MONOSILLABI DELLA PARLATA NAPOLETANA
Elenco qui di seguito un congruo numero di monosillabi in uso nella parlata napoletana, indicandone volta a volta oltre significato ed (ove possibile) etimo anche quella che mi appare la maniera piú corretta di scriverli.
Cominciamo con i piú semplici monosillabi e cioè con gli articoli; abbiamo gli articoli determinativi
--‘a = la art. determ. f. sing. si premette ai vocaboli femminili singolari; deriva dal lat. (ill)a(m), f. di ille 'quello'; l’aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘);
-- a’ 1) è il modo sbrigativo di rendere in napoletano la preposizione articolata formata da a + ‘a corrispondente all’ italiano alla; tuttavia questo non è il modo piú corretto in quanto la preposizione articolata formata dalla prepèosizione semplice a + l’articolo f.le sg. ‘a meglio si rende ricorrendo all’ â crasi di a + ‘a come alibi la preposizione articolata formata da a + ‘o corrispondente all’ italiano allo va resa con ô crasi di a + ‘o, ed ancóra la preposizione articolata formata da a + ‘e corrispondente all’ italiano alle/ a gli va resa con ê crasi di a + ‘e;
-- a’ 2) è la forma apocopata di ato/atu→a(to)/a(tu)→a’ usata quasi esclusivamente nell’espressione n’ a’ ppoco per n’atu ppoco= un altro poco.
--‘o/’u = lo art. determ. m. sing. si premette ai vocaboli maschili o neutri singolari; la forma ‘u è forma antica di ‘o ora ancora in uso in talune parlate provinciali e/o dell’entroterra; la derivazione sia di ‘o che di ‘u è dal lat. (ill)u(m), acc.vo di ille 'quello'; l’aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘); la particolarità di questo articolo è che quando sia posto innanzi ad un vocabolo inteso neutro, ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.: ‘o pate voce maschile, ma ‘o ppane voce neutra etc.)
o’ non è come a prima vista potrebbe apparire un’errata scrittura del precedente articolo ‘o (lo/il), errata scrittura (tutti possiamo sbagliare!) che talvolta mi è capitato di ritrovare inopinatamente in talune pagine di giornali, vergata da indegni pennaruli che per mancanza di tempo o ignavia non usano piú rileggere e/o correggere ciò che scrivono (....mi rifiuto infatti di credere che un giornalista non sappia che in napoletano gli artt. lo/il vanno resi con ‘o e non con o’) a meno che quei tali pennaruli nel loro scrivere non errino lasciandosi condizionare dalla dimestichezza con lo O’ (apocope dello of inglese che vale l’italiano de/De).
L’ o’ napoletano a margine è anch’esso un’apocope, quella del vocativo oj→o’=oh e viene usata nei vocativi esclamativi del tipo o’ fra’!= fratello! oppure o’ no’!= nonno! La forma intera oj è usata in genere nei vocativi come oj ne’! – oj ni!’= ragazza! – ragazzo!. Rammento che il corretto vocativo oj viene – quasi sempre e nella maggioranza degli anche famosi e famosissimi scrittori e/o poeti partenopei – riportato in una scorrettissima forma oje con l’aggiunta di una pletorica inesatta semimuta e, aggiunta che costringe il vocativo oj a trasformarsi nel sostantivo oje = oggi con derivazione dal lat. (h)o(di)e→oje; ah, se tutti i sedicenti scrittori e/o poeti partenopei prima di mettere nero sul bianco facessero un atto di umiltà e consultassero una buona grammatica del napoletano, o quanto meno compulsassero un qualche dizionario, quante inesattezze o strafalcioni si eviterebbero! Purtroppo tra i piú o meno famosi o famosissi scrittori e/o poeti partenopei che reputano d’esser titolari di scienza infusa, l’umiltà non trova terreno fertile! Il Cielo perdoni la loro supponenza spocchiosa...
-- ô id est allo vedi antea sub a’ 1);
--‘e = gli, le art. determ. m.e femm. plurale. si premette ai vocaboli maschili o femminili plurali; deriva dal lat. (ill)ae(s), 'quelli 'di influsso osco; l’aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘);la particolarità di questo articolo è che quando sia posto innanzi ad un vocabolo femminile , ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.: ‘e pate voce maschile, ma ‘e mmamme voce femminile, ‘e figlie= i figli voce maschile, ma ‘e ffiglie= le figlie voce femminile etc.);
-- ê id est alle/ai/a gli vedi antea sub a’ 1);
‘í = vedi; è l’aferesi dell’imperativo esclamativo apocopato (v)i(de)= vedi del verbo vedé=vedere; chiarisco che in luogo di altre proposte che mi appaiono inconferenti come quello di scrivere ‘i battezzata aferesi dell’imperativo (ved)i→’i, dicevo ò optato per la grafia ‘í per due buonissimi motivi:1) (ved)i→’i, non appartiene al napoletano, ma all’italiano; 2) ‘i fuor del contesto potrebbe crear confusione con l’antico art. m.le pl. (ll)i→’i; rammento che questo ‘i a margine è sempre usato in unione dei pronomi(posti in posizione proclitica) ‘o oppure ‘a nelle epressioni: ‘o ‘í ccanno(eccolo qui vicino); ‘o ‘í lloco (eccolo lí) ‘o ‘í llanno (eccolo laggiú) ‘a ‘í ccanno(eccola qui vicino); ‘a ‘í lloco (eccola lí) ‘a‘í llanno (eccola laggiú). Rammento, e me ne dolgo!, che l’amico avv.to Renato de Falco à scelto nel suo Il Napoletanario una assurda morfologia che rende i corretti ‘o ‘í ccanno ‘o ‘í lloco ‘o ‘í llanno con degli scorretti oi’ ccanno oi’ lloco oi’ llanno atteso che non si capisce proprio da quale grammatica o dizionario, l’amico de Falco abbia tratto quei suoi assurdi oi’ comunque tradotti: vedilo. Come è vero che, come disse Orazio, quandoque bonus dormitat Homerus! (talora anche il buon Omero sonnecchia!).
E passiamo a gli articoli indeterminativi: abbiamo
--‘no/’nu = corrispondono ad un ed uno della lingua italiana dove sono agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm. [ in italiano, uno come agg. num. e art. maschile si tronca in un davanti a un s. o agg. che cominci per vocale o per consonante o gruppo consonantico che non sia i semiconsonante, s impura, z, x, pn, ps, gn, sc (un amico, un cane, un brigante, un plico; ma: uno iettatore, uno sbaglio, uno zaino, uno xilofono, uno pneumotorace, uno pseudonimo, uno gnocco, uno sceriffo); il napoletano non conosce tante complicazioni ed usa indifferentemente ‘no/‘nu davanti ad ogni nome maschile sia che cominci per vocale, sia che cominci per consonante o gruppo consonantico (ad es.: n’ommo= un uomo – ‘nu sbaglio= un errore;) da notare che mentre nella lingua nazionale si è soliti apostrofare solo l’art. indeterminativo una davanti a voci femm. comincianti per vocali, mentre l’art. indeterminativo maschile uno non viene mai apostrofato e davanti a nomi maschili principianti per vocali se ne usa la forma tronca un (ad es.: un osso) nella lingua napoletana è d’uso apostrofare anche il maschile ‘no/‘nu davanti a nome maschile che cominci per vocale con la sola accortezza di evitare di appesantir la grafia con un doppio segno diacritico: per cui occorrerà scrivere n’ommo= un uomo e non ‘n’ommo l’etimo di ‘no/’nu è ovviamente dal lat. (u)nu(m) l’apocope della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori seguano il malvezzo di scrivereno/nu privi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile ;la medesima cosa càpita con il corrspondente art. indeterminativo femm.le
--‘na = corrispondente ad una della lingua italiana dove è agg. num. card. , pron. indef. , art. indeterm.come del resto nel napoletano dove però come agg. num. card. non viene usata la forma aferizzata ‘na, ma la forma intera una; l’etimo di ‘na è ovviamente dal lat. (u)na(m) l’aferesi della prima sillaba (u) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘) quantunque oggi numerosi autori, anche preparati, seguano il malvezzo di scrivere l’articolo na come pure il corrispondente del maschile e neutro no/nuprivi di qualsiasi segno diacritico, ma è costume che aborro, non trovando, mi ripeto, ragioni concrete e corrette per eliminare un sacrosanto segno etimologicamente ineccepibile. E passiamo alle preposizioni cioè quella parte invariabile del discorso che, preposta a sostantivi, aggettivi, pronomi, infiniti di verbi, indica la relazione che passa tra quelli e altri nomi e verbi, serve cioè a formare dei complementi; ricordato che, cosí come nella lingua italiana, anche in quella napoletana si ànno preposizioni proprie che sono ‘e= de =di, a, ‘a =da, cu = con, pe= per, fra | preposizioni improprie, che sono: annante/ze= davanti, arreto= dietro, doppo=dopo, vicino l ecc. nonché ' preposizioni articolate, che sono quelle che risultano dalla fusione di una preposizione propria (in napoletano di solito la a con un articolo determinativo.
Posto che come indicato in epigrafe qui ci interessano i monosillabi, tenendo da parte le preposizioni improprie dirò di quelle proprie:
--‘e = de corrisponde all’italiano di e 1) serve a stabilire una relazione di specificazione, in cui determina il concetto piú ampio espresso dal nome da cui dipende, continuando la funzione che era stata del genitivo latino: ‘o calore d’’o (=de ‘o) sole; ‘o profumo d’’e(=de ‘e) rrose; ‘e rummure d’’a(=de ‘a) strata; 2) rientrano nell'ambito della specificazione talune relazioni particolari; di possesso o appartenenza: ‘a casa ‘efràtemo; ‘e guagliune d’’o salumiere etc. | rispetto ad un'opera, l'appartenenza può essere riferita al suo autore, inventore ecc.: ‘nu libbro’e Marotta; ‘a «Pietà» ‘e Michelangelo etc. | di parentela: ‘a mugliera d’’o duttore; ‘a sora ‘e Salvatore etc. 3) in dipendenza da nomi che indicano quantità, insieme, numero, oppure da aggettivi sostantivati o pronomi che indicano una quantità indefinita, introduce ciò a cui quella quantità o quell'insieme si riferisce: ‘nu chilò ‘e pane; ‘na duzzina d’ ova; ‘na ‘nzerta ‘e rafanielle; ‘nu sacco ‘e patane etc.; 4) davanti a un nome proprio (spec. di città, località, persona) in funzione denominativa, stabilisce una relazione di tipo appositivo: ‘a città ‘e Roma;’a repubblica ‘e matu Rrafele; ‘o nomme ‘e Salvatore è assaje ausato a Napule; 5) limita l'ambito, l'aspetto per cui è valida una qualità, una condizione: sano ‘e cuorpo; buono ‘e core; tardo ‘e refresse; cunoscere quaccheduno sulo ‘e nome | la qualità o la condizione può implicare un concetto di abbondanza o di povertà, privazione: n’ommo chino ‘e ‘ngegno; ; mancà ‘e ‘sperienza; ‘nu paese privo ‘e mezzi | di colpa o di pena: accusato ‘e ‘nu ‘micidio; accusà ‘e trarimento; multà ‘e cientumila lire etc; 6) introduce l'argomento di un discorso, di uno scritto, di un'opera: discutere ‘e pallone; parlà bbuono ‘e quaccheduno ; ‘nu trattato ‘e pasticciaria ;’na pellicula ‘e spionaggio; 7) nelle comparazioni può introdurre il secondo termine di paragone: Mario è cchiú aveto ‘e Giuanne; Bologna è cchiú a nord ‘e Firenze
8) esprime una modalità: essere ‘e buon umore; jí ‘e corza; ; ridere ‘e core; vevere ‘e unu surzo. etimologicamente la prep. ‘e= de deriva lal lat. dí;
--‘a /da corrisponde alla preposizione da dell’italiano in tutte le sue funzioni ed accezioni : 1) introduce un moto da luogo: vengo ‘a casa 2) esprime allontanamento, separazione, distacco: me ne vaco ‘a cca! 3) in dipendenza da taluni verbi, in correlazione con a, indica quantità approssimativa: peserrà ‘a quaranta a cinquanta chile; 4) con il verbo al passivo introduce l'agente o la causa efficientePumpeie fuje distrutta da ‘o Vesuvio; ‘a porta fuje sbattuta da ‘o vento; 5) con significato temporale, indica il momento o l'epoca, l'età in cui ha avuto inizio un'azione o una situazione si è determinata: venimmo a villeggià cca ‘a paricchi anne; è ‘a Natale ca nun aggio cchiú nutizie soje; 6) unita a nomi propri di persona, a pronomi che si riferiscono a persona, a nomi che indicano mestiere, professione, condizione, grado, relazione di parentela, di amicizia, di lavoro e sim., introduce uno stato in luogo, per lo più con il valore di 'presso': fermarse a durmí da quaccheduno; ‘ncuntrarse da ‘o nutaro ; restà a cenà da n’amico
7) seguita dagli stessi elementi lessicali indicati al punto precedente e in dipendenza da verbi di movimento, esprime moto a luogo: vaco da ‘o farmacista; arrivo da mio figlio appena pozzo;
8) con valore variamente modale: aggí ‘a signore; vivere ‘a marchese; | apparentemente modale, in realtà in funzione rafforzativa: faccio ‘a ppe mme; pigliatello ‘a ppe tte; chi fa ‘a sé fa pe ttre | con sfumatura di limitazione: cecato ‘a n’ occhio; zuoppo ‘a ‘nu pere.
