorso al filo a piombo, compasso, livelle ed altri strumenti consimili. L’atteggiamento fotografato dall’espressione a margine è proprio del prudente, spesso pusillanime e di chi sia cauto, accorto, attento, avveduto, giudizioso, previdente, oculato, riflessivo, ponderato, misurato, controllato, vigile, circospetto, guardingo.
chiummo s.vo neutro = piombo, ma qui filo a piombo
la voce è dal lat. plumbeu(m) con il tipico passaggio del gruppo lat. pl al napoletano chi (cfr. plu(s)→chiú – plovere→chiovere – plaga→chiaja etc.);
cumpasso s.vo m.le = compasso, strumento formato da due aste collegate a cerniera, usato per disegnare circonferenze o misurare distanze;
la voce è un deverbale del lat. volg. *cumpassare, comp. di cum 'con' e un deriv. di passus 'passo' = mantenere il medesimo passo.
H- Parlà cu ‘o revettiello
Ad litteram:parlare con la ribattitura id est: parlare con doppiezza, esprimersi con equivocità, finzione, slealtà. Azione tipica di coloro - in ispecie donne -che malevole e per vigliaccheria non aduse ad esprimere apertamente il proprio pensiero, le proprie opinioni, parlano in maniera ostile, sfavorevole, animosa, astiosa, avversa, mai chiaramente ma per traslati, per sottintesi, per allusioni con la doppiezza richiamante il revetto o revettiello s.vi m.li (il secondo è un diminutivo del primo): doppia cucitura rinforzata posta agli orli di gonne e sottogonne per impedirne il logoramento; l’etimo è dal fr. rivet dal verbo river= ribadire, rafforzare.
(segue)
r.b.
Parte seconda
D-Parlà a schiovere
Ad litteram:parlare a vanvera, quasi a pioggia battente. Détto di chi, non avendo nulla di serio e costruttivo da comunicare, dà libero sfogo alla propria lingua ed a mo' di pioggia inonda il prossimo di vuote parole senza significato e/o costrutto , a ruota libera ed inopportunamente.
Preciso qui che il termine schiovere significa per solito: smettere di piovere, ma - in napoletano - spesso la prostesi di una S ad un termine à funzione intensiva e rafforzativa, non sottrattiva ed è il caso dello schiovere della locuzione qui annotata dove con l’anteporre la S alla parola chiovere (piovere) non si è inteso indicare la cessazione del fenomeno atmosferico, ma al contrario si è inteso aumentarne la portata! Il verbo chiovere è dal lat. tardo plovere, per il class. pluere con il tipico passaggio del gruppo lat. pl al napoletano chi (cfr. plu(s)→chiú – plumbeu(m)→chiummo – plaga→chiaja etc.)
.
E- Parlà sparo
Letteralmente: parlar dispari, caffo che sta per parlare offensivamente oltraggiosamente ed addirittura minacciosamente; semanticamente la cosa si spiega con il fatto che nel giuoco del paro e sparo (pari e dispari/caffo)sorta di morra in cui si deve indovinare se il numero totale delle dita che i giocatori apriranno sarà pari o dispari, il giocatore che partecipasse al gioco con il massimo dei numeri dispari da lui giocabili cioè il cinque,apriva completamente distendendolo il palmo della mano (in arabo kaff donde l’italiano caffo=dispari ) per mostrare appunto le cinque dita assumendo cioè una posizione quasi aggressiva come se volesse minacciare l’avversario di percuoterlo a mano aperta;per cui chi parlasse offensivamente, minacciosamente oltraggiosamente si disse che parlasse sparo come colui che distendendo interamente la mano giocasse un numero ( il cinque) dispari/caffo = sparo.
sparo agg.vo ed avverbio = dispari, in modo diverso, disuguale e per ampliamento semantico offensivo, oltraggioso, minaccioso etc. per l’etimo si deve risalire al lat. dis+pare(m)→(di)spare(m)→sparo, comp. di dis→s e par paris 'pari' cioè non pari .