9) introduce la destinazione, il fine, lo scopo a cui qualcosa o anche un animale è adibito: rezza ‘a pesca ma piú spesso rezza pe piscà; cavallo ‘a corza ma piú spesso cavallo ’e corza; ; lente ‘a sole ma piú spesso lente p’’o sole; | in talune locuzioni, apparentemente di questo stesso tipo, prevale la funzione attributiva: carta ‘a bollo; festa ‘a bballo; messa ‘a requiem ma piú spesso carta ‘e mbollo, festa ‘e bballo, messa ‘e requiem. l’etimo della preposizione da/’a è dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; e dal lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc.
--cu corrisponde all’italiano con in tutte le sue funzioni ed accezioni :
1) esprime relazione di compagnia, se è seguito da un nome che indica essere animato (può essere rafforzato da insieme): è partito cu ‘o pato ; à magnato cu ll’ amice; campa (‘nzieme) cu ‘a sora;
2) in senso piú generico, introduce il termine cui si riferisce una qualsiasi relazione: s’è appiccecato cu ‘o frato; à sfugato cu mme;
3) con valore propriamente modale: restà cu ll’uocchie nchiuse; vulé bbene cu tutto ‘o cuore; trattà cu ‘e guante gialle( cioè con rispetto e dedizione quelli dovuti ai nobili che usavano indossare guanti di camoscio in tinta chiara) | con valore tra modale e di qualità: pasta cu ‘e ssarde; stanza cu ‘o bbagno; casa cu ‘o ciardino;
4) introduce una determinazione di mezzo o di strumento: cu ‘a bbona vulontà s’ave tutto; ‘o vino se fa cu ll'uva; scrivere cu ‘a penna stilografica; partí cu ‘o treno ;
5) indica una circostanza, stabilendo un rapporto di concomitanza: nun ascí cu ll’acqua!;
6) può avere valore concessivo o avversativo, assumendo il significato di 'non ostante,a malgrado': cu tutte ‘e guaje ca tène, riesce ancòra a ridere; cu tutta ‘a bbona vulontà, ma è proprio ‘mpussibbile. L’etimo della preposizione a margine è dal lat. cum. Rammento qui e valga anche a futura memoria che tutte le parole che abbiano un etimo da voce latina terminante per consonante (che nella parola formata cade) non necessitano di alcun segno diacritico in quanto il segno diacritico dell’apocope (accento o apostrofo) è necessario apporlo graficamente quando a cadere sia una sillaba e non una o due consonanti; nel caso in esame cum dà cu e non l’inesatto cu’ che spesso mi è occorso di trovare negli scritti anche di famosi autori, accreditati da qualcuno (ma evidentemente a torto) d’essere esperti della lingua napoletana, autori che invece ànno spesso marcato o marcano il loro napoletano sulla sintassi e la grammatica dell’italiano Ciò che ò appena detto vale anche per la preposizione seguente cioè
--pe che (con etimo dal lat. per) corrisponde all’italiano per in tutte le sue funzioni ed accezioni :
1) determina il luogo attraversato da un corpo in movimento o attraverso il quale passa qualcosa che à un'estensione lineare (anche fig.): il ‘o treno è passato pe Caserta; ‘o curteoà sfilato pe ‘o corzo;’o mariuolo è trasuto p’’a fenesta; | può anche specificare lo spazio circoscritto entro cui un moto si svolge e, per estens., la cosa, l'ambito entro cui un fenomeno, una condizione si verificano: passiggià p’’o ciardino;jí pe mmare e pe tterra; tené delure pe tutt’’a vita | indica anche la direzione del moto: saglí e scennere p’’e scale; arrancà pe tutta ‘a sagliuta
2) indica una destinazione: partí pe Pparigge; ‘ncammenarse p’’a città; piglià ‘a strata p’’o mare; ‘o treno pe Rroma | (estens.) esprime la persona o la cosa verso cui si à una disposizione affettiva, un'inclinazione: tené simpatia pe quaccheduno; avé passione p’’a museca ;
3) introduce una determinazione di stato in luogo, che si riferisce per lo piú a uno spazio di una certa estensione: ‘ncuntrà quaccheduno p’’a strata; ce stanno cierti giurnale pe tterra;
4) esprime il tempo continuato durante il quale si svolge un'azione o un evento si verifica (può anche essere omesso): aspettà (pe) ore e ore; faticà (pe) anne e nun cacciarne niente; sciuccaje (pe) tutta ‘a notte; durarrà (pe) tutta ‘a vita | se introduce una determinazione precisa di tempo, esprime per lo piú una scadenza nel futuro: turnarrà p’’e ddiece; êsse ‘a essere pronto pe Nnatale
5) introduce un mezzo: mannà pe pposta; spedí pe ccurriere; dirlo pe ttelefono; parlà pe bbocca ‘e n’ato;
6) esprime la causa: era stracquo p’’a fatica; alluccava p’’o dulore; non ve preoccupate pe nnuje; supportaje tutto p’ ammore sujo; condannà pe ‘mmicidio;
7) introduce il fine o lo scopo: libbro pe gguagliune; pripararse pe ‘nu viaggio; attrezzarse p’’a montagna; | in dipendenza da verbi che indicano preghiera, giuramento, promessa, esortazione e sim., indica l'ente, la persona, il principio ideale per cui o in nome di cui si prega, si giura, si promette ecc.: facítelo pe Ddio; pe ccarità, facite ca nun se venesse a sapé in giro; giurà pe ll’uocchie suoje; ll’à prummiso pe qquanto tène ‘e cchiú ccaro |, Pe ttutte ‘e diavule!, p’’a miseria! e sim., formule di esclamazione o di imprecazione
8) introduce la persona o la cosa a vantaggio o a svantaggio della quale un'azione si compie o una circostanza si verifica: faciarria qualsiasi cosa pe tte; accussí nun va bbuono pe nnuje; piezzo e ppejo pe cchi nun vo’ capí; n’aria ca nun è bbona p’’a salute; murí p’’ammore d’’e figlie; pregàe p’’e muorte; avutà pe n’amico ; ‘a partita è fernuta tre a ddoje p’’a squadra ‘e casa ;
9) determina il limite, l'ambito entro cui un'azione, un modo di essere, uno stato ànno validità: pe ll’intelliggenza è ‘o meglio d’’a classe; p’’e tiempe ‘e mo, è pure assaje; pe chesta vota sarraje perdunato; pe lloro è comme a ‘nu figlio; pe mme, state sbaglianno; pe quanto te riguarda, ce penzo io personalmente ;
10) introduce il modo, la maniera in cui un'azione si compie: ; parlà pe ttelefono; chiammà pe nnomme ; pavà pe ccuntante; tené pe mmano; assumere pe ccuncorzo;
11) indica un prezzo, una stima: aggio accattato pe ppochissimi sorde ‘nu bbellu mobbile antico; vennere ‘na casa pe cciento meliune; nun ‘o faciarria pe ttutto ll'oro d’’o munno;
12) in funzione distributiva: marcià pe dduje;metterse pe ffile; uno pe vvota; duje pacche pe pperzona; juorno pe gghiuorno | per estensione, indica la percentuale (pe cciento, nell'uso scritto %): ‘nu ‘nteresse d’’o diece pe cciento (o 10%) | nelle operazioni matematiche, dice quante volte un numero si moltiplica o divide (nel secondo caso può essere omesso): multiplicà cinche pe ddoje 5 ; diciotto diviso (pe) ttre dà seje; da qui l'uso assol. di pe a indicare un prodotto (nell'uso scritto rappresentato dal segno X)
13) introduce una misura o un'estensione: ‘a strata è ‘nzagliuta pe pparicchie chilometri; l'esercito avanzaje pe ccinche miglia e cchiú;
14) introduce una funzione predicativa, equivalendo a come: averlo p’ amico; pigliarla pe mmugliera; tené pe ccerto; pavà ‘nu tot pe ccaparra;
15) indica scambio, sostituzione, equivalendo alle locuzioni in vece, in cambio, in luogo di e sim.: l’aggiu pigliato p’’o frato; t’’o ddice isso pe mme; capí ‘na cosa pe n’ata;
16) indica origine, provenienza familiare nella loc. pe pparte ‘e: parente pe pparte ‘e mamma;
17) il pe seguito dal verbo all'infinito introduce una prop. finale: l’hê scritto p’’o ringrazzià?; ce ne vo’ pe tte cunvincere!; | causale: fuje malamente cazziato p’ avé risposto scustumatamente; era assaje stanco pe nun avé durmuto tutt’’a notte| consecutiva: è troppo bbello p’ essere overo; sî abbastanza crisciuto pe ccapirlo
18) nelle loc. perifrastiche , stare/stà pe, essere sul punto, in procinto di: stongo pe ppartí; steva quase pe sse cummuovere;
19) concorre alla formazione di numerose loc. avverbiali: p’’o mumento; pe qquanno è ‘o caso; pe ttiempo; pe lluongo; pe llargo; pe ccerto; pe ll'appunto; pe ccaso; pe ccumbinazzione; pe ppoco | congiuntive: p’’o fatto ca; pe vvia ca | pe ppoco (assaje, bello, brutto, caro e sim.) ca è o ca fosse , con valore concessivo: pe ppoco ca è, meglio ‘e niente.
Rammento, come ò già detto, che derivando il napoletano pe dal lat. pe(r) non necessità di alcun segno diacritico (accento o apostrofo) e pertanto va sempre scritta semplicemente pe e non nel modo scorretto pe’ che purtroppo ò spesso trovato anche fra i soliti grandi autori partenopei accreditati, ingiustamente!, di essere esperti della lingua napoletana; ovviamente il pe usato davanti a vocale va eliso in p’,(ed è chiaro che l’apostrofo non indica la caduta del gruppo originario er ma della sola vocale e di pe); usato invece davanti a consonante il pe esige la geminazione della consonante per cui avremo pe pparlà e non pe parlà e cosí via.
Esaurito il discorso sulle preposizioni semplici, passo alle articolate che comunque si risolvono in un monosillabo.
Preciso súbito che nel napoletano non si ritrovano preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli articoli con le preposizioni semplici di, da,con, per ma solo preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli articoli con la preposizione semplice a. In napoletano infatti non si avranno mai preposizioni del tipo dello, della,dallo,dagli etc. preferendosi per esse la forma disagglutinata ‘e ‘o – ‘e ‘a ed anche de ‘o – de ‘a – da ‘o – da ‘a/ra ‘a etc.
Abbiamo invece sempre le seguenti forme di preposizioni articolate formate con l’agglutinazione degli articoli con la preposizione semplice a; analiticamente abbiamo:
1) --ô che è come ò già détto e qui ribadisco la scrittura contratta (crasi) di a + ‘o= a +il,lo e tale preposizione articolata ( derivata dal lat. ad+ (ill)u(m), acc.vo di ille 'quello' va sempre usata, in corretto e pretto napoletano, da sola per significare al, allo o unita alle cosiddette preposizioni improprie e/o avverbi: annante/ze= davanti, arreto= dietro,’ncoppa= sopra, sotto, doppo=dopo, vicino, comme etc.perché il napoletano mentalmente non elabora ad es. davanti il,dietro il o vicino il, come il etc. come accade per l’italiano, ma elabora davanti al,dietro al o vicino al, come al etc. elaborazioni che correttamente messe per iscritto vanno rese annante ô, arreto ô o vicino ô, comme ô etc. e non annante ‘o, arreto ‘o o vicino ‘o, comme ‘o come invece spesso (per non dire quasi sempre) mi è occorso di trovare negli autori napoletani (anche famosi e famosissimi), ma con molta probabilità a digiuno delle esatte regole grammaticali e sintattiche della lingua napoletana che è diversa dalla lingua nazionale, alla quale, con ogni probabilità, ma errando, quegli autori intesero uniformarsi pur nello scrivere in napoletano che – mi ripeto – è cosa affatto diversa dalla lingua nazionale, quantunque generata dal medesimo padre: il latino volgare e parlato!
2)--â (derivata dal lat. ad+ (ill)a(m)) che è la scrittura contratta (crasi) di a + ‘a e sta per alla preposizione articolata femminile,per la quale valgono i medesimi campi applicativi della precedente ô = al, allo;
3) --ê che è la scrittura contratta (crasi) di a + ‘e e sta o per alle o per ai/ a gli. preposizione art. plurale valida per il maschile ed il femminile; preposizione per la quale valgono i medesimi campi applicativi visti per ô ed â nonché per gli art. plurali ‘e; essa preposizione si premette ai vocaboli maschili o femminili plurali; deriva dal lat.ad + (ill)ae(s), 'quelli 'di influsso osco; quando è posta innanzi ad un vocabolo femminile , ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.:êpate= ai padri, voce maschile, ma ê mmamme= alle mamme, voce femminile.
Esaurita cosí la trattazione relativa alle preposizioni semplici ed articolate, passiamo ad altri monosillabi in uso nel napoletano; e prima di parlare delle voci verbali monosillabiche e poi di, pronomi, sostantivi, congiunzioni ed infine avverbi, mi soffermo su tre aggettivi dimostrativi:
-- ‘stu,’sto, ‘sta ‘sti;
‘stu, ‘sto è la forma aferizzata dell’ aggettivo maschile chisto/chistu e/o di quello neutro chesto/chestucorrispondente all’taliano questo;
‘sta è la forma aferizzata dell’ aggettivo femm. chesta corrispondente all’taliano questa; sia per quanto riguarda gli aggettivi maschile e neutro che per quello femm.le
‘sti è la forma aferizzata dei plurali degli aggettivi masch., neutro o femm. chisti - cheste corrispondenti all’taliano questi – queste;ovviamente le forme aferizzate ‘stu,’sto,’sta.’sti possono essere usate sia davanti a parola cominciante per consonante, che per vocale, con l’accortezza che usati davanti a voci cominciant per vocale, occorre procedere all’elisione che comporta il segno dell’apostrofo in fine di aggettivo e l’eliminazione del segno iniziale d’aferesi per non caricare una voce di troppi segni diacritici; avremo perciò ad es.st’ommo,st’uorgio,st’anema.st’idioti e non ‘st’ommo,’st’uorgio,’st’anema.’st’idioti
possiamo dire per tutti che si tratta di agg. dimostr. cheprecedono sempre il sostantivo
1) indicano persona o cosa vicina, nel tempo o nello spazio, a chi parla: chistu ‘mbrello è ‘o mio;’stu ‘mbrello è ‘o mio ; ‘sta lettera è appena arrivata; ‘sti lamentele toje so’ propeto inutile ; ‘stu ggiurnale è mmeglio ‘e chillo; ‘sta sera,’sta matina = stasera, stamatina; ‘stu mese, il mese in corso; ‘sta vita, ‘stu munno, contrapposti all'altra vita | possono essere determinati da un avv., da un agg. o da una prop. relativa: ‘stu libbro cca; ‘stu manesiglio russo; ‘stu lappese ca tengo ‘mmano | può essere rafforzato da stesso, meresimo: me dicette ‘sti stesse, meresime parole | con valore enfatico, equivale all'agg. poss. di prima persona sing.: l'aggiu visto cu st’ uocchie, con i miei occhi | uniti a giorni, mesi, anni e sim., possono indicare quelli in corso o quelli immediatamente a venire: ‘e facenne ‘e st’ anne; uno ‘e ‘sti juorne ne turnammo a pparlà;
2) indicano persona o cosa di cui si sta parlando: ‘sta truvata ‘o rummanette ‘e stucco ; st’ avvocato è abbastanza cunusciuto dint’ ô quartiere nuosto | in espressioni ellittiche, dove non si aferizzano mai:chesta è bbella!, per esprimere meraviglia e sdegno o per sottolineare qualcosa di strano e di inaspettato; chesta nun me ll'aspettavo!; pigliate cheste! botte;
3) simile, siffatto, di questo genere: nun ascí cu ‘stu friddo!; ‘o ssaje ca ‘sti trascurze me fanno jí ‘o sango ‘ncapa;
talvolta sono usati come pron. dimostr. (ma mai aferizzati)
a) indicano persona o cosa vicina a chi parla, o persona o cosa della quale si sta parlando: chisto è ‘o sicritario nuovo ; chisto è ‘o ‘mbrellomio; ne vulesse cinche di cheste; pígliate chesta vicino a mme | spesso contrapposto o in correlazione con quello: vuó chisto o chillo?; me magnasse primma chesto, e ppo chello; di due persone o cose già menzionate, possono indicare quella menzionata per seconda: Luigge e Giuvanne tenono ‘a stessa aità, ma chillo è nnato a giugno, chisto a nuvembre; con valore piú generico: ‘o va dicenno a chisto e a chillo, all'uno e all'altro, a chiunque
b) ciò, la cosa di cui si parla:chestu cca me preoccupa; a chest’ato ce penzammo doppo ; pe chesto nun t’aggiu scritto; cu cchesto aggiu fernuto | cu (tutto) chesto,à continuato a sbraità nonostante ciò, a malgrado | e cu chesto? , e allora?: à sbagliato sissignore, e cu cchesto?
L’etimo per chisto, chesto e chesta da cui i monosillabi a margine sono dal lat. volg. *(ec)c(um) istu(m), propr. 'ecco questo' ed *(ec)c(um) ista(m), propr. 'ecco questa' con infissione dell’acca diacritica per render gutturale il suono velare di cistu→chisto/chestu e cista→chista→chesta.
--so’ forma apocopata di songo corrispondente all’italiano sono voce verbale (1° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse la forma songo/so’ marcata etimologicamente sul lat. su(m)→so presenta un suffisso –ngo, poi apocopato sulla scia di altre forme verbali: do-ngo – ve-ngo etc.
--sî corrispondente all’italiano sei voce verbale (2° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito essere dal lat. esse la forma sî forse derivata etimologicamente dal lat. si(s) esige un segno diacritico (accento circonflesso) non etimologica per distinguere la voce verbale a margine da altri omofoni si presenti nel napoletano e di cui parlerò successivamente;
--sta corrispondente all’italiano sta voce verbale (3° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito stare dal lat. stare; la forma a margine, come la corrispondente dell’italiano, è marcata etimologicamente sul lat. sta(t) e non esige quindi segni diacritici atteso che a cadere è una semplice consonante e non una sillaba (ovviamente vocalica);
--sto’ forma apocopata di stongo corrispondente all’italiano sto voce verbale (1° p.sg. indicativo pres.) dell’infinito stare dal lat. stare la forma stongo/sto’ è marcata etimologicamente sul lat. sto ma presenta un suffisso (forse del parlato) –ngo, poi apocopato sulla scia di altre forme verbali: do-ngo – ve-ngo etc.; l’apocope della sillaba ngo comporta il segno dell’apostrofe per cui si avrà sto’ per stongo;
--dà = dà voce verbale (3° p.s. indicativo pres.) o anche infinito del verbo dare/dà derivato del lat. dare; è pur vero che in napoletano non esiste la preposizione da che in napoletano è sempre (cfr. antea) ‘a per cui non essendovi possibilità di confusione fra voci omofone la voce verbale 3° p.s. indicativo pres. potrebbe anche scriversi tranquillamente da evitando un pleonastico accento sulla a (dà), ma per non essere accusato da qualche sprovveduto (ignaro che i raffronti occorre farli nell’ambito della medesima lingua) dicevo per non essere accusato da qualche sprovveduto di non sapere che la3° p.s. indicativo pres.del verbo dare esige l’accento (dà) preferisco nun mettere carne a cocere (evitare polemiche) e pro bono pacis faccio una forzatura alle mie conoscenze e convinzioni linguistiche ed adeguo (sia pure a malincuore) il dà napoletano al dà dell’italiano. Diverso è il discorso per il dà (forma tronca dell’infinito dare). Premesso che, normalmente occorre accentare sull’ultima sillaba tutte le voci verbali degli infiniti (per lo meno bisillabi) tronchi o apocopati (ess.: magnà, purtà, pusà, cadé, rummané etc.) per modo che si possa facilmente individuare la sillaba su cui poggiare il tono della parola, cosa che non avverrebbe se in luogo di accentare il verbo si procedesse ad apostrofarlo per indicarne l’apocope dell’ultima sillaba; in tal caso infatti non spostandosi l’accento tonico si altererebbe completamente la lettura del verbo; facciamo un esempio: il verbo spàrtere (dividere) che apocopato dell’ultima sillaba diventa spartí se in luogo dell’accento fosse scritto con il segno dell’apocope sparti’ dovrebbe leggersi col primitivo accento spàrti e non indicherebbe piú l’infinito, ma – forse - la 2° pers. sing. dell’ind. pres. Premesso tutto ciò, a mio sommesso, ma deciso avviso è opportuno – per una sorta di omogeneità accentare sull’ultima sillaba tutti i verbi al modo infinito anche quelli monosillabici (ovviamente quando si tratti di autentici verbi presenti nel napoletano e non presi in prestito dall’italiano!, come impropriamente fa qualcuno che annovera tra gli infiniti del napoletano un inesistente dí contrabbandato per infinito apocopato del verbo dícere laddove è risaputo che il napoletano pretto e corretto usa sempre la forma dícere e mai l’apocopato dí e chi lo facesse o avesse fatto, sbaglierebbe o si sarebbe sbagliato quand’anche si chiamasse Di Giacomo! ) ottenendosi perciò:dà = dare( apocope del lat. dare) , fà = fare ( apocope del lat. facere) evitando di scrivere – come invece propone qualcuno – da’ o fa’ che potrebbero esser confusi con gli imperativi da’= dai o fa’= fai.
--jí= andare; infinito del verbo jí (dal lat. ire) usato anche nella forma ghí/gghí(cfr. a gghí a gghí) verbo derivato dal lat. ire.Rammento che è scorretto usare il détto infinito nella forma í atteso che la j= gh fa parte integrante del tema del verbo e non può essere impunemente eliminata!
Continuando con le voci verbali monosillabiche avremo:
--va’ da non confondersi con va la voce va’ è dell’ imperativo 2° p. sg. e corrisponde a vai di cui è apocope, mentre va = va dell’italiano è la 3° p. sg. dell’indicativo presente ambedue dell’infinito jí= andare etimologicamente il verbo jí è dal lat. ire, ma per le forme del presente ind. vaco, vaje, va e per l’imperativo va’ cioè per tutte le forme che ànno per tema vac- occorre risalire al lat. vacare 'andare';
--vi’ corrisponde a vi(de) imperativo 2° p. sg. dell’infinito vedé con etimo dal lat. vidíre;talvolta anche vvi’ in talune interrogative dopo le vocali o – e (cfr. ‘o vvi’? – ‘e vvi’?)