F -Parlà sulo Ad litteram:parlar da solo, senza relazionarsi Détto di chi,accreditato d’essere folle o tendente alla pazzia venga isolato negandogli la possibilità di relazionarsi con gli altri e lo si costringa al vuoto ed inconferente soliloquio, al parlar da solo con se stesso che è proprio – per l’appunto – l’atteggiamento irrazionale di chi sia o faccia le viste d’esser pazzo, demente, folle, dissennato, squilibrato, forsennato, irragionevole, malato di mente, mentecatto.
Sulo agg.vo e talora anche avv. (sulo/sulamente) , ma qui aggettivo: isolato, senza compagnia,abbandonato, trascurato, accantonato, reietto, derelitto quanto all’etimo è dal lat. solu(m).
G- Parlà cu ‘o chiummo e cu ‘o cumpasso
Icastica espressione che ad litteram è: parlare con il(filo a) piombo ed il compasso id est: esprimersi ed agire in ogni occasione con estrema attenzione, cautela e prudenza,non disgiunte da accortezza, circospezione, avvedutezza, ponderazione, avvertenza, precauzione e precisione alla stregua del muratore che, se vuole portare a termine a regola d’arte le proprie opere, non può esimersi dal far ricorso al filo a piombo, compasso, livelle ed altri strumenti consimili. L’atteggiamento fotografato dall’espressione a margine è proprio del prudente, spesso pusillanime e di chi sia cauto, accorto, attento, avveduto, giudizioso, previdente, oculato, riflessivo, ponderato, misurato, controllato, vigile, circospetto, guardingo.
chiummo s.vo neutro = piombo, ma qui filo a piombo
la voce è dal lat. plumbeu(m) con il tipico passaggio del gruppo lat. pl al napoletano chi (cfr. plu(s)→chiú – plovere→chiovere – plaga→chiaja etc.);
cumpasso s.vo m.le = compasso, strumento formato da due aste collegate a cerniera, usato per disegnare circonferenze o misurare distanze;
la voce è un deverbale del lat. volg. *cumpassare, comp. di cum 'con' e un deriv. di passus 'passo' = mantenere il medesimo passo.
H- Parlà cu ‘o revettiello
Ad litteram:parlare con la ribattitura id est: parlare con doppiezza, esprimersi con equivocità, finzione, slealtà. Azione tipica di coloro - in ispecie donne -che malevole e per vigliaccheria non aduse ad esprimere apertamente il proprio pensiero, le proprie opinioni, parlano in maniera ostile, sfavorevole, animosa, astiosa, avversa, mai chiaramente ma per traslati, per sottintesi, per allusioni con la doppiezza richiamante il revetto o revettiello s.vi m.li (il secondo è un diminutivo del primo): doppia cucitura rinforzata posta agli orli di gonne e sottogonne per impedirne il logoramento; l’etimo è dal fr. rivet dal verbo river= ribadire, rafforzare.
(segue)
r.b.
FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ 1°
FRASEOLOGIA NAPOLETANE CON IL VERBO PARLÀ
Parte prima
Per contentare il caro amico A.B., di cui – per i soliti motivi di privatezza – mi limito ad indicare le sole iniziali di nome e cognome, per contentare, dicevo, l’amico che me ne à fatto richiesta e forse qualcun altro dei miei ventiquattro lettori tratterò qui di sèguito di alcune espressioni modali partenopee costruite con il verbo parlare/à.
Cominciamo con il darne un breve elenco per poi analiticamente trattarne:
1) Parlà tosco
2) Parlà cu ‘o scio’-sciommo
3) Parlà giargianese/ggiaggianese
4) Parlà a schiovere
5) Parlà sparo
6) Parlà sulo
7) Parlà cu ‘o chiummo e cu ‘o cumpasso
8) Parlà cu ‘o revettiello
9) Parlà mazzecato
10) Parlà ‘nfijura
11) Parlà a spaccastrómmole
12)Parlà comme a ‘nu libbro stracciato.