--‘í altra forma del precedente vi’ qui con aferesi della v iniziale sostituita dall’apostrofo e con sostituzione della i apostrofata (i’) con una í per evitare l’appesantimento di due apostrofi uno iniziale ed uno finale nella medesima voce; anche questa ‘í sta per vi(de ) soprattutto nelle espressioni quali ‘a ‘í lloco= vedila lí= eccola lí, ‘o ‘í ccanno= vedilo qui= eccolo qui);
--hê = scrittura contratta di aje (2° per. sg. ind. pres. del verbo avé) corrispondente all’italiano hai che personalmente preferisco ed uso scrivere ài evitando l’inelegante consonante diacritica h sostituita da un elegante accento, cosí come mi insegnò negli anni ’50 la mia insegnante delle scuole elementari , sostituzione che si ripete altrove quando à sostituisce ha, ài sostituisce hai ed ànno sostituisce hanno ; i medesimi motivi di eleganza stilistica mi spingono a consigliare, anche per il napoletano d’usare à, ài, ànno piuttosto che ha, hai, hanno; nella voce a margine è stato giocoforza usare un’ acca diacritica che segnalasse la differenza tra ê= ai, a gli, alle e la (h)ê voceverbale del verbo avé; ricordo che il verbo avé, in tutti i suoi tempi, seguito dalla preposizione ‘a (da) e da un infinito vale il verbo dovere e tavolta è usato per indicare un’azione futura: ess.: m’hê ‘a stà a ssèntere = ài da starmi ad ascoltare =mi devi ascoltare; dimane m’aggi’’a taglià ‘e capille = domani ò da tagliarmi i capelli= domani mi taglierò i capelli o anche:dimane aggi’’’a jí a d’’o barbiere = domani andrò dal barbiere azione che, rammento, può essere espressa però acconciamente anche con un verbo al presente: dimane vaco a d’’o barbiere= domani vado (andrò) dal barbiere ;
--me’ voce verbale apocopata di mena = spingi, butta e nell’iterativo mena, me’= tira via, lascia correre! (2° p. sg. dell’imperativo) dell’infinito menà che è dal tardo lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce'
--tra’ voce verbale apocopata di trase = entra,vieni dentro, e nell’iterativo trase, tra’= suvvia, non perder tempo, entra ! (2° p. sg. dell’imperativo) dell’infinito trasí/tràsere che è dal lat. transire→*trasire;
--cu’ voce verbale apocopata di curre = corri,fa’ presto, affrettati, soprattutto nell’iterativo curre, cu’= suvvia, non perder tempo,sbrigati ! (2° p. sg. dell’imperativo) dell’infinito correre che è dal lat. currere;la voce a margine non va confusa con l’omofona cu = con di cui parlerò in appresso; del resto questo cu = con, come chiarirò, va scritto senza alcun segno diacritico;
--po’ corrisponde all’italiano puó (3° p. sg. ind. pres.) dell’infinito puté con etimo dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -entis; la grafia usata per la voce a margine è l’ apocope di pote che è da po(test) per cui la preferisco a pô dove nella ô si riconoscerebbe la contrazione del dittongo uo di puó; ma chi proponesse questa via non mi convincerebbe atteso che sotto sotto vorrebbe forse far passare l’idea che il napoletano sia un derivato dell’italiano; ma non è assolutamente cosí: il napoletano non è tributario dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato;
--po corrisponde all’italiano poi avverbio di tempo
1 in seguito, dopo, appresso: po vengo â casa vosta; po sarrà troppo tarde; po, po, mo tengo che ffà! | unito pleonasticamente a un altro avv. di tempo: po doppo se vede | usato per indicare successione: primma trasette ‘o pate, po ‘a mamma; pe mmo facimmo accussí,, po studiammo meglio ‘a fecenna | primma o po, un giorno o l'altro |
2 inoltre, in secondo luogo: non sarria onesto, e ppo nun ne veco ‘a nicessità
3 usato in posposizione, serve a riprendere il discorso o a introdurre un altro argomento: quanno po vedettero ca nun ce steva ‘a fà niente... ; quanno po a cchello ca stevemo dicenno… ' con valore conclusivo: che à ditto po ‘e male?; partarraje dimani, po? | con valore avversativo (anche unito a ma): isso po che colpa ne tene?; chist’ è ‘o cunziglio mio, tu po fa’ comme te pare; ma po nun saccio si è overo o no | in espressioni enfatiche: chesta po!; chesto po no!; e ppo tiene ‘o curaggio ‘e fa ‘a prereca a mme!; no e ppo no!
Quanto al modo di scrivere questo avverbio napoletano, l’unico modo corretto è la forma po priva di qualsiasi segno diacritico in quanto il po napoletano non è l’apocope del poi italiano, ma è etimologicamente direttamente derivante dal po(st) latino ed abbiamo piú volte visto che la caduta di consonanti non necessitano di indicazioni diacritiche; e dunque po e non po’ che – come abbiamo visto – è l’apocope di po(te) (puó);
--vo’ corrisponde all’italiano vuole (3° p. sg. ind. pres.) dell’infinito vulé con etimo dal lat. volg. *vōlere (accanto al lat. class. velle); normale il passaggio della vocale lunga o ad u; la grafia usata per la voce a margine è stata scelta in quanto vo’ è l’ apocope di vole) per cui la preferisco a vô (proposta da qualche pur valente linguista) dove però nella ô si riconosce la contrazione del dittongo uo di vuole; ma accettando tale tesi si corre il grosso rischio forse di far passare l’idea che il napoletano sia un derivato dell’italiano; ma non è assolutamente cosí: il napoletano non è tributario dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato.
--puó – vuó / bbuó rispettivamente puoi e vuoi (2° pers. sg. ind. pres.) degli infiniti puté e vulé/bulé degli etimi ò detto precedentemente sub po’ e vo’; qui mi preme sottolineare la mia scelta di accentare i tre monosillabi in luogo di apocoparli puo’ – vuo’ / bbuo’ come suggerisce e fa qualcuno, operando una scelta che non mi convince poi che . come ò detto alibi – l’apostrofe dell’apocope non può indicare su quale delle vocali del dittongo deve cadere l’accento per una corretta pronuncia! Non tutti son tenuti a sapere che uò è un dittongo ascendente con la vocale accentata che segue la semivocale....
Esaurite, o almeno considerate molte voci verbali monosillabiche (le prime che mi son venute in mente...) passiamo oltre e trattiamo i pronomi: cominciamo con
--i’ apocope di io ( quasi sempre proclitico), pron. pers. m. e f. di prima pers. sing. indica la persona che parla; si impiega solo in funzione di soggetto o come predicativo quando il soggetto è ugualmente di prima persona singolare (nelle altre funzioni è sostituito dalla forma tonica me o dalla forma atona me); come soggetto può essere sottinteso, ma è sempre espresso quando possono sorgere dubbi sulla persona del verbo, quando si stabilisce una contrapposizione, quando è coordinato con un altro soggetto, quando lo si vuole sottolineare enfaticamente: (i’) nun crero a cchello ca se dice; quanno parlo (io) nun voglio essere interrotto; si (i’) nun facessi accussí, nun fosse o sarria cchiú io; forze è mmeglio ca i’ me ne vaco ; fallo tu, i’ nun ce riesco; i’ e isso continuammo a faticà ‘nzieme; ‘o faccio io!; io,a dicere ‘na cosa ‘e chesta? | si rafforza se è seguito da stesso o preceduto da anche, neanche, nemmeno, proprio, appunto ecc. : vengo i’ stesso; neanch'io so’ stato ‘nfurmato; sono stato proprio io a dicerlo ; l’etimo è dal lat. volg. eo per il class. ego.
--‘o promome maschile o neutro proclitico che vale lo è usato come compl. ogg. e comporta, nel caso sia riferito al neutro, la geminazione della consonte d’avvio del verbo; riferito al maschile non lo esige; ess.: Chellu ppane? ‘O ffacette Nunziatina - Chillu ‘mpiccio ‘o facette isso!
--‘a promome femminile proclitico che vale la ed è usato come compl. ogg. per solito innanzi a consonanti; innanzi a vocali si usa nella forma lla apostrofato →ll’ ess.: ‘a purtaje isso fino â casa.- ‘a sentettemo ‘a vascio ê scale! ll’âmmo (avimmo) sagliuta fino a ‘ncoppa! – ll’îmmo (avimmo)’ntisa ‘a vascio ê scale;
--ce/nce corrisponde all’italiano ce o ci ed è pron. pers. di prima persona pl. atono; usato come compl. di termine in presenza delle forme pronominali atone‘o, ‘a, , ‘e e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] a noi: nce ‘o dicette; nce ‘a dette sana e salva; ce ‘o rialaje ; nce ‘o dette ; ce ne vulettero assaje; mannatecello; datencille; parlacene; rammento (per completezza) che tale ce (corrispondente all’italiano ci ) quando sia anteposto a parole comincianti per a,o, u non è apostrofabile in quanto l’adozione dell’apostrofo produrrebbe secondo i casi c’a – c’o – c’u facendo perdere alla c il suono palatale per assegnarle quello gutturale di ca(sa) – co(sa) –cu(po) laddove il ce deve conservare il suono palatale per cui ad es. ce avimmo (ci abbiamo) non potrà apostrofarsi in c’avimmo (che si leggerebbe ca-vimmo)come non si può apostrofare l’italiano ci abbiamo senza farlo diventare ca-bbiamo! Ancóra, tale ce/nce è usato anche come part. avverbiale [ in presenza delle forme pronominali atone ‘o, ‘a, , ‘e e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] qui, in questo luogo; lí, in quel luogo; nel luogo di cui si parla: nun ce ‘o truvaje; mettímmoncelo; ce n’êsseno (avesseno) essercene ancòra; nce ne stanno parecchie; l’etimo è dal lat. volg. *(hic)ce, forse per il class. hic 'qui’ e va da sé che la forma nce non necessita di nessun segno diacritico anteposto alla n in quanto quest’ultima non deriva dall’aferesi di un in che produrrebbe un’esatta ‘n, ma è una semplice consonante eufonica di comodo anteposta al ce;
--sé particella pronominale tonica corrispondente a quella dell’italiano sé= se stesso/a/i/e particella di cui forse non metterebbe conto di parlare, perché poco usata nel napoletano se non in particolari costrutti; ad ogni buon conto dirò che si tratta d’un pron. pers. rifl. m. e f. di terza pers. sing. e pl. si usa solo quando si riferisce al soggetto della proposizione, altrimenti è sostituito da isso, essa, lloro; è sempre sostituito da lloro quando vi sia reciprocità d'azione (parlavano tra lloro e non tra sé); si usa talvolta nei complementi retti da preposizione, spesso rafforzato da stesso o medesimo quantunque nel’uso gli si preferiscano i pronomi isso, essa, lloro;: se preoccupano solo ‘e lloro stessi; è suddisfatto d’isso; à fatto molto parlare ‘d’essa ; attirare a ssé; | come compl. oggetto, in luogo della forma atona se, acquista particolare risalto, soprattutto nelle contrapposizioni (e per lo piú seguito da stesso o medesimo): invece di se cunsidera cchiú ‘e ll’ate si può avere cunsidera sé stessocchiú ‘e ll’ate; aggenno accussí danneggia sé stesso e nun giova all’ate; ma meglio: aggenno accussí se danneggia e nun giova all’ate | | penzà sultanto a ssé, comportarsi egoisticamente | dinto di sé, fra sé e sé, nel proprio intimo: pensare qualcosa dentro d’isso, tra sé e ssé | ‘nzé =in sé, ‘nzé stesso = in sé stesso, ‘nzé e nzé e ppe ssé, si dice di cosa che viene considerata soltanto nella sua essenza, nella sua singolarità: ‘a cosa nzé tene poco valore; è ‘na risposta nzé e ppe ssé abbastanza nzipeta | a ssé, a parte, separatamente: è ‘nu caso a ssé; va cunsiderato a ssé | ‘a sé =da solo, senza l'aiuto di altri, senza che altri intervengano: vo’ fà tutto ‘a sé; ma meglio: vo’ fà tutto ‘a ppe isso;l’etimo di questo sé è il lat. sí.
E passiamo ora altre varie particolari voci monosillabiche prima di affrontare avverbi, congiunzioni ed altro;
--oj/o’ - fonema esclamativo che si premette ad un vocativo ad es.: oj ne’ (ragazza!) oj ni’ (ragazzo); esprime, secondo il tono con cui è pronunciataed a seconda del soggetto cui è diretto, dolore, piacere, meraviglia, sdegno, dubbio, sospetto, compassione, paura o altro. Trattandosi di un fonema esclamativo à un’origine quasi certamente espressiva e non è possibile azzardarne una qualche etimologia; rammento che ò trovato (anche in grandi scrittori (o intesi tali) partenopei la voce a margine oj riportata come oje e tutti costoro ànno inteso con tale oje, formulare un richiamo esclamativo, ma tutti sono incorsi nel medesimo errore poi che in pretto e corretto napoletano la voce oje non è un’esclamazione, ma un sostantivo che con derivazione dal lat. volg. hodie→(h)oje significa oggi: la forma apocopata o’ è usata in espressioni esclamative del tipo o’ fra’ (fratello!)te ll’aggiu ditto – o’ no’ (nonno!)lassàteme fà!
--qua’ forma apocopata dell’agg.vo interrogativo o esclamativo qua(le) ‘a qua’ parte sî venuto? – qua’ giacchetta t’ hê miso! l’etimo è dal lat. quale(m). rammento che contrariamente a ciò che avviene nella lingua nazionale, in napoletano quale oltre che apocopato può essere tranquillamente eliso davanti a vocoli non esistendo in napoletano la forma tronca qual;
--ne particella pronominale o locativa atona corrispondente al ne dell’italiano e come per l’italiano è pron. m. e f. , sing. e pl. [forma atona che si usa in posizione sia enclitica sia proclitica; è sempre posposta ad altro pron. atono che l'accompagni e si può elidere davanti a vocale]
1) riferito a persona o a persone già nominate in precedenza, di lui, di lei, di loro (può assumere funzione partitiva, di compl. di specificazione e d'argomento): mancavano ‘e ggiuvane: a chella festa nun ce ne steva nisciuno; appena ‘o cunuscette,addivintajene amice; ne parlano comme ‘e ‘na perzona capace | in usi pleonastici:n’aggi’ntiso pure troppe!
2) riferito a cosa nominata precedentemente, di questo, di questa, di questi, di queste o di quello, di quella, di quelli, di quelle (può assumere funzione partitiva, di compl. di specificazione, d'argomento, di causa e, nell'uso ant. o lett., anche di mezzo): damme ‘na caramella, io nun ne tengo cchiú ; aggio avuto ‘nu libbro libro e ggià n’asggiu liggiuto parecchie paggine; è ‘na cosa troppo/a delicata, preferisco nun parlarne; | in usi pleonastici: ne avimmo mangiate troppo/e assaje ‘e sfugliatelle!; nun ne tenesse, pe fatte mieje ‘e guaje! | in espressioni ellittiche: farne ‘e tutt’’e culure; sapernecchiú ‘e ll’ate; ce ne à ditto ‘nu sacco e ‘na sporta;
3) con valore neutro, riferito a un'intera frase o a un concetto già espressi in precedenza, equivale a 'di ciò': è proprio accussí, ma tu nun ne sî cunvinto; chesta è ‘a verità: è ‘na perzona scustumata, è impossibile nun tenerne cunto | in usi rafforzativi: nun avertene a mmale!; nun ne vale ‘a pena!
4) da ciò, da questo, da quello (indica derivazione, provenienza; in senso fig., conseguenza logica): s’ avvicinaje all'albero e ne spezzaje parecchi ffronne;nun putarria tirarne ata cuncrusione; pígliate ‘e responsabbilità tojele cu tutto chello ca ne dipende | riferito a persona, da lui, da parte sua, da loro, da parte loro: è stata sempe gentile cu tte , ma nun ne à avuto ca malazzione!;avimmo presentato a lloro ‘a richiesta nosta cchiú ‘e ‘na vota , ma nun ne avimmo maje ricavato niente!:
Questo ne è usato anche come avverbio ed à i medesimi usi sintattici del pron.: di lí, di là, di qui, di qua (indica allontanamento da un luogo, in senso proprio o fig.): «Sî stato a Napule?» «Sí, mo ne sto’ turnanno »; ‘na vota trasuto dint’ â ‘rotta, nun fuje cchiú capace ‘e ascirne; era ‘na situazzione difficile, ma ne venette fora cu ‘a bbona sciorta | in usi pleonastici: me ne vaco subbeto; se ne fujette ‘e corza | in taluni usi verbali ( jirsene, venirsene, starsene ecc.) è una semplice componente fraseologica: se ne veneva tinco tinco; se ne steva là sulo sulo.
L’etimo della voce a margine è dal lat. inde.
Procediamo oltre:
--ne’ è un’apocope in funzione vocativa del sostantivo nenna
cfr. antea oj ne’ l’etimo di nenna = fanciulla, ragazza è forse dal greco neanías ma qualcuno prospetta (forse a ragione) lo spagnolo niña o il catalano nina→ninna→nenna;
--ni’ che è un’apocope in funzione vocativa del sostantivo ninno cfr. antea oj ni’ l’etimo di ninno è il medesimo di nenna di cui è maschilizzazione;
--me/ mme pron. pers. m. e f. di prima persona sing.
1) forma complementare tonica del pron. pers. io; si usa come compl. ogg., quando gli si vuole dare particolare rilievo, e nei complementi introdotti da preposizioni: cercano proprio a mme; parlavano ‘e me; ll’ànno cunzignato a mme; a mme nun me ne ‘mporta; è vvenuto addu me ajere; l'à fatto pe mme; nun pigliartela cu mme ; tra me e tte non c'è stato nisciuna putecarella; raramente è anche rafforzato da stesso o medesimo: me metto scuorno ‘e me stesso | da me, da solo, senza l'aiuto altrui: ll’aggiu fatto ‘a ppe mme | per me, per quel che mi riguarda: pe mme, puó ffà chello ca vuó | secondo me, a mio parere: , pe mme è tutto sbagliato | quanto a me, per quanto mi riguarda: quanto a mme puó stà dint’ ê tranquille | tra me (o tra me e me), dentro di me, nel mio intimo: parlavo tra me e mme; | nun sapé né ‘e me né ‘e te,
2) si usa quasi sempre preceduto dalla preposizione a come soggetto nelle esclamazioni e nelle comparazioni dopo come e quanto: povero a mme!; niru me !; nun sî comme a mme; ne sapevano quanto a mme | non è quasi mai usato come predicato nominale dopo i verbi essere, parere, sembrare,
3) si usa come compl. di termine in luogo del pron. pers. mi in presenza delle forme pronominali atone lo, la, li, le e della particella ne, sia in posizione enclitica sia proclitica: m’’o dicette; me ll’à date n’ata vota; me neà fatte tante e tante; mannàtemelo; pàrlamene. L’etimo della voce a margine è dal lat. me.
-- ma’ che è un’apocope in funzione vocativa del sostantivo mamma cfr.ad es.: oj ma’ l’etimo della voce mamma è dal lat. mamma(m) 'mammella, poppa' e nel linguaggio infantile 'mamma, mammà’
E andiamo oltre; abbiamo i pronomi
--che pron. rel. invar. corrispondente all’italiano che, ma in napoletano è spesso usato nella forma ca
1) il quale, la quale, i quali, le quali (si riferisce sia a persona sia a cosa, e si usa normalmente nei casi diretti): chillu signore ch’ è trasuto mo è ‘o direttore; ‘e perzone ca tu hê visto, so’ perzone meje tu hai visto; ‘o ggiurnale che staje liggenno è chillo d’ajere
2) talvolta è usato come compl. indiretto, con o senza prep.) soprattutto nel linguaggio pop., spec. col valore di in cui (temporale e locale):’a staggiona ca ce simmo ‘ncuntrate; paese ca vaje ausanze ca truove; piú fortemente popolare o dialettale in funzione di altri compl.: è cchesta ‘a carne ca ('con cui') se fa ‘o broro | in altre espressioni dell'uso comune: (nun) tene ‘e che se lamentà, (non) ne ha motivo; (nun) tene ‘e che vivere, (non) à risorse economiche; | nun c'è che dicere, espressione di consenso
3) la quale cosa (con valore neutro, preceduto dall'art. o da una prep.): te sî miso a sturià, il che te fa onore; nun s’ è ffatto cchiú vedé, dal che aggiu capito ca nun le passa manco p’’a capa chill’affare; | come pron. interr. [solo sing.] quale cosa è usato in prop. interr. dirette e indirette): che ne sarrà ‘e lloro?; che staje dicenno?; a che pienze?; ma ‘e che te miette paura?; nun saccio che fà; nun capisco ‘e che ti lamiente; è spesso rafforzato/seguíto o, nel linguaggio familiare, sostituito da cosa: (che) cosa vuó?; nun saccio (che) cosa penza ‘e fà | che cc’ è, che nun cc’ è, (fam.) tutt'a un tratto, improvvisamente | a cche?, a quale scopo?, a qual pro? | ‘e che?/ e cche?, ‘o che?, ma che?, rafforzativi di interrogazione che esprimono stupore polemico: e che? einisse che dicere? |talora come pron. escl. [solo sing.] quale cosa: che dice!; che m’aveva capità!; ma che m’ at- tocca ‘e sèntere! | come inter., nell'uso familiare, esprime meraviglia, stupore: «Ce vaje?» «Che! (ma piú spesso Addó?) Ma neanche a dicerlo!»; «Che! Staje pazzianno?» | ma che!, lo stesso che macché ||| come pron. indef. indica qualcosa di indeterminato (solo in partic. locuzioni): ‘nu che, nun saccio che, ‘nu certo che, ‘nu certo nun saccio che, | (‘nu) gran che, (una) gran cosa: oje nun aggiu cunchiuso (‘nu) gran che; ne parlano tutti buono, ma pe mme nun è (‘nu) gran che | un, ogni minimo che, un, ogni nonnulla: ‘ncazzarse p’ ògne minimu che
come agg. interr. invar. quale, quali: che tipo è?; a che ora venarrà?; che llibre liegge ‘e solito?; nun saccio ch’ idee tene p’’a capa ||| come agg. escl. invar. quale, quali: ma che idee!; che bbella jurnata!; che perzone antipatiche! | (fam.) molto diffuso l'uso dell'agg. escl. in unione a un semplice agg., senza altra specificazione, in frasi del tipo: che bello!, che bellezza, com'è bello; che strano!, che stranezza, com'è strano | diffusa anche l'anteposizione dell'agg. qualificativo: scemo ca sî!, sei proprio stupido!
rarissimamente è s. m. anzi è usato solo nell'espressione il che e il come e sue varianti, nel senso di 'ogni cosa, tutto': voglio sapé bbuono ‘o cche e ‘o ccomme; t’addimannarrà ‘o cche, ‘o ccome e ’o quanno. L’etimo del che è dal lat. quid mentre la forma ca è forse un prestito di comodo della congiunzione di cui qui di seguito, congiunzione per la quale qualcuno ipotizza, ma poco convincentemente un’aferesi di (poc)ca=poiche mentre mi appare piú corretto l’etimo dal lat. quia→q(ui)a→qa→ca; oltretutto se il ca congiunzione fosse derivata da un’aferesi (poc)ca sarebbe buona norma scrivere il ca congiunzione con un segno d’aferesi ‘ca che distinguesse anche visivamente il ‘ca congiunzione dal ca pronome!Ma i fatti, fortunatamente, non stanno cosí! Proseguiamo
--ca congiunzione che corrisponde all’italiano che
1) introduce prop. dichiarative (soggettive e oggettive) con il v. all’ind. o talvolta al congiunt..: se dice ca è partuto; fosse ora ca te decidisse; nun penzo ca chillo vene; te dico ca nun è overo; è inutile ca tu liegge chillu cartello, manco ‘o capisce... | può essere omesso quando il v. è al congiunt.: spero fosse accussí | con valore enfatico: nun è ca sta malato, pe ccerto è assaje stanco; è ca ‘e juorne nun passano maje!; forze ca nun ‘o sapive?