13) Parlà assestato
14) Parlà chiatto e ttunno
15) Parlà a cocoricò
16) Parlà a scampule ‘e mele cotte
In coda ed in aggiunta all’analisi delle locuzioni modali or ora elencate dirò poi due icastiche espressioni che pur non essendo modali chiamano in causa il verbo parlare:
17)Nun farme parlà!
18) Jí a pparlà cu ‘o pato
Prima di soffermarmi sulle singole espressioni mi pare comunque giusto se non necessario dilungarmi alquanto sul verbo parlare/parlà (che etimologicamente deriva dal latino volg. *parabolare→par(abo)lare→parlare, deriv. di parabola 'parabola', poi 'discorso, parola' ); parlare è quel verbo intransitivo con ausiliare avere che, come nell’italiano, sta per:
1 pronunciare parole; esprimere con parole pensieri o sentimenti: parlare a, con qualcuno; parlare con voce chiara, forte; parlare a voce alta, bassa; parlare lentamente, sottovoce; parlare col, nel naso, con voce nasale; parlare a fior di labbra, piano; parlare tra i denti, in modo indistinto; parlare da solo, fare un soliloquio; parlare tra sé (e sé), pronunciare qualche parola a voce bassissima, rivolgendosi a sé stesso, quasi per riassumere i propri pensieri; parlare stentatamente, con fatica, per debolezza fisica, per mancanza di prontezza o per scarsa conoscenza della lingua ' parlare in punta di forchetta, (fig.) con parole affettate, ricercate ' parlare chiaro, dire le cose come stanno ' parlare a vanvera, a caso, senza riflettere ' bada a come parli, modo per invitare qualcuno a non offendere, a misurare le parole ' con rispetto parlando, formula di scusa che si premette o si fa seguire immediatamente a un'espressione o a una parola non troppo conveniente ' parlare bene, male di qualcuno, con benevolenza, con malevolenza ' parlare a cuore aperto, col cuore in mano, (fig.) sinceramente e disinteressatamente ' parlare con qualcuno a quattrocchi, da solo a solo, senza testimoni ' parlare al muro, al vento, (fig.) inutilmente, a chi non vuole ascoltare | chi parla?, con chi parlo?, formule che si usano al telefono quando non si sa chi sia l'interlocutore
2 sostenere una conversazione; ragionare, discutere, dialogare: parlare di letteratura, d'arte, di politica; parlare del più e del meno, conversare di argomenti vari e poco importanti ' far parlare di sé, suscitare l'interesse, la discussione, i commenti della gente ' tutti ne parlano, si dice di fatto o persona che è oggetto di chiacchiere, di pettegolezzi oppure di discussioni, di interesse' la gente parla, mormora, fa pettegolezzi | senti chi parla!, si dice a persona che è la meno adatta a pronunciarsi su qualcosa ' non se ne parla neanche, si dice di cosa che non si vuole assolutamente fare ' non parliamone più, si dice per troncare una discussione, una lite ' non me ne parlare!, si dice a chi tocca argomenti penosi o delicati
3 tenere una lezione, una conferenza, un discorso pubblico: parlare al popolo; parlare in un comizio; parlare alla radio, alla televisione | parlare dal pulpito, (fig.) assumere un tono saccente e professorale ' parlare a braccio, improvvisando
4 (estens.) esprimere un pensiero, trattare di un argomento per iscritto; anche, esprimere pensieri o sentimenti con mezzi diversi dalla parola: tutti i giornali parlano del processo; l'autore parla in questo libro di due personaggi storici; parlare a gesti, con gli occhi; i muti parlano a segni
5 manifestare un'intenzione; far progetti riguardo a qualcosa: parlano di andare in Spagna; di quella legge si parla da dieci anni | non se ne parla più, si dice di un progetto ormai accantonato
6 rivelare segreti; confessare: l'imputato non si decide a parlare
7 (fig.) essere particolarmente espressivo; suscitare, ispirare sentimenti: occhi che parlano; musica che parla al cuore | luoghi che parlano di qualcosa, che la ricordano, che ne portano i segni | i fatti parlano, sono la prova eloquente di qualcosa
8 (fig.) manifestarsi attraverso fatti o parole: in lui è l'invidia che parla, che lo spinge a dire o a fare determinate cose; lasciar, far parlare la coscienza, la ragione, ascoltarne la voce, i suggerimenti ||| v. tr.