2) introduce prop. consecutive, con il v. all'indic. o al congiunt. (spesso in correlazione con accussí, tanto, talmente, tale ecc.): cammina ca pare ‘nu ‘mbriaco; parla pe mmodo ca te putesse capí; era talmente emozzionato ca nun riusciva a pparlà; stevo accussí stanco ca m’addurmette súbbeto; | entra nella formazione di locuzioni, come ô punto ca, pe mmodo ca etc : continuaje a bevere pe mmodo ca se ‘mbriacaje;
3) introduce prop. causali con il v. all'indic. o al congiunt.: cummògliate ca fa friddo; nun è ca m’’a vulesse scapputtà
4) introduce prop. finali con il v. all’indicativo o al congiunt.: fa' ca tutto prucede bbuono! ; se stevano accorte ca nun se facesse male;
5) introduce prop. temporali con il v. all'indic., nelle quali à valore di quando, da quando: te ‘ncuntraje ca era ggià miezojuorno; aspetto ca isso parte; sarranno dduje mesi ca nun ‘o veco | entra nella formazione di numerose loc. cong., come ‘na volta ca, doppo ca, primma ca, ògne vvota ca, d’’o juorno ca,: ll’hê ‘a farlo, primma ca è troppo tarde; ògne vvota ca ‘a ‘ncontro me saluta sempe;
6) introduce prop. comparative: tutto è fernuto primma ca nun sperasse
7) introduce prop. condizionali con il v. al congiunt., in loc. come posto ca,datosi ca, ‘ncaso ca, a ppatto ca, nell'ipotesi ca ecc.: posto ca avesse tutte ‘e ragioni, nun s’aveva ‘acumportarse comme à fatto!; t’’o ffaccio, ‘ncaso ca t’’o mierete;datosi ca hê ‘a partí, te ‘mpresto ‘sta balicia;
8) introduce prop. eccettuative (in espressioni negative, correlata con ato, ati, ‘e n’ata manera, per lo piú sottintesi): non fa (ato) ca dicere fessaríe ; nun aggio potuto (altro) ca dicere ‘e sí!; nun putarria cumpurtarme (‘e n’ata manera) ca accussí | entra a far parte delle loc. cong. tranne ca, salvo ca, a meno ca, senza ca: tutto faciarria o facesse, tranne ca darle raggione; vengo a truvarte, a meno ca tu nun staje ggià ‘nampagna; è partuto senza ca nesciuno ne fosse ‘nfurmato;
9) introduce prop. imperative e ottative con il v. al congiunt.: ca nisciuno trasesse!; ca ‘o Cielo t’aonna! Dio ; ca ‘stu sparpetuo fernesse ampressa;
10) introduce prop. limitative con il v. al congiunt., con il valore di 'per quanto': ca i’ sapesse non à telefonato nisciuno;
11) con valore coordinativo in espressioni correlative sia ca... sia ca; o ca... o ca: sia ca te piace sia ca nun te piace,stasera avimm’’a ascí ;i’ parto oca chiove o ca nun chiove...;
12) introduce il secondo termine di paragone nei comparativi di maggioranza e di minoranza, in alternativa a di (‘e) (ma è obbligatorio quando il paragone si fa tra due agg., tra due part., tra due inf., tra due s. o pron. preceduti da prep.): Firenze è meno antica ca (o ‘e) Roma; sto’ cchiú arrepusato oje ca (o ‘e) ajere;tu sî cchiú sturiuso ca ‘nteliggente;; è cchiú difficile fà ca dicere; à scritto meglio dinto a ‘sta lettera ca dinto a cchella d’’o mese passato | (fam.) in correlazione con tanto, in luogo di quanto, nei comparativi di eguaglianza: la cosa riguarda tanto a mme ca a vvuje | in espressioni che ànno valore di superl.: songo cchiú ca certo; songo cchiú ccerto ca maje;
13) entra nella formazione di numerose cong. composte e loc. congiuntive: affinché, benché, cosicché, perché, poiché; sempe ca, in quanto ca, nonostante ca, pe mmodo ca e sim.
Dell’etimo di questa congiunzione ò già detto sub che come sempre sub che ò parlato del pronome ca = che.
Procediamo oltre. Un’ altra congiunzione molto usata nel napoletano è la congiunzione
--si corrispondente all’italiano se
1) posto che, ammesso che (con valore condizionale; introduce la protasi, cioè la subordinata condizionale, di un periodo ipotetico): si se mette a pparlà,nun ‘a fernesce cchiú; si i’ fosse a tte ,me ne jesse a ffà ‘na scampagnata ; si tu avisse sturiato ‘e cchiú ,fusse o sarriste stato prumosso; si fosse dipeso ‘a me, mo nun ce truvarriamo o truvassemo a chistu punto; si fusse stato cchiú accorto , non te fusse o sarriste i truvato dinto a ‘sta situazziona (o pop.: si ire cchiú accorto , non te truvave dinto a ‘sta situazziona ) | in espressioni enfatiche, in frasi incidentali che attenuano un'affermazione o in espressioni di cortesia: ca me venesse ‘na cosa si nun è overo!; pure tu, si vulimmo sî ‘nu poco troppo traseticcio; si nun ve dispiace, vulesse ‘nu bicchiere ‘e vino; pecché, si è llecito,aggio ‘a jrce semp’i’? | può essere rafforzata da avverbi o locuzioni avverbiali: si pe ccaso cagne idea, famme ‘o ssapé; si ‘mmece nun è propeto pussibbile, facimmo ‘e n’ata manera | in alcune espressioni enfatiche e nell'uso fam. l'apodosi è spesso sottintesa: ma si non capisce ‘o riesto ‘e niente!; si vedisse comme è crisciuto!; se sapessi!; se ti prendo...!; e se provassimo di nuovo...? | si maje, nel caso che: si maje venisse, chiàmmame; anche, col valore di tutt'al più: simmo nuje, si maje, ca avimmo bisogno ‘e te;
2) fosse che, avvenisse che (con valore desiderativo): si vincesse â lotteria!; si putesse turnarmene â casa mia!; si ll’ avesse saputo primma!
3) dato che, dal momento che (con valore causale): si ne sî proprio sicuro, te crero; si ‘o ssapeva, pecché nun ce ll’ à ditto?
4) con valore concessivo nelle loc. cong. se anche, se pure: si pure se pentesse, ormaje è troppo tarde; si anche à sbagliato, no ppe cchesto ‘o cundanno
5) preceduto da come, introduce una proposizione comparativa ipotetica: aggisce comme si nun te ne ‘mportasse niente; me guardava comme si nun avesse capito; comme si nun si sapesse chi è!
6) introduce proposizioni dubitative e interrogative indirette: me dimanno si è ‘na bbona idea; nun sapeva si avarria o avesse fernuto pe ttiempo; nun saccio che cosa fà, si partí o restà; s’addimannava si nun se fosse pe ccaso sbagliato | si è overo?, si tengo pacienza?, sottintendendo 'mi chiedi', 'mi domandi' ecc.
Rammento che questa congiunzione si napoletana che è sempre congiunzione e mai pronome, non viene mai usata come sost. m. invar. come invece capita con il corrispettivo se dell’italiano se che, accentato sé è anche pronome. Quanto all’etimo il si a margine è dal lat. tardo sí(d), dall'incrocio del class. si'se' col pron. (qui)d 'che cosa'.
Lasciando da parte ora altre congiunzioni monosillabiche che non sono tipiche del napoletano in quanto corrispondenti in tutto e per tutto a quelle della lingua nazionale ( e, ma, o= oppure etc.) mi lascio portar per mano dalla congiunzione si per illustrare l’omofono, ma non omografo
--si’ che è l’apocope di si(gnore) e pertanto esige il segno diacritico dell’apostrofo. viene usato per solito davanti ad un sostantivo comune o davanti a nome proprio di persona (ad es.: ‘o si’ prevete= il signor prete, ‘o si’ Giuanne = il signor Giovanni.) L’etimo del lemma signore da cui l’apocope a margine si’ è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano.
Ricordo che càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della lingua napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé – come ò sottolineato - è l’apocope di si(gnore) ) con uno scorretto
--zi’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) ed usato quasi esclusivamente nei vocativi (o’ zi’!) per cui si ottenengono gli scorretti zi’prevete o zi’ Giuanne.
Per restare nel tema suggerito dal si’= signore parlo di un altro monosillabo che è usato per indicare la voce signora; si tratta di
--sié che è l’apocope di si(gnora) e pertanto esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria lingua, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi della lingua napoletana la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto
zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come Dicette 'o zi' moneco,a’ zi’ Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." infece che correttamemente Dicette 'o si' moneco,â sié Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." ed ovviamente il fatto scorretto non consiste nell’avere usato a’ al posto di â per dire alla, quanto per avere usato impropriamente zi' moneco, e zi’ Badessa al posto di si' moneco, e sié Badessa.
Ciò detto passiamo agli avverbi monosillabici, cominciando con il
--sí avverbio olofrastico affermativo corrispondente all’italiano sí
1) si usa dunque nelle risposte come equivalente di un'intera frase affermativa (può essere ripetuto o rafforzato): "Ệ capito?" "Sí"; "Venono pure lloro?" "Sí"; anche, "Sí, sí", "Sí certo", "Comme!Sí!", "Sí overamente ", "Ma sí!" | ' dicere ‘e sí, acconsentire ' risponnere ‘e sí, affermativamente ' paré, sperà, crerere ecc. ‘e sí, che sia cosí ' | e ssí ca = e dire che ' sí, dimane, (fam. iron.) no, assolutamente no
2) spesso contrapposto a no: dimme sí o no!; un giorno sí e n’ato no, a giorni alterni ' sí e nno, a malapena ' ti muove, sí o no?, esprimendo impazienza ' cchiú ssí ca no, probabilmente sì ;
3) con valore di davvero, in espressioni enfatiche: chesta sí ca è bbella!; chesta sí ch’è ‘na nuvità!
talvolta è usato come s. m. invar.
a) risposta affermativa, positiva: m’aspettavo ‘nu sí; risponnere cu ‘nu un bellu sí; ‘e spuse ànno ggià ditto ‘o sí; stare tra ‘o sí e o no, essere incerto; decidersi p’’o ssí, decidere di fare qualcosa '
b) pl. voti favorevoli: si songo avute tre ssí e quatto no.
L’etimo di questo sí è dal lat. sic 'cosí', forma abbreviata della loc. sic est 'cosí è'; poi che la voce in esame deriva da un si(c) con la caduta di una consonante e non di una sillaba non sarebbe previsto alcun segno diacrito sulla parola derivata, ma è stato giocoforza accentare la i di questo sí per con confonderlo anche graficamente dal si congiunzione o dal si’ apocope di signore.
Talvolta questo avverbio affermativo in espressioni esclamative ironiche e/o sarcatiche assume la forma di
-- seh,seh! e à valenza negativa significando non è cosí, non avverrà mai ciò che dici o prospetti! (es.: “se spusarranno ampressa!” “ Seh, seh!... Dimane!”
Di... segno opposto l’avverbio olofrastico negativo
--no scritto privo di qualsiasi segno diacritico, da non confondersi con l’omofono,ma non omografo art. indeterminativo ‘nu/’no Avverbio olofrastico negativo corrispondente al no dell’italiano
1) negazione equivalente a una frase negativa, usata spec. nelle risposte (si contrappone a sí): «Ll'hê visto?» «No»; «Parte oje?» «No, dimane» | accompagnato da rafforzativi: proprio no;; certamente no; ma no! | no e pò no!, proprio no | pare ‘e no, sperammo ‘e no, che non sia cosí | dicere ‘e no, negare, rifiutare: à ditto ‘e no; ‘na perzona ca nun dice maje ‘e no, che è spesso incline ad acconsentire, disponibile | nun dicere ‘e no, acconsentire, ammettere, o almeno non escludere: «È ‘na cosa straurdinaria» «Nun dico ‘e no, ma nun se po’ ffà!» | risponnere ‘e no, dare una risposta negativa | fà ‘e no cu ‘a capa, dare una risposta negativa senza parlare | si no, (fam.) altrimenti: aggi’ ‘a jí â casa ampressa , si no sarranno guaje | meglio ‘e no!, meglio ca no per esprimere un parere negativo: «T’’a siente ‘e ascí?» «Meglio ca no!» | comme no!, altro che, eccome: «Te piaceno ‘e sfugliatelle ?» «Comme no!» | E pecché no, come risposta affermativa a una proposta: «Ce jammo ô cinema stasera?» «E pecché no!» | anze ca no, alquanto, piuttosto: ‘na pellicula scucciante anze ca no | sí e nno, neanche, appena: ce sarranno state sí e nno vinte perzone | cchiú ssí ca no, probabilmente sí; cchiú nno ca sí , probabilmente no | forze sí forze no , può darsi | ‘nu juorno sí e ‘nu juorno no, a giorni alterni
2) nelle proposizioni disgiuntive stabilisce una contrapposizione: dimme si t’è piaciuto o no; chi sturia, e chi no; bella jurnata o no , ce vaco ‘o stesso | sí o no?, per esprimere impazienza: viene sí o no?
3) con valore rafforzativo o enfatico: no, nun ce vengo!; nun ce pozzo credere, no!; aggiu ditto ca nun ce vaco, no!; ma no, nun è ppe cchesto! | ma no!, per esprimere sorpresa, incredulità o una forte emozione: «’A quistione è ggià risolta» «Ma no!»; «Aggio avuto ‘na brutta brunchita» «Ma no!»
4) posposto al termine da negare sta per un non anteposto: «È proprio friddo ‘o ccafè tujo?» «Friddo no, ma appena appena scarfato»; «’O vide spisso?» «Spisso no, quacche vota»; «Mi faje ‘o probblema ?» «Fartelo no, ma pozzo aiutà» |
5) con il valore di non è vero?: ti piacesse si fosse accussí, no?; v’aggiu ggià ditto, no,’e ve stà zitte! L’etimo dell’avv. no è dal lat. non.