1 usare, per esprimersi, una determinata lingua; conoscere una lingua in modo da potersi esprimere correntemente: parlare russo (o il russo); parlare bene, male l'inglese | parlare ostrogoto, turco, arabo, (fig. fam.) esprimersi poco chiaramente, non farsi intendere
2 esprimersi in un certo modo, usare un determinato linguaggio: parlare un linguaggio franco, chiaro, oscuro
3 (lett.usato transitivamente) dire: possa... parlare alquante parole alla donna vostra ||
parlarsi v. rifl. rec.
1 rivolgersi reciprocamente la parola: si parlavano da un lato all'altro della strada
2 (antiq. pop.) amoreggiare
3 avere rapporti amichevoli, essere in buoni rapporti: dopo quel litigio non si parlano più
A- Parlà tosco
L’antica, desueta espressione napoletana a margine peraltro assente in tutti i numerosi repertorî napoletani antichi e moderni,in mio possesso ma viva e vegeta fino a tutti gli anni cinquanta del 1900 sulla bocca degli abitanti della città bassa partenopea fu usata in due diverse accezioni:
a) per significare un parlare eccessivamente forbito e ricercato che eccedesse una normale comprensibilità, come accadeva quando in un dialogo uno degli interlocutori invece di usare la comprensibile parlata locale, s’azzardava ad adoperare la poco comprensibile lingua nazionale infiorando o tentando di infiorare l’eloquio con parole rifinite, limate, ripulite tali da risultare oscure ed incomprensibili; di costui si diceva che parlasse tosco dove con l’agg.vo tosco non si voleva intendere, con derivazione dal lat. tuscu(m), toscano , ma ci si riferiva ad altro agg.vo tosco quello che con derivazione dall'albanese toske, indica l’astruso linguaggio di una popolazione albanese di religione musulmana, stanziata a sud del fiume Shkumbi.Chi cioè parlasse non in napoletano, ma in un italiano forbito e rifinito veniva accreditato nell’immaginario popolare comune d’usare, quasi per certo a fini truffaldini, un linguaggio volutamente incomprensibile, simile appunto all’astruso linguaggio dialettale tosco di una popolazione albanese;
b) la seconda accezione del parlar tosco era riferita a chi, sempre a fini truffaldini fosse eccessivamente esoso nelle sue richieste di compenso per un lavoro fatto o da farsi; di costui si diceva che parlasse tosco non perché adoperasse la poco comprensibile lingua nazionale infiorando o tentando di infiorare l’eloquio con parole rifinite, limate, ripulite tali da risultare oscure ed incomprensibili, ma perché, pur parlando magari in istretto napoletano,con parole chiare e comprensibili, fosse cosí esoso nelle sue richieste d’apparire disonesto o truffaldino se non addirittura ladro tale da sconsigliare di tener mercato con lui.