-- nun/ nu avv. negativo corrispondente al non dell’italiano serve a negare il concetto espresso dal verbo a cui si riferisce o a rafforzare una frase che contiene già un pron. negativo: nun venette; nu pparlaje pe tutt’’a jurnata ; nun c'è verzo d’’o fà capace! ; nun c'è prubblema; nu nce sta nisciuno; nun esiste ‘o riesto ‘e niente. Come per il precedente l’etimo è dal lat. non.; per quanto riguarda la forma apocopata nu riportata a margine, trattandosi di un’apocope non sillabica (con la sola caduta di una consonante (n) non è necessaria l’apposizione di alcun segno diacritico cosí come è avvenuto per il precedente pe←per e come avverrà quando si parlerà dell’avverbio mo e ciò a malgrado di qualcuno che consiglia la grafia nu’ forse nel timore che il nu potesse confondersi con l’articolo indeterminativo nu che taluno invece di vergar ‘nu à il gusto (o meglio: il malvezzo) di scrivere privo del necessario segno distintivo d’aferesi...
Ricordo a questo punto che nell’eloquio familiare soprattutto nelle parlate provinciali dei paesi rivieraschi e/o dell’entroterra (dove il napoletano viene usato con un colpevole imbarbarimento locale) gli avverbi olofrastici monosillabici sí e no,diventano bisillabi per la paragoge di un ne con valore rafforzativo, paragoge che trasforma il sí in sine ed il no (nò) in nóne. La medesima cosa càpita con l’avverbio successivo cca che talora è reso ccane.
Difficile, se non impossibile risalire all’origine di tale ne che à tutta l’aria di una sillaba aggiuntiva di tipo espressivo quantunque se ne potrebbe riscontrare un antenato nel ne paragogico presente nel latino ais-ne – ais-n antiche voci verbali delverbo difettivo āio = dico di sí, affermo etc. verbo che all’indicativo fuconiugato āio, ais (nelle interrogative aisne o anche (cosí attestato!) ain etc.Ma anche di questo ne del latino l’origine risulta ignota.
Procediamo oltre e troviamo
--cca avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che in lingua napoletana (cosí come avviene in italiano per il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto sempre senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; in lingua napoletana, come abbiamo visto , esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = (che), congiunzione e pronome che però si rendono ambedue con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti, , ma pure affermati scrittori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’con un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico ! Come per il sí ed il no anche questo avverbio a margine nell’eloquio familiare soprattutto delle parlate provinciali dei paesi rivieraschi e/o dell’entroterra (dove – mi ripeto! - il napoletano viene usato con un colpevole imbarbarimento locale) diventa bisillabo per la paragoge di un ne con valore rafforzativo, paragoge che trasforma il cca in uno strano ccane ed addirittura nel napoletano d’uso corrente in ambito cittadino talvolta il monosillabo cca si trasforma in un rafforzato bissillabo ccanno nelle tipiche espressioni ‘a ‘í ccanno= vedila qua, proprio qua -, ‘o ‘í ccanno= vedilo qua, proprio qua - ‘e vví ccanno= vedili qua, proprio qua;
-- lla/(llà) avverbio di luogo corrispondente all’italiano là
1) in quel luogo (indica un luogo genericamente lontano da chi parla e da chi ascolta): puosalo lla; sta senz'altro lla ; venimmo nuje lla ; nun sta cchiú lla, va’ lla | talvolta si unisce a gli agg.vi o pron. chillo/u – chellu - chella o ad un sostantivo preceduto dai medesimi aggettivi , per determinare meglio la posizione di una persona o di una cosa: chillu guaglione lla; chillu libro lla; damme chellu ppane lla; piglia chella cosa lla;
2) con valore rafforzativo o enfatico: siente lla che casino! | chi è lla?, chi va lla?, fermo lla, usati da chi è di guardia o in ispezione ' arri lla (in questo caso però piú spesso il lla si semplifica in a per cui si à arri,a! !, per incitare bestie da soma o da tiro;
3) unito a un avverbio o a una determinazione di luogo: lla dinto; lla fora; lla attuorno; lla ssotto; lla’ncoppa; lla ‘ncopp’ a chella seggia; lla dint’ â casa; lla addó m’hê ditto | ‘a lla, da quel luogo: è partuto‘a lla ajeressera; curre‘a lla a cca ; pe gghí ‘a lla nfino â cimma nc'è vo’ n'ora bbona ‘e scarpinetto; | essere ‘a lla essere cchiú ‘a lla ca a cca, essere vicino a morire; ‘o spitale è assaje cchiú a lla; essere
4) in correlazione con qua e qui, per indicare luogo indeterminato: andare ‘nu pco cca, ‘nu poco lla'; correre ‘a cca e’a lla;qui e là cca e lla; guardà cca e lla.
L’ etimo di questo avverbio di luogo, cosí come per il là dell’italiano è dal lat. (i)lla(c); in italiano si è stati costretti ad accentare l’avverbio per evitarne la confusione con il la art. determ. femm. sg; in napoletano .in napoletano non vi è altro monosillabo la con cui l’avverbio a margine ingeneri confusione, per cui in napoletano non v’à ragione per accentare questo la avverbio come invece purtroppo fanno tutti gli autori partenopei buoni o meno buoni che siano che si lasciano frastornare dal là accentato della lingua italiana e dimenticano che i segni diacritici vanno usati per marcare differenze di voci omofone, ma appartenenti alla medesima lingua! Per cui l’avverbio di luogo la in napoletano va reso senza alcun accento, ma con la geminazione della consonante (che ripete la doppia l etimologica e soddisfa l’attento udito partenopeo che avverte l’avverbio a margine con il suono forte d’avvio; e dunque lla e non llà con un inutile, pletorico accento che fa corona sulla a e tantomeno lla’ come qualche sedicente autore partenopeo à avuto il pessimo gusto di fare), non esistendo alcuna sillaba apocopata nell’ illac di partenza ed al solito la caduta di una consonante non può comportare segno diacritico!
--pò ma preferibilmente po avv. corrispondente all’italiano poi
1) in seguito, dopo, appresso: po vengo â casa vosta; po sarrà troppo tarde; po, po,mo tengo che ffà! | unito pleonasticamente a un altro avv. di tempo: po, doppo se vedarrà | usato per indicare successione: primma trasette ‘o pate po ‘a mamma; pe mmo facimmo accussí, po sturiammo meglio ‘a cosa | primma o po, un giorno o l'altro primma o po tutto s’acconcia
2) inoltre, in secondo luogo: non sarria onesto, e ppoi nun ne veco ‘a nicissità
3) usato in posposizione, serve a riprendere il discorso o a introdurre un altro argomento: quanno po vedettero ca nun ce steva niente ‘a fà... ; quanto po a cchello ca stevemo dicenno... ' con valore conclusivo: c’ à ditto po ‘e male?; parte dimane, po? | con valore avversativo (anche unito a ma): isso po che colpa ne tene?; chisto è ‘o cunziglio mio, tu po fa’ comme vuó; ma po nun saccio si è overo o no| in espressioni enfatiche: chesta po!; chesto po no!; e ppo tene ‘o curaggio ‘e fà ‘a prereca a mme!; no e ppo no!
L’etimo è dal lat. po(st) Anche in questo caso trattandosi di un’apocope consonantica (st) non è necessario alcun segno diacritico; qualcuno (ma per vero non ne condivido l’idea) consiglia la forma pò con cui si riconoscerebbe súbito la pronuncia aperta della o.
--cchiú corrispondente all’italiano piú: avverbio modale
1) maggiormente, in maggior quantità, grado o maniera (si premette ad aggettivi, avverbi e verbi): sarrà ‘na fatica cchiú llonga; me piace ‘a brasciola cchiú ccotta; aggisce cchiú gentilmente; cchiú se sturia cchiú se ‘mpara; cchiú ‘o cunosco e meno me piace ' anche preceduto da ‘e(di):hê ‘a durmí ‘e cchiú; m’ interessa ‘e cchiú; ‘nu poco ‘e cchiú
2) premesso ad aggettivi o avverbi forma il comparativo di maggioranza: è cchiú ‘nteliggente ‘e te; corre cchiú assaje ‘e quanto pensasse ' quando il confronto è fra aggettivi, sostantivi e verbi, equivale a piuttosto: cchiú ca bbuono ‘e core, è ttre vvote bbuono!;
3) preceduto dall'art. determ. forma il superlativo relativo di maggioranza: è ‘o cchiú simpatico ‘e tutte quante; cerca ‘e turnà ‘o cchiú ampressa pussibbile; è ‘o libbro cchiú bbello c’ aggiu maje liggiuto | cchiú ca, raramente premesso ad agg. o avv. equivale a un superlativo assoluto: me sarrà cchiú ca utile;
4) dà luogo a varie locuzioni particolari: né cchiú né mmeno, proprio, appunto ' poco cchiú poco meno, cchiú o meno, all'incirca: cchiú o meno, ‘e ccose stanno accussí; sarranno cchiú o meno ‘e ttre; venarrà a custà quarantamila lire lire, lira ‘e cchiú, lira ‘e meno | chi cchiú, chi meno, tutti, sebbene alcuni maggiormente, altri di meno: chi cchiú, chi meno, tutte l’ànno criticato – chi cchiú, chi meno scarze, tutte tenono ‘o prurito ‘e mazzo! | tanto e cchiú , assaje e cchiú , ancora ‘e cchiú , a maggior ragione: si t’ è piaciuto ‘o primmo libbro d’’o sujo ancora’e cchiú te piaciarrà chisto | tanto cchiú che, a maggior ragione dal momento che: accetterà, tanto cchiú ch’ è disoccupato | niente (‘e) cchiú, solamente questo: è nu passacarte qualunque, niente ‘e cchiú
5 in matematica, indica l'operazione di addizione: nove cchiú ttre è uguale a durice ' (estens.) indica aggiunta, sovrappiú: so’ quatto chile cchiú duiciento gramme; | nelle indicazioni delle temperature, esprime valori sopra lo zero: ‘o termometro signava cchiú diciotto (+18) ' differenza in piú, fra una data quantità o un dato numero e una quantità o un numero minore cui ci si riferiva: ‘a valanza segna ‘nu piso ‘e miezu chilo ‘e cchiú | ‘e cchiú, in eccesso: ce stanno vinte lire ‘e cchiú, ; simmo‘e cchiú, | uno ‘e cchiú, uno ‘e meno, mese cchiú mese meno, juorno‘ cchiú,juorno meno, chilo cchiú, chilo meno e sim., per significare che un numero, una quantità, un periodo di tempo non corrispondono con esattezza a quanto indicato ma vi si avvicinano molto: resto fora pe ‘nu mese, juorno cchiú, juorno meno
6) in frasi negative indica che un fatto o un'azione è cessata o cesserà: nun parlaje cchiú; ‘a allora nun ll’aggiu cchiú ‘ncuntrato; vide ‘e nun farlo cchiú; nun’o voglio cchiú vedé ' anche rafforzato con maje: nun voglio vederlo maje cchiú | nun ne puterne cchiú , essere al limite della sopportazione;
7)talvolta è usato come agg. compar. invar.
a) maggiore, in maggior numero, in quantità maggiore: serve cchiú denaro ‘e quanto me penzavo; oje sento cchiú cavero d’ ajere; tene cchiú preoccupazione ‘e me; dummeneca nce starrà ancòra cchiú ggente ci sarà ancora più gente
b) con valore neutro: cchiú ‘e accussí nun putevo; vulesse ricavà ‘o cchiú ch’è pussibbile ‘a chist’affare, piú denaro possibile
c) con il sign. piú generico di cchiú ‘e uno, paricchi: me fermo pe cchiú gghiuorne ; te l'aggiu ditto detto cchiú vvote (anche rafforzato: cchiú e cchiú vote)
talvolta come prep. vale oltre a, con l'aggiunta di: ce stévamo tutte quante nuje cchiú ‘o nonno; pavaje duicientemila lire cchiú ‘e spese
raramente è anche s. neutro. invar.
a) la cosa maggiore, principale; ciò che è piú importante: ‘o cchiú è ffatto; | parlà d’’o cchiú e d’’o mmeno , di cose di poca importanza, trascorrendo da un argomento all'altro ' | (tutt') ô cchiú, al massimo
b) (mat.) il simbolo dell'addizione o di un valore positivo (si esprime con il segno +)
c) molto raramente al plur. masc. la maggioranza; il maggior numero: ; sentí ‘o parere d’’e cchiú
rammento che la voce a margine va sempre scritta con la geminazione iniziale cchiú e comporta nella stragrande maggioranza dei casi la geminazione della consonante d’avvio della voce cui sia anteposto ( ad es. cchiú fforte – cchiú ppoco e non chiú forte – chiú poco )
L’etimo è dal lat. plus con tipico passaggio di pl a chi come in platea→chiazza - plumbeum→ chiummo etc.