Quando poi un interlocutore non solo parlasse in italiano piú o meno forbito, ma sconfinasse nella lingua francese veniva accreditato di parlare cu ‘o scio’-sciommo;
B- parlare cu ‘o scio’-sciommo
è infatti un’espressione intraducibile ad litteram che viene ancóra usata per canzonare il risibile modo affettato e falsamente raffinato dell'incolto che pensando erroneamente di esprimersi in corretto toscano, in realtà si esprime in modo ridicolo e falso con un idioma che scimmiotta solamente la lingua di Dante, risultando spesso piú simile ad una lingua francese malamente appresa però, della quale vengon colti essenzialmente molti fonemi intesi come sci (←ch); da tale suono è stato tratto l’onomatopeico sciommo che reiterato nella prima parte (sciò) à dato lo scio’-sciommo inteso sostantivo neutro.
C-parlà giargianese/ggiaggianese
L’espressione in esame si avvale di una vecchia parola (fine 19° sec) che quasi sparita nel corso del tempo, ricomparve d’improvviso, negli anni ’40 del 1900, sia pure leggermente modificata quanto alla morfologia , ma non nel significato; la parola in esame è giaggianese (che piú opportunamente in corretto napoletano andrebbe scritta con la geminazione iniziale: ggiaggianese), voce che poi divenne giargianese parola che nel significato estensivo di imbroglione ed in quello primo di straniero dal linguaggio incomprensibile si ritrovò e talvolta si ritrova ancóra nel salentino: giaggianese, nel pugliese: giargianaise e qui e lí in molti altri linguaggi centro-meridionali dove è: gjargianese, gjorgenese.
12) L’originaria voce ggiaggianése fu coniata sul finire del 19° sec., modellata per corruzione sul termine viggianese e fu usata per indicare alternativamente o taluni caratteristici suonatori ambulanti, o déi piccoli commercianti lucani che arrivavano alle latitudini centro-meridionali per acquistare uve e/o mosto semilavorato; di tali piccoli commercianti e/o suonatori solo una piccola parte provenivano effettivamente da Viggiano centro in prov. di Potenza, ma poiché tutti i commercianti che non fossero campani, e soprattutto quelli provenienti dal nord, parlavano un idioma non molto comprensibile si finí per considerarli tutti viggianesi e dunque ggiaggianise/i plur. metafonetico di ggiaggianese; fu cosí che con il termine ggiaggianese si indicarono tutti gli stranieri che non parlassero un linguaggio noto o comprensibile; va da sé che poiché, nell’inteso partenopeo, chi non parla in modo chiaro e comprensibile lo fa per voler imbrogliare, ecco che ggiaggianese estensivamente indicò l’imbroglione pericoloso ed in tali accezioni ( suonatore ambulante, commerciante, straniero incomprensibile, imbroglione) la voce fu usata a lungo nel parlato comune; a mano a mano poi quasi per naturale consunzione essa sparí dall’uso e non se ne ritrova memoria neppure nei calepini piú o meno noti od usati ( che ànno il torto d’essere compilati basandosi esclusivamente sugli scritti dei classici che mai presero in considerazione la voce di cui tratto). Come d’incanto la voce riapparve nell’uso del parlato comune intorno agli anni ’40 del 1900, quando in Campania, Puglia, Abruzzo etc. sciamarono le truppe alleate che parlavano un linguaggio incomprensibile, ad un dipresso un linguaggio tale (per non essere intellegibile facilmente) da potersi appaiare a quello tipico dei ggiaggianesi; fu in questo periodo che la voce ggiaggianese subí una sorta di ammodernamento, allorché (come nel 1961, con felice intuizione chiarí il grandissimo prof. Rohlfs ) accostando a ggiaggianese il nome proprio George usatissimo fra gli alleati si ottenne giargianese, nelle medesime accezioni surriportate.
(segue)
r.b.
Parte prima
Per contentare il caro amico A.B., di cui – per i soliti motivi di privatezza – mi limito ad indicare le sole iniziali di nome e cognome, per contentare, dicevo, l’amico che me ne à fatto richiesta e forse qualcun altro dei miei ventiquattro lettori tratterò qui di sèguito di alcune espressioni modali partenopee costruite con il verbo parlare/à.
Cominciamo con il darne un breve elenco per poi analiticamente trattarne:
1) Parlà tosco
2) Parlà cu ‘o scio’-sciommo
3) Parlà giargianese/ggiaggianese
4) Parlà a schiovere
5) Parlà sparo
6) Parlà sulo
7) Parlà cu ‘o chiummo e cu ‘o cumpasso
8) Parlà cu ‘o revettiello
9) Parlà mazzecato
10) Parlà ‘nfijura
11) Parlà a spaccastrómmole
12)Parlà comme a ‘nu libbro stracciato.
13) Parlà assestato
14) Parlà chiatto e ttunno
15) Parlà a cocoricò
16) Parlà a scampule ‘e mele cotte
In coda ed in aggiunta all’analisi delle locuzioni modali or ora elencate dirò poi due icastiche espressioni che pur non essendo modali chiamano in causa il verbo parlare:
17)Nun farme parlà!
18) Jí a pparlà cu ‘o pato
Prima di soffermarmi sulle singole espressioni mi pare comunque giusto se non necessario dilungarmi alquanto sul verbo parlare/parlà (che etimologicamente deriva dal latino volg. *parabolare→par(abo)lare→parlare, deriv. di parabola 'parabola', poi 'discorso, parola' ); parlare è quel verbo intransitivo con ausiliare avere che, come nell’italiano, sta per:
1 pronunciare parole; esprimere con parole pensieri o sentimenti: parlare a, con qualcuno; parlare con voce chiara, forte; parlare a voce alta, bassa; parlare lentamente, sottovoce; parlare col, nel naso, con voce nasale; parlare a fior di labbra, piano; parlare tra i denti, in modo indistinto; parlare da solo, fare un soliloquio; parlare tra sé (e sé), pronunciare qualche parola a voce bassissima, rivolgendosi a sé stesso, quasi per riassumere i propri pensieri; parlare stentatamente, con fatica, per debolezza fisica, per mancanza di prontezza o per scarsa conoscenza della lingua ' parlare in punta di forchetta, (fig.) con parole affettate, ricercate ' parlare chiaro, dire le cose come stanno ' parlare a vanvera, a caso, senza riflettere ' bada a come parli, modo per invitare qualcuno a non offendere, a misurare le parole ' con rispetto parlando, formula di scusa che si premette o si fa seguire immediatamente a un'espressione o a una parola non troppo conveniente ' parlare bene, male di qualcuno, con benevolenza, con malevolenza ' parlare a cuore aperto, col cuore in mano, (fig.) sinceramente e disinteressatamente ' parlare con qualcuno a quattrocchi, da solo a solo, senza testimoni ' parlare al muro, al vento, (fig.) inutilmente, a chi non vuole ascoltare | chi parla?, con chi parlo?, formule che si usano al telefono quando non si sa chi sia l'interlocutore
2 sostenere una conversazione; ragionare, discutere, dialogare: parlare di letteratura, d'arte, di politica; parlare del più e del meno, conversare di argomenti vari e poco importanti ' far parlare di sé, suscitare l'interesse, la discussione, i commenti della gente ' tutti ne parlano, si dice di fatto o persona che è oggetto di chiacchiere, di pettegolezzi oppure di discussioni, di interesse' la gente parla, mormora, fa pettegolezzi | senti chi parla!, si dice a persona che è la meno adatta a pronunciarsi su qualcosa ' non se ne parla neanche, si dice di cosa che non si vuole assolutamente fare ' non parliamone più, si dice per troncare una discussione, una lite ' non me ne parlare!, si dice a chi tocca argomenti penosi o delicati
3 tenere una lezione, una conferenza, un discorso pubblico: parlare al popolo; parlare in un comizio; parlare alla radio, alla televisione | parlare dal pulpito, (fig.) assumere un tono saccente e professorale ' parlare a braccio, improvvisando
4 (estens.) esprimere un pensiero, trattare di un argomento per iscritto; anche, esprimere pensieri o sentimenti con mezzi diversi dalla parola: tutti i giornali parlano del processo; l'autore parla in questo libro di due personaggi storici; parlare a gesti, con gli occhi; i muti parlano a segni
5 manifestare un'intenzione; far progetti riguardo a qualcosa: parlano di andare in Spagna; di quella legge si parla da dieci anni | non se ne parla più, si dice di un progetto ormai accantonato
6 rivelare segreti; confessare: l'imputato non si decide a parlare
7 (fig.) essere particolarmente espressivo; suscitare, ispirare sentimenti: occhi che parlano; musica che parla al cuore | luoghi che parlano di qualcosa, che la ricordano, che ne portano i segni | i fatti parlano, sono la prova eloquente di qualcosa
8 (fig.) manifestarsi attraverso fatti o parole: in lui è l'invidia che parla, che lo spinge a dire o a fare determinate cose; lasciar, far parlare la coscienza, la ragione, ascoltarne la voce, i suggerimenti ||| v. tr.