Anche in questo caso l’apocope della consonante s non esigerebbe alcun segno diacritico; l’accento sulla u non à dunque ragioni etimologiche, ma si è reso necessario per indicare su quale delle vocali del dittongo iu occorra poggiare la voce nel pronunziare la parola per modo che non si dica erroneamente cchíu come potrebbe ritenere un qualche sprovveduto non avvezzo al napoletano.
E giungiamo finalmente all’usatissimo avverbio di tempo
--Mo (Mo’, mò).
Nel napoletano vuoi nei testi scritti, che nel comune parlare si trova o si sente spessissimo il vocabolo a margine usato per significare: ora, adesso e, talvolta esso vocabolo trasmigra addirittura nell’italiano con il medesimo significato.Ciò che voglio trattare è innanzitutto il suono da assegnare alla vocale (o) che nel parlato cittadino è pronunciata e va pronunciata con timbro aperto (mò) mentre nella provincia scivola verso una pronuncia chiusa (mó), dando modo a chi ascolta di poter tranquillamente definire cittadino o provinciale colui che pronunci l’avverbio mo che se è pronunciato con la o aperta connota il cittadino e se è pronunciato con la o chiusa connota il provinciale. Ordunque
--mo (è possibile trovarlo anche come mo' o ancóra mò) avv. - Ora, adesso; poco fa Concorrente di ora e adesso, mo à una lunga tradizione storica, sebbene non si sia quasi mai (al contrario del napoletano dove è usatissimo sia per iscritto che nel parlato) affermato nell'uso scritto dell’italiano ; resta quindi limitato all'uso parlato di gran parte d'Italia, in particolare di quella centro-merid.
nel napoletano anche nella forma iterata mmo mmo con tipico raddoppiamento espressivo della consonante d’avvio nel significato di súbito, immediatamente, senza por tempo in mezzo
Detto ciò passiamo ad un altro problema; come si scrive la parola in epigrafe?
Il problema non è di facilissima soluzione posto che non v’è identità di vedute circa l’etimologia della parola, unica strada forse da percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta soluzione;
vi sono infatti parecchi scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di ora, adesso; ebbene, qualora si scegliesse questa strada sarebbe opportuno scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene apocopata di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente indicato dall’apposizione di un segno diacritico (‘).
Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino mox = ora, subito, come io reputo che sia, ecco che la faccenda diviene piú semplice e basterà scrivere mo senza alcun segno diacritico.
È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando un termine, per motivi etimologici, perde una sola lettera (consonante)in fin di parola (cfr. antea cu da cum, pe da per etc.) e non per elisione allorché – come noto – a cadere è una vocale, non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba;
ecco dunque che ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, come dissi, in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum e per pe (per) dove cadendo una semplice consonante (r) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato!
Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione (cfr. antea) nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso il malvezzo di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta, laddove invece,il non segnarlo, a mio avviso, è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiami pure Di Giacomo, Eduardo,Nicolardi etc.)Del resto non è inutile ricordare che tanti (troppi!) autori napoletani, anche famosi e/o famosissimi non poterono avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del napoleta no, supporti che erano inesistenti del tutto ed i pochissimi esistenti (Galiani, Oliva) erano malamente diffusi, né potevano far testo, vergati com’erano da addetti ai lavori non autenticamente napoletani e pertanto, spesso imprecisi e impreparati. Ancóra ricordiamo che moltissimi autori furono istintivi e spesso mancavano del tutto di adeguata preparazione scolastica (cfr. V.Russo), altri avevano studiato poco e male e quelli che invece avevano adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, e. Nicolardi etc. spessissimo usarono maldestramente adattare le nozioni grammaticali-sintattiche dell’italiano al napoletano che invece non è mai tributaria dell’italiano essendo linguaggio affatto originale e diretto discendente del latino parlato.
Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe derivare da mox in quanto, pare, che una doppia consonante come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica come la d di modo.
Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce dell’italiano re (monarca)derivata dritto per dritto dal latino re(x),) anche ammettendo che il napoletano mo discenda da modo e non da mox non si capisce perché esso mo andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di una medesima lingua, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.
Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel toscano/italiano accentare il mò (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di modo (mo’ dell’espressione a mo’ d’esempio), ma nel napoletano non esistendo il termine modo e la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi segno diacritico (accento o apostrofo) alla voce mo (ora/adesso).Sempre che non mi stia cialtronescamente sbagliando! Continuo con un’elencazione non sistematica e mi soffermo a di re di:
ah interiezione d’origine onomatopeica – Esprime varî sentimenti (piacere, soddisfazione, dolore, sdegno, rimprovero, minaccia, ecc.) a seconda del modo con cui è pronunciata: ah, finalmente sî arrivato!(ah, finalmente sei arrivato!); ah,tu vide dinto a qua’ guajo ce truvammo!( ah,vedi in che guaio ci troviamo!); ah no! Chesta proprio nun ce ‘a perdono(ah no!Questa poi non gliela perdono!); ah, sí?, ecc. Talora raddoppiata, ah ah!, per ammonizione scherzosa o in tono sarcastico ah ah m’ero scurdato ca tu sî ommo ‘e conseguenza(ahah avevo dimenticato la tuaimportante estrazione sociale) , o anche come risata. Abbiamo ora
òh ‹ò› interiezione d’origine onomatopeica – Esprime varî sentimenti (dolore, sdegno, noia, meraviglia, piacere, desiderio, ecc.), a seconda del modo in cui è pronunciata: oh, quanto me dispiace (oh, quanto mi dispiace!); oh, che ‘nzallanuto!;(oh, che sbadato!); (oh, ma neanche pe suonno; (oh, ma neanche per sogno); oh, ma te pare?; oh, chi schifo!; oh, chi se vede!; oh, sî ttu?; oh, che piacere vederte n’ata vota; oh, ma è overamente sapurito; oh,fosse capace ‘e chesto e d’ato; (oh, ma ti pare?; oh, che schifo!; oh, chi si vede!; oh, sei tu?; oh, che piacere rivedervi; oh, ma è veramente squisito; oh, sarebbe capace di questo e d’altro); talora ripetuta, come ammonizione piú o meno scherz.: oh oh!, non faje seriamente voglio sperà! (oh oh!, non farai sul serio, spero!) Sfumature diverse possono essere manifestate con la pronuncia strascicata o con particolari intonazioni di voce, o anche con la pronuncia chiusa ‹ó› della vocale. E continuo con
eh 〈pronunziato:è〉 interiezione d’origine onomatopeica – Esclamazione che può esprimere varî sentimenti. Rimprovero: eh! ... bada a cchello ca faje!; (eh! ... bada a ciò che fai!); anche raddoppiato: eh! eh! ... addó jate? (eh! eh! ... dove andate?); o rinforzato con ghiammo (in italiano: via! (in questo caso può esprimere anche indignazione): eh, ghiammo, pe cchi me piglie?(eh, via, per chi mi prendi?) Disapprovazione: eh! ma fosse ‘na pazzaria! (eh! ma sarebbe una pazzia!) Meraviglia, stupore per quanto altri dice (e allora à un tono interrogativo): «M’à nchiuso ‘a porta ‘nfaccia» «Eh?». («Mi à chiuso la porta in faccia» «Eh?»). Speranza, possibilità: eh, putesse pure darse!; eh!, chi sa’ ca nun cagna idea!(eh, potrebbe anche darsi!; eh!, chissà che non cambi idea!) Rassegnazione: «Come vanno ll’affare?» «Eh, comme vuó ca vanno ?». («Come vanno gli affari?» «Eh, come vuoi che vadano?»). Esortazione: eh, ghiammo, nun ce penzà (eh, via, non ci pensare). Talvolta dà tono esclamativo alle interrogazioni o viceversa: bellella eh?(carina, eh?); eh, che guaglione scetato!(eh, che ragazzo sveglio!) Se strascicata, esprime dolore o dubbio: eeeeh! ... purtroppo nun c’è cchiú speranza; (eeeeh! ... purtroppo non c’è più speranza); eeeeh! ce credo poco( eeeeh! ci credo poco). Ripetuta, può manifestare contentezza mista a lieve sorpresa: «Guarda che bellu dorgee t’aggiu priparato» «Eh eh» («Guarda che bel dolce t’ò preparato» «Eh eh» (in altri casi, rappresenta graficamente una risata ironica). Per sottolineare la difficoltà di ottenere qualcosa, la distanza d’un luogo, un allarme e sim., accompagnando l’esclamazione col gesto: «È assaje luntana ‘a stanzione?» «Eh eh eh!» («È molto lontana la stazione?» «Eh eh eh!»); rafforzato da éh!in italiano éhi: eh eh éh!, ce sta ‘o stoppo! (eh eh éhi!, c’è lo stop!).
Altra cosa è il monosillabo
eh〈pronunciato: é〉 che nel napoletano parlato, spesso è usato con il medesimo valore dell’avverbio olofrastico affermativo sí; questo monosillabo esclamativo "eh!" è da pronunciarsi peraltro rigorosamente con la é chiusa (éh!). Quanto alla sua derivazione piú che ritenerlo (come normalmente si fa) un’espressione gergale (cosa che non mi convince atteso che l’espressione éh!=sí non è in uso in una cerchia ristretta dove possa svilupparsi un gergo, ma è d’uso comune); quanto alla derivazione, dicevo, piú che ritenerlo un’espressione gergale penso di possa ritenerlo un derivato dal latino e(st)=(sí, è proprio cosí); però nel mettere per iscritto questo monosillabo è necessario aggiungere alla e un’ acca diacritica ottenendo eh= sí per evitare di confondere l’affermazione é(h) con la congiunzione e che à una medesima pronuncia chiusa:é ; altra cosa è poi ancóra l’(a)eeeeh! esclamazione che vale: ma cosa dici?Non è possibile! esclamazione di cui però non è dato conoscere né m’azzardo ad ipotizzare un’ etimologia atteso che trattasi di esclamazione espressiva probabilmente d’origine onomatopeica; questo éh serve infine come risposta di tono esclamativo o interrogativo a chi ci chiama: «Bruno!» «Eh!» (o «Eh?»). Sfumature diverse di significato possono essere manifestate in alcuni casi, oltre che con la pronuncia strascicata o con particolari intonazioni.
Mi tocca ora di rammentare (pur avendone forse già détto) il monosillabo voce verbale
hê crasi di aje (2ª pers. sg. dell’indicativo presente dell’infinito avé= avere; per il vero la crasi di aje dovrebbe o potrebbe essere la semplice ê, ma poi che nel napoletano (cfr. antea) esiste già una ê che è la scrittura contratta (crasi) di a + ‘e e sta o per alle o per ai/ a gli. preposizione art. plurale valida per il maschile ed il femminile, ecco che per distinguere súbito la voce verbale hê crasi di aje= ài fu opportuno e forse necessario aggiungere alla ê in posizione protetica una h consonante diacritica (distintiva) ottenendo hê crasi di aje = ài che non poteva esser confusa con ê = alle o ai/ a gli.
In coda ed a completamento di quanto fin qui esposto rammento l’esistenza nel napoletano di due, (o talora tre) altri monosillabi d’uso gergale (comandi dei cocchieri usati per guidare i cavalli); anche per questi comandi nessuno degli addetti ai lavori sul napoletano si è mai peritato di affrontare la questione etimologica; mi son preso perciò la briga di farlo io da solo e cominciando a dire dei due primi monosillabi che ci occupano, preciso che per quanto riguarda i cocchieri, i comandi esatti usati per guidare il/i cavallo/i sono: ‘a’!(= va’!), hi (fermo!) e cessa (arretra!); occupiamoci in primis dei monosillabi‘a’!(= va’!), hi (fermo!); ora a mio parere, il comando d’avvio
‘a’! deriva dall’imperativo (v)a(je)→(v)a’→’a’! mentre il comando d’arresto
hi deriva dall’ avverbio di stato in luogo latino hi(c)=qui e vale: sta fermo in questo posto; pur se non trattasi d’un monosillabo, ricordo che esiste infine il comando di arretrare:
cessa talora contratto in ce(ssa)!→cè! comando che strictu sensu non rientrerebbe nel compitino che mi son dato in quanto in origine non è un monosillabo e ne parlo solo per affinità con i comandi monosillabici or ora considerati, e dico che talora erroneamente esso è pronunciato o inteso come gessa ed è un comando dedotto dall' imperativo del verbo cessare (intensivo del lat. cedere) = retrocedere. E con questo penso proprio d’avere esaurito l’argomento e d’avere contentato o quanto meno interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori per cui faccio punto fermo con il consueto satis est.
Raffaele Bracale
Nessun commento:
Posta un commento