1 usare, per esprimersi, una determinata lingua; conoscere una lingua in modo da potersi esprimere correntemente: parlare russo (o il russo); parlare bene, male l'inglese | parlare ostrogoto, turco, arabo, (fig. fam.) esprimersi poco chiaramente, non farsi intendere
2 esprimersi in un certo modo, usare un determinato linguaggio: parlare un linguaggio franco, chiaro, oscuro
3 (lett.usato transitivamente) dire: possa... parlare alquante parole alla donna vostra ||
parlarsi v. rifl. rec.
1 rivolgersi reciprocamente la parola: si parlavano da un lato all'altro della strada
2 (antiq. pop.) amoreggiare
3 avere rapporti amichevoli, essere in buoni rapporti: dopo quel litigio non si parlano più
A- Parlà tosco
L’antica, desueta espressione napoletana a margine peraltro assente in tutti i numerosi repertorî napoletani antichi e moderni,in mio possesso ma viva e vegeta fino a tutti gli anni cinquanta del 1900 sulla bocca degli abitanti della città bassa partenopea fu usata in due diverse accezioni:
a) per significare un parlare eccessivamente forbito e ricercato che eccedesse una normale comprensibilità, come accadeva quando in un dialogo uno degli interlocutori invece di usare la comprensibile parlata locale, s’azzardava ad adoperare la poco comprensibile lingua nazionale infiorando o tentando di infiorare l’eloquio con parole rifinite, limate, ripulite tali da risultare oscure ed incomprensibili; di costui si diceva che parlasse tosco dove con l’agg.vo tosco non si voleva intendere, con derivazione dal lat. tuscu(m), toscano , ma ci si riferiva ad altro agg.vo tosco quello che con derivazione dall'albanese toske, indica l’astruso linguaggio di una popolazione albanese di religione musulmana, stanziata a sud del fiume Shkumbi.Chi cioè parlasse non in napoletano, ma in un italiano forbito e rifinito veniva accreditato nell’immaginario popolare comune d’usare, quasi per certo a fini truffaldini, un linguaggio volutamente incomprensibile, simile appunto all’astruso linguaggio dialettale tosco di una popolazione albanese;
b) la seconda accezione del parlar tosco era riferita a chi, sempre a fini truffaldini fosse eccessivamente esoso nelle sue richieste di compenso per un lavoro fatto o da farsi; di costui si diceva che parlasse tosco non perché adoperasse la poco comprensibile lingua nazionale infiorando o tentando di infiorare l’eloquio con parole rifinite, limate, ripulite tali da risultare oscure ed incomprensibili, ma perché, pur parlando magari in istretto napoletano,con parole chiare e comprensibili, fosse cosí esoso nelle sue richieste d’apparire disonesto o truffaldino se non addirittura ladro tale da sconsigliare di tener mercato con lui.
Quando poi un interlocutore non solo parlasse in italiano piú o meno forbito, ma sconfinasse nella lingua francese veniva accreditato di parlare cu ‘o scio’-sciommo;
B- parlare cu ‘o scio’-sciommo
è infatti un’espressione intraducibile ad litteram che viene ancóra usata per canzonare il risibile modo affettato e falsamente raffinato dell'incolto che pensando erroneamente di esprimersi in corretto toscano, in realtà si esprime in modo ridicolo e falso con un idioma che scimmiotta solamente la lingua di Dante, risultando spesso piú simile ad una lingua francese malamente appresa però, della quale vengon colti essenzialmente molti fonemi intesi come sci (←ch); da tale suono è stato tratto l’onomatopeico sciommo che reiterato nella prima parte (sciò) à dato lo scio’-sciommo inteso sostantivo neutro.
C-parlà giargianese/ggiaggianese
L’espressione in esame si avvale di una vecchia parola (fine 19° sec) che quasi sparita nel corso del tempo, ricomparve d’improvviso, negli anni ’40 del 1900, sia pure leggermente modificata quanto alla morfologia , ma non nel significato; la parola in esame è giaggianese (che piú opportunamente in corretto napoletano andrebbe scritta con la geminazione iniziale: ggiaggianese), voce che poi divenne giargianese parola che nel significato estensivo di imbroglione ed in quello primo di straniero dal linguaggio incomprensibile si ritrovò e talvolta si ritrova ancóra nel salentino: giaggianese, nel pugliese: giargianaise e qui e lí in molti altri linguaggi centro-meridionali dove è: gjargianese, gjorgenese.
12) L’originaria voce ggiaggianése fu coniata sul finire del 19° sec., modellata per corruzione sul termine viggianese e fu usata per indicare alternativamente o taluni caratteristici suonatori ambulanti, o déi piccoli commercianti lucani che arrivavano alle latitudini centro-meridionali per acquistare uve e/o mosto semilavorato; di tali piccoli commercianti e/o suonatori solo una piccola parte provenivano effettivamente da Viggiano centro in prov. di Potenza, ma poiché tutti i commercianti che non fossero campani, e soprattutto quelli provenienti dal nord, parlavano un idioma non molto comprensibile si finí per considerarli tutti viggianesi e dunque ggiaggianise/i plur. metafonetico di ggiaggianese; fu cosí che con il termine ggiaggianese si indicarono tutti gli stranieri che non parlassero un linguaggio noto o comprensibile; va da sé che poiché, nell’inteso partenopeo, chi non parla in modo chiaro e comprensibile lo fa per voler imbrogliare, ecco che ggiaggianese estensivamente indicò l’imbroglione pericoloso ed in tali accezioni ( suonatore ambulante, commerciante, straniero incomprensibile, imbroglione) la voce fu usata a lungo nel parlato comune; a mano a mano poi quasi per naturale consunzione essa sparí dall’uso e non se ne ritrova memoria neppure nei calepini piú o meno noti od usati ( che ànno il torto d’essere compilati basandosi esclusivamente sugli scritti dei classici che mai presero in considerazione la voce di cui tratto). Come d’incanto la voce riapparve nell’uso del parlato comune intorno agli anni ’40 del 1900, quando in Campania, Puglia, Abruzzo etc. sciamarono le truppe alleate che parlavano un linguaggio incomprensibile, ad un dipresso un linguaggio tale (per non essere intellegibile facilmente) da potersi appaiare a quello tipico dei ggiaggianesi; fu in questo periodo che la voce ggiaggianese subí una sorta di ammodernamento, allorché (come nel 1961, con felice intuizione chiarí il grandissimo prof. Rohlfs ) accostando a ggiaggianese il nome proprio George usatissimo fra gli alleati si ottenne giargianese, nelle medesime accezioni surriportate.
(segue)
r.b